Racconti: Un ultimo sguardo...e poi nulla - Galilei Nardò
1. UN ULTIMO SGUARDO…E POI NULLA
Grazie, Dio. Ogni mattina, al risveglio, il mio primo pensiero era quello: ringraziare Dio per un
giorno di vita in più concessomi su questa terra. Un giorno di vita in più da trascorrere con mio
figlio e mia moglie. Qualche ora di vita in più per osservare l’azzurro del cielo.
Si, un bel ringraziamento ci vuole quando ti rendi conto che sei ancora vivo e che puoi ancora
alzarti, fare colazione, giocare a palla la domenica con gli amici d’infanzia, prolungare di qualche
ora la tua permanenza su questo pianeta. Si, perché quando fai un mestiere come il mio ogni
giorno in più è una conquista. Ogni giorno in più è una vittoria, un premio.
Si, perché quando sei un minatore non sai mai se a fine turno potrai rivedere la luce del sole.
Anzi, non sai nemmeno se arriverai alla fine del turno.
Grazie, Dio. E subito un altro sentimento si affaccia nel mio cuore: speranza. Speranza di tornare
nuovamente a casa la sera. Di rivedere ancora i tuoi cari, perché non sai mai quale sarà l’ultima
mattina in cui vedrai il loro sguardo assonnato. Ogni mattina potrebbe essere l’ultima.
E io lo sapevo bene …
Quella mattina c’era il sole. Erano le 5:01 di una serena giornata di fine marzo. Mi ero svegliato
prima del solito a causa di uno spiraglio di luce proveniente dalla finestra.
Incameriamo più luce e aria possibile prima di rientrare in quella fogna – ho pensato, perché subito
dopo la solita routine, sarei dovuto andare a lavoro, rintanarmi sotto terra per due terzi del giorno,
e non avrei rivisto la luce per un bel po’, se non fino al giorno dopo. Meglio approfittarne.
Ero più assonnato del solito quel giorno, ma d’altronde il lunedì non è mai semplice per nessuno.
Afferrate un paio di fette di pane al volo e dato un ultimo sguardo al mio comodo letto, con un
sospiro presi la mia attrezzatura, diedi un bacio a mia moglie e a mio figlio che ancora dormivano e
uscii di casa, rassegnato all’idea di camminare per 3 km per raggiungere il luogo delle mie torture
quotidiane.
Il piccone e le funi pesavano sulla spalla.
Giunto sul posto, ero già senza fiato. I miei polmoni ormai erano irrimediabilmente danneggiati a
causa di quelle polveri che ero costretto a respirare tutto il giorno, anche se presto ci si faceva
l’abitudine. Salutati i miei compagni di sventure, senza dire altro mi preparai a varcare quel buco
oscuro che mi avrebbe condotto nelle profondità dell’inferno.
Prima inizi e prima ti dimenticherai di quello che stai facendo.
Il mio compito era quello di estrarre carbone. Tonnellate e tonnellate di carbone. Tutto sommato il
silenzio e la solitudine mi piacevano laggiù, mi permettevano di annullarmi e perdermi nei miei
pensieri, di rendere le miei azioni ormai degli automatismi. Le ore passavano lentamente, scandite
solo dal passaggio dei carrelli trasportatori mandati su dai compagni che lavoravano più in fondo.
Non avevo la più pallida idea di che ora fosse quando successe una cosa mai accaduta prima. Il
capo venne a chiamarmi : avevo una visita. Ero stupito, perché non ricevevo mai visite sul posto di
lavoro. Generalmente la miniera tendeva a incutere timore nella gente che, se aveva qualcosa da
dirmi, preferiva venire a trovarmi a casa. Improvvisamente però ricordai che quel giorno non sarei
rientrato a dormire. Turno notturno,orario continuato. Avrei dovuto dormire in miniera, circondato
dall’odore nauseante che inalavo durante tutto il giorno. Abbandonai con sconforto l’idea del mio
letto. Fantastico.
Chi era venuto a trovarmi lì, dunque, evidentemente non poteva aspettare due giorni. Ero curioso.
Uscire alla luce del sole, dopo che i miei occhi erano stati tante ore al buio,fu come se una lama
incandescente trapassasse senza pietà le pupille. Dolore. Si,perché quando uscivo, generalmente
accadeva di notte. A giudicare dalla posizione del sole dovevano essere più o meno le due del
pomeriggio.
2. E poi eccolo lì, il mio visitatore segreto: mio figlio. Dietro di lui, a una decina di metri di distanza,
c’era mia moglie. Non l’avevo notata. Il bambino aveva un’aria colpevole, quasi si vergognasse di
essere lì. E non potevo biasimarlo. Sapeva quanto era pericoloso, e sapeva anche quanto io
odiassi quel posto. Ma quando alzò il viso e mi guardò, mi sorrise, quasi a scusarsi e poi mi porse
un biglietto. Mio figlio era uno di poche parole, come me.
– Buon compleanno, papà.
Mi abbracciò velocemente e corse dalla madre.
Era il mio compleanno. Me ne ero completamente scordato.
Scioccato dalla improvvisa rivelazione, restai per qualche secondo impietrito a contemplare quel
biglietto. Sollevai poi lo sguardo e con la mano salutai la mia famiglia che si allontanava, mia
moglie col piccolo preso per mano.
Ebbi una stranissima morsa al cuore, una strana sensazione.
Come se sapessi che quella sarebbe stata l’ultima volta in cui li avrei rivisti.
Rientrai in miniera stordito e, quasi come in trans raggiunsi il cunicolo in cui mi trovavo, per
proseguire il mio lavoro. Posai il biglietto per terra, accanto alla mia roba.
Lo osservai: c’era una torta di compleanno abbozzata piuttosto bene per essere opera di un
bambino di 5 anni e affianco c’era un omino dai capelli a punta che probabilmente ero io. Lo
guardai un’ultima volta e sorrisi prima di riprendere a picconate la pietra.
Le ore passavano. Lente e inesorabili. Qualcosa però iniziava a non andare. Ah, certo: l’aria.
Proseguendo più in profondità poteva capitare di avvertire odore di gas nell’ambiente. Ormai ci
avevo quasi fatto l’abitudine, mi provocava solo qualche capogiro. Erano cose normali, in miniera.
Le maschere antigas costavano troppo e il capo non voleva spendere del denaro inutilmente per
noi. Quell’odore era strano però. Non era il tipico odore di uova marce, no. Era diverso.
La testa ora mi girava sul serio.
Poi ecco. Tutto accadde in un secondo.
Il piccone mi scivolò di mano e, urtando contro la roccia, aveva provocato delle scintille.
Troppo tardi, in un attimo di lucidità, capii cos’era quell’odore.
Ebbi solo il tempo di lanciare un ultimo sguardo a quel biglietto colorato ricevuto poche ore prima
in modo così inaspettato e involontariamente sorrisi, mentre l’inferno si scatenava.
Un tremendo boato e poi il nulla.
Maria, prenditi cura di Giacomo. E non preoccuparti, sei una donna in gamba e non avrai problemi
a sostituirmi, ne sono sicuro. E tu, Giacomo, prenditi cura della mamma. Diventerai un grande
uomo, lo sai vero? Obbedisci e non farla arrabbiare, mi raccomando.
Non piangete per me, io starò bene. Volevo solo che sapeste che il mio ultimo pensiero è stato per
voi, per quell’immagine meravigliosa che mi avete regalato: i miei due gioielli più preziosi insieme.
Vi voglio bene.
Anna MACERI
Classe IVB Liceo Scientifico “ Galilei” – NARDO’