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Idee di lingua nazionale
nel primo ottocento
Modelli linguistici e rapporto tra lingua
nazionale e dialetti
Già nel corso del Settecento, e soprattutto, come abbiamo visto, in
età illuminista, emerge la richiesta di rinnovamento linguistico e di
una lingua unitaria.
Gli illuministi, tuttavia, anche i più radicali del Caffè, continuano a
pensare ad un ammodernamento di una lingua di tradizione
letteraria comune alle persone colte di tutt’Italia, anche nella
versione più allargata di una «universale lingua italiana», cioè
aperta a «ogni parola che sia intesa da tutti gli abitanti di Italia»,
come scriveva Pietro Verri, oppure, come proclamava il fratello
Alessandro nella Rinunzia, la «lingua che s'intende dagli uomini
colti da Reggio di Calabria fino alle Alpi».
Lingua nazionale nel primo Ottocento
Alla lingua scritta guardano anche innovatori come Cesarotti e Vincenzo Monti, il
maggior esponente del classicismo primo-ottocentesco di radici illuministe, che
stabiliva (in una lettera al marchese Trivulzio del 1817) alcuni Corollari riguardo
alla particolare situazione linguistica italiana:
Lingua nazionale nel primo Ottocento
Corollario
1. Una nazione di molti governi e molti dialetti, acciocché
i suoi individui s’intendano fra di loro, ha mestieri d’un
linguaggio comune.
2. Questa via di comunicazione non può essere il
linguaggio parlato, perché ognuno di questi popoli ha il
suo particolare dialetto. Dunque è forza ch’ei sia
linguaggio scritto.
L’esigenza di un’unità della lingua, che deve coincidere con lo strumenta vivo
della comunità dei parlanti di una nazione, si fa strada chiaramente solo con le
idee romantiche ed è affrontata con risolutezza da Alessandro Manzoni, prima
di diventare questione prioritaria e ineludibile con il costituirsi dello Stato
nazionale.
Si trattava, dunque di recuperare la dimensione unitaria e la funzione sociale
della lingua, in conformità agli ideali di una letteratura popolare e attenta alla
realtà, colmando la secolare frattura tra scritto e parlata che il nuovo culto del
passato letterario contribuiva ad approfondire.
All’inizio dell’Ottocento, infatti, il moto di reazione all’influenza francese,
ulteriormente accresciuta in età napoleonica, determina un recupero dei valori
del patrimonio letterario e linguistico italiano, e un culto fortissimo della lingua
come vincolo della nazione e stimolo del sentimento di italianità.
Lingua nazionale nel primo Ottocento
Condividono questi ideali le correnti del purismo e del
classicismo, che però si differenziano tra loro nei modelli e
negli obiettivi.
Il purismo, il cui caposcuola è il sacerdote veronese Antonio
Cesari, ereditando tendenze già settecentesche, aspira a
una lingua naturale, semplice, popolare, e guarda
Purismo
al Trecento come al «secol d’oro della lingua toscana», in cui «tutti scrivevano
bene», proponendo di ricorrere alle scritture trecentesche anche per trovare i
termini nuovi e necessari nei settori tecnici e scientifici.
La lingua antica è vista «come una fanciulla vergine delle più belle, ma di bellezza
e color nativo, senza ornamenti né lisci», contrapposta alla moderna, «una
sgualdrina azzimata, lisciata, carica di belletto, cascante di vezzi posticci» (si
allude chiaramente all’influsso del francese e dell’inglese).
Ai criteri puristici era ispirata la ristampa veronese della quarta edizione
del Vocabolario della Crusca, con molte Giunte (la cosiddetta Crusca
veronese), pubblicata tra il 1806 e il 1811 sotto la direzione del Cesari.
E la stessa prosa dei puristi rispondeva a queste indicazioni: ad esempio,
in un’opera d’attualità come la Storia della guerra della independenza
degli Stati Uniti d’America (1809), lo storico piemontese Carlo Botta
dichiara di servirsi «di vocaboli, o di frasi toscane lontane dall’uso volgare
d’oggidì», e usa arcaismi come civanza ‘guadagno’, misfore ‘far male’ ecc.
Il modello di prosa puristica avrà lunga fortuna, anche attraverso la
diffusione scolastica.
Purismo
Il classicismo invece, spesso ispirato alla teoria della lingua italiana
comune dantesco-trissiniana, guarda ai valori artistici, letterari e
nazionali della tradizione linguistica, soprattutto cinquecentesca.
Nel suo indirizzo più aperto, di eredità illuminista (il cosiddetto
“classicismo illuminato”), rivaluta la moderna cultura scientifica e
filosofica, da cui ritiene che si debbano trarre gli elementi
indispensabili per un moderato rinnovamento linguistico.
Classicismo
Classicismo
È questa la posizione di un intellettuale come
Giacomo Leopardi: egli biasima i gallicismi ma
non gli europeismi sette-ottocenteschi, ed è
contrario al modello francesizzante e coupé
della prosa, a cui oppone, nelle sue Operette
morali (1835), un esempio di classicità elegante
e modernamente “filosofica”.
In questa corrente si inserisce anche l’attività critica e lessicografica
del già citato Vincenzo Monti, autore della Proposta di alcune
correzioni ed aggiunte al Vocabolario della Crusca (Milano, 1817-
26), e feroce oppositore del purismo e del Cesari.
l dialetti (e la valorizzazione della letteratura dialettale) erano visti
dai classicisti come Monti o come Giordani come «moneta che
non corre fuori paese» e ostacolo alla diffusione nazionale della
«comune lingua» italiana.
Sulla questione dei dialetti nacque un’accesa diatriba tra autori
classicisti e romantici. Un esempio significativo fu l’intervento
contro i dialetti di Pietro Giordani sul periodico Biblioteca italiana
(1816) e la rispettiva risposta del poeta romantico Carlo Porta che
gli indirizzò dodici sonetti satirici in dialetto milanese (Dodes sonitt
all’Abaa Don Giovan).
Classicismo
A fronte di queste posizioni affiorano i nuovi ideali del Romanticismo, i cui
rappresentanti sono riuniti intorno a riviste come Il Conciliatore (S. Pellico, L. Di
Breme, G. Berchet,…). Con essi emerge la richiesta di una lingua comune che
potesse essere strumento sociale (non solo letterario), di comunicazione scritta
e parlata.
I romantici rivalutano l’uso dei dialetti, studiati e apprezzati da Pietro Borsieri
nelle sue Avventure letterarie di un giorno (1816) come «immagine fedelissima
delle abitudini, dei costumi, delle idee e delle passioni predominanti dei popoli
che le parlano».
Viene dunque apprezzata anche la letteratura dialettale, considerata strumento
educativo per diffondere più facilmente la coltura nel volgo, e anche di
nobilitazione, di equiparazione dei dialetti alla lingua.
Romanticismo
Da lingua della letteratura a
lingua d’uso nazionale
Riflessione manzoniana dalla lingua per il
romanzo alla lingua per la Nazione
Contro i dialetti “particolari” si poneva anche Alessandro Manzoni,
che pure condivideva con i romantici il concetto del dialetto come
lingua viva e vera.
Proprio su questa base egli arriverà a scegliere la lingua viva e
parlata di Firenze, il dialetto fiorentino colto, come strumento di
unificazione linguistica nazionale. Lo scrittore giungerà attraverso
una lunga e sofferta riflessione, che accompagna l’elaborazione del
suo romanzo storico, i Promessi sposi, a questa soluzione teorica
così radicale, ma secondo Manzoni indispensabile nella situazione
italiana, di accettare una lingua «bell’e fatta», chiedendola «a chi
l’ha già» (come riferisce Niccolò Tommaseo).
Riflessione e opera di Manzoni
Le redazioni del romanzo storico di
Alessandro Manzoni sono tre e
corrispondono alle tre fasi di elaborazione
linguistica e di riflessione teorica dello
scrittore sulla lingua italiana:
Riflessione e opera di Manzoni
• Il Fermo e Lucia, scritto tra il 1821 e il 1823 e non pubblicato
• La 1a edizione dei Promessi sposi (1825-27, detta “Ventisettana”)
• La 2a edizione, definitiva (1840-45, detta “Quarantana”).
Gli inizi della sua riflessione linguistica coincidono con il primo abbozzo del
romanzo, il Fermo e Lucia, terminato nel 1823.
Ad esso Manzoni lavora dopo l’abbandono delle esperienze poetiche giovanili, in
cui aveva continuato a utilizzare la lingua della tradizione anche per nuove
tematiche, non solo nei componimenti di gusto neoclassico (come il Trionfo della
Libertà), ma negli Inni sacri, nelle tragedie e nelle odi civili: nel Cinque Maggio,
l’ode scritta in occasione della morte di Napoleone (1821), egli rivitalizza anche il
sicilianismo nui (in rima con fui; vv. 31-36):
Fu vera gloria? Ai posteri / l’ardua sentenza: nui /
chiniam la fronte al Massimo / Fartor, che volle in lui /
del creator suo spirito / più vasta orma stampar.
Opere giovanili di Manzoni
La stesura del suo romanzo storico, che poneva al centro della vicenda
personaggi popolari, di paese come Fermo (poi Renzo), Lucia, Agnese, gli fa
apparire invece inadeguata la lingua della prosa primo-ottocentesca, e in
particolare la sua lingua, che definisce «un composto indigesto», cioè una
mescolanza di toscano letterario, lombardismi, francesismi e altro ancora.
La lingua del Fermo appare infatti contrassegnata da un notevole ibridismo, e
soprattutto dalla presenza di regionalismi lombardi, spesso introdotti
intenzionalmente dall’autore per caratterizzare l’ambiente e i personaggi.
Dunque Manzoni avverte un problema personale di scrittura, ma già è presente
in questo periodo la consapevolezza che non c’è in Italia l’«universale uso di una
lingua comune», e manca uno strumento espressivo disponibile a tutti gli usi
parlati e scritti, come era invece il francese.
Fermo e Lucia
Accantonato l’abbozzo, Manzoni inizia la stesura della prima edizione, cercando
di ottenere una maggiore uniformità linguistica fondata sul toscano della
tradizione letteraria, che rappresentava la lingua comune che esisteva in Italia,
eliminando i lombardismi e mantenendo però le forme che trovava concordanti
col toscano.
Questa fase è chiamata toscano-milanese, perché Manzoni cerca le
corrispondenze o le differenze tra il toscano della tradizione e il suo milanese,
la lingua “viva e intera” che possedeva.
Egli si sforza di allargare la sua competenza toscana con estesi spogli di autori
toscani, specialmente quelli della tradizione comica cinque-secentesca come
fonte di espressività colloquiale; inoltre postilla di citazioni integrative e di suoi
commenti il Vocabolario della Crusca e il Vocabolario milanese-italiano di
Francesco Cherubini (la ed. 1814).
La Ventisettana
Il viaggio a Firenze nel 1827, subito dopo l’uscita dei Promessi sposi, e
l’immersione nel fiorentino parlato convincono però Manzoni che non i libri o i
vocabolari, ma solo l’uso vivo, la lingua di una società reale di parlanti può
essere il punto di riferimento per una lingua nazionale.
Egli ricerca con insistenza da amici e conoscenti fiorentini l’uso fiorentino vivo e
parlato (che corrispondesse alla completezza del suo milanese o del francese,
l’altra lingua viva che conosceva).
La riflessione sul valore dell’uso è testimoniata in importanti scritti inediti, nel
Sentir Messa (1835-36), e soprattutto nelle prime stesure del suo trattato Della
lingua italiana, iniziato dopo il 1830 e rielaborato in circa tre decenni in ben
cinque redazioni (l’«eterno lavoro»): scritti che documentano un intenso studio
sulla filosofia del linguaggio sette-ottocentesca, soprattutto francese.
Il viaggio a Firenze
Matura così in Manzoni la definitiva convinzione che solo il ricorso all’uso vivo
fiorentino, di cui una parte, il fiorentino letterario, rappresentava quel che c’era
già di lingua comune, poteva essere la via per l’unificazione linguistica sulla
base di una lingua «intera» e viva, così come in Francia il dialetto di Parigi era
diventato la lingua nazionale.
Pervenuto a questa importante definizione teorica, a partire dal 1838 Manzoni
avvia la correzione del romanzo in vista della seconda edizione: il risultato non è
però perfettamente corrispondente alla teoria, perché la tendenza non è solo
quella di dare una veste “fiorentina” all’opera, ma soprattutto di attribuirle una
fisionomia linguistica più moderna e usuale, eliminando le forme troppo
letterarie e sostituendole con quelle più correnti negli usi scritti ottocenteschi.
Il problema linguistico di Manzoni è stato ormai spostato dal piano personale di
scrittura letteraria a quello sociale e nazionale.
La Quarantana
Queste le principali tendenze correttorie dell’edizione finale (la “Quarantana”):
• eliminazione di lombardismi come un zucchero > uno zucchero, inzigasse >
aizzasse, tosa > ragazza
• introduzione di fiorentinismi vivi, come giuoco > gioco, muove > move (ma
restano cuore, buono, uomo ecc.), io aveva > io avevo, guance > gote, burlare
> far celia
• abbassamento del tono letterario e introduzione di forme più correnti:
giugnendo > giungendo; cangiando > cambiando; veggio > vedo; ponno >
possono; egli, ella > lui, lei; che cosa? > cosa?; pargoli > bambini; mi corco >
mi metto a letto; guatare > guardare; picciolo > piccolo
• eliminazione di doppioni per una maggiore uniformità: fra > tra
La Quarantana
Ma l’aspetto ancora più rilevante è la conquista di uno stile “semplice” e
uniforme, attraverso l’assorbimento nella struttura del romanzo dei modi
dell’oralità, sia nei dialoghi che nella parti di narrato: le costruzioni marcate, gli
anacoluti e i cambi di progetto, la frammentazione del discorso, le esclamazioni...
Per esempio nelle parole di Renzo: «La farò io, la giustizia, io!» «lo libererò io, il
paese» «Posso avere delle buone ragioni per non dirlo, il mio nome» «Le sa
dunque, le cose che m’hanno fatto?» «un giovine che, dispetti almeno, non ve
n’aveva mai fatti!».
Ma anche nel testo del narratore: «di tante belle parole Renzo non ne credette
una» «lo stampato lo sapeva leggere» «le sue chiacchiere, le faceva con Agnese»
«A Renzo in fatti quel pensiero gli era venuto, come abbiam visto, da principio, e
gli tornava, ogni momento.».
La Quarantana
Per allontanarsi dallo stile letterario e avvicinarsi alla mimesi della colloquialità
Manzoni usa persino il linguaggio dei gesti…
che accompagna le parole del dialogo: «A Rimini.» «Dov’è questo paese? » «Eh
eh eh! » rispose il frate, trinciando verticalmente l’aria con la mano distesa, per
significare una grande distanza; «Me?» disse ancora quella voce, significando
chiaramente in quel monosillabo: «come ci posso entrar io?» Ma questa volta,
insieme con la voce, venne fuori l’uomo, don Abbondio in persona, con un passo
forzato, e con un viso tra l’attonito e il disgustato. Il cappellano fece un cenno con
la mano, che voleva dire a noi: andiamo; ci vuol tanto?”
o che sostituisce del tutto il dialogo: «E a danari, come stiamo?» Renzo stese una
mano, l’avvicinò alla bocca, e vi fece sopra un piccolo soffio [spiegando con tale
gesto di essere rimasto senza soldi].
La Quarantana
La narrativa coeva o posteriore a Manzoni, invece, con esclusione dei principali
veristi, continua a praticare soluzioni ibride, lontane dalla medietà espressiva e
dal monolinguismo perseguito nei Promessi sposi, con una netta separazione
tra voce del narratore e quella dei personaggi.
Si trova dunque l’inserzione di dialettismi, per ricreare il “colore locale”, accanto
a toscanismi colloquiali e libreschi, a forme letterarie e arcaizzanti.
L’impasto eterogeneo accomuna, con esiti molto diversi, scrittori come Niccolò
Tommaseo (Fede e Bellezza, 1a ed. 1840) e Ippolito Nievo (Confessioni di un
italiano, 1a ed. postuma 1867); o scrittori dichiaratamente manzoniani come
Cesare Cantù (Margherita Pusteria, 2a ed. 1845; Portafoglio d’un operaio, 1871),
la cui scrittura però rimane fedele al modello della Ventisettana.
Narrativa ottocentesca
Anche le poetiche del realismo e l’esigenza del “vero” narrativo e
linguistico si scontrano, nel periodo postunitario, col problema del
rapporto tra i dialetti (la lingua «vera» e parlata da tutte le classi
sociali) e un italiano medio comune ancora inesistente a livello
nazionale.
La scelta tuttavia ricade spesso verso una sorta di “vera finzione”,
comune ad autori non toscani come il lombardo Cletto Arrighi,
l’abruzzese Giuseppe Mezzanotte, la napoletana Matilde Serao...,
che tentano di riprodurre l’oralità ricorrendo a colloquialismi
toscani o a forme ricalcate sul dialetto, nel contesto di una
scrittura complessivamente ancora tradizionale.
Narrativa ottocentesca
In alcuni autori è presente anche una certa sensibilità per le varietà
di un repertorio nazionale che comincia a farsi più ricco e
articolato: accanto ai dialetti affiorano l’italiano regionale, parlato
da alcuni personaggi, o le commistioni di dialetto e italiano
regionale, o ancora è imitato l’italiano popolare della scrittura dei
semicolti, come nel Demetrio Pianelli (1890) del lombardo Emilio
De Marchi, o in Piccolo mondo antico (1895), del veneto Antonio
Fogazzaro.
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029 Primo Ottocento e Manzoni

  • 1. Idee di lingua nazionale nel primo ottocento Modelli linguistici e rapporto tra lingua nazionale e dialetti
  • 2. Già nel corso del Settecento, e soprattutto, come abbiamo visto, in età illuminista, emerge la richiesta di rinnovamento linguistico e di una lingua unitaria. Gli illuministi, tuttavia, anche i più radicali del Caffè, continuano a pensare ad un ammodernamento di una lingua di tradizione letteraria comune alle persone colte di tutt’Italia, anche nella versione più allargata di una «universale lingua italiana», cioè aperta a «ogni parola che sia intesa da tutti gli abitanti di Italia», come scriveva Pietro Verri, oppure, come proclamava il fratello Alessandro nella Rinunzia, la «lingua che s'intende dagli uomini colti da Reggio di Calabria fino alle Alpi». Lingua nazionale nel primo Ottocento
  • 3. Alla lingua scritta guardano anche innovatori come Cesarotti e Vincenzo Monti, il maggior esponente del classicismo primo-ottocentesco di radici illuministe, che stabiliva (in una lettera al marchese Trivulzio del 1817) alcuni Corollari riguardo alla particolare situazione linguistica italiana: Lingua nazionale nel primo Ottocento Corollario 1. Una nazione di molti governi e molti dialetti, acciocché i suoi individui s’intendano fra di loro, ha mestieri d’un linguaggio comune. 2. Questa via di comunicazione non può essere il linguaggio parlato, perché ognuno di questi popoli ha il suo particolare dialetto. Dunque è forza ch’ei sia linguaggio scritto.
  • 4. L’esigenza di un’unità della lingua, che deve coincidere con lo strumenta vivo della comunità dei parlanti di una nazione, si fa strada chiaramente solo con le idee romantiche ed è affrontata con risolutezza da Alessandro Manzoni, prima di diventare questione prioritaria e ineludibile con il costituirsi dello Stato nazionale. Si trattava, dunque di recuperare la dimensione unitaria e la funzione sociale della lingua, in conformità agli ideali di una letteratura popolare e attenta alla realtà, colmando la secolare frattura tra scritto e parlata che il nuovo culto del passato letterario contribuiva ad approfondire. All’inizio dell’Ottocento, infatti, il moto di reazione all’influenza francese, ulteriormente accresciuta in età napoleonica, determina un recupero dei valori del patrimonio letterario e linguistico italiano, e un culto fortissimo della lingua come vincolo della nazione e stimolo del sentimento di italianità. Lingua nazionale nel primo Ottocento
  • 5. Condividono questi ideali le correnti del purismo e del classicismo, che però si differenziano tra loro nei modelli e negli obiettivi. Il purismo, il cui caposcuola è il sacerdote veronese Antonio Cesari, ereditando tendenze già settecentesche, aspira a una lingua naturale, semplice, popolare, e guarda Purismo al Trecento come al «secol d’oro della lingua toscana», in cui «tutti scrivevano bene», proponendo di ricorrere alle scritture trecentesche anche per trovare i termini nuovi e necessari nei settori tecnici e scientifici. La lingua antica è vista «come una fanciulla vergine delle più belle, ma di bellezza e color nativo, senza ornamenti né lisci», contrapposta alla moderna, «una sgualdrina azzimata, lisciata, carica di belletto, cascante di vezzi posticci» (si allude chiaramente all’influsso del francese e dell’inglese).
  • 6. Ai criteri puristici era ispirata la ristampa veronese della quarta edizione del Vocabolario della Crusca, con molte Giunte (la cosiddetta Crusca veronese), pubblicata tra il 1806 e il 1811 sotto la direzione del Cesari. E la stessa prosa dei puristi rispondeva a queste indicazioni: ad esempio, in un’opera d’attualità come la Storia della guerra della independenza degli Stati Uniti d’America (1809), lo storico piemontese Carlo Botta dichiara di servirsi «di vocaboli, o di frasi toscane lontane dall’uso volgare d’oggidì», e usa arcaismi come civanza ‘guadagno’, misfore ‘far male’ ecc. Il modello di prosa puristica avrà lunga fortuna, anche attraverso la diffusione scolastica. Purismo
  • 7. Il classicismo invece, spesso ispirato alla teoria della lingua italiana comune dantesco-trissiniana, guarda ai valori artistici, letterari e nazionali della tradizione linguistica, soprattutto cinquecentesca. Nel suo indirizzo più aperto, di eredità illuminista (il cosiddetto “classicismo illuminato”), rivaluta la moderna cultura scientifica e filosofica, da cui ritiene che si debbano trarre gli elementi indispensabili per un moderato rinnovamento linguistico. Classicismo
  • 8. Classicismo È questa la posizione di un intellettuale come Giacomo Leopardi: egli biasima i gallicismi ma non gli europeismi sette-ottocenteschi, ed è contrario al modello francesizzante e coupé della prosa, a cui oppone, nelle sue Operette morali (1835), un esempio di classicità elegante e modernamente “filosofica”. In questa corrente si inserisce anche l’attività critica e lessicografica del già citato Vincenzo Monti, autore della Proposta di alcune correzioni ed aggiunte al Vocabolario della Crusca (Milano, 1817- 26), e feroce oppositore del purismo e del Cesari.
  • 9. l dialetti (e la valorizzazione della letteratura dialettale) erano visti dai classicisti come Monti o come Giordani come «moneta che non corre fuori paese» e ostacolo alla diffusione nazionale della «comune lingua» italiana. Sulla questione dei dialetti nacque un’accesa diatriba tra autori classicisti e romantici. Un esempio significativo fu l’intervento contro i dialetti di Pietro Giordani sul periodico Biblioteca italiana (1816) e la rispettiva risposta del poeta romantico Carlo Porta che gli indirizzò dodici sonetti satirici in dialetto milanese (Dodes sonitt all’Abaa Don Giovan). Classicismo
  • 10. A fronte di queste posizioni affiorano i nuovi ideali del Romanticismo, i cui rappresentanti sono riuniti intorno a riviste come Il Conciliatore (S. Pellico, L. Di Breme, G. Berchet,…). Con essi emerge la richiesta di una lingua comune che potesse essere strumento sociale (non solo letterario), di comunicazione scritta e parlata. I romantici rivalutano l’uso dei dialetti, studiati e apprezzati da Pietro Borsieri nelle sue Avventure letterarie di un giorno (1816) come «immagine fedelissima delle abitudini, dei costumi, delle idee e delle passioni predominanti dei popoli che le parlano». Viene dunque apprezzata anche la letteratura dialettale, considerata strumento educativo per diffondere più facilmente la coltura nel volgo, e anche di nobilitazione, di equiparazione dei dialetti alla lingua. Romanticismo
  • 11. Da lingua della letteratura a lingua d’uso nazionale Riflessione manzoniana dalla lingua per il romanzo alla lingua per la Nazione
  • 12. Contro i dialetti “particolari” si poneva anche Alessandro Manzoni, che pure condivideva con i romantici il concetto del dialetto come lingua viva e vera. Proprio su questa base egli arriverà a scegliere la lingua viva e parlata di Firenze, il dialetto fiorentino colto, come strumento di unificazione linguistica nazionale. Lo scrittore giungerà attraverso una lunga e sofferta riflessione, che accompagna l’elaborazione del suo romanzo storico, i Promessi sposi, a questa soluzione teorica così radicale, ma secondo Manzoni indispensabile nella situazione italiana, di accettare una lingua «bell’e fatta», chiedendola «a chi l’ha già» (come riferisce Niccolò Tommaseo). Riflessione e opera di Manzoni
  • 13. Le redazioni del romanzo storico di Alessandro Manzoni sono tre e corrispondono alle tre fasi di elaborazione linguistica e di riflessione teorica dello scrittore sulla lingua italiana: Riflessione e opera di Manzoni • Il Fermo e Lucia, scritto tra il 1821 e il 1823 e non pubblicato • La 1a edizione dei Promessi sposi (1825-27, detta “Ventisettana”) • La 2a edizione, definitiva (1840-45, detta “Quarantana”).
  • 14. Gli inizi della sua riflessione linguistica coincidono con il primo abbozzo del romanzo, il Fermo e Lucia, terminato nel 1823. Ad esso Manzoni lavora dopo l’abbandono delle esperienze poetiche giovanili, in cui aveva continuato a utilizzare la lingua della tradizione anche per nuove tematiche, non solo nei componimenti di gusto neoclassico (come il Trionfo della Libertà), ma negli Inni sacri, nelle tragedie e nelle odi civili: nel Cinque Maggio, l’ode scritta in occasione della morte di Napoleone (1821), egli rivitalizza anche il sicilianismo nui (in rima con fui; vv. 31-36): Fu vera gloria? Ai posteri / l’ardua sentenza: nui / chiniam la fronte al Massimo / Fartor, che volle in lui / del creator suo spirito / più vasta orma stampar. Opere giovanili di Manzoni
  • 15. La stesura del suo romanzo storico, che poneva al centro della vicenda personaggi popolari, di paese come Fermo (poi Renzo), Lucia, Agnese, gli fa apparire invece inadeguata la lingua della prosa primo-ottocentesca, e in particolare la sua lingua, che definisce «un composto indigesto», cioè una mescolanza di toscano letterario, lombardismi, francesismi e altro ancora. La lingua del Fermo appare infatti contrassegnata da un notevole ibridismo, e soprattutto dalla presenza di regionalismi lombardi, spesso introdotti intenzionalmente dall’autore per caratterizzare l’ambiente e i personaggi. Dunque Manzoni avverte un problema personale di scrittura, ma già è presente in questo periodo la consapevolezza che non c’è in Italia l’«universale uso di una lingua comune», e manca uno strumento espressivo disponibile a tutti gli usi parlati e scritti, come era invece il francese. Fermo e Lucia
  • 16. Accantonato l’abbozzo, Manzoni inizia la stesura della prima edizione, cercando di ottenere una maggiore uniformità linguistica fondata sul toscano della tradizione letteraria, che rappresentava la lingua comune che esisteva in Italia, eliminando i lombardismi e mantenendo però le forme che trovava concordanti col toscano. Questa fase è chiamata toscano-milanese, perché Manzoni cerca le corrispondenze o le differenze tra il toscano della tradizione e il suo milanese, la lingua “viva e intera” che possedeva. Egli si sforza di allargare la sua competenza toscana con estesi spogli di autori toscani, specialmente quelli della tradizione comica cinque-secentesca come fonte di espressività colloquiale; inoltre postilla di citazioni integrative e di suoi commenti il Vocabolario della Crusca e il Vocabolario milanese-italiano di Francesco Cherubini (la ed. 1814). La Ventisettana
  • 17. Il viaggio a Firenze nel 1827, subito dopo l’uscita dei Promessi sposi, e l’immersione nel fiorentino parlato convincono però Manzoni che non i libri o i vocabolari, ma solo l’uso vivo, la lingua di una società reale di parlanti può essere il punto di riferimento per una lingua nazionale. Egli ricerca con insistenza da amici e conoscenti fiorentini l’uso fiorentino vivo e parlato (che corrispondesse alla completezza del suo milanese o del francese, l’altra lingua viva che conosceva). La riflessione sul valore dell’uso è testimoniata in importanti scritti inediti, nel Sentir Messa (1835-36), e soprattutto nelle prime stesure del suo trattato Della lingua italiana, iniziato dopo il 1830 e rielaborato in circa tre decenni in ben cinque redazioni (l’«eterno lavoro»): scritti che documentano un intenso studio sulla filosofia del linguaggio sette-ottocentesca, soprattutto francese. Il viaggio a Firenze
  • 18. Matura così in Manzoni la definitiva convinzione che solo il ricorso all’uso vivo fiorentino, di cui una parte, il fiorentino letterario, rappresentava quel che c’era già di lingua comune, poteva essere la via per l’unificazione linguistica sulla base di una lingua «intera» e viva, così come in Francia il dialetto di Parigi era diventato la lingua nazionale. Pervenuto a questa importante definizione teorica, a partire dal 1838 Manzoni avvia la correzione del romanzo in vista della seconda edizione: il risultato non è però perfettamente corrispondente alla teoria, perché la tendenza non è solo quella di dare una veste “fiorentina” all’opera, ma soprattutto di attribuirle una fisionomia linguistica più moderna e usuale, eliminando le forme troppo letterarie e sostituendole con quelle più correnti negli usi scritti ottocenteschi. Il problema linguistico di Manzoni è stato ormai spostato dal piano personale di scrittura letteraria a quello sociale e nazionale. La Quarantana
  • 19. Queste le principali tendenze correttorie dell’edizione finale (la “Quarantana”): • eliminazione di lombardismi come un zucchero > uno zucchero, inzigasse > aizzasse, tosa > ragazza • introduzione di fiorentinismi vivi, come giuoco > gioco, muove > move (ma restano cuore, buono, uomo ecc.), io aveva > io avevo, guance > gote, burlare > far celia • abbassamento del tono letterario e introduzione di forme più correnti: giugnendo > giungendo; cangiando > cambiando; veggio > vedo; ponno > possono; egli, ella > lui, lei; che cosa? > cosa?; pargoli > bambini; mi corco > mi metto a letto; guatare > guardare; picciolo > piccolo • eliminazione di doppioni per una maggiore uniformità: fra > tra La Quarantana
  • 20. Ma l’aspetto ancora più rilevante è la conquista di uno stile “semplice” e uniforme, attraverso l’assorbimento nella struttura del romanzo dei modi dell’oralità, sia nei dialoghi che nella parti di narrato: le costruzioni marcate, gli anacoluti e i cambi di progetto, la frammentazione del discorso, le esclamazioni... Per esempio nelle parole di Renzo: «La farò io, la giustizia, io!» «lo libererò io, il paese» «Posso avere delle buone ragioni per non dirlo, il mio nome» «Le sa dunque, le cose che m’hanno fatto?» «un giovine che, dispetti almeno, non ve n’aveva mai fatti!». Ma anche nel testo del narratore: «di tante belle parole Renzo non ne credette una» «lo stampato lo sapeva leggere» «le sue chiacchiere, le faceva con Agnese» «A Renzo in fatti quel pensiero gli era venuto, come abbiam visto, da principio, e gli tornava, ogni momento.». La Quarantana
  • 21. Per allontanarsi dallo stile letterario e avvicinarsi alla mimesi della colloquialità Manzoni usa persino il linguaggio dei gesti… che accompagna le parole del dialogo: «A Rimini.» «Dov’è questo paese? » «Eh eh eh! » rispose il frate, trinciando verticalmente l’aria con la mano distesa, per significare una grande distanza; «Me?» disse ancora quella voce, significando chiaramente in quel monosillabo: «come ci posso entrar io?» Ma questa volta, insieme con la voce, venne fuori l’uomo, don Abbondio in persona, con un passo forzato, e con un viso tra l’attonito e il disgustato. Il cappellano fece un cenno con la mano, che voleva dire a noi: andiamo; ci vuol tanto?” o che sostituisce del tutto il dialogo: «E a danari, come stiamo?» Renzo stese una mano, l’avvicinò alla bocca, e vi fece sopra un piccolo soffio [spiegando con tale gesto di essere rimasto senza soldi]. La Quarantana
  • 22. La narrativa coeva o posteriore a Manzoni, invece, con esclusione dei principali veristi, continua a praticare soluzioni ibride, lontane dalla medietà espressiva e dal monolinguismo perseguito nei Promessi sposi, con una netta separazione tra voce del narratore e quella dei personaggi. Si trova dunque l’inserzione di dialettismi, per ricreare il “colore locale”, accanto a toscanismi colloquiali e libreschi, a forme letterarie e arcaizzanti. L’impasto eterogeneo accomuna, con esiti molto diversi, scrittori come Niccolò Tommaseo (Fede e Bellezza, 1a ed. 1840) e Ippolito Nievo (Confessioni di un italiano, 1a ed. postuma 1867); o scrittori dichiaratamente manzoniani come Cesare Cantù (Margherita Pusteria, 2a ed. 1845; Portafoglio d’un operaio, 1871), la cui scrittura però rimane fedele al modello della Ventisettana. Narrativa ottocentesca
  • 23. Anche le poetiche del realismo e l’esigenza del “vero” narrativo e linguistico si scontrano, nel periodo postunitario, col problema del rapporto tra i dialetti (la lingua «vera» e parlata da tutte le classi sociali) e un italiano medio comune ancora inesistente a livello nazionale. La scelta tuttavia ricade spesso verso una sorta di “vera finzione”, comune ad autori non toscani come il lombardo Cletto Arrighi, l’abruzzese Giuseppe Mezzanotte, la napoletana Matilde Serao..., che tentano di riprodurre l’oralità ricorrendo a colloquialismi toscani o a forme ricalcate sul dialetto, nel contesto di una scrittura complessivamente ancora tradizionale. Narrativa ottocentesca
  • 24. In alcuni autori è presente anche una certa sensibilità per le varietà di un repertorio nazionale che comincia a farsi più ricco e articolato: accanto ai dialetti affiorano l’italiano regionale, parlato da alcuni personaggi, o le commistioni di dialetto e italiano regionale, o ancora è imitato l’italiano popolare della scrittura dei semicolti, come nel Demetrio Pianelli (1890) del lombardo Emilio De Marchi, o in Piccolo mondo antico (1895), del veneto Antonio Fogazzaro. Narrativa ottocentesca

Editor's Notes

  1. “ha mestieri” = “ha bisogno”
  2. Nella sua Dissertazione sullo stato presente della lingua italiana del 1808 – 1809, Cesari propose quale esclusivo modello linguistico il tosco-fiorentino del Trecento, quindi arcaicizzante, rifacendosi a Bembo.
  3. Paolina Borghese (sorella di Napoleone Bonaparte) di Antonio Canova
  4. Rifiuta lo stile coupé (spezzato) non tanto per un ritorno dello stile ipotattico antico latineggiante (che in molti casi anzi cerca di evitare), quanto per l’uso preciso, filosofico appunto, dei connettivi e dell'ordine delle parole (in prosa non fa pochissimo ricorso all'inversione dell’ordine).
  5. Tommaseo nei suoi scritti intitolati Colloqui con Manzoni.
  6. E’ importante il concetto di lingua viva e intera!
  7. La grande svolta manzoniana del 1840 fu di fornire finalmente un modello di italiano letterario non solo letterario, ovvero un modello letterario del tutto nuovo del tutto in sintonia con gli usi moderni e correnti delle lingue parlate e quindi spendibile come tale: una lingua nazionale, come già detto viva e intera!