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News 07/SA/2017
Lunedì, 13 Febbraio 2017
Sistema di Allerta Rapido europeo per Alimenti e Mangimi Pesticidi
Nella settimana n.06 del 2017 le segnalazioni diffuse dal Sistema rapido di allerta
europeo per alimenti e mangimi (Rasff) sono state 66 (14 quelle inviate dal Ministero
della salute italiano).
Tra i lotti respinti alla frontiera si segnalano: notificato dalla Spagna per cattivo stato
igienico dei fichi secchi infestati da insetti provenienti dalla Turchia e per aflatossine
in noccioline sbucciate provenienti dalla Cina; notificato dal Regno Unito per
Salmonella enterica in petto di pollo crudo congelato dissossato senza pelle
proveniente dal Brasile; dall’Italia per aflatossine in pistacchi in guscio provenienti
dall’Iran e per clorpirifos in pomodori provenienti dall’Egitto; dalla Grecia per
aflatossine in arachidi (noccioline) sgusciate provenienti dalla Cina; da Malta per
contenuto troppo alto di solfiti in albicocche secche provenienti dalla Turchia,
trasformate negli Usa; dall’Irlanda per fichi secchi provenienti dalla Tunisia infestati
da larve di insetti; dall’Italia per contenuto troppo alto di DBP - dibutilftalato in
sacchetti freezer provenienti da Hong Kong, per aflatossine in pistacchi sgusciati
provenienti dall’Iran, via Turchia e per aflatossine in arachidi provenienti dall’ Egitto;
Allerta notificati dall’ Italia: per mercurio in tacos di pesce spada congelati (Xiphias
gladius) provenienti dalla Spagna, via Slovenia e per mercurio in palombo comune
refrigerato (Mustelus mustelus) proveniente dalla Francia; per soia non dichiarata in
prosciutto cotto refrigerato proveniente dall’Italia.
Allerta notificati: dalla Norvegia per rischio di lesioni interne come risultato del
consumo di articoli da masticare provenienti dalla Svezia; dal Portogallo per
aflatossine in pistacchi tostati e salati provenienti dalla Spagna; dalla Germania per
colore non autorizzato rodamina B in barbabietole acide dal Libano, per
Salmonella enterica in spaghetti per cane provenienti dalla Repubblica Ceca e per
anacardio non dichiarato in pasta di nocciola usata per la produzione di gelato
proveniente dall’Italia; dal Belgio per contenuto troppo alto di semi di ambrosia
(Ambrosia spp.) in sorgo proveniente dalla Francia e per fumonisine in farina di mais
biologico proveniente dalla Francia; dalla Francia per Salmonella enterica ser.
Enteritidis in ali di pollo halal congelato proveniente dalla Polonia.
Nella lista delle informative troviamo notificate: da Latvia per solfiti non dichiarati in
uvetta; dalla Spagna per contenuto troppo alto di solfiti in gamberi rossi a strisce
(Aristeo Varidens) provenienti dal Senegal; dalla Francia per Listeria monocytogenes
in zampe di maiale impanate cotte provenienti dalla Francia; dall’Italia per virus
Epatite A (HAV RNA rilevata/g) in vongole refrigerate (Tapes semidecussatus)
provenienti dall’ Italia, per migrazione di manganese da fusti in acciaio inox
provenienti dall’ Italia e per datteri secchi provenienti dalla Tunisia, via Germania
infestati da larve di insetti.
Fonte: rasff.eu
Latte in polvere per neonati: nuovo test svizzero conferma la presenza di
contaminanti cancerogeni dell’olio di palma. Secondo Ktipp ci sono anche clorati e
perclorati.
Un nuovo test sul latte in polvere per neonati mette in guardia i consumatori sulla
presenza di olio di palma e di contaminanti cancerogeni. Dopo le analisi di
laboratorio realizzate da Altroconsumo e della trasmissione svizzera À Bon Entendeur,
adesso è la volta di Ktipp – rivista svizzera di informazione ai consumatori – che ha
portato in laboratorio dieci confezioni di latte firmate da marchi come Nestlé e
Bimbosan ottenendo risultati poco rassicuranti.
Tutti i campioni analizzati superano la dose giornaliera di 3-Mcpd – un probabile
cancerogeno – considerato tollerabile da Efsa (in quantità pari a 0,8 µg/kg/giorno di
peso corporeo). Sono particolarmente preoccupanti i valori riscontrati nel latte
artificiale 1 di Hero Baby, che contiene livelli di 3-Mcpd 14 volte superiori a quanto
ritenuto sicuro. Male anche Bimbosan Classic 1, i cui livelli di sono 5,3 volte al di
sopra della soglia. Negli altri otto prodotti , i livelli di 3-Mcpd rilevati oscillano da 3,3
volte oltre il limite di Alnatura e le 1,2 volte di Nestlé Beba 1 HA Optipro.
Non è solo il 3-Mcpd a preoccupare. Tre prodotti contengono anche il pericoloso
glicidolo, che è stato giudicato cancerogeno e mutageno e per questo non deve
essere presente negli alimenti. Due delle formule in cui è stato riscontrato il glicidolo
sono anche quelle che contengono i livelli più alti di 3-Mcpd: Hero Baby latte
artificiale 1 e Bimbosan Classic 1. Il terzo prodotto contaminato è Bimbosan Super
Premium 1.
Secondo il test della rivista svizzera i contaminanti dovuti alla lavorazione degli oli
vegetali, palma in testa, non sono gli unici ad essere utilizzati come ingredienti del
latte in polvere. Le sostanze sotto accusa sono clorati e perclorati, residui di prodotti
disinfettanti usati sui macchinari per la produzione, che secondo Efsa possono
provocare una carenza di iodio. Nove prodotti su dieci contengono quantità
rilevabili di clorati e addirittura il latte Milumil 1 di Milupa supera il livello tollerabile
stabilito da Efsa. Il perclorato è stato rilevato in un solo prodotto, Nestlé Beba HA
Optipro. L’unico prodotto a non contenere questi contaminanti è il latte in polvere
Bio.
Due mesi fa Altroconsumo, dopo i primi risultati allarmanti su tre formule, aveva fatto
analizzare 13 marche di latte in polvere, bocciandone 10 perché superavano la
soglia di tollerabilità del 3-Mcpd per tutte le età considerate (un mese, tre mesi e
cinque mesi). L’associazione dei consumatori aveva poi promosso con riserva
Humana 1 e Plasmon Nutrimune 1, che superavano i limiti di tollerabilità solo per una
fascia d’età. L’unico prodotto promosso su tutta la linea era invece Crescendo
Coop, senza olio di palma. In precedenza la trasmissione svizzera francese À Bon
Entendeur ha trovato i pericolosi contaminanti in quattro latti per neonati analizzati
in laboratorio, tra cui Nestlé Beba. Per questa ragione, Il Fatto Alimentare ha
lanciato pochi mesi fa una petizione su Change.org per chiedere alle aziende di
eliminare l’olio tropicale che ha raggiunto 27 mila firme.
Fonte: www.ilfattoalimentare.it
“Nutrition & Health Claims”, il fallimento di Bruxelles.
L’approvazione del fatidico ‘decreto sanzioni’ vale a ricordare l’esistenza del c.d.
NHC (‘Nutrition & Health Claims Regulation‘). Il regolamento CE 1924/06, che più di
altri sintomi ha rivelato l’afasia della Commissione nell’eseguire i mandati del
legislatore europeo.
Il primo motivo di biasimo attiene alla decisione della Commissione europea di
equiparare i c.d. ‘claim‘ funzionali (ex art. 13 reg. cit.) – vale a dire le indicazioni sulla
salute relative al contributo di un alimento, categoria di prodotti o sostanza in essi
contenuta, alla fisiologia dell’organismo e delle sue funzioni – con i c.d. ‘disease risk
reduction claims‘ (di cui al successivo articolo 14), per ciò che attiene al livello di
dimostrazione scientifica da pretendersi per la sua validazione.
I diversi livelli di evidenza scientifica (es. studi osservazionali, bibliografia selezionata
secondo ragionevoli criteri), che si sarebbero potuti attendere per confermare
l’attendibilità degli ‘health claim‘ più blandi, sono stati respinti. In nome della pretesa
di una ‘prova diabolica’, in quanto riferita non a pazienti bensì a individui sani (vale
a dire, nell’ambito dell’omeostasi), sui quali condurre studi clinici in doppio cieco
contro placebo da assoggettare a pubblicazioni su riviste scientifiche internazionali
a elevato ‘impact factor’, a loro volta oggetto di ‘peer review‘ (ai sensi del reg. CE
353/08).
Si è così verificata una inaccettabile discrasia, a tutt’oggi irrisolta, tra il livello
(minimale) di prova richiesta per validare le indicazioni salutistiche relative ai farmaci
tradizionali di origine vegetale e il ‘red tape‘ invece prescritto su identici ‘claim‘
riferiti ad alimenti di uso corrente. Con la conseguenza che la stessa
documentazione ritenuta sufficiente a comunicare la valenza di un rimedio
erboristico (es. ‘l’estratto di camomilla facilita il sonno’) è considerata inidonea a
esprimere il medesimo concetto sul corrispondente prodotto alimentare (es.
camomilla per infusi), anche a prescindere dall’identità e quantità dei principi attivi
di riferimento.
La più grave ragione di doglianza riguarda i c.d. profili nutrizionali (reg. CE 1924/06,
art. 4), che la Commissione europea venne delegata a definire nel decennio
trascorso al preciso scopo di impedire la promozione commerciale di cibi
intrinsecamente squilibrati dal punto di vista nutrizionale facendo richiamo a loro
possibili prerogative ‘salutistiche’. Laddove, alla colpevole inedia della DG Sanco
(ora Santé) è corrisposto il ‘ripensamento’ del Parlamento europeo sulla norma in
questione, a seguito di intensa quanto efficace ‘lobby‘ di ‘Big Food‘.
Poiché peraltro anche a Bruxelles ‘il braccio destro non sa cosa sta facendo il
braccio sinistro’, annotiamo con curiosità come la sintesi del Regolamento (CE) n.
1924/2006 sulle indicazioni nutrizionali e sulla salute fornite sui prodotti
alimentari redatta da ‘Eur Lex‘ indichi al primo posto, tra i punti chiave della
normativa in esame, proprio i profili nutrizionali che la Commissione europea non ha
mai attuato (sebbene l’Efsa avesse pubblicato un apposito parere, nell’ormai
lontano 2008). A seguire, il testo di ‘Eur Lex’.
Dario Dongo
—
QUAL È LO SCOPO DEL REGOLAMENTO?
Cerca di disciplinare le indicazioni relative ai prodotti alimentari etichettate e pubblicizzate
nell’Unione europea (UE).
Intende garantire che le indicazioni nutrizionali e le indicazioni sulla salute fornite sulle
etichette degli alimenti, nelle presentazioni e nelle pubblicità siano chiare e basate su prove
scientifiche generalmente accettate dalla comunità scientifica.
Un’ampia gamma di sostanze quali vitamine, minerali, aminoacidi, acidi grassi essenziali ed
estratti di erbe, con un effetto nutrizionale o fisiologico, potrebbero essere presenti in un
prodotto alimentare ed essere oggetto di un’indicazione.
Il regolamento mira pertanto a:
1. garantire un elevato livello di tutela dei consumatori;
2. fornire a questi ultimi le informazioni necessarie affinché compiano scelte nella piena
consapevolezza dei fatti e
3. creare condizioni paritarie di concorrenza per l’industria alimentare.
I PUNTI CHIAVE
La Commissione europea deve elaborare profili nutrizionali e formulare le condizioni di utilizzo delle
indicazioni nutrizionali e sulla salute riguardanti gli alimenti, tenendo conto:
delle quantità di sostanze nutritive e altre sostanze contenute negli alimenti, come ad esempio:
• acidi grassi,
• acidi grassi saturi,
• acidi grassi trans,
• zuccheri, e
• sale;
del ruolo e dell’importanza dell’alimento nella dieta in genere o di certi gruppi a rischio, come i
bambini;
della presenza di sostanze nutritive il cui effetto sulla salute sia stato scientificamente riconosciuto.
Le indicazioni sulla salute non possono:
 essere false, ambigue o fuorvianti;
 dare adito a dubbi sulla sicurezza e/o sull’adeguatezza nutrizionale di altri alimenti;
 incoraggiare un consumo eccessivo;
 suggerire che una dieta equilibrata e varia non possa in generale fornire quantità adeguate
di tutte le sostanze nutritive;
 suggerire che la salute potrebbe risultare compromessa dal mancato consumo dell’alimento;
 fare riferimento alla percentuale o all’entità della perdita di peso;
 fare riferimento al parere di un singolo medico o altro operatore sanitario.
L’impiego di indicazioni nutrizionali e sulla salute è permesso soltanto se si è dimostrato che la
presenza, l’assenza o il contenuto ridotto in un alimento di una sostanza ha un effetto benefico, sulla
base di dati scientifici generalmente accettati. Tali sostanze devono essere presenti in quantità che
possano essere ragionevolmente consumate e tali da offrire l’effetto desiderato.
Le indicazioni sulla salute sono consentite solo se sull’etichettatura sono comprese le seguenti
informazioni:
• la popolazione di riferimento dell’indicazione;
• una dicitura relativa all’importanza di una dieta varia ed equilibrata e di uno stile di vita sano;
• la quantità dell’alimento e le modalità di consumo necessarie per ottenere l’effetto benefico
indicato;
• una dicitura rivolta alle persone che dovrebbero evitare di consumare l’alimento (ad es.
donne incinte);
• un’appropriata avvertenza per i prodotti che potrebbero presentare un rischio per la salute se
consumati in quantità eccessive;
• una dicitura indicante che la malattia cui l’indicazione fa riferimento è dovuta a molteplici
fattori di rischio e che l’intervento su uno di questi può anche non avere un effetto benefico;
• altre limitazioni o consigli per l’uso.
Le indicazioni sulla salute basate su dati scientifici generalmente accettati e ben compresi dal
consumatore medio possono essere esentate dal processo di autorizzazione.
Le bevande contenenti più dell’1,2 % in volume di alcol non devono riportare indicazioni nutrizionali o
sulla salute diverse da quelle relative alla riduzione nel contenuto alcolico o energetico.
Il regolamento (UE) n. 432/2012 fornisce un elenco delle indicazioni relative alla salute consentite
diverse da quelle che si riferiscono alla riduzione del rischio di malattia e allo sviluppo e alla salute dei
bambini. Tale regolamento è stato applicato dal 14 dicembre 2012 e viene regolarmente modificato
per aggiornare l’elenco delle indicazioni sulla salute recentemente autorizzate.
Domanda di autorizzazione
Ogni produttore può richiedere l’inclusione di una nuova indicazione nell’elenco consentito
presentando una domanda a ogni paese dell’UE. Quest’ultimo la inoltra all’Autorità europea per la
sicurezza alimentare (EFSA) e la Commissione delibererà sull’utilizzo dell’indicazione sulla base del
parere scientifico dell’EFSA.
Fonte: http://www.foodagriculturerequirements.com
Allerta alimentare: dal 1 gennaio 2017 il Ministero della salute doveva mettere in rete
l’elenco dei prodotti richiamati, ma tutto tace.
Il Ministero della salute ha annunciato di voler pubblicare sul proprio sito, a partire
dal 1 gennaio 2017, l’elenco dei prodotti ritirati dal mercato italiano. La notizia è
sorprendente e arriva con qualche anno di ritardo rispetto a quanto avviene negli
altri paesi europei. Il Fatto Alimentare, per sopperire a questa grave lacuna delle
autorità sanitarie, pubblica ogni settimana l’elenco dei prodotti ritirati o richiamati
dal mercato a causa di contaminazioni batteriche, presenza di corpi estranei,
eccessiva presenza di pesticidi, errori in etichetta, mancanza di avvertenze sulla
presenza di allergeni, errori nella data di scadenza, ecc… All’inizio la ricerca dei
prodotti era difficile, poi abbiamo convinto le più importanti catene di supermercati
a diffondere in rete gli avvisi dei prodotti ritirati dagli scaffali, in linea con quanto
prevedeva il regolamento comunitario 178/2002, e il lavoro è stato semplificato.
Grazie a questa iniziativa, alle lettere che riceviamo dai lettori e a un’attenta
supervisione delle segnalazioni diffuse in Europa dagli altri Stati, l’anno scorso Il Fatto
Alimentare ha segnalato 69 prodotti ritirati dalla vendita al dettaglio. Il Ministero
della salute pur avendo a disposizione tutti gli elementi e i documenti relativi a questi
richiami, ha dato notizia solo di un numero ridicolo di prodotti, sulla base di scelte e
criteri sconosciuti. I responsabili del Ministero giustificano questa reticenza con
argomenti improbabili, visto che molti Paesi che aderiscono come l’Italia al Sistema
rapido di allerta (Rasff) ogni settimana diffondono i nomi, le marche e le foto dei
prodotti oggetto di richiamo e di allerta.
Il tema non è sconosciuto al Ministero della salute che il 19 maggio 2016,
rispondendo a un’interrogazione parlamentare del Movimento 5 stelle sulla corretta
informazione dei cittadini in merito ai rischi dei prodotti alimentari oggetto d’allerta,
annunciava “uno studio di fattibilità riguardante la possibilità di pubblicare sul
portale del Ministero, in una pagina web dedicata, tutti i provvedimenti di richiamo
[…]”. Il documento continua promettendo per il 2016 un sistema operativo
informatizzato per la pubblicazione dei richiami da parte delle aziende. La nota
finale ha il sapore amaro perché Lorenzin dice che sono state pubblicate
“comunicazioni dai toni allarmistici, che potrebbero creare preoccupazioni e
agitazione nei consumatori come nel caso delle notizie apparse sul “blog” “Il Fatto
Alimentare”, relativo a presunti provvedimenti di richiamo, erroneamente definiti
allerta dal “blogger”, che non sono correlati ad allerta gestite dal sistema RASFF”.
La dichiarazione del Ministro lascia l’amaro in bocca, perché in questi anni
abbiamo sostituito le istituzioni segnalando ai consumatori centinaia di prodotti ritirati
e richiamati, è perché le pochissime informazioni diffuse dal Ministero al riguardo,
risultano spesso lacunose e in ritardo. In ogni caso stiamo parlando di un Ministero
che negli ultimi dieci anni ha dimostrato un’incapacità esemplare nel gestire la
comunicazione del rischio, soprattutto nei casi di allerta alimentare. Basta ricordare i
rari comunicati per l’epidemia dei frutti di bosco che ha causato 1.756 ricoveri in
ospedale, e il ritardo di 4 giorni per comunicare un sospetto caso di botulino per
alcuni lotti di pesto distribuiti in diverse regioni del nord-Italia a migliaia di persone. La
triste realtà di oggi è è che a distanza di 40 giorni dall’avvio del servizio che doveva
mettere in rete le allerta alimentari, il servizio è bloccato e nessuna spiegazione
viene data dagli uffici di Roma. (Articolo di Roberto La Pira)
Fonte: www.ilfattoalimentare.it
OGM, Whole Foods Market adotta una politica di etichettatura specifica in USA e
Canada.
A dispetto delle resistenze del governo di Washington a ogni istanza di etichettatura
degli OGM negli alimenti – e della reprimenda dell’ex presidente Obama nei
confronti del Vermont, (1) per aver provato a introdurre tale regola – il mercato
statunitense si muove in questa direzione, grazie al colosso Whole Foods Market
(WFM). Non senza ostacoli per i suoi fornitori d’oltreoceano.
A fine 2016 la prima catena USA di distribuzione di cibi ‘naturali’ e bio ha richiesto a
tutti i suoi fornitori di adeguarsi entro l’1.9.18 alla sua ‘GMO Labeling Policy’, (2) che
supera la timidezza espressa nella embrionale ‘U.S. National Bioengineered Food
Disclosure Law‘ (29.7.16) mirando invece subito all’obiettivo di informare i
consumatori con chiarezza sulla presenza o derivazione da OGM dei prodotti esposti
in vendita, o dei loro ingredienti.
La nuova policy di Whole Foods richiede a ‘tutti i fornitori di prodotti alimentari di
etichettare come OGM i prodotti che contengono ingredienti a rischio di essere
geneticamente modificati e che non hanno ricevuto certificazione Non-OGM o
Biologica da organizzazioni terze approvate dallo stesso Whole Foods Market‘.
Una sfida epocale per il ‘gigante buono’ d’oltreoceano, che ha già consentito di
offrire sui mercati USA e Canada ben 25mila referenze bio e 11.500 certificate come
non-OGM. E Un’ottima occasione al contempo per la filiera alimentare italiana che
ha sempre resistito alle false promesse degli OGM in agricoltura, (3) escludendone
altresì l’impiego nella gran parte delle produzioni alimentari. (4) Una opportunità che
tuttavia rischia di comportare ulteriori oneri, spesso neppure giustificati, per i fornitori
europei.
All’atto pratico, WFM richiede infatti che i prodotti ‘a rischio OGM’ – escludendo
perciò le derrate certificate ‘bio’ e quelle i cui ingredienti siano privi di una
corrispondente matrice geneticamente modificata (5), in relazione ai quali si potrà
scrivere ‘… (name of the raw material) is not GMO’ – siano certificati come ‘Non-
GMO‘ da uno dei pochi enti accreditati nel suo programma. (6)
Bisognerebbe però spiegare a Whole Foods che le politiche europee (7) giò
garantiscono i consumatori limitando in maniera drastica la possibilità d’impiego di
materiali OGM nelle produzioni di alimenti e mangimi – di fatto, ai soli derivati di soia,
mais, colza, barbabietola – e che il loro utilizzo è sempre e comunque vincolato a
stringenti requisiti di tracciabilità lungo l’intera filiera ed etichettatura specifica dei
prodotti finali. (8)
L’impiego di ingredienti OGM non dichiarati in etichetta, in Europa, è dunque escluso
per legge, (9) e le già rigorose verifiche condotte in autocontrollo sono a loro volta
soggette ai controlli pubblici ufficiali. Oltreché, in molti casi, alle certificazioni di
parte terza ad opera di organismi indipendenti, talora anche sulla base di apposite
norme tecniche. (10)
Dario Dongo
Fonte: http://www.foodagriculturerequirements.com
Food app: pasti a domicilio solo per chi abita in città. In generale buona la
puntualità e le condizioni alla consegna (con eccezioni). Il test di Altroconsumo su
cinque applicazioni.
Altroconsumo ha messo alla prova le food app, cioè le applicazioni che permettono
di ordinare un piatto con il proprio smartphone e riceverlo a casa. Nel test, 40
volontari distribuiti tra Milano, Torino e Roma hanno testato cinque famose
applicazioni di consegna pasti a domicilio: Just Eat, Deliveroo, Foodora, Moovenda
e Glovo (quest’ultima facendo anche consegne di altri articoli oltre ai pasti, non è
strettamente una food app). Ogni volontario ha ordinato dallo stesso ristorante un
pasto per poter confrontare il servizio e verificare le caratteristiche delle applicazioni.
Per quanto riguarda la chiarezza delle informazioni, il test evidenzia Just Eat e
Deliveroo, che offrono i menù più semplici e intuitivi. A proposito della puntualità
delle consegne, influenzata da meteo e traffico, le migliori food app sono risultate
Moovenda e Deliveroo.
I pagamenti sono da effettuare sempre via smartphone con PayPal o carta di
credito, tranne per Just Eat, che, oltre a questi sistemi offre la possibilità di saldare in
contanti alla consegna. I costi del servizio variano: Just Eat offre la consegna
gratuita per alcuni ristoranti, mentre Foodora ha un costo fisso di 2,90 €. Per le altre
applicazioni le spese di consegna dipendono dalla distanza tra il ristorante e la
propria abitazione.
Qualche problema è stato riscontrato per le condizioni dei piatti consegnati. Anche
se in generale è stata osservata una buona qualità dei pasti arrivati nelle abitazioni
soprattutto per Moovenda e Deliveroo, altre volte la cena può arrivare a
destinazione in cattivo stato. Una possibilità comunque da mettere in conto, dato
che il servizio di consegna è effettuato da fattorini in scooter o, il più delle volte, in
bicicletta.
Le criticità maggiori, spiega Altroconsumo, sono legate alla presenza di persone che
consegnano sul territorio. Le food app funzionano nelle grandi città, come Milano e
Roma, anche se talvolta le consegne non coprono tutta l’area urbana. Da questo
punto di vista la migliore app è risultata Just Eat, presente in quasi 450 località e in
grado di coprire anche le aree periferiche cittadine. Non si può dire lo stesso per le
altre applicazioni. Deliveroo è presente solo a Milano e Roma, Foodora in tutte le
città del test più Firenze, Glovo solo a Milano e Moovenda solo a Roma.
Fonte: ilfattoalimentare.it
applicazioni di consegna pasti a domicilio: Just Eat, Deliveroo, Foodora, Moovenda
e Glovo (quest’ultima facendo anche consegne di altri articoli oltre ai pasti, non è
strettamente una food app). Ogni volontario ha ordinato dallo stesso ristorante un
pasto per poter confrontare il servizio e verificare le caratteristiche delle applicazioni.
Per quanto riguarda la chiarezza delle informazioni, il test evidenzia Just Eat e
Deliveroo, che offrono i menù più semplici e intuitivi. A proposito della puntualità
delle consegne, influenzata da meteo e traffico, le migliori food app sono risultate
Moovenda e Deliveroo.
I pagamenti sono da effettuare sempre via smartphone con PayPal o carta di
credito, tranne per Just Eat, che, oltre a questi sistemi offre la possibilità di saldare in
contanti alla consegna. I costi del servizio variano: Just Eat offre la consegna
gratuita per alcuni ristoranti, mentre Foodora ha un costo fisso di 2,90 €. Per le altre
applicazioni le spese di consegna dipendono dalla distanza tra il ristorante e la
propria abitazione.
Qualche problema è stato riscontrato per le condizioni dei piatti consegnati. Anche
se in generale è stata osservata una buona qualità dei pasti arrivati nelle abitazioni
soprattutto per Moovenda e Deliveroo, altre volte la cena può arrivare a
destinazione in cattivo stato. Una possibilità comunque da mettere in conto, dato
che il servizio di consegna è effettuato da fattorini in scooter o, il più delle volte, in
bicicletta.
Le criticità maggiori, spiega Altroconsumo, sono legate alla presenza di persone che
consegnano sul territorio. Le food app funzionano nelle grandi città, come Milano e
Roma, anche se talvolta le consegne non coprono tutta l’area urbana. Da questo
punto di vista la migliore app è risultata Just Eat, presente in quasi 450 località e in
grado di coprire anche le aree periferiche cittadine. Non si può dire lo stesso per le
altre applicazioni. Deliveroo è presente solo a Milano e Roma, Foodora in tutte le
città del test più Firenze, Glovo solo a Milano e Moovenda solo a Roma.
Fonte: ilfattoalimentare.it

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  • 1. News 07/SA/2017 Lunedì, 13 Febbraio 2017 Sistema di Allerta Rapido europeo per Alimenti e Mangimi Pesticidi Nella settimana n.06 del 2017 le segnalazioni diffuse dal Sistema rapido di allerta europeo per alimenti e mangimi (Rasff) sono state 66 (14 quelle inviate dal Ministero della salute italiano). Tra i lotti respinti alla frontiera si segnalano: notificato dalla Spagna per cattivo stato igienico dei fichi secchi infestati da insetti provenienti dalla Turchia e per aflatossine in noccioline sbucciate provenienti dalla Cina; notificato dal Regno Unito per Salmonella enterica in petto di pollo crudo congelato dissossato senza pelle proveniente dal Brasile; dall’Italia per aflatossine in pistacchi in guscio provenienti dall’Iran e per clorpirifos in pomodori provenienti dall’Egitto; dalla Grecia per aflatossine in arachidi (noccioline) sgusciate provenienti dalla Cina; da Malta per contenuto troppo alto di solfiti in albicocche secche provenienti dalla Turchia, trasformate negli Usa; dall’Irlanda per fichi secchi provenienti dalla Tunisia infestati da larve di insetti; dall’Italia per contenuto troppo alto di DBP - dibutilftalato in sacchetti freezer provenienti da Hong Kong, per aflatossine in pistacchi sgusciati provenienti dall’Iran, via Turchia e per aflatossine in arachidi provenienti dall’ Egitto; Allerta notificati dall’ Italia: per mercurio in tacos di pesce spada congelati (Xiphias gladius) provenienti dalla Spagna, via Slovenia e per mercurio in palombo comune refrigerato (Mustelus mustelus) proveniente dalla Francia; per soia non dichiarata in prosciutto cotto refrigerato proveniente dall’Italia. Allerta notificati: dalla Norvegia per rischio di lesioni interne come risultato del consumo di articoli da masticare provenienti dalla Svezia; dal Portogallo per aflatossine in pistacchi tostati e salati provenienti dalla Spagna; dalla Germania per colore non autorizzato rodamina B in barbabietole acide dal Libano, per Salmonella enterica in spaghetti per cane provenienti dalla Repubblica Ceca e per anacardio non dichiarato in pasta di nocciola usata per la produzione di gelato proveniente dall’Italia; dal Belgio per contenuto troppo alto di semi di ambrosia (Ambrosia spp.) in sorgo proveniente dalla Francia e per fumonisine in farina di mais
  • 2. biologico proveniente dalla Francia; dalla Francia per Salmonella enterica ser. Enteritidis in ali di pollo halal congelato proveniente dalla Polonia. Nella lista delle informative troviamo notificate: da Latvia per solfiti non dichiarati in uvetta; dalla Spagna per contenuto troppo alto di solfiti in gamberi rossi a strisce (Aristeo Varidens) provenienti dal Senegal; dalla Francia per Listeria monocytogenes in zampe di maiale impanate cotte provenienti dalla Francia; dall’Italia per virus Epatite A (HAV RNA rilevata/g) in vongole refrigerate (Tapes semidecussatus) provenienti dall’ Italia, per migrazione di manganese da fusti in acciaio inox provenienti dall’ Italia e per datteri secchi provenienti dalla Tunisia, via Germania infestati da larve di insetti. Fonte: rasff.eu Latte in polvere per neonati: nuovo test svizzero conferma la presenza di contaminanti cancerogeni dell’olio di palma. Secondo Ktipp ci sono anche clorati e perclorati. Un nuovo test sul latte in polvere per neonati mette in guardia i consumatori sulla presenza di olio di palma e di contaminanti cancerogeni. Dopo le analisi di laboratorio realizzate da Altroconsumo e della trasmissione svizzera À Bon Entendeur, adesso è la volta di Ktipp – rivista svizzera di informazione ai consumatori – che ha portato in laboratorio dieci confezioni di latte firmate da marchi come Nestlé e Bimbosan ottenendo risultati poco rassicuranti. Tutti i campioni analizzati superano la dose giornaliera di 3-Mcpd – un probabile cancerogeno – considerato tollerabile da Efsa (in quantità pari a 0,8 µg/kg/giorno di peso corporeo). Sono particolarmente preoccupanti i valori riscontrati nel latte artificiale 1 di Hero Baby, che contiene livelli di 3-Mcpd 14 volte superiori a quanto ritenuto sicuro. Male anche Bimbosan Classic 1, i cui livelli di sono 5,3 volte al di sopra della soglia. Negli altri otto prodotti , i livelli di 3-Mcpd rilevati oscillano da 3,3 volte oltre il limite di Alnatura e le 1,2 volte di Nestlé Beba 1 HA Optipro. Non è solo il 3-Mcpd a preoccupare. Tre prodotti contengono anche il pericoloso glicidolo, che è stato giudicato cancerogeno e mutageno e per questo non deve essere presente negli alimenti. Due delle formule in cui è stato riscontrato il glicidolo sono anche quelle che contengono i livelli più alti di 3-Mcpd: Hero Baby latte artificiale 1 e Bimbosan Classic 1. Il terzo prodotto contaminato è Bimbosan Super Premium 1.
  • 3. Secondo il test della rivista svizzera i contaminanti dovuti alla lavorazione degli oli vegetali, palma in testa, non sono gli unici ad essere utilizzati come ingredienti del latte in polvere. Le sostanze sotto accusa sono clorati e perclorati, residui di prodotti disinfettanti usati sui macchinari per la produzione, che secondo Efsa possono provocare una carenza di iodio. Nove prodotti su dieci contengono quantità rilevabili di clorati e addirittura il latte Milumil 1 di Milupa supera il livello tollerabile stabilito da Efsa. Il perclorato è stato rilevato in un solo prodotto, Nestlé Beba HA Optipro. L’unico prodotto a non contenere questi contaminanti è il latte in polvere Bio. Due mesi fa Altroconsumo, dopo i primi risultati allarmanti su tre formule, aveva fatto analizzare 13 marche di latte in polvere, bocciandone 10 perché superavano la soglia di tollerabilità del 3-Mcpd per tutte le età considerate (un mese, tre mesi e cinque mesi). L’associazione dei consumatori aveva poi promosso con riserva Humana 1 e Plasmon Nutrimune 1, che superavano i limiti di tollerabilità solo per una fascia d’età. L’unico prodotto promosso su tutta la linea era invece Crescendo Coop, senza olio di palma. In precedenza la trasmissione svizzera francese À Bon Entendeur ha trovato i pericolosi contaminanti in quattro latti per neonati analizzati in laboratorio, tra cui Nestlé Beba. Per questa ragione, Il Fatto Alimentare ha lanciato pochi mesi fa una petizione su Change.org per chiedere alle aziende di eliminare l’olio tropicale che ha raggiunto 27 mila firme. Fonte: www.ilfattoalimentare.it “Nutrition & Health Claims”, il fallimento di Bruxelles. L’approvazione del fatidico ‘decreto sanzioni’ vale a ricordare l’esistenza del c.d. NHC (‘Nutrition & Health Claims Regulation‘). Il regolamento CE 1924/06, che più di altri sintomi ha rivelato l’afasia della Commissione nell’eseguire i mandati del legislatore europeo. Il primo motivo di biasimo attiene alla decisione della Commissione europea di equiparare i c.d. ‘claim‘ funzionali (ex art. 13 reg. cit.) – vale a dire le indicazioni sulla salute relative al contributo di un alimento, categoria di prodotti o sostanza in essi contenuta, alla fisiologia dell’organismo e delle sue funzioni – con i c.d. ‘disease risk reduction claims‘ (di cui al successivo articolo 14), per ciò che attiene al livello di dimostrazione scientifica da pretendersi per la sua validazione. I diversi livelli di evidenza scientifica (es. studi osservazionali, bibliografia selezionata
  • 4. secondo ragionevoli criteri), che si sarebbero potuti attendere per confermare l’attendibilità degli ‘health claim‘ più blandi, sono stati respinti. In nome della pretesa di una ‘prova diabolica’, in quanto riferita non a pazienti bensì a individui sani (vale a dire, nell’ambito dell’omeostasi), sui quali condurre studi clinici in doppio cieco contro placebo da assoggettare a pubblicazioni su riviste scientifiche internazionali a elevato ‘impact factor’, a loro volta oggetto di ‘peer review‘ (ai sensi del reg. CE 353/08). Si è così verificata una inaccettabile discrasia, a tutt’oggi irrisolta, tra il livello (minimale) di prova richiesta per validare le indicazioni salutistiche relative ai farmaci tradizionali di origine vegetale e il ‘red tape‘ invece prescritto su identici ‘claim‘ riferiti ad alimenti di uso corrente. Con la conseguenza che la stessa documentazione ritenuta sufficiente a comunicare la valenza di un rimedio erboristico (es. ‘l’estratto di camomilla facilita il sonno’) è considerata inidonea a esprimere il medesimo concetto sul corrispondente prodotto alimentare (es. camomilla per infusi), anche a prescindere dall’identità e quantità dei principi attivi di riferimento. La più grave ragione di doglianza riguarda i c.d. profili nutrizionali (reg. CE 1924/06, art. 4), che la Commissione europea venne delegata a definire nel decennio trascorso al preciso scopo di impedire la promozione commerciale di cibi intrinsecamente squilibrati dal punto di vista nutrizionale facendo richiamo a loro possibili prerogative ‘salutistiche’. Laddove, alla colpevole inedia della DG Sanco (ora Santé) è corrisposto il ‘ripensamento’ del Parlamento europeo sulla norma in questione, a seguito di intensa quanto efficace ‘lobby‘ di ‘Big Food‘. Poiché peraltro anche a Bruxelles ‘il braccio destro non sa cosa sta facendo il braccio sinistro’, annotiamo con curiosità come la sintesi del Regolamento (CE) n. 1924/2006 sulle indicazioni nutrizionali e sulla salute fornite sui prodotti alimentari redatta da ‘Eur Lex‘ indichi al primo posto, tra i punti chiave della normativa in esame, proprio i profili nutrizionali che la Commissione europea non ha mai attuato (sebbene l’Efsa avesse pubblicato un apposito parere, nell’ormai lontano 2008). A seguire, il testo di ‘Eur Lex’. Dario Dongo — QUAL È LO SCOPO DEL REGOLAMENTO? Cerca di disciplinare le indicazioni relative ai prodotti alimentari etichettate e pubblicizzate nell’Unione europea (UE). Intende garantire che le indicazioni nutrizionali e le indicazioni sulla salute fornite sulle etichette degli alimenti, nelle presentazioni e nelle pubblicità siano chiare e basate su prove scientifiche generalmente accettate dalla comunità scientifica. Un’ampia gamma di sostanze quali vitamine, minerali, aminoacidi, acidi grassi essenziali ed
  • 5. estratti di erbe, con un effetto nutrizionale o fisiologico, potrebbero essere presenti in un prodotto alimentare ed essere oggetto di un’indicazione. Il regolamento mira pertanto a: 1. garantire un elevato livello di tutela dei consumatori; 2. fornire a questi ultimi le informazioni necessarie affinché compiano scelte nella piena consapevolezza dei fatti e 3. creare condizioni paritarie di concorrenza per l’industria alimentare. I PUNTI CHIAVE La Commissione europea deve elaborare profili nutrizionali e formulare le condizioni di utilizzo delle indicazioni nutrizionali e sulla salute riguardanti gli alimenti, tenendo conto: delle quantità di sostanze nutritive e altre sostanze contenute negli alimenti, come ad esempio: • acidi grassi, • acidi grassi saturi, • acidi grassi trans, • zuccheri, e • sale; del ruolo e dell’importanza dell’alimento nella dieta in genere o di certi gruppi a rischio, come i bambini; della presenza di sostanze nutritive il cui effetto sulla salute sia stato scientificamente riconosciuto. Le indicazioni sulla salute non possono:  essere false, ambigue o fuorvianti;  dare adito a dubbi sulla sicurezza e/o sull’adeguatezza nutrizionale di altri alimenti;  incoraggiare un consumo eccessivo;  suggerire che una dieta equilibrata e varia non possa in generale fornire quantità adeguate di tutte le sostanze nutritive;  suggerire che la salute potrebbe risultare compromessa dal mancato consumo dell’alimento;  fare riferimento alla percentuale o all’entità della perdita di peso;  fare riferimento al parere di un singolo medico o altro operatore sanitario. L’impiego di indicazioni nutrizionali e sulla salute è permesso soltanto se si è dimostrato che la presenza, l’assenza o il contenuto ridotto in un alimento di una sostanza ha un effetto benefico, sulla base di dati scientifici generalmente accettati. Tali sostanze devono essere presenti in quantità che possano essere ragionevolmente consumate e tali da offrire l’effetto desiderato. Le indicazioni sulla salute sono consentite solo se sull’etichettatura sono comprese le seguenti informazioni: • la popolazione di riferimento dell’indicazione; • una dicitura relativa all’importanza di una dieta varia ed equilibrata e di uno stile di vita sano; • la quantità dell’alimento e le modalità di consumo necessarie per ottenere l’effetto benefico indicato; • una dicitura rivolta alle persone che dovrebbero evitare di consumare l’alimento (ad es. donne incinte); • un’appropriata avvertenza per i prodotti che potrebbero presentare un rischio per la salute se consumati in quantità eccessive; • una dicitura indicante che la malattia cui l’indicazione fa riferimento è dovuta a molteplici fattori di rischio e che l’intervento su uno di questi può anche non avere un effetto benefico; • altre limitazioni o consigli per l’uso. Le indicazioni sulla salute basate su dati scientifici generalmente accettati e ben compresi dal consumatore medio possono essere esentate dal processo di autorizzazione. Le bevande contenenti più dell’1,2 % in volume di alcol non devono riportare indicazioni nutrizionali o sulla salute diverse da quelle relative alla riduzione nel contenuto alcolico o energetico. Il regolamento (UE) n. 432/2012 fornisce un elenco delle indicazioni relative alla salute consentite diverse da quelle che si riferiscono alla riduzione del rischio di malattia e allo sviluppo e alla salute dei
  • 6. bambini. Tale regolamento è stato applicato dal 14 dicembre 2012 e viene regolarmente modificato per aggiornare l’elenco delle indicazioni sulla salute recentemente autorizzate. Domanda di autorizzazione Ogni produttore può richiedere l’inclusione di una nuova indicazione nell’elenco consentito presentando una domanda a ogni paese dell’UE. Quest’ultimo la inoltra all’Autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA) e la Commissione delibererà sull’utilizzo dell’indicazione sulla base del parere scientifico dell’EFSA. Fonte: http://www.foodagriculturerequirements.com Allerta alimentare: dal 1 gennaio 2017 il Ministero della salute doveva mettere in rete l’elenco dei prodotti richiamati, ma tutto tace. Il Ministero della salute ha annunciato di voler pubblicare sul proprio sito, a partire dal 1 gennaio 2017, l’elenco dei prodotti ritirati dal mercato italiano. La notizia è sorprendente e arriva con qualche anno di ritardo rispetto a quanto avviene negli altri paesi europei. Il Fatto Alimentare, per sopperire a questa grave lacuna delle autorità sanitarie, pubblica ogni settimana l’elenco dei prodotti ritirati o richiamati dal mercato a causa di contaminazioni batteriche, presenza di corpi estranei, eccessiva presenza di pesticidi, errori in etichetta, mancanza di avvertenze sulla presenza di allergeni, errori nella data di scadenza, ecc… All’inizio la ricerca dei prodotti era difficile, poi abbiamo convinto le più importanti catene di supermercati a diffondere in rete gli avvisi dei prodotti ritirati dagli scaffali, in linea con quanto prevedeva il regolamento comunitario 178/2002, e il lavoro è stato semplificato. Grazie a questa iniziativa, alle lettere che riceviamo dai lettori e a un’attenta supervisione delle segnalazioni diffuse in Europa dagli altri Stati, l’anno scorso Il Fatto Alimentare ha segnalato 69 prodotti ritirati dalla vendita al dettaglio. Il Ministero della salute pur avendo a disposizione tutti gli elementi e i documenti relativi a questi richiami, ha dato notizia solo di un numero ridicolo di prodotti, sulla base di scelte e criteri sconosciuti. I responsabili del Ministero giustificano questa reticenza con argomenti improbabili, visto che molti Paesi che aderiscono come l’Italia al Sistema rapido di allerta (Rasff) ogni settimana diffondono i nomi, le marche e le foto dei prodotti oggetto di richiamo e di allerta. Il tema non è sconosciuto al Ministero della salute che il 19 maggio 2016, rispondendo a un’interrogazione parlamentare del Movimento 5 stelle sulla corretta informazione dei cittadini in merito ai rischi dei prodotti alimentari oggetto d’allerta, annunciava “uno studio di fattibilità riguardante la possibilità di pubblicare sul portale del Ministero, in una pagina web dedicata, tutti i provvedimenti di richiamo
  • 7. […]”. Il documento continua promettendo per il 2016 un sistema operativo informatizzato per la pubblicazione dei richiami da parte delle aziende. La nota finale ha il sapore amaro perché Lorenzin dice che sono state pubblicate “comunicazioni dai toni allarmistici, che potrebbero creare preoccupazioni e agitazione nei consumatori come nel caso delle notizie apparse sul “blog” “Il Fatto Alimentare”, relativo a presunti provvedimenti di richiamo, erroneamente definiti allerta dal “blogger”, che non sono correlati ad allerta gestite dal sistema RASFF”. La dichiarazione del Ministro lascia l’amaro in bocca, perché in questi anni abbiamo sostituito le istituzioni segnalando ai consumatori centinaia di prodotti ritirati e richiamati, è perché le pochissime informazioni diffuse dal Ministero al riguardo, risultano spesso lacunose e in ritardo. In ogni caso stiamo parlando di un Ministero che negli ultimi dieci anni ha dimostrato un’incapacità esemplare nel gestire la comunicazione del rischio, soprattutto nei casi di allerta alimentare. Basta ricordare i rari comunicati per l’epidemia dei frutti di bosco che ha causato 1.756 ricoveri in ospedale, e il ritardo di 4 giorni per comunicare un sospetto caso di botulino per alcuni lotti di pesto distribuiti in diverse regioni del nord-Italia a migliaia di persone. La triste realtà di oggi è è che a distanza di 40 giorni dall’avvio del servizio che doveva mettere in rete le allerta alimentari, il servizio è bloccato e nessuna spiegazione viene data dagli uffici di Roma. (Articolo di Roberto La Pira) Fonte: www.ilfattoalimentare.it OGM, Whole Foods Market adotta una politica di etichettatura specifica in USA e Canada. A dispetto delle resistenze del governo di Washington a ogni istanza di etichettatura degli OGM negli alimenti – e della reprimenda dell’ex presidente Obama nei confronti del Vermont, (1) per aver provato a introdurre tale regola – il mercato statunitense si muove in questa direzione, grazie al colosso Whole Foods Market (WFM). Non senza ostacoli per i suoi fornitori d’oltreoceano. A fine 2016 la prima catena USA di distribuzione di cibi ‘naturali’ e bio ha richiesto a tutti i suoi fornitori di adeguarsi entro l’1.9.18 alla sua ‘GMO Labeling Policy’, (2) che supera la timidezza espressa nella embrionale ‘U.S. National Bioengineered Food Disclosure Law‘ (29.7.16) mirando invece subito all’obiettivo di informare i consumatori con chiarezza sulla presenza o derivazione da OGM dei prodotti esposti in vendita, o dei loro ingredienti. La nuova policy di Whole Foods richiede a ‘tutti i fornitori di prodotti alimentari di
  • 8. etichettare come OGM i prodotti che contengono ingredienti a rischio di essere geneticamente modificati e che non hanno ricevuto certificazione Non-OGM o Biologica da organizzazioni terze approvate dallo stesso Whole Foods Market‘. Una sfida epocale per il ‘gigante buono’ d’oltreoceano, che ha già consentito di offrire sui mercati USA e Canada ben 25mila referenze bio e 11.500 certificate come non-OGM. E Un’ottima occasione al contempo per la filiera alimentare italiana che ha sempre resistito alle false promesse degli OGM in agricoltura, (3) escludendone altresì l’impiego nella gran parte delle produzioni alimentari. (4) Una opportunità che tuttavia rischia di comportare ulteriori oneri, spesso neppure giustificati, per i fornitori europei. All’atto pratico, WFM richiede infatti che i prodotti ‘a rischio OGM’ – escludendo perciò le derrate certificate ‘bio’ e quelle i cui ingredienti siano privi di una corrispondente matrice geneticamente modificata (5), in relazione ai quali si potrà scrivere ‘… (name of the raw material) is not GMO’ – siano certificati come ‘Non- GMO‘ da uno dei pochi enti accreditati nel suo programma. (6) Bisognerebbe però spiegare a Whole Foods che le politiche europee (7) giò garantiscono i consumatori limitando in maniera drastica la possibilità d’impiego di materiali OGM nelle produzioni di alimenti e mangimi – di fatto, ai soli derivati di soia, mais, colza, barbabietola – e che il loro utilizzo è sempre e comunque vincolato a stringenti requisiti di tracciabilità lungo l’intera filiera ed etichettatura specifica dei prodotti finali. (8) L’impiego di ingredienti OGM non dichiarati in etichetta, in Europa, è dunque escluso per legge, (9) e le già rigorose verifiche condotte in autocontrollo sono a loro volta soggette ai controlli pubblici ufficiali. Oltreché, in molti casi, alle certificazioni di parte terza ad opera di organismi indipendenti, talora anche sulla base di apposite norme tecniche. (10) Dario Dongo Fonte: http://www.foodagriculturerequirements.com Food app: pasti a domicilio solo per chi abita in città. In generale buona la puntualità e le condizioni alla consegna (con eccezioni). Il test di Altroconsumo su cinque applicazioni. Altroconsumo ha messo alla prova le food app, cioè le applicazioni che permettono di ordinare un piatto con il proprio smartphone e riceverlo a casa. Nel test, 40 volontari distribuiti tra Milano, Torino e Roma hanno testato cinque famose
  • 9. applicazioni di consegna pasti a domicilio: Just Eat, Deliveroo, Foodora, Moovenda e Glovo (quest’ultima facendo anche consegne di altri articoli oltre ai pasti, non è strettamente una food app). Ogni volontario ha ordinato dallo stesso ristorante un pasto per poter confrontare il servizio e verificare le caratteristiche delle applicazioni. Per quanto riguarda la chiarezza delle informazioni, il test evidenzia Just Eat e Deliveroo, che offrono i menù più semplici e intuitivi. A proposito della puntualità delle consegne, influenzata da meteo e traffico, le migliori food app sono risultate Moovenda e Deliveroo. I pagamenti sono da effettuare sempre via smartphone con PayPal o carta di credito, tranne per Just Eat, che, oltre a questi sistemi offre la possibilità di saldare in contanti alla consegna. I costi del servizio variano: Just Eat offre la consegna gratuita per alcuni ristoranti, mentre Foodora ha un costo fisso di 2,90 €. Per le altre applicazioni le spese di consegna dipendono dalla distanza tra il ristorante e la propria abitazione. Qualche problema è stato riscontrato per le condizioni dei piatti consegnati. Anche se in generale è stata osservata una buona qualità dei pasti arrivati nelle abitazioni soprattutto per Moovenda e Deliveroo, altre volte la cena può arrivare a destinazione in cattivo stato. Una possibilità comunque da mettere in conto, dato che il servizio di consegna è effettuato da fattorini in scooter o, il più delle volte, in bicicletta. Le criticità maggiori, spiega Altroconsumo, sono legate alla presenza di persone che consegnano sul territorio. Le food app funzionano nelle grandi città, come Milano e Roma, anche se talvolta le consegne non coprono tutta l’area urbana. Da questo punto di vista la migliore app è risultata Just Eat, presente in quasi 450 località e in grado di coprire anche le aree periferiche cittadine. Non si può dire lo stesso per le altre applicazioni. Deliveroo è presente solo a Milano e Roma, Foodora in tutte le città del test più Firenze, Glovo solo a Milano e Moovenda solo a Roma. Fonte: ilfattoalimentare.it
  • 10. applicazioni di consegna pasti a domicilio: Just Eat, Deliveroo, Foodora, Moovenda e Glovo (quest’ultima facendo anche consegne di altri articoli oltre ai pasti, non è strettamente una food app). Ogni volontario ha ordinato dallo stesso ristorante un pasto per poter confrontare il servizio e verificare le caratteristiche delle applicazioni. Per quanto riguarda la chiarezza delle informazioni, il test evidenzia Just Eat e Deliveroo, che offrono i menù più semplici e intuitivi. A proposito della puntualità delle consegne, influenzata da meteo e traffico, le migliori food app sono risultate Moovenda e Deliveroo. I pagamenti sono da effettuare sempre via smartphone con PayPal o carta di credito, tranne per Just Eat, che, oltre a questi sistemi offre la possibilità di saldare in contanti alla consegna. I costi del servizio variano: Just Eat offre la consegna gratuita per alcuni ristoranti, mentre Foodora ha un costo fisso di 2,90 €. Per le altre applicazioni le spese di consegna dipendono dalla distanza tra il ristorante e la propria abitazione. Qualche problema è stato riscontrato per le condizioni dei piatti consegnati. Anche se in generale è stata osservata una buona qualità dei pasti arrivati nelle abitazioni soprattutto per Moovenda e Deliveroo, altre volte la cena può arrivare a destinazione in cattivo stato. Una possibilità comunque da mettere in conto, dato che il servizio di consegna è effettuato da fattorini in scooter o, il più delle volte, in bicicletta. Le criticità maggiori, spiega Altroconsumo, sono legate alla presenza di persone che consegnano sul territorio. Le food app funzionano nelle grandi città, come Milano e Roma, anche se talvolta le consegne non coprono tutta l’area urbana. Da questo punto di vista la migliore app è risultata Just Eat, presente in quasi 450 località e in grado di coprire anche le aree periferiche cittadine. Non si può dire lo stesso per le altre applicazioni. Deliveroo è presente solo a Milano e Roma, Foodora in tutte le città del test più Firenze, Glovo solo a Milano e Moovenda solo a Roma. Fonte: ilfattoalimentare.it