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Sceneggiatura teatrale
THE TRUE COST
Scena 1
[Una stanza buia e angusta. Layla è seduta su una sedia logora, sola con i suoi pensieri]
LAYLA: [Guardando fisso nel vuoto, con voce carica di dolore] Sono Layla. Ho lasciato l'Etiopia dietro di me,
un fardello di speranze infrante e desideri non realizzati.
[Sullo schermo compare un’immagine dell’Etiopia]
Speravo in una vita migliore qui, in Italia. Speravo in un futuro luminoso, come le stelle nella notte
della mia terra natale.
[Sullo schermo compare l’immagine di un cielo stellato]
Ma invece... invece ho trovato solo oscurità. Un buio così profondo da soffocare persino la mia
anima.
[Ha un momento di pausa, stringendo le mani con forza]
[Con un sospiro] Lavoravo nelle fabbriche, cucendo abiti per ricchi e famosi.
[Layla prende in mano un abito appena cucito]
Col tempo le mie mani si erano logorate, consumate dalla monotonia del lavoro, ma il mio spirito...
il mio spirito era spezzato. Come un filo sottile che si rompe sotto il peso delle aspettative e delle
delusioni.
E qui, in questa Italia [Sullo schermo compare un’immagine dell’Italia] che doveva essere la mia salvezza,
mi ritrovo a lottare ancora. Il lavoro mi strappa via pezzo dopo pezzo, mi consuma lentamente fino
a lasciarmi vuota dentro. Peggio di come era prima.
Sono incollata ai macchinari giorno e notte, fin quasi all'alba, immersa nella penombra di questa
scomoda stanza della fabbrica illuminata solo dalle luci fioche delle macchine da cucire. Ogni
puntino della macchina è un passo avanti, un granello di speranza tessuto con ogni filo. Ormai, è il
ticchettio costante degli aghi sulla stoffa a scandire il mio tempo.
Lavoro anche con una certa dedizione, con la precisione di un orologiaio. Ogni cucitura, ogni
rifinitura è eseguita con la massima cura. È il mio modo di dimostrare il mio valore, di sfidare il
destino avverso che ha segnato la mia vita fin dall'inizio.
[La voce trema leggermente. Si alza in piedi, visibilmente agitata]
E poi... poi è successo. Mentre lavoravo alla macchina da cucire il filo si è impigliato, trascinandosi
dietro il mio destino. Nel tentativo frenetico di liberarlo, il mio dito è stato inghiottito dalle affilate
lame metalliche, tagliando attraverso la mia carne come se fossi un pezzo di stoffa da scartare.
[Dopo aver parlato si risiede al suo posto]
Da quel maledetto giorno, ogni volta che torno a casa attraverso la porta con fatica, cercando di
nascondere il dolore che mi consuma dentro, perché ho dei figli da accudire. Mentre i miei tre
tesori corrono incontro a me con sorrisi radiosi, sento il mio cuore stringersi nel petto. Vorrei tanto
poter mantenere la mia solita gioia, ma il dolore nel mio dito ferito è insopportabile.
Mi siedo, cercando di sorridergli, ma so che i miei occhi tradiscono la mia sofferenza. I miei figli,
Hassan, Fatima e Amir, mi guardano con occhi pieni di amore e fiducia, ignari del peso che sto
portando sulle mie spalle.
"Come è stata la scuola oggi?" chiedo loro, cercando di distogliere l'attenzione dal mio dolore.
Mentre mi raccontano delle loro giornate, faccio del mio meglio per ascoltarli con attenzione, ma
la mia mente è annebbiata dalle preoccupazioni per il futuro.
Preparo la cena con le mie mani tremanti, cercando di mettere insieme qualcosa di nutriente per i
miei figli. "Abbiamo couscous stasera" dico loro con un sorriso forzato. "Mangeremo insieme, come
sempre".
Ma mentre li guardo mangiare con appetito, il peso delle mie responsabilità mi schiaccia. Come
farò a mantenerli ora che il mio lavoro è compromesso? Come garantirò loro un futuro migliore?
Quando i miei figli vanno a letto, resto seduta in cucina, sola con i miei pensieri. Le lacrime
scivolano silenziosamente lungo le mie guance mentre prego per trovare la forza di andare avanti.
È così difficile, sai? [Rivolgendosi al pubblico, con un sorriso amaro] Guardo i miei figli e vedo i loro sogni
brillare nei loro occhi, ma mi sento impotente. Uno di loro vuole essere un infermiere [Sullo schermo
compare l’immagine del camice da infermiere], un altro un artista [Sullo schermo compare l’immagine dei pennelli
dell’artista] e un altro ancora un insegnante [Sullo schermo compare l’immagine di una penna e di un foglio].
Sono sogni così belli… spero davvero che possano realizzarli, ma come posso aiutarli? Con il mio
dito infortunato come posso aiutarli?
Davvero, come posso aiutarli? [Rivolgendosi al pubblico, come se stesse chiedendo aiuto]
Forse devo chiedere aiuto. Forse ci sono risorse là fuori che possono aiutarmi. Forse c'è ancora
speranza. Per voi, figli miei, voi che siete la mia ragione di vita, la mia luce nella tempesta. Troverò
un modo.
[Le luci si spengono. Poi, per qualche secondo, lo schermo si illumina di verde, a simboleggiare la speranza che anima
Layla]
Scena 2
[Una stanza buia e angusta. Tara è seduta su una sedia logora, come Layla]
TARA: Guardate il mio viso, consumato dalla fatica e dal dolore. Sono Tara, la vedova di un
agricoltore indiano. La mia storia è una storia di sofferenza, di ingiustizia, di distruzione.
[Sospira pesantemente; poi si alza e va verso lo schermo, dove viene proiettata un’immagine dei campi]
Mio marito, un uomo forte e dignitoso, ha lottato una battaglia contro l'industria del cotone
transgenico. Il suo campo, una volta fiorente di vita e speranza, è stato contaminato da coltivazioni
manipolate geneticamente, imposte dalle grandi aziende che si arricchiscono alle spalle dei piccoli
agricoltori.
[Sullo schermo compare l’immagine del cotone OGM]
Ha combattuto con tutte le sue forze per difendere la nostra terra, per mantenere viva la nostra
cultura agricola tradizionale. Ma le pressioni erano troppo forti, il sistema era troppo ingiusto. Ha
subito una serie di fallimenti finanziari, ha visto il suo lavoro andare in rovina, ha visto la sua
famiglia soffrire.
E io… io sono rimasta lì, a guardare impotente mentre lui si spezzava dentro. Mentre la terra che
amava tanto veniva avvelenata, mentre le sue speranze venivano distrutte una dopo l'altra.
Quando ha capito di non avere più un futuro, quando ha sentito il peso dell'umiliazione e della
disperazione, quando ha capito che non c’era più nulla da perdere, ha deciso di porre fine alla sua
sofferenza. Si è tolto la vita, lasciandomi sola, con il peso del dolore e della perdita.
[Si fa silenzio per alcuni secondi. Poi Tara torna a sedersi]
Io, poi, sono fuggita dal mio paese, dalla mia terra devastata, insieme ai miei quattro figli, sperando
di trovare qui in Italia un rifugio, una speranza. Ma invece, mi sono ritrovata circondata da estranei
che non capiscono il mio dolore. E il clima… il clima qui dentro è più freddo di ogni inverno che
abbia mai provato. Il freddo dell'indifferenza, della solitudine, della disperazione.
Poveri figli miei, costretti ad una vita di stenti. La piccola era costretta a venire con me al lavoro e a
passare in fabbrica tutto il tempo. A volte, mi toccava legarla ad una corda, perché poteva
allontanarsi, mentre io dovevo cucire. Si, cucire. Senza interruzioni. Sapevo che altrimenti mi
avrebbero licenziata. E poi, quei poveri figli a respirare tutto il giorno questi veleni…
Eppure, i colori di questi vestiti sono così belli.
[Dalla cesta posizionata per terra, ai suoi piedi, prende in mano dei tessuti colorati e li esibisce al pubblico. Poi, sempre
rivolgendosi al pubblico, chiede:]
Che cosa ne pensate? Non sono belli? E poi, costano così poco… in fondo, a chi importa delle
sofferenze che ci sono dietro?
Il prezzo che vedete incollato sull’etichetta di questi vestiti non è vero… il vero prezzo, voi, non
potete vederlo e non lo vedrete mai. Il vero prezzo è quello pagato dai piccoli agricoltori oppressi,
dalle vedove come me, dai bambini costretti al lavoro anziché all'istruzione.
[Vi sono alcuni secondi di silenzio, per far riflettere]
Ma ciò che mi spezza il cuore ancora di più è vedere come il mondo volteggi intorno a queste
ingiustizie, ignorando il dolore che ci affligge. I media raccontano storie di progresso e sviluppo, ma
non vedono la nostra realtà nascosta dietro le luci abbaglianti della società consumistica.
E così mi ritrovo qui, sola in questa stanza buia, a condividere la mia storia con voi che forse, forse,
potreste ascoltare e capire.
Sono stanca, così stanca di lottare contro un mondo sordo. Ma non resterò in silenzio. Devo alzare
la mia voce per coloro che non possono farlo, per coloro che sono stati sopraffatti dalla crudeltà di
un mondo che valorizza il profitto più della vita umana.
[Stringe i tessuti colorati contro il petto e sospira pesantemente, come se stesse trattenendo le lacrime]
Vorrei tanto vedere qualcuno che, passando per i negozi, non si fermi per guardare i vestiti, il finto
prezzo sulla loro etichetta, i loro colori brillanti… ma che si fermi per pensare a ciò che c’è dietro
quei vestiti, a ciò che non può vedere, ad immaginare il vero prezzo di quegli abiti… anche per un
solo secondo.
Ve lo chiedo per favore, non girate lo sguardo di fronte a questa realtà crudele. Non lasciatevi
assordare dal rumore del consumismo. Non dimenticate il vero costo di ciò che indossate.
Non possiamo permetterci di restare indifferenti di fronte alla sofferenza degli altri.
Ve lo chiedo per favore, ascoltatemi… ascoltateci.
[Tara chiude gli occhi e le luci si spengono. Poi, per qualche secondo, lo schermo si illumina di azzurro, a simboleggiare
la tristezza di Tara]
Scena 3
[La scena si apre con un'atmosfera opprimente, con il personaggio al centro del palcoscenico seduto su una sedia
logora, circondato da strisce di tessuto nero/grigio che pendono dal soffitto fino a terra, creando l'illusione delle sbarre
di una gabbia]
JASMINE: Guardate dentro di me e vedrete solo i cocci di un sogno infranto. Un sogno dipinto con
colori vividi di speranza, ma ora macchiato di rosso, il rosso del mio sangue versato su queste
strade desolate.
[Prende fiato e inizia a raccontare la sua storia]
Sin da quando ero bambina, ho coltivato un sogno nel mio cuore. Sognavo di camminare sulle
passerelle sfavillanti di Bollywood, insieme alle persone famose.
[Sullo schermo compare un’immagine di Bollywood]
Guardavo i Film di Bollywood e rimanevo estasiata. I colori, i ricami di quegli abiti… li guardavo e mi
dicevo: “si, un giorno sarò proprio io a indossarne uno e sarà bellissimo, come me”.
Mi immaginavo famosa mentre tutti i fotografi mi immortalavano.
Immaginavo di indossare abiti scintillanti, di danzare tra le luci accecanti e di sentire l'applauso
caloroso di migliaia di persone. Mi dicevano che ero così bella…
Ma lì, nel mio paese, non ci potevo stare. La vita era un'incessante lotta contro la povertà e le
ingiustizie. La nostra famiglia faceva parte di quelle caste considerate "inferiori", dove le
opportunità erano poche e la discriminazione era palpabile in ogni aspetto della vita quotidiana.
Non c'era un briciolo di possibilità di realizzare il mio sogno, di aspirare a qualcosa di più grande. Le
strade erano sbarrate, le porte chiuse.
[Jasmine fissa il pavimento e vi sono alcuni secondi di silenzio. Poi rialza il capo, sospira e prosegue il racconto]
E così decisi di intraprendere un viaggio verso l'ignoto, verso un luogo dove speravo di trovare più
opportunità, più speranza per il futuro mio e dei miei figli. L'Italia, con le sue promesse di
prosperità e libertà, è diventata la mia meta, la mia speranza.
[Sullo schermo appare un’immagine dell’Italia]
Eppure, anche qui, ho scoperto che i sogni non sono mai così facili da realizzare. Anzi… ora quei
sogni sono come frammenti di vetro tagliente che mi feriscono ogni giorno. Mi hanno detto che
l'Italia era la terra delle opportunità, il luogo dove i miei sogni avrebbero preso il volo. E invece,
sono atterrata in un inferno di abusi e sfruttamento, dove il mio corpo è stato ridotto a una merce
da vendere al miglior offerente.
[Si sentono eco distanti di voci che sussurrano parole di inganno e menzogna]
Mi parlavano di quel mondo di luci e colori come se fosse mio per diritto… un'illusione che si è
dissolta come nebbia al sole.
Le mie speranze sono state strappate via come petali di un fiore calpestato, lasciandomi sola e
vulnerabile in un deserto di disperazione.
[Sullo schermo compare l’immagine di una rosa appassita]
Ogni notte, chiudo gli occhi e cerco di scacciare i fantasmi di ciò che è stato.
Ma non importa quanto forte chiuda le palpebre, quelle immagini riaffiorano spietate nella mia
mente.
[La luce si attenua gradualmente, lasciando Jasmine avvolta nell'oscurità]
Mi sento come una rondine ferita, intrappolata in una gabbia, incapace di volare via verso la
libertà. I miei sogni sono diventati solo una trappola che mi tiene legata al suolo, mentre il mondo
intorno a me continua a girare, indifferente alla mia sofferenza.
Ma… la perdita più devastante è stata quella della mia dignità. Qui, in Italia, ho visto e vedo tutt’ora
sfumare lentamente ogni briciola di rispetto e valore per me stessa, mentre vengo trattata come
un oggetto da usare e gettare via.
Giorno dopo giorno mi sento scivolare via la dignità, come la sabbia tra le dita, mentre vengo
ridotta a una figura senza volto, senza voce, senza alcun diritto.
Ho imparato a sopportare gli sguardi sprezzanti, le parole taglienti, le mani che violano il mio
corpo.
[Jasmine si stringe le braccia intorno al corpo, come se volesse proteggere il suo corpo, già lacerato]
Un guscio vuoto, insignificante… ecco quello che rimane di me, ecco.
[Rivolge le mani verso il proprio corpo, mostrandolo al pubblico]
Eppure... eppure qualcosa dentro di me si rifiuta di arrendersi. Qualcosa dentro di me continua a
bruciare, a sussurrare che c'è ancora speranza.
[Un raggio di luce illumina leggermente Jasmine]
Non sarò silenziosa. Urlerò, urlerò fino a perdere la voce affinché il mondo possa sentirmi.
Forse un giorno, chissà, avrò l'opportunità di indossare un abito come quelli dei miei sogni. Forse
un giorno potrò camminare su un tappeto rosso, circondata dai flash delle macchine fotografiche.
Ma finché quel giorno arriverà, continuerò a lottare, sappiatelo. Perché il mio sogno, il MIO sogno
è come una stella nel cielo, una luce che mi guida nelle notti più buie. E non si spegnerà mai.
Sono Jasmine, non solo una vittima, ma una guerriera.
[Le luci si spengono. Poi, per qualche secondo, lo schermo si illumina di rosso, a simboleggiare le violenze subite da
Jasmine]
Scena 4
[Il personaggio è al centro del palcoscenico, seduto su una sedia logora. Poco più avanti è posizionato un tavolino sul
quale sono poggiati gli oggetti di scena: un fazzoletto, un orologio e un mazzo di fiori appassiti]
LISA: Sono Lisa. Sono nata in Italia, i miei genitori erano italiani, ma quando ero piccola decisero di
trasferirsi in Africa, in Burkina Faso, poiché avevano tanti parenti lì.
Da qualche anno sono ritornata in Italia. All’inizio avevo un bagaglio pieno di sogni e speranze, ero
pronta a costruire una nuova vita, lontano dalle precarie condizioni di lavoro in cui lavoravo. Ma il
destino ha avuto altri piani per me.
[A questo punto, dal tavolino prende un fazzoletto logoro, il suo unico ricordo tangibile della sua terra lontana, che
sfiora nervosamente con le dita. Continua a parlare col fazzoletto fra le mani]
Quando ho ricevuto quell'offerta di lavoro in una fabbrica qui in Italia, sembrava una benedizione.
Ma ben presto ho capito che era solo un'altra gabbia, solo un'altra prigione.
[Lascia il fazzoletto e prende un orologio. Guarda per alcuni secondi in silenzio l’orologio rotto che ha al polso, simbolo
del tempo che per lei si è fermato]
Lavorare in quella fabbrica, respirare quell'aria carica di veleni invisibili, è stato come firmare un
patto con il diavolo.
Mi avevano promesso di lavorare solo materiale biologico, invece… invece ho tessuto solo cotone
transgenico.
[Prende fiato, per iniziare la narrazione]
Quando ero bambina mi avevano regalato un meraviglioso aquilone colorato. Ricordo che correvo
a perdifiato nei campi aridi e assolati.
[Sullo sfondo compare l’immagine di una bambina che si diverte con un aquilone]
Quanto mi piaceva correre. Sentivo il vento tra i capelli, il calore del sole sulla pelle e la gioia di
essere libera. Pensavo spesso a come sarebbe stata meravigliosa la mia vita. Immaginavo
avventure straordinarie, viaggi in luoghi lontani, incontri sorprendenti.
Ma così non fu. Il buio pesto arrivò presto, le giornate limpide diventarono grigie e monotone…
[La luce si attenua]
Qui, in Italia, giorno dopo giorno mi ritrovai imprigionata tra le macchine rumorose della fabbrica,
circondata da una nebbia tossica che avvolgeva ogni mio respiro. I fumi dei solventi si insinuavano
nelle mie narici, nei miei polmoni. I miei occhi lacrimavano in continuazione, arsi da quelle
sostanze chimiche nocive diffuse nell'aria.
Il rumore assordante delle macchine mi faceva sussultare continuamente, impedendomi di
concentrarmi su qualsiasi cosa. Era come essere in una prigione senza mura, intrappolata in un
mondo di metallo e cemento, dove il tempo sembrava fermarsi. Il tempo, quel ladro senza cuore…
Ogni giorno si mescolava con quello prima. Sempre.
[Si sentono per qualche secondo dei forti rumori che rievocano quelli dei macchinari della fabbrica]
E mentre lavoravo, il mio corpo si consumava lentamente, come se tocco dopo tocco il cotone
transgenico mi avvelenasse un po' di più. Le mie mani erano ormai screpolate e insensibili, i miei
polsi gonfi e dolenti per lo sforzo continuo. Eppure, non c'era tregua, non c'era pausa. Dovevo
continuare a tessere, a tessere senza fine.
Ma il peggio lo vivevo quando facevo ritorno a casa, la sera, esausta e logorata, per trovare il mio
bambino. Quante volte ho sottratto il mio tempo a mio figlio, facendolo sentire come se non
avesse una mamma, perché ero costretta a lavorare dalla mattina alla notte nella fabbrica. Quante
volte ho visto il suo sguardo triste, la sua voce che implorava un po' di attenzione. Quante volte mi
chiedeva di giocare con lui o di uscire per prendere una boccata d’aria. Quante volte sono stata
costretta a dirgli di no, obbligata a piegarmi sulle macchine rumorose, a respirare aria così tossica
che chiamarla “aria” è quasi una bugia.
[La luce torna ad essere più intensa e Lisa rende in mano il mazzo di fiori appassiti]
E ora mi ritrovo qui, sola con la mia malattia, con il mio dolore che brucia… brucia come un fuoco
insaziabile.
Guardandomi allo specchio, non vedo più il riflesso di una donna, ma quello di una malattia che ha
preso il sopravvento. Non posso fare a meno di chiedermi: “perché io? Cosa ho fatto per meritare
tutto questo? “
Ma le risposte non arrivano.
Il tempo sembra scorrere più veloce da quando il destino mi ha segnato il conto alla rovescia.
E ora è quasi scaduto. Quante cose vorrei fare che non ho mai fatto, ma che ho sempre desiderato
fare.
[Le luci si spengono]
Scena 5
[Un personaggio esterno entra in scena dal pubblico, dicendo:]
QUINTA VOCE: 440 000 lavoratori al mondo sono vittime di morte a causa di sostanze nocive, in
nome del dio denaro. Fermare questa carneficina è nostro dovere.
[Layla, Tara, Jasmine e Lisa rientrano in scena e, insieme, dicono:]
È ora di dire basta. Il lavoro sicuro è un nostro diritto, non una scelta ma una tragica necessità.
Noi vogliamo vivere e scegliamo la vita. Difendiamola!
“Un’oncia di prevenzione vale una libbra di cura” (Benjamin Franklin).

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12 Ferraris Molfetta - The true cost.pdf

  • 1. Sceneggiatura teatrale THE TRUE COST Scena 1 [Una stanza buia e angusta. Layla è seduta su una sedia logora, sola con i suoi pensieri] LAYLA: [Guardando fisso nel vuoto, con voce carica di dolore] Sono Layla. Ho lasciato l'Etiopia dietro di me, un fardello di speranze infrante e desideri non realizzati. [Sullo schermo compare un’immagine dell’Etiopia] Speravo in una vita migliore qui, in Italia. Speravo in un futuro luminoso, come le stelle nella notte della mia terra natale. [Sullo schermo compare l’immagine di un cielo stellato] Ma invece... invece ho trovato solo oscurità. Un buio così profondo da soffocare persino la mia anima. [Ha un momento di pausa, stringendo le mani con forza] [Con un sospiro] Lavoravo nelle fabbriche, cucendo abiti per ricchi e famosi. [Layla prende in mano un abito appena cucito] Col tempo le mie mani si erano logorate, consumate dalla monotonia del lavoro, ma il mio spirito... il mio spirito era spezzato. Come un filo sottile che si rompe sotto il peso delle aspettative e delle delusioni. E qui, in questa Italia [Sullo schermo compare un’immagine dell’Italia] che doveva essere la mia salvezza, mi ritrovo a lottare ancora. Il lavoro mi strappa via pezzo dopo pezzo, mi consuma lentamente fino a lasciarmi vuota dentro. Peggio di come era prima. Sono incollata ai macchinari giorno e notte, fin quasi all'alba, immersa nella penombra di questa scomoda stanza della fabbrica illuminata solo dalle luci fioche delle macchine da cucire. Ogni puntino della macchina è un passo avanti, un granello di speranza tessuto con ogni filo. Ormai, è il ticchettio costante degli aghi sulla stoffa a scandire il mio tempo. Lavoro anche con una certa dedizione, con la precisione di un orologiaio. Ogni cucitura, ogni rifinitura è eseguita con la massima cura. È il mio modo di dimostrare il mio valore, di sfidare il destino avverso che ha segnato la mia vita fin dall'inizio. [La voce trema leggermente. Si alza in piedi, visibilmente agitata]
  • 2. E poi... poi è successo. Mentre lavoravo alla macchina da cucire il filo si è impigliato, trascinandosi dietro il mio destino. Nel tentativo frenetico di liberarlo, il mio dito è stato inghiottito dalle affilate lame metalliche, tagliando attraverso la mia carne come se fossi un pezzo di stoffa da scartare. [Dopo aver parlato si risiede al suo posto] Da quel maledetto giorno, ogni volta che torno a casa attraverso la porta con fatica, cercando di nascondere il dolore che mi consuma dentro, perché ho dei figli da accudire. Mentre i miei tre tesori corrono incontro a me con sorrisi radiosi, sento il mio cuore stringersi nel petto. Vorrei tanto poter mantenere la mia solita gioia, ma il dolore nel mio dito ferito è insopportabile. Mi siedo, cercando di sorridergli, ma so che i miei occhi tradiscono la mia sofferenza. I miei figli, Hassan, Fatima e Amir, mi guardano con occhi pieni di amore e fiducia, ignari del peso che sto portando sulle mie spalle. "Come è stata la scuola oggi?" chiedo loro, cercando di distogliere l'attenzione dal mio dolore. Mentre mi raccontano delle loro giornate, faccio del mio meglio per ascoltarli con attenzione, ma la mia mente è annebbiata dalle preoccupazioni per il futuro. Preparo la cena con le mie mani tremanti, cercando di mettere insieme qualcosa di nutriente per i miei figli. "Abbiamo couscous stasera" dico loro con un sorriso forzato. "Mangeremo insieme, come sempre". Ma mentre li guardo mangiare con appetito, il peso delle mie responsabilità mi schiaccia. Come farò a mantenerli ora che il mio lavoro è compromesso? Come garantirò loro un futuro migliore? Quando i miei figli vanno a letto, resto seduta in cucina, sola con i miei pensieri. Le lacrime scivolano silenziosamente lungo le mie guance mentre prego per trovare la forza di andare avanti. È così difficile, sai? [Rivolgendosi al pubblico, con un sorriso amaro] Guardo i miei figli e vedo i loro sogni brillare nei loro occhi, ma mi sento impotente. Uno di loro vuole essere un infermiere [Sullo schermo compare l’immagine del camice da infermiere], un altro un artista [Sullo schermo compare l’immagine dei pennelli dell’artista] e un altro ancora un insegnante [Sullo schermo compare l’immagine di una penna e di un foglio]. Sono sogni così belli… spero davvero che possano realizzarli, ma come posso aiutarli? Con il mio dito infortunato come posso aiutarli? Davvero, come posso aiutarli? [Rivolgendosi al pubblico, come se stesse chiedendo aiuto] Forse devo chiedere aiuto. Forse ci sono risorse là fuori che possono aiutarmi. Forse c'è ancora speranza. Per voi, figli miei, voi che siete la mia ragione di vita, la mia luce nella tempesta. Troverò un modo. [Le luci si spengono. Poi, per qualche secondo, lo schermo si illumina di verde, a simboleggiare la speranza che anima Layla]
  • 3. Scena 2 [Una stanza buia e angusta. Tara è seduta su una sedia logora, come Layla] TARA: Guardate il mio viso, consumato dalla fatica e dal dolore. Sono Tara, la vedova di un agricoltore indiano. La mia storia è una storia di sofferenza, di ingiustizia, di distruzione. [Sospira pesantemente; poi si alza e va verso lo schermo, dove viene proiettata un’immagine dei campi] Mio marito, un uomo forte e dignitoso, ha lottato una battaglia contro l'industria del cotone transgenico. Il suo campo, una volta fiorente di vita e speranza, è stato contaminato da coltivazioni manipolate geneticamente, imposte dalle grandi aziende che si arricchiscono alle spalle dei piccoli agricoltori. [Sullo schermo compare l’immagine del cotone OGM] Ha combattuto con tutte le sue forze per difendere la nostra terra, per mantenere viva la nostra cultura agricola tradizionale. Ma le pressioni erano troppo forti, il sistema era troppo ingiusto. Ha subito una serie di fallimenti finanziari, ha visto il suo lavoro andare in rovina, ha visto la sua famiglia soffrire. E io… io sono rimasta lì, a guardare impotente mentre lui si spezzava dentro. Mentre la terra che amava tanto veniva avvelenata, mentre le sue speranze venivano distrutte una dopo l'altra. Quando ha capito di non avere più un futuro, quando ha sentito il peso dell'umiliazione e della disperazione, quando ha capito che non c’era più nulla da perdere, ha deciso di porre fine alla sua sofferenza. Si è tolto la vita, lasciandomi sola, con il peso del dolore e della perdita. [Si fa silenzio per alcuni secondi. Poi Tara torna a sedersi] Io, poi, sono fuggita dal mio paese, dalla mia terra devastata, insieme ai miei quattro figli, sperando di trovare qui in Italia un rifugio, una speranza. Ma invece, mi sono ritrovata circondata da estranei che non capiscono il mio dolore. E il clima… il clima qui dentro è più freddo di ogni inverno che abbia mai provato. Il freddo dell'indifferenza, della solitudine, della disperazione. Poveri figli miei, costretti ad una vita di stenti. La piccola era costretta a venire con me al lavoro e a passare in fabbrica tutto il tempo. A volte, mi toccava legarla ad una corda, perché poteva allontanarsi, mentre io dovevo cucire. Si, cucire. Senza interruzioni. Sapevo che altrimenti mi avrebbero licenziata. E poi, quei poveri figli a respirare tutto il giorno questi veleni… Eppure, i colori di questi vestiti sono così belli. [Dalla cesta posizionata per terra, ai suoi piedi, prende in mano dei tessuti colorati e li esibisce al pubblico. Poi, sempre rivolgendosi al pubblico, chiede:] Che cosa ne pensate? Non sono belli? E poi, costano così poco… in fondo, a chi importa delle sofferenze che ci sono dietro?
  • 4. Il prezzo che vedete incollato sull’etichetta di questi vestiti non è vero… il vero prezzo, voi, non potete vederlo e non lo vedrete mai. Il vero prezzo è quello pagato dai piccoli agricoltori oppressi, dalle vedove come me, dai bambini costretti al lavoro anziché all'istruzione. [Vi sono alcuni secondi di silenzio, per far riflettere] Ma ciò che mi spezza il cuore ancora di più è vedere come il mondo volteggi intorno a queste ingiustizie, ignorando il dolore che ci affligge. I media raccontano storie di progresso e sviluppo, ma non vedono la nostra realtà nascosta dietro le luci abbaglianti della società consumistica. E così mi ritrovo qui, sola in questa stanza buia, a condividere la mia storia con voi che forse, forse, potreste ascoltare e capire. Sono stanca, così stanca di lottare contro un mondo sordo. Ma non resterò in silenzio. Devo alzare la mia voce per coloro che non possono farlo, per coloro che sono stati sopraffatti dalla crudeltà di un mondo che valorizza il profitto più della vita umana. [Stringe i tessuti colorati contro il petto e sospira pesantemente, come se stesse trattenendo le lacrime] Vorrei tanto vedere qualcuno che, passando per i negozi, non si fermi per guardare i vestiti, il finto prezzo sulla loro etichetta, i loro colori brillanti… ma che si fermi per pensare a ciò che c’è dietro quei vestiti, a ciò che non può vedere, ad immaginare il vero prezzo di quegli abiti… anche per un solo secondo. Ve lo chiedo per favore, non girate lo sguardo di fronte a questa realtà crudele. Non lasciatevi assordare dal rumore del consumismo. Non dimenticate il vero costo di ciò che indossate. Non possiamo permetterci di restare indifferenti di fronte alla sofferenza degli altri. Ve lo chiedo per favore, ascoltatemi… ascoltateci. [Tara chiude gli occhi e le luci si spengono. Poi, per qualche secondo, lo schermo si illumina di azzurro, a simboleggiare la tristezza di Tara]
  • 5. Scena 3 [La scena si apre con un'atmosfera opprimente, con il personaggio al centro del palcoscenico seduto su una sedia logora, circondato da strisce di tessuto nero/grigio che pendono dal soffitto fino a terra, creando l'illusione delle sbarre di una gabbia] JASMINE: Guardate dentro di me e vedrete solo i cocci di un sogno infranto. Un sogno dipinto con colori vividi di speranza, ma ora macchiato di rosso, il rosso del mio sangue versato su queste strade desolate. [Prende fiato e inizia a raccontare la sua storia] Sin da quando ero bambina, ho coltivato un sogno nel mio cuore. Sognavo di camminare sulle passerelle sfavillanti di Bollywood, insieme alle persone famose. [Sullo schermo compare un’immagine di Bollywood] Guardavo i Film di Bollywood e rimanevo estasiata. I colori, i ricami di quegli abiti… li guardavo e mi dicevo: “si, un giorno sarò proprio io a indossarne uno e sarà bellissimo, come me”. Mi immaginavo famosa mentre tutti i fotografi mi immortalavano. Immaginavo di indossare abiti scintillanti, di danzare tra le luci accecanti e di sentire l'applauso caloroso di migliaia di persone. Mi dicevano che ero così bella… Ma lì, nel mio paese, non ci potevo stare. La vita era un'incessante lotta contro la povertà e le ingiustizie. La nostra famiglia faceva parte di quelle caste considerate "inferiori", dove le opportunità erano poche e la discriminazione era palpabile in ogni aspetto della vita quotidiana. Non c'era un briciolo di possibilità di realizzare il mio sogno, di aspirare a qualcosa di più grande. Le strade erano sbarrate, le porte chiuse. [Jasmine fissa il pavimento e vi sono alcuni secondi di silenzio. Poi rialza il capo, sospira e prosegue il racconto] E così decisi di intraprendere un viaggio verso l'ignoto, verso un luogo dove speravo di trovare più opportunità, più speranza per il futuro mio e dei miei figli. L'Italia, con le sue promesse di prosperità e libertà, è diventata la mia meta, la mia speranza. [Sullo schermo appare un’immagine dell’Italia] Eppure, anche qui, ho scoperto che i sogni non sono mai così facili da realizzare. Anzi… ora quei sogni sono come frammenti di vetro tagliente che mi feriscono ogni giorno. Mi hanno detto che l'Italia era la terra delle opportunità, il luogo dove i miei sogni avrebbero preso il volo. E invece, sono atterrata in un inferno di abusi e sfruttamento, dove il mio corpo è stato ridotto a una merce da vendere al miglior offerente. [Si sentono eco distanti di voci che sussurrano parole di inganno e menzogna]
  • 6. Mi parlavano di quel mondo di luci e colori come se fosse mio per diritto… un'illusione che si è dissolta come nebbia al sole. Le mie speranze sono state strappate via come petali di un fiore calpestato, lasciandomi sola e vulnerabile in un deserto di disperazione. [Sullo schermo compare l’immagine di una rosa appassita] Ogni notte, chiudo gli occhi e cerco di scacciare i fantasmi di ciò che è stato. Ma non importa quanto forte chiuda le palpebre, quelle immagini riaffiorano spietate nella mia mente. [La luce si attenua gradualmente, lasciando Jasmine avvolta nell'oscurità] Mi sento come una rondine ferita, intrappolata in una gabbia, incapace di volare via verso la libertà. I miei sogni sono diventati solo una trappola che mi tiene legata al suolo, mentre il mondo intorno a me continua a girare, indifferente alla mia sofferenza. Ma… la perdita più devastante è stata quella della mia dignità. Qui, in Italia, ho visto e vedo tutt’ora sfumare lentamente ogni briciola di rispetto e valore per me stessa, mentre vengo trattata come un oggetto da usare e gettare via. Giorno dopo giorno mi sento scivolare via la dignità, come la sabbia tra le dita, mentre vengo ridotta a una figura senza volto, senza voce, senza alcun diritto. Ho imparato a sopportare gli sguardi sprezzanti, le parole taglienti, le mani che violano il mio corpo. [Jasmine si stringe le braccia intorno al corpo, come se volesse proteggere il suo corpo, già lacerato] Un guscio vuoto, insignificante… ecco quello che rimane di me, ecco. [Rivolge le mani verso il proprio corpo, mostrandolo al pubblico] Eppure... eppure qualcosa dentro di me si rifiuta di arrendersi. Qualcosa dentro di me continua a bruciare, a sussurrare che c'è ancora speranza. [Un raggio di luce illumina leggermente Jasmine] Non sarò silenziosa. Urlerò, urlerò fino a perdere la voce affinché il mondo possa sentirmi. Forse un giorno, chissà, avrò l'opportunità di indossare un abito come quelli dei miei sogni. Forse un giorno potrò camminare su un tappeto rosso, circondata dai flash delle macchine fotografiche. Ma finché quel giorno arriverà, continuerò a lottare, sappiatelo. Perché il mio sogno, il MIO sogno è come una stella nel cielo, una luce che mi guida nelle notti più buie. E non si spegnerà mai. Sono Jasmine, non solo una vittima, ma una guerriera. [Le luci si spengono. Poi, per qualche secondo, lo schermo si illumina di rosso, a simboleggiare le violenze subite da Jasmine]
  • 7. Scena 4 [Il personaggio è al centro del palcoscenico, seduto su una sedia logora. Poco più avanti è posizionato un tavolino sul quale sono poggiati gli oggetti di scena: un fazzoletto, un orologio e un mazzo di fiori appassiti] LISA: Sono Lisa. Sono nata in Italia, i miei genitori erano italiani, ma quando ero piccola decisero di trasferirsi in Africa, in Burkina Faso, poiché avevano tanti parenti lì. Da qualche anno sono ritornata in Italia. All’inizio avevo un bagaglio pieno di sogni e speranze, ero pronta a costruire una nuova vita, lontano dalle precarie condizioni di lavoro in cui lavoravo. Ma il destino ha avuto altri piani per me. [A questo punto, dal tavolino prende un fazzoletto logoro, il suo unico ricordo tangibile della sua terra lontana, che sfiora nervosamente con le dita. Continua a parlare col fazzoletto fra le mani] Quando ho ricevuto quell'offerta di lavoro in una fabbrica qui in Italia, sembrava una benedizione. Ma ben presto ho capito che era solo un'altra gabbia, solo un'altra prigione. [Lascia il fazzoletto e prende un orologio. Guarda per alcuni secondi in silenzio l’orologio rotto che ha al polso, simbolo del tempo che per lei si è fermato] Lavorare in quella fabbrica, respirare quell'aria carica di veleni invisibili, è stato come firmare un patto con il diavolo. Mi avevano promesso di lavorare solo materiale biologico, invece… invece ho tessuto solo cotone transgenico. [Prende fiato, per iniziare la narrazione] Quando ero bambina mi avevano regalato un meraviglioso aquilone colorato. Ricordo che correvo a perdifiato nei campi aridi e assolati. [Sullo sfondo compare l’immagine di una bambina che si diverte con un aquilone] Quanto mi piaceva correre. Sentivo il vento tra i capelli, il calore del sole sulla pelle e la gioia di essere libera. Pensavo spesso a come sarebbe stata meravigliosa la mia vita. Immaginavo avventure straordinarie, viaggi in luoghi lontani, incontri sorprendenti. Ma così non fu. Il buio pesto arrivò presto, le giornate limpide diventarono grigie e monotone… [La luce si attenua] Qui, in Italia, giorno dopo giorno mi ritrovai imprigionata tra le macchine rumorose della fabbrica, circondata da una nebbia tossica che avvolgeva ogni mio respiro. I fumi dei solventi si insinuavano nelle mie narici, nei miei polmoni. I miei occhi lacrimavano in continuazione, arsi da quelle sostanze chimiche nocive diffuse nell'aria.
  • 8. Il rumore assordante delle macchine mi faceva sussultare continuamente, impedendomi di concentrarmi su qualsiasi cosa. Era come essere in una prigione senza mura, intrappolata in un mondo di metallo e cemento, dove il tempo sembrava fermarsi. Il tempo, quel ladro senza cuore… Ogni giorno si mescolava con quello prima. Sempre. [Si sentono per qualche secondo dei forti rumori che rievocano quelli dei macchinari della fabbrica] E mentre lavoravo, il mio corpo si consumava lentamente, come se tocco dopo tocco il cotone transgenico mi avvelenasse un po' di più. Le mie mani erano ormai screpolate e insensibili, i miei polsi gonfi e dolenti per lo sforzo continuo. Eppure, non c'era tregua, non c'era pausa. Dovevo continuare a tessere, a tessere senza fine. Ma il peggio lo vivevo quando facevo ritorno a casa, la sera, esausta e logorata, per trovare il mio bambino. Quante volte ho sottratto il mio tempo a mio figlio, facendolo sentire come se non avesse una mamma, perché ero costretta a lavorare dalla mattina alla notte nella fabbrica. Quante volte ho visto il suo sguardo triste, la sua voce che implorava un po' di attenzione. Quante volte mi chiedeva di giocare con lui o di uscire per prendere una boccata d’aria. Quante volte sono stata costretta a dirgli di no, obbligata a piegarmi sulle macchine rumorose, a respirare aria così tossica che chiamarla “aria” è quasi una bugia. [La luce torna ad essere più intensa e Lisa rende in mano il mazzo di fiori appassiti] E ora mi ritrovo qui, sola con la mia malattia, con il mio dolore che brucia… brucia come un fuoco insaziabile. Guardandomi allo specchio, non vedo più il riflesso di una donna, ma quello di una malattia che ha preso il sopravvento. Non posso fare a meno di chiedermi: “perché io? Cosa ho fatto per meritare tutto questo? “ Ma le risposte non arrivano. Il tempo sembra scorrere più veloce da quando il destino mi ha segnato il conto alla rovescia. E ora è quasi scaduto. Quante cose vorrei fare che non ho mai fatto, ma che ho sempre desiderato fare. [Le luci si spengono] Scena 5 [Un personaggio esterno entra in scena dal pubblico, dicendo:] QUINTA VOCE: 440 000 lavoratori al mondo sono vittime di morte a causa di sostanze nocive, in nome del dio denaro. Fermare questa carneficina è nostro dovere. [Layla, Tara, Jasmine e Lisa rientrano in scena e, insieme, dicono:] È ora di dire basta. Il lavoro sicuro è un nostro diritto, non una scelta ma una tragica necessità. Noi vogliamo vivere e scegliamo la vita. Difendiamola! “Un’oncia di prevenzione vale una libbra di cura” (Benjamin Franklin).