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Stampa standardizzazione
e norma dell’italiano
La spinta della stampa, le prime
grammatiche e la “questione della lingua”
Nelle corti quattrocentesche si apprezza e si
diffonde il toscano letterario del Trecento, le cui
opere sono presenti nelle biblioteche dei vari
signori. Questo processo subisce una spinta
decisiva con la grande rivoluzione tecnologica
del secolo: la stampa a caratteri mobili.
A partire dal 1470, a Milano, a Mantova, a
Venezia (il maggiore centro dell’editoria volgare)
vengono stampate e diffuse un gran numero di
copie dei classici della lingua volgare: il
Canzoniere di Petrarca, il Decameron di
Boccaccio e la Commedia di Dante.
Stampa dei classici in volgare
Nel Nord Italia la poesia lirica (specie quella di carattere
amoroso) adotta il modello petrarchesco nei temi, nelle
forme metriche e soprattutto nella lingua.
Tra i petrarchisti settentrionali più celebri (Niccolò da
Correggio, Serafino Aquilano, Gasparo Visconti) uno degli
esempi più rappresentativi è Matteo Maria Boiardo, che
opera nel fiorente centro culturale ferrarese-emiliano della
signoria estense.
Nelle sue opere i riflessi della koiné padana e l’influsso del
modello toscano variano a seconda del genere: negli
Amorum libri (il suo canzoniere composto tra 1469 e 1476)
l’adesione al genere lirico e al modello petrarchesco rende
Il modello toscano a Nord
la sua lingua molto più regolare e toscaneggiante sia rispetto al suo poema
cavalleresco Orlando innamorato (composto contemporaneamente al canzoniere) sia
rispetto alla prosa del suo Epistolario, che hanno una fisionomia decisamente più
padana e latineggiante.
Il modello toscano a Nord
Matteo Maria Boiardo, Amorum libri
Sonetto CXIII
Francesco Petrarca, Rerum vulgarium fragmenta
Sonetto CXXXIV
Ben fu mal’ora e maledetto punto,
disventurata festa e infausto gioco,
tempo infelice e sfortunato loco,
dove e quando ad amar prima fu’ giunto.
Da indi ogni piacer mi fu disgiunto:
ardo nel giazo ed agiazo nel foco,
e in doglia mi consuma a poco a poco
il venenoso stral che il cor m’ha punto.
Ahi dispietate stelle e crudel cielo,
se da voi forsi vien nostro distino,
e vostra forza noi qua giù governa.
Tante volte cangiaste il caldo al gelo,
La rosa al pruno; et io sempre meschino
mai non fui scosso da la doglia eterna.
Pace non trovo, et non ò da far guerra;
e temo, et spero; e ardo, e sono un ghiaccio;
et volo sopra 'l cielo, et giaccio in terra;
e nulla stringo, et tutto ‘l mondo abbraccio.
Tal m'à in pregion, che non m'apre né serra,
né per suo mi riten né scioglie il laccio;
e non m'ancide Amore, et non mi sferra,
né mi vuol vivo, né mi trae d'impaccio.
Veggio senza occhi, e non ò lingua et grido;
et bramo di perire, et chieggio aita;
e ò in odio me stesso, et amo altrui.
Pascomi di dolor, piangendo rido;
egualmente mi spiace morte e vita:
in questo stato son, donna, per voi.
Anche a Sud, e soprattutto a Napoli alla corte
aragonese, si sviluppa una poesia petrarchista
accanto a esperimenti di letteratura dialettale.
Tra i maggiori poeti operanti presso la corte
aragonese (Giovanni Aloisio, Giovan Francesco
Caracciolo, Francesco Galeota) uno dei più
linguisticamente controllati e impegnati
nell’opera di sprovincializzazione del proprio
volgare è Pietro Jacopo De Jennaro.
Egli nel suo Canzoniere (iniziato nel 1464) si
orienta su una lingua standardizzata, che usa
un vocabolario aulico attinto dal modello
petrarchesco che lascia pochissime tracce
della koiné regionale (per esempio la
metafonia di e e o toniche condizionate da -i, -
o finali come in fiuri, coluri, nui, vui, quillo,
quisto, dintro.)
Il modello toscano a Sud
Pietro Jacopo De Jennaro, Canzoniere
Dinanzi al viso d’un’alma regale
con quill’antico mio dolce signore
era mirando attento al suo valore,
poco apregiando il mundo cieco e frale,
quando udii dir: nel vincol maritale
presa è colei ch’al sol toglie splendore,
ond’io divenni come l’uom che more,
che cosa nulla a sua salute vale.
E come prima con suspir cantando
gioioso in fiamma vissi, omai piangendo
viverò fuor d’ogn’altra speme amando.
E per la vita e ‘l danno, e ‘l vero intendo,
che perfida fortuna a l’uom va quando
il vede andar i fiur lieto cogliendo
Molto significativa è anche l’Arcadia del napoletano Jacopo
Sannazzaro.
Quest’opera (un prosimetro di ambientazione pastorale che
ebbe molta fortuna) rappresenta il primo documento di
correzione linguistica in direzione toscaneggiante da parte di
un autore non toscano, verificabile attraverso il confronto tra le
due redazioni manoscritte dell’opera (1484-86 e 1500 circa).
La tendenza correttoria è poi incrementata dalla revisione
finale del testo, fatta dall’umanista Pietro Summonte, per la
prima edizione a stampa napoletana del 1504, che presenta
una veste linguistica sostanzialmente toscana (col passaggio,
per esempio, di forme come sopto a sotto, o voi udisti a voi
udiste).
Il modello toscano a Sud
La vicenda editoriale dell’Arcadia ci dimostra il peso sempre più decisivo che tra
Quattro e Cinquecento la stampa assume per la storia della lingua italiana, per la sua
unificazione scritta e la standardizzazione degli usi.
L'influsso della stampa si è attuato in tre principali direzioni:
• uniformazione della prassi grafica
• diffusione della lingua letteraria e, insieme, della norma grammaticale
• definitiva sostituzione di un modello fondato anche sull’oralità con un
altro fondato solo sulla scrittura
Stampa e standardizzazione
La lingua delle stampe quattrocentesche è ancora
ibrida e non unitaria, ma tipografi e revisori
editoriali cominciano a porsi il problema di una
regolarizzazione grafica e linguistica dei testi e
mostrano, in maniera episodica e non sistematica,
lo sforzo di un adeguamento al toscano
letterario.
Una prima vera standardizzazione consapevole e coerente,
avviene però col sodalizio tra il più importante stampatore
rinascimentale, Aldo Manuzio, e il letterato veneziano Pietro
Bembo.
Bembo applicò la sua grande esperienza di filologo umanista
alla stampa dei classici volgari: Le cose volgari (ovvero il
Canzoniere) di Petrarca esce a Venezia nel 1501, e le Terze
rime (la Commedia) di Dante nel 1502.
Aldo Manuzio e Pietro Bembo
Nel Petrarca stampato da Aldo Manuzio (il cosiddetto Petraca “aldino”), che Bembo
poté allestire giovandosi anche dell’autografo (l’attuale Vaticano latino 3195), le novità
tipografiche (come il carattere corsivo) e l'introduzione di criteri ortografici (segni di
interpunzione, apostrofo, accenti) si accompagnano a una veste linguistica che è ormai
quella su cui Bembo fonderà le indicazioni normative della sua opera fondamentale, le
Prose della volgar lingua.
Il modello boccacciano per la lingua della prosa è invece già
ben presente negli Asolani, il dialogo filosofico che Bembo
scrisse alla fine del Quattrocento e poi stampò da Manuzio nel
1505.
La revisione degli Asolani fatta da Bembo per la stampa
attesta la tendenza ad abbandonare forme venete e
latineggianti, ancora legate agli usi di koiné (come giazzo
‘ghiaccio’, fameglia ‘famiglia’), in favore degli usi letterari
fiorentini trecenteschi.
Gli Asolani
Questa tendenza apparirà ancora più sicuramente definita nell’edizione del 1530,
successiva alle Prose della Volgar Lingua. A questa data, infatti, gli aspetti linguistici e
formali delle opere letterarie in volgare appaiono ormai centrali e legati al ruolo
crescente che assume la stampa nella storia linguistica italiana.
Le Regole grammaticali della volgar lingua di Giovanni
Francesco Fortunio, uscite ad Ancona nel 1516 e subito
riedite a Milano (1517) e a Venezia (1518), furono di fatto la
prima grammatica volgare a stampa, ispirata ancora a
criteri umanistici e all'uso coevo, ma basata
fondamentalmente sulla lingua delle Tre Corone (Dante e
soprattutto Petrarca e Boccaccio).
Anche se non priva di incertezze e oscillazioni nelle
indicazioni normative, la grammatica di Fortunio rispondeva
alle richieste degli scriventi non toscani in cerca di una
norma di riferimento ed ebbe subito un largo successo di
pubblico, anche perché la sua struttura manualistica ne
facilitava la consultazione ai lettori meno colti.
Le Regole del Fortunio
Le Prose della volgar lingua di Bembo è il più importante e decisivo trattato
cinquecentesco sulla lingua italiana e sulla sua normalizzazione. Fu pubblicato a
Venezia nel 1525. Bembo, che già nel 1501, all’epoca del Petrarca aldino, progettava
«alcune notazioni della lingua», aveva già composto i primi due libri entro il 1512.
L’opera è dedicata a Giulio dei Medici (prima che fosse eletto papa nel 1523 con il nome
di Clemente VII), è composta da tre libri, in cui quattro personaggi storici (Carlo Bembo,
fratello di Pietro, Ercole Strozzi, umanista di Ferrara, Giuliano de' Medici duca di
Nemours e Federigo Fregoso, futuro cardinale) discutono sulla lingua volgare.
Il dialogo è collocato fittiziamente nel 1502, per rivendicare la priorità dell’opera rispetto
alle Regole grammaticali della volgar Lingua del friulano Giovanni Francesco Fortunio.
La distanza che separa le Regole dalle Prose tuttavia è enorme già dall’impianto
dell’opera di Bembo (un raffinato dialogo ciceroniano e non un freddo manuale
scolastico) e dalla sua destinazione (si rivolge a un pubblico di colti letterati).
Le Prose della volgar lingua
Nelle Prose della volgar lingua Bembo arriva a definire,
attraverso un raffinatissimo dialogo di impronta ciceroniana,
la retorica, la stilistica e la norma letteraria del volgare
(argomento del III libro) individuando la soluzione vincente
alla “questione della lingua”, cioè al dibattito del primo
Cinquecento su quale dovesse essere il modello
dell’unificazione linguistico-letteraria italiana.
Nelle Prose la fissazione della grammatica del volgare
letterario è sorretta da una forte consapevolezza teorica: i
fondamenti classicisti della norma vengono discussi e
giustificati, confutando altre posizioni espresse dagli
interlocutori, attraverso un dibattito serrato che occupa i
primi due libri.
Le Prose della volgar lingua
Sotto l'etichetta di teorie “cortigiane” si comprende una varietà̀ di posizioni, contrarie al
primato esclusivo tosco-fiorentino e accomunate dall’idea che il modello linguistico
avrebbe dovuto essere una lingua colta ed eclettica che unisse le esperienze delle koinè
sovraregionali usate nelle corti quattrocentesche.
Il principale teorico fu il letterato settentrionale Vincenzo Colli, detto il Calmeta (morto
nel1508), nel trattato Della volgar poesia, andato perduto, che conosciamo
principalmente attraverso le Prose bembiane. Secondo il Bembo, Calmeta indicava come
modello la lingua effettivamente usata alla corte romana, risultato del “mescolamento”
di varie lingue lì parlate, d’Italia e fuori d’Italia (come il francese e lo spagnolo), e
diventata “comune” alle “genti della corte”.
Anche Mario Equicola (morto nel1525), letterato meridionale vissuto principalmente nella
Mantova dei Gonzaga, nella prima redazione del suo Libro de natura de amore indica a
modello la lingua «cortesiana romana», dai caratteri colti, interregionali, latineggianti,
aperta agli apporti di altre lingue straniere. Nell’edizione a stampa dell'opera (1525)
parlerà di questa lingua come di «commune italica lingua».
Questione della lingua:
Teorie cortigiane/comuni/italiane
La teoria di una lingua «italiana, commune, copiosa e
varia» è espressa anche dal lombardo Baldassar
Castiglione (morto nel1529), nel suo fortunatissimo dialogo
Il Cortegiano, stampato a Venezia nel 1528, steso
dall’autore già nel 1524.
Tale teoria riflette l’ideale di una lingua per l’uomo di
corte, nobilmente eclettica e fondata sull’uso colto
contemporaneo: questa lingua doveva essere lontana sia
dal fiorentinismo letterario e arcaizzante, di cui gli Asolani
di Bembo potevano costituire l'esempio più elevato, sia
dalla sola «consuetudine del parlare toscano d’oggidì».
Questione della lingua:
Teorie cortigiane/comuni/italiane
Il più agguerrito esponente della teoria “italiana” e “comune”
fu il letterato e diplomatico vicentino Giangiorgio Trissino
(morto nel 1550).
La sua attività di trattatista e grammatico si collega alla sua
riscoperta del manoscritto del De vulgari eloquentia dantesco,
che fece conoscere agli intellettuali fiorentini, tra cui
Machiavelli, forse già̀ attorno al1514, e che poi pubblicò in
traduzione nel 1529.
Questione della lingua:
Teorie cortigiane/comuni/italiane
La nozione dantesca del volgare illustre, fraintesa e interpretata come teoria di una
lingua mista e composita, ricavata dalle forme migliori di ‘tutte le lingue d’Italia’, è
assunta come fondamento della sua teoria di una lingua illustre comune italiana. Tale
lingua era stata già usata dai grandi autori (come Dante e Petrarca), e non coincideva
col fiorentino, che costituiva solo una parte della lingua della tradizione letteraria (come
Trissino voleva dimostrare basandosi su un esame del lessico).
Trissino nel 1524 pubblicò alcune operette in cui introdusse anche una riforma grafica
(nella quale propone anche la reintroduzione di caratteri greci, come l’omega e la
epsilon per le o e le e aperte) che fu da subito avversata, soprattutto dai fiorentini.
Nel 1529 pubblicò Il Castellano (ambientato a Castel Sant'Angelo nel 1524), un dialogo
in cui il castellano Giovanni Rucellai espone e difende le sue idee.
Trissino è introdotto anche come interlocutore nel Dialogo della volgar lingua del
bellunese Pierio Valeriano, scritto probabilmente nel 1525 e ambientato alla corte
papale romana, di cui si satireggiano le nuove mode fiorentineggianti.
La teoria “italianista” trissiniana, appoggiata al fraintendimento del De vulgari
eloquentia, avrà lunga fortuna e troverà sostenitori ancora nel Settecento (Muratori,
Gravina) e nell'Ottocento (Monti, Perticari).
Questione della lingua:
Teorie cortigiane/comuni/italiane
Sotto il nome di teorie “fiorentiniste” e “toscaniste” si comprendono le
posizioni teoriche dei sostenitori del fiorentino vivo e del toscano, che
considerano la regolarità e la bellezza della lingua come dato intrinseco e
naturale, e non come fatto dovuto all'elaborazione letteraria.
Alla riforma ortografica trissiniana, appoggiata alla teoria della lingua “italiana
comune”, del 1524 seguirono le vivaci reazioni dei sostenitori delle teorie
“fiorentiniste”:
Lodovico Martelli affermava nella sua Risposta (ottobre-novembre 1524) il
primato del fiorentino come lingua «propia e naturale», e negava l’attribuzione
a Dante del De vulgari eloquentia e Claudio Tolomei col dialogo Cesano, de La
Lingua Toscana del 1525 propugnava la tesi di una sostanziale unità linguistica
dei volgari toscani.
Questione della lingua:
Teorie fiorentiniste e toscaniste
Ma il documento più notevole delle posizioni fiorentiniste
primo-cinquecentesche è il Discorso intorno alla nostra
lingua (1524) di Niccolò Machiavelli.
Il breve discorso rimase inedito fino al 1730, ma circolò
negli ambienti fiorentini. In esso viene svolta
un’appassionata difesa del fiorentino come lingua
naturalmente bella e superiore agli altri volgari italiani;
ma soprattutto viene dimostrata, attraverso un serrato
scambio dialogico con Dante, considerato il principale
punto di riferimento degli «inhonestissimi» teorici della
lingua curiale o italiana, la sostanziale e genuina
fiorentinità della lingua della Commedia, e la continuità
del fiorentino cinquecentesco con quello trecentesco.
Questione della lingua:
Teorie fiorentiniste e toscaniste
La dimostrazione di Macchiavelli si fonda, con straordinaria acutezza,
sull’importanza degli elementi fonomorfologici per caratterizzare un sistema
linguistico:
«Li Toscani fermano tutte le loro parole in su le vocali, ma li Lombardi e li
Romagnuoli quasi tutte le sospendono su le consonanti, come è pane e pan».
Nell’analisi per determinare se la lingua di Dante fosse lingua mista e artificiale
oppure fiorentina, Macchiavelli spiega che gli elementi lessicali, a differenza di
quanto crede Trissino, sono meno importanti di quelli fonomorfologici: tutte le
lingue infatti sono “miste”, poiché accolgono vocaboli dall'esterno, ma la
presenza di vocaboli «forestieri» non pregiudica la capacità di una lingua di
assimilarli e farli propri senza snaturarsi.
Questione della lingua:
Teorie fiorentiniste e toscaniste
Le Prose della volgar lingua costituiscono invece il manifesto del fiorentinismo
classicista e arcaizzante di Bembo.
Nel dialogo egli difende risolutamente, per bocca del fratello Carlo, suo
portavoce nel dialogo, il primato del fiorentino dei grandi scrittori
trecenteschi.
Gli altri interlocutori di Carlo sono i personaggi di Giuliano de’ Medici, figlio di
Lorenzo, che difende la tesi della supremazia del fiorentino moderno,
l’umanista Ercole Strozzi, sostenitore del latino contro il volgare, e il
provenzalista Federico Fregoso.
Nelle Prose viene rivendicata anzitutto la piena dignità del volgare rispetto al
latino e, in conformità alle premesse umanistiche, la funzione degli scrittori nel
nobilitare ed elevare la lingua.
Questione della lingua:
Teoria fiorentinista classicista arcaicizzante
I massimi esempi di scrittori volgari per Bembo sono Petrarca per la lingua poetica, e
Boccaccio per la prosa (escludendo le discese verso il registro basso di parti dell’opera),
mentre il giudizio su Dante è più limitativo per il forte pluristilismo della Commedia.
Anche Bembo, come l’Alberti, accetta la teoria dell’umanista Biondo Flavio, secondo cui
il volgare era sorto dalla corruzione del latino a causa delle invasioni barbariche e indica
nel Trecento il momento in cui il volgare era divenuto “regolato e gentile” per
l’elaborazione artistica dei grandi scrittori fiorentini e per l’influsso della letteratura
provenzale.
Questa nobilitazione letteraria, secondo Bembo, sarebbe poi decaduta nel corso del
Quattrocento, ma, seguendo principio ciceroniano dell’imitazione, che consisteva
nell’emulazione e nel superamento degli autori esemplari ammirati, gli scrittori del suo
tempo avrebbero potuto recuperare e sopravanzare la perfezione linguistica del
fiorentino trecentesco.
Questione della lingua:
Teoria fiorentinista classicista arcaicizzante
Vengono così respinte la letteratura e la lingua “cortigiana”, teorizzata dal Calmeta, i cui
scrittori «senza legge alcuna scrivono, senza avvertimento».
E allo stesso modo è netta la condanna per il fiorentino contemporaneo e per la
letteratura volgare aperta al “popolaresco uso” : «e viemmi talora in openione di
credere, che l’essere a questi tempi nato fiorentino, a ben volere fiorentino scrivere, non
sia di molto vantaggio».
Al centro della teoria bembiana sta infatti, secondo i presupposti classicisti, la
considerazione della lingua come fatto scritto, letterario e retorico («non si può dire
veramente lingua alcuna favella che non ha scrittori», distaccata dal presente e dall'uso
e collocata in una dimensione atemporale per poter aspirare all’eternità e
all’universalità: «La lingua delle scritture[...] non dee a quella del popolo accostarsi [...].
Non debbono gli scrittori por cura di piacere alle genti solamente, che sono in vita
quando essi scrivono [...] ma a quelle ancora, e molto più, che sono a vivere dopo di
loro».
Questione della lingua:
Teoria fiorentinista classicista arcaicizzante
Partendo da queste premesse, Bembo procedeva tracciando un articolato
esame stilistico e retorico dei modelli esemplari, per poi analizzarne, nel III
libro delle Prose, le scelte grammaticali.
In quest’ultimo libro le Prose si configurano non solo come difesa teorica della
posizione bembiana, ma anche come strumento pratico di regolamentazione e
unificazione linguistica.
La grammatica degli autori-modello diventa così fondamento delle sue
indicazioni normative: ad esempio, la 1a persona plurale del presente
indicativo deve sempre uscire in -iamo («non amamo valemo leggemo, ma
amiamo valiamo leggiamo si dee dire»), la 1a persona dell'imperfetto indicativo
deve uscire in -a (io amava), i pronomi lui/lei si devono usare solo nei casi
obliqui e non come soggetto ecc.
Questione della lingua:
Teoria fiorentinista classicista arcaicizzante

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  • 1. Stampa standardizzazione e norma dell’italiano La spinta della stampa, le prime grammatiche e la “questione della lingua”
  • 2. Nelle corti quattrocentesche si apprezza e si diffonde il toscano letterario del Trecento, le cui opere sono presenti nelle biblioteche dei vari signori. Questo processo subisce una spinta decisiva con la grande rivoluzione tecnologica del secolo: la stampa a caratteri mobili. A partire dal 1470, a Milano, a Mantova, a Venezia (il maggiore centro dell’editoria volgare) vengono stampate e diffuse un gran numero di copie dei classici della lingua volgare: il Canzoniere di Petrarca, il Decameron di Boccaccio e la Commedia di Dante. Stampa dei classici in volgare
  • 3. Nel Nord Italia la poesia lirica (specie quella di carattere amoroso) adotta il modello petrarchesco nei temi, nelle forme metriche e soprattutto nella lingua. Tra i petrarchisti settentrionali più celebri (Niccolò da Correggio, Serafino Aquilano, Gasparo Visconti) uno degli esempi più rappresentativi è Matteo Maria Boiardo, che opera nel fiorente centro culturale ferrarese-emiliano della signoria estense. Nelle sue opere i riflessi della koiné padana e l’influsso del modello toscano variano a seconda del genere: negli Amorum libri (il suo canzoniere composto tra 1469 e 1476) l’adesione al genere lirico e al modello petrarchesco rende Il modello toscano a Nord la sua lingua molto più regolare e toscaneggiante sia rispetto al suo poema cavalleresco Orlando innamorato (composto contemporaneamente al canzoniere) sia rispetto alla prosa del suo Epistolario, che hanno una fisionomia decisamente più padana e latineggiante.
  • 4. Il modello toscano a Nord Matteo Maria Boiardo, Amorum libri Sonetto CXIII Francesco Petrarca, Rerum vulgarium fragmenta Sonetto CXXXIV Ben fu mal’ora e maledetto punto, disventurata festa e infausto gioco, tempo infelice e sfortunato loco, dove e quando ad amar prima fu’ giunto. Da indi ogni piacer mi fu disgiunto: ardo nel giazo ed agiazo nel foco, e in doglia mi consuma a poco a poco il venenoso stral che il cor m’ha punto. Ahi dispietate stelle e crudel cielo, se da voi forsi vien nostro distino, e vostra forza noi qua giù governa. Tante volte cangiaste il caldo al gelo, La rosa al pruno; et io sempre meschino mai non fui scosso da la doglia eterna. Pace non trovo, et non ò da far guerra; e temo, et spero; e ardo, e sono un ghiaccio; et volo sopra 'l cielo, et giaccio in terra; e nulla stringo, et tutto ‘l mondo abbraccio. Tal m'à in pregion, che non m'apre né serra, né per suo mi riten né scioglie il laccio; e non m'ancide Amore, et non mi sferra, né mi vuol vivo, né mi trae d'impaccio. Veggio senza occhi, e non ò lingua et grido; et bramo di perire, et chieggio aita; e ò in odio me stesso, et amo altrui. Pascomi di dolor, piangendo rido; egualmente mi spiace morte e vita: in questo stato son, donna, per voi.
  • 5. Anche a Sud, e soprattutto a Napoli alla corte aragonese, si sviluppa una poesia petrarchista accanto a esperimenti di letteratura dialettale. Tra i maggiori poeti operanti presso la corte aragonese (Giovanni Aloisio, Giovan Francesco Caracciolo, Francesco Galeota) uno dei più linguisticamente controllati e impegnati nell’opera di sprovincializzazione del proprio volgare è Pietro Jacopo De Jennaro. Egli nel suo Canzoniere (iniziato nel 1464) si orienta su una lingua standardizzata, che usa un vocabolario aulico attinto dal modello petrarchesco che lascia pochissime tracce della koiné regionale (per esempio la metafonia di e e o toniche condizionate da -i, - o finali come in fiuri, coluri, nui, vui, quillo, quisto, dintro.) Il modello toscano a Sud Pietro Jacopo De Jennaro, Canzoniere Dinanzi al viso d’un’alma regale con quill’antico mio dolce signore era mirando attento al suo valore, poco apregiando il mundo cieco e frale, quando udii dir: nel vincol maritale presa è colei ch’al sol toglie splendore, ond’io divenni come l’uom che more, che cosa nulla a sua salute vale. E come prima con suspir cantando gioioso in fiamma vissi, omai piangendo viverò fuor d’ogn’altra speme amando. E per la vita e ‘l danno, e ‘l vero intendo, che perfida fortuna a l’uom va quando il vede andar i fiur lieto cogliendo
  • 6. Molto significativa è anche l’Arcadia del napoletano Jacopo Sannazzaro. Quest’opera (un prosimetro di ambientazione pastorale che ebbe molta fortuna) rappresenta il primo documento di correzione linguistica in direzione toscaneggiante da parte di un autore non toscano, verificabile attraverso il confronto tra le due redazioni manoscritte dell’opera (1484-86 e 1500 circa). La tendenza correttoria è poi incrementata dalla revisione finale del testo, fatta dall’umanista Pietro Summonte, per la prima edizione a stampa napoletana del 1504, che presenta una veste linguistica sostanzialmente toscana (col passaggio, per esempio, di forme come sopto a sotto, o voi udisti a voi udiste). Il modello toscano a Sud La vicenda editoriale dell’Arcadia ci dimostra il peso sempre più decisivo che tra Quattro e Cinquecento la stampa assume per la storia della lingua italiana, per la sua unificazione scritta e la standardizzazione degli usi.
  • 7. L'influsso della stampa si è attuato in tre principali direzioni: • uniformazione della prassi grafica • diffusione della lingua letteraria e, insieme, della norma grammaticale • definitiva sostituzione di un modello fondato anche sull’oralità con un altro fondato solo sulla scrittura Stampa e standardizzazione La lingua delle stampe quattrocentesche è ancora ibrida e non unitaria, ma tipografi e revisori editoriali cominciano a porsi il problema di una regolarizzazione grafica e linguistica dei testi e mostrano, in maniera episodica e non sistematica, lo sforzo di un adeguamento al toscano letterario.
  • 8. Una prima vera standardizzazione consapevole e coerente, avviene però col sodalizio tra il più importante stampatore rinascimentale, Aldo Manuzio, e il letterato veneziano Pietro Bembo. Bembo applicò la sua grande esperienza di filologo umanista alla stampa dei classici volgari: Le cose volgari (ovvero il Canzoniere) di Petrarca esce a Venezia nel 1501, e le Terze rime (la Commedia) di Dante nel 1502. Aldo Manuzio e Pietro Bembo Nel Petrarca stampato da Aldo Manuzio (il cosiddetto Petraca “aldino”), che Bembo poté allestire giovandosi anche dell’autografo (l’attuale Vaticano latino 3195), le novità tipografiche (come il carattere corsivo) e l'introduzione di criteri ortografici (segni di interpunzione, apostrofo, accenti) si accompagnano a una veste linguistica che è ormai quella su cui Bembo fonderà le indicazioni normative della sua opera fondamentale, le Prose della volgar lingua.
  • 9. Il modello boccacciano per la lingua della prosa è invece già ben presente negli Asolani, il dialogo filosofico che Bembo scrisse alla fine del Quattrocento e poi stampò da Manuzio nel 1505. La revisione degli Asolani fatta da Bembo per la stampa attesta la tendenza ad abbandonare forme venete e latineggianti, ancora legate agli usi di koiné (come giazzo ‘ghiaccio’, fameglia ‘famiglia’), in favore degli usi letterari fiorentini trecenteschi. Gli Asolani Questa tendenza apparirà ancora più sicuramente definita nell’edizione del 1530, successiva alle Prose della Volgar Lingua. A questa data, infatti, gli aspetti linguistici e formali delle opere letterarie in volgare appaiono ormai centrali e legati al ruolo crescente che assume la stampa nella storia linguistica italiana.
  • 10. Le Regole grammaticali della volgar lingua di Giovanni Francesco Fortunio, uscite ad Ancona nel 1516 e subito riedite a Milano (1517) e a Venezia (1518), furono di fatto la prima grammatica volgare a stampa, ispirata ancora a criteri umanistici e all'uso coevo, ma basata fondamentalmente sulla lingua delle Tre Corone (Dante e soprattutto Petrarca e Boccaccio). Anche se non priva di incertezze e oscillazioni nelle indicazioni normative, la grammatica di Fortunio rispondeva alle richieste degli scriventi non toscani in cerca di una norma di riferimento ed ebbe subito un largo successo di pubblico, anche perché la sua struttura manualistica ne facilitava la consultazione ai lettori meno colti. Le Regole del Fortunio
  • 11. Le Prose della volgar lingua di Bembo è il più importante e decisivo trattato cinquecentesco sulla lingua italiana e sulla sua normalizzazione. Fu pubblicato a Venezia nel 1525. Bembo, che già nel 1501, all’epoca del Petrarca aldino, progettava «alcune notazioni della lingua», aveva già composto i primi due libri entro il 1512. L’opera è dedicata a Giulio dei Medici (prima che fosse eletto papa nel 1523 con il nome di Clemente VII), è composta da tre libri, in cui quattro personaggi storici (Carlo Bembo, fratello di Pietro, Ercole Strozzi, umanista di Ferrara, Giuliano de' Medici duca di Nemours e Federigo Fregoso, futuro cardinale) discutono sulla lingua volgare. Il dialogo è collocato fittiziamente nel 1502, per rivendicare la priorità dell’opera rispetto alle Regole grammaticali della volgar Lingua del friulano Giovanni Francesco Fortunio. La distanza che separa le Regole dalle Prose tuttavia è enorme già dall’impianto dell’opera di Bembo (un raffinato dialogo ciceroniano e non un freddo manuale scolastico) e dalla sua destinazione (si rivolge a un pubblico di colti letterati). Le Prose della volgar lingua
  • 12. Nelle Prose della volgar lingua Bembo arriva a definire, attraverso un raffinatissimo dialogo di impronta ciceroniana, la retorica, la stilistica e la norma letteraria del volgare (argomento del III libro) individuando la soluzione vincente alla “questione della lingua”, cioè al dibattito del primo Cinquecento su quale dovesse essere il modello dell’unificazione linguistico-letteraria italiana. Nelle Prose la fissazione della grammatica del volgare letterario è sorretta da una forte consapevolezza teorica: i fondamenti classicisti della norma vengono discussi e giustificati, confutando altre posizioni espresse dagli interlocutori, attraverso un dibattito serrato che occupa i primi due libri. Le Prose della volgar lingua
  • 13. Sotto l'etichetta di teorie “cortigiane” si comprende una varietà̀ di posizioni, contrarie al primato esclusivo tosco-fiorentino e accomunate dall’idea che il modello linguistico avrebbe dovuto essere una lingua colta ed eclettica che unisse le esperienze delle koinè sovraregionali usate nelle corti quattrocentesche. Il principale teorico fu il letterato settentrionale Vincenzo Colli, detto il Calmeta (morto nel1508), nel trattato Della volgar poesia, andato perduto, che conosciamo principalmente attraverso le Prose bembiane. Secondo il Bembo, Calmeta indicava come modello la lingua effettivamente usata alla corte romana, risultato del “mescolamento” di varie lingue lì parlate, d’Italia e fuori d’Italia (come il francese e lo spagnolo), e diventata “comune” alle “genti della corte”. Anche Mario Equicola (morto nel1525), letterato meridionale vissuto principalmente nella Mantova dei Gonzaga, nella prima redazione del suo Libro de natura de amore indica a modello la lingua «cortesiana romana», dai caratteri colti, interregionali, latineggianti, aperta agli apporti di altre lingue straniere. Nell’edizione a stampa dell'opera (1525) parlerà di questa lingua come di «commune italica lingua». Questione della lingua: Teorie cortigiane/comuni/italiane
  • 14. La teoria di una lingua «italiana, commune, copiosa e varia» è espressa anche dal lombardo Baldassar Castiglione (morto nel1529), nel suo fortunatissimo dialogo Il Cortegiano, stampato a Venezia nel 1528, steso dall’autore già nel 1524. Tale teoria riflette l’ideale di una lingua per l’uomo di corte, nobilmente eclettica e fondata sull’uso colto contemporaneo: questa lingua doveva essere lontana sia dal fiorentinismo letterario e arcaizzante, di cui gli Asolani di Bembo potevano costituire l'esempio più elevato, sia dalla sola «consuetudine del parlare toscano d’oggidì». Questione della lingua: Teorie cortigiane/comuni/italiane
  • 15. Il più agguerrito esponente della teoria “italiana” e “comune” fu il letterato e diplomatico vicentino Giangiorgio Trissino (morto nel 1550). La sua attività di trattatista e grammatico si collega alla sua riscoperta del manoscritto del De vulgari eloquentia dantesco, che fece conoscere agli intellettuali fiorentini, tra cui Machiavelli, forse già̀ attorno al1514, e che poi pubblicò in traduzione nel 1529. Questione della lingua: Teorie cortigiane/comuni/italiane La nozione dantesca del volgare illustre, fraintesa e interpretata come teoria di una lingua mista e composita, ricavata dalle forme migliori di ‘tutte le lingue d’Italia’, è assunta come fondamento della sua teoria di una lingua illustre comune italiana. Tale lingua era stata già usata dai grandi autori (come Dante e Petrarca), e non coincideva col fiorentino, che costituiva solo una parte della lingua della tradizione letteraria (come Trissino voleva dimostrare basandosi su un esame del lessico).
  • 16. Trissino nel 1524 pubblicò alcune operette in cui introdusse anche una riforma grafica (nella quale propone anche la reintroduzione di caratteri greci, come l’omega e la epsilon per le o e le e aperte) che fu da subito avversata, soprattutto dai fiorentini. Nel 1529 pubblicò Il Castellano (ambientato a Castel Sant'Angelo nel 1524), un dialogo in cui il castellano Giovanni Rucellai espone e difende le sue idee. Trissino è introdotto anche come interlocutore nel Dialogo della volgar lingua del bellunese Pierio Valeriano, scritto probabilmente nel 1525 e ambientato alla corte papale romana, di cui si satireggiano le nuove mode fiorentineggianti. La teoria “italianista” trissiniana, appoggiata al fraintendimento del De vulgari eloquentia, avrà lunga fortuna e troverà sostenitori ancora nel Settecento (Muratori, Gravina) e nell'Ottocento (Monti, Perticari). Questione della lingua: Teorie cortigiane/comuni/italiane
  • 17. Sotto il nome di teorie “fiorentiniste” e “toscaniste” si comprendono le posizioni teoriche dei sostenitori del fiorentino vivo e del toscano, che considerano la regolarità e la bellezza della lingua come dato intrinseco e naturale, e non come fatto dovuto all'elaborazione letteraria. Alla riforma ortografica trissiniana, appoggiata alla teoria della lingua “italiana comune”, del 1524 seguirono le vivaci reazioni dei sostenitori delle teorie “fiorentiniste”: Lodovico Martelli affermava nella sua Risposta (ottobre-novembre 1524) il primato del fiorentino come lingua «propia e naturale», e negava l’attribuzione a Dante del De vulgari eloquentia e Claudio Tolomei col dialogo Cesano, de La Lingua Toscana del 1525 propugnava la tesi di una sostanziale unità linguistica dei volgari toscani. Questione della lingua: Teorie fiorentiniste e toscaniste
  • 18. Ma il documento più notevole delle posizioni fiorentiniste primo-cinquecentesche è il Discorso intorno alla nostra lingua (1524) di Niccolò Machiavelli. Il breve discorso rimase inedito fino al 1730, ma circolò negli ambienti fiorentini. In esso viene svolta un’appassionata difesa del fiorentino come lingua naturalmente bella e superiore agli altri volgari italiani; ma soprattutto viene dimostrata, attraverso un serrato scambio dialogico con Dante, considerato il principale punto di riferimento degli «inhonestissimi» teorici della lingua curiale o italiana, la sostanziale e genuina fiorentinità della lingua della Commedia, e la continuità del fiorentino cinquecentesco con quello trecentesco. Questione della lingua: Teorie fiorentiniste e toscaniste
  • 19. La dimostrazione di Macchiavelli si fonda, con straordinaria acutezza, sull’importanza degli elementi fonomorfologici per caratterizzare un sistema linguistico: «Li Toscani fermano tutte le loro parole in su le vocali, ma li Lombardi e li Romagnuoli quasi tutte le sospendono su le consonanti, come è pane e pan». Nell’analisi per determinare se la lingua di Dante fosse lingua mista e artificiale oppure fiorentina, Macchiavelli spiega che gli elementi lessicali, a differenza di quanto crede Trissino, sono meno importanti di quelli fonomorfologici: tutte le lingue infatti sono “miste”, poiché accolgono vocaboli dall'esterno, ma la presenza di vocaboli «forestieri» non pregiudica la capacità di una lingua di assimilarli e farli propri senza snaturarsi. Questione della lingua: Teorie fiorentiniste e toscaniste
  • 20. Le Prose della volgar lingua costituiscono invece il manifesto del fiorentinismo classicista e arcaizzante di Bembo. Nel dialogo egli difende risolutamente, per bocca del fratello Carlo, suo portavoce nel dialogo, il primato del fiorentino dei grandi scrittori trecenteschi. Gli altri interlocutori di Carlo sono i personaggi di Giuliano de’ Medici, figlio di Lorenzo, che difende la tesi della supremazia del fiorentino moderno, l’umanista Ercole Strozzi, sostenitore del latino contro il volgare, e il provenzalista Federico Fregoso. Nelle Prose viene rivendicata anzitutto la piena dignità del volgare rispetto al latino e, in conformità alle premesse umanistiche, la funzione degli scrittori nel nobilitare ed elevare la lingua. Questione della lingua: Teoria fiorentinista classicista arcaicizzante
  • 21. I massimi esempi di scrittori volgari per Bembo sono Petrarca per la lingua poetica, e Boccaccio per la prosa (escludendo le discese verso il registro basso di parti dell’opera), mentre il giudizio su Dante è più limitativo per il forte pluristilismo della Commedia. Anche Bembo, come l’Alberti, accetta la teoria dell’umanista Biondo Flavio, secondo cui il volgare era sorto dalla corruzione del latino a causa delle invasioni barbariche e indica nel Trecento il momento in cui il volgare era divenuto “regolato e gentile” per l’elaborazione artistica dei grandi scrittori fiorentini e per l’influsso della letteratura provenzale. Questa nobilitazione letteraria, secondo Bembo, sarebbe poi decaduta nel corso del Quattrocento, ma, seguendo principio ciceroniano dell’imitazione, che consisteva nell’emulazione e nel superamento degli autori esemplari ammirati, gli scrittori del suo tempo avrebbero potuto recuperare e sopravanzare la perfezione linguistica del fiorentino trecentesco. Questione della lingua: Teoria fiorentinista classicista arcaicizzante
  • 22. Vengono così respinte la letteratura e la lingua “cortigiana”, teorizzata dal Calmeta, i cui scrittori «senza legge alcuna scrivono, senza avvertimento». E allo stesso modo è netta la condanna per il fiorentino contemporaneo e per la letteratura volgare aperta al “popolaresco uso” : «e viemmi talora in openione di credere, che l’essere a questi tempi nato fiorentino, a ben volere fiorentino scrivere, non sia di molto vantaggio». Al centro della teoria bembiana sta infatti, secondo i presupposti classicisti, la considerazione della lingua come fatto scritto, letterario e retorico («non si può dire veramente lingua alcuna favella che non ha scrittori», distaccata dal presente e dall'uso e collocata in una dimensione atemporale per poter aspirare all’eternità e all’universalità: «La lingua delle scritture[...] non dee a quella del popolo accostarsi [...]. Non debbono gli scrittori por cura di piacere alle genti solamente, che sono in vita quando essi scrivono [...] ma a quelle ancora, e molto più, che sono a vivere dopo di loro». Questione della lingua: Teoria fiorentinista classicista arcaicizzante
  • 23. Partendo da queste premesse, Bembo procedeva tracciando un articolato esame stilistico e retorico dei modelli esemplari, per poi analizzarne, nel III libro delle Prose, le scelte grammaticali. In quest’ultimo libro le Prose si configurano non solo come difesa teorica della posizione bembiana, ma anche come strumento pratico di regolamentazione e unificazione linguistica. La grammatica degli autori-modello diventa così fondamento delle sue indicazioni normative: ad esempio, la 1a persona plurale del presente indicativo deve sempre uscire in -iamo («non amamo valemo leggemo, ma amiamo valiamo leggiamo si dee dire»), la 1a persona dell'imperfetto indicativo deve uscire in -a (io amava), i pronomi lui/lei si devono usare solo nei casi obliqui e non come soggetto ecc. Questione della lingua: Teoria fiorentinista classicista arcaicizzante

Editor's Notes

  1. Gutenberg, tedesco di Magonza, ispirandosi ad un torchio per l'uva, inventò la stampa a caratteri mobili. Dopo un anno di sperimentazioni, stampò il primo libro: la Bibbia di Gutenberg. La lavorazione venne ultimata il 23 febbraio 1455 con una tiratura di 180 copie.
  2. Dal punto di vista tematico i due sonetti hanno in comune il tema dell’amore doloroso che porta l’amante ad un dissidio interiore che lo lacera. La struttura sintattica dei periodi è simile (le frasi coincidono con le quartine e le terzine) e sono comuni i parallelismi tra elementi complementari o opposti inseriti nello stesso verso (disventurata festa e infasto gioco, tempo infelice e sfortunato loco) addirittura la stessa immagine “ardo nel giaccio e agiaccio nel foco” (zo e zi invece di ccio e ci sono voci di koiné settentrionale). Il lessico è toscanizzato: per esempio la parola “punto” in milanese era “ponto”.
  3. Alcune parole più ricercate sono prese dal modello petrarchesco (alma ‘anima’ o frale ‘fragile’), altre sono latineggianti (more senza dittongo o mundo invece di mondo). Le uniche tracce del dialetto sono quillo e fiuri nell’ultimo verso.
  4. Sannazzaro è un altro poeta petrarchista di spicco nella Napoli del secondo Quattrocento. L’Arcadia è un prosimetro di ambientazione pastorale. Il poeta aveva fin dal 1480 delle ecloghe in versi di ispirazione classica (Virgilio, Teocrito), e col tempo attorno a queste aggregò le altre ecloghe e le parti in prosa; il testo è oggi costituito da 12 ecloghe e 12 prose, più un congedo intitolato Alla sampogna.
  5. Con la pubblicazione delle Terze rime di Dante nel 1502, comparve anche un simbolo raffigurante un'ancora con un delfino, immagine che Manuzio aveva ricavato da un'antica moneta romana donatagli da Pietro Bembo: l'ancora stava a indicare la solidità, il delfino la velocità. Rapidamente, in tutt'Europa, i suoi volumi furono conosciuti con il nome di "edizioni Aldine".
  6. Sono dialoghi sull’amore sul modello di Cicerone ambientati ad Asolo (una cittadina del Veneto): Libro I - Perottino: l'amante infelice; Libro II - Gismondo: l'amante felice; Libro III - Lavinello: confuta le tesi precedenti, sostiene la teoria dell'amore platonico; Libro III - Lavinello racconta di un savio romito, che espone una dottrina dell'amore ispirata all'ascetismo cristiano.
  7. Carlo Bembo: tesi di Pietro Bembo fiorentinista classicista arcaicizzante Giuliano de'Medici: fiorentino in uso Federigo Fregoso: tradizione del volgare; Ercole Strozzi: latino
  8. La “questione della lingua” è al dibattito del primo Cinquecento su quale dovesse essere il modello dell’unificazione linguistico-letteraria italiana. “eclettico” significa senza un preciso indirizzo Ma è probabile che la testimonianza del Bembo fosse tendenziosa, e che Calmeta, come interpreta il Castelvetro nelle Giunte alle Prose, volesse piuttosto riferirsi alla lingua poetica: essa doveva essere imparata prima sui modelli fiorentini trecenteschi, in particolare su Dante e Petrarca, e poi doveva essere conguagliata e ‘affinata’ sull’uso della corte romana.
  9. Castiglione prese spunto dalla sua esperienza come cortigiano della duchessa Elisabetta Gonzaga alla corte di Urbino. L’opera è un dialogo in quattro libri e descrive usi e costumi ideali del perfetto cortigiano. Il libro fu un successo immediato e fu uno dei libri più venduti nel sedicesimo secolo e dettò la moda e costumi dell’epoca (Raffaello i nobili ritratti sono spesso vestiti di nero). Durante la sua visita in Italia Francesco I di Francia lo lesse e ne fu così impressionato da farlo tradurre in francese.