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(dalla Parte prima: “Nel magma”)

            io. Mi sveglio dunque in un lamento. Un pianto che proviene da lontano. Come se da
sempre attendessi il momento – a chiudere un ciclo esistenziale – nel sortilegio vano delle cose.
L’incanto è sciolto: la conocchia prilla e si dipana. Le porte della notte sono schiuse. Nessuno, mi
pare, aveva bussato. Eppure. Solo ora poteva cominciare. Doveva, per evidenza lampante di fatto.
Cosa, non so. Ma qualcosa, certo, è andato misteriosamente a cominciare. E ne sono dentro fino al
collo, purtroppo: oggetto e spettatore involontario. Che un dio me la mandi buona, non altro.
Hanno dato la stura. La vasca colma che scola. Si sono aperte le cateratte dello spazio interno, vuoto
e abissale. Il punto cieco del mondo. Il culo del sacco, il fondo del barile. Tutto mi precipita
addosso, tutto mi viene. È crepata una valvola di carne guasta. Sfintere prolassato, botto varicoso di
fiele gelato. Eccolo qui: bulbo del fiore di grasso, giglio del barbiglio, trombo del budello, punta del
martello che mi batte sopra il chiodo dell’uccello, volo del cervello nel silenzio del collasso
universale. Un salasso, perdiana, un salasso! Avrei bisogno di…

Tutto vola, tutto cade. E me? Campisco e ammonticchio le misure. Però un fiotto, di sangue e di
pus, mi sta allagando la gola. Tossisco, vomito, sputo. Melma di petrolio e di catrame. Rame,
smegma del colore. Cuore: schiuma spumeggiante del cruore. E mi scuoto, mi muovo. Ero
spiaccicato addosso al muro, come una zanzara ciabattata, ricordo di voli inopportuni. Gli occhi
incollati di mucosa sul mattone rosso, pieni di polvere e intricati di ragnatele. Lo sguardo avvitato di
vertigine, rovesciato all’interno. Di bianco, righe, in campo bianco. Labirinto di sentieri. La belva
camusa che ancora mi cerca, e mi annusa. Sincronia di metronomi. Lampi di falene. Spasmi di
clessidre. La bocca aperta, arroccata, gonfia di vuoto e di stelle, traboccante di muco, di poltiglia
putrefatta, di saliva agglutinata e scolo nero. La medusa spappolata che si ammolla. Mi allontano
dal muro e, traballante, mi guardo attorno. È una strada, forse. Il marciapiede di una strada.
Tutto gira, tutto vortica e barolla. Il mio passo è una danza isterica. Tre misure e una pausa,
schiaffo, riso, e poi di nuovo a riprovare. Ballando sotto la pioggia di questa luce tossica di cenere
acida, la testa che gira, le ossa elastiche di gomma, le orecchie che ronzano di mosche, il sangue
verde che arde nelle vene. Il burattino scricchiola non poco. Al primo anfratto di muro, è chiaro,
s’impone la svolta: entrata obbligatoria e dritti, poi, difilato a perdifiato, giù, quantunque si sfondi,
ovunque si arrivi, giù, senza paure, senza ombre di orgoglio e verecondia, ad implorare aiuto.
Sono un baccalà impanato di calce e impiumato di spume che zampetta e quarabatta sulle pinne in
equilibrio. Un salmone affumicato dal respiro del tempo, coperto di glassa dorata, che risale la
corrente delle cose, verso la sorgente, duro nel flutto amaro del fiume salso, impigliato nella melma
del cammino. Devo uscire dallo spazio, farmi notare, farmi salvare. Allora mi fermo e mi concentro,
ascolto e prendo fiato… richiamo la voce dai precordi e sputo il fetore del mio alito malato:
«Attenzione, attenzione! Trovato, per caso, buffo tipo strano in crinolina, truccato di cera e di
biacca, frollato con la pasta di farina, naso rosso da pagliaccio, sul ventre un canovaccio a
palandrana, la bocca ruminante di una vacca, la lingua lunga, ruvida, violacea, ricoperta di poltiglia
purulente, di papille e pustole infette, e il collo di nervi gronchi, di vermi macerati e bruchi attorti, e
il tosco degli inverni sulle coglie, le forre maculate di fungaie, la faccia butterata di petecchie,
pillacchere d’orecchie, le gerle foderate di panzane, il riso di spellate melanzane, il tubo del sifone
che gorgoglia, la crosta che si stacca, la cipria che si toglie, la cera che cola e brucia sugli occhi
cisposi di pollo e i pidocchi che pungono in fondo alla parrucca, e il filo dell’albume – eccomi,
presente: riemergo dal profondo del mio fiume... Allora, interessa? È bello, in fondo, non vale
l’apparenza. Allora, qualcuno lo reclama? È in cerca di famiglia, qualcuno se lo piglia? Costa poco,
dura a lungo, riga dritto, non ha pretese: per questo lo si ama. Si accontenta del cantuccio di una
stanza. È un bifolco onesto di paese, del genere più raro. Dico davvero, lo giuro sulle palle: mi
possano ammazzare se non son balle! Allora?…»
La mia grida ha risuonato come niente. Banditore inefficace. Suono permanente del silenzio, sasso
del mistero. Ebbene sì, purtroppo, murato vivo in fondo al peso del silenzio: al volo di questa mosca
– cic, mancata – che cuce, che pugna, che fila, che bolla, che rugna, che sogna, che scimma, che
rulla, che balla, che soffia, che bava, lucente di membrana, nel riflesso del ponte che smeriglia, nel
bersaglio del suo tiro a cerbottana. Cisterna di vuoto e di luce, il mio cervello-cielo. Pesce
nell’acquario, boccheggio segnali d’amore che nessuno sguardo raccoglie. Nessuno mi vuole, e
niente: anche il muro, così duro, mi respinge.




(dalla Parte terza: “L’investitura”)

Ogni giorno era la solita solfa: urla, imprecazioni, pugni sul tavolo, porte sbattute con fragore, a far
tremare i muri. Ogni pasto era occasione di fare casa del diavolo, tra provocazioni, risposte,
repliche, contro-risposte e contro-repliche, in una escalation che si avvitava su se stessa, senza fine,
perdendo lungo il cammino i motivi del fomite iniziale – non c’era un motivo vero, ma la situazione
in sé – e risolvendoli in una futile gara a chi, prevalendo, avrebbe avuto l’ultima parola: «E quando
la lasci, quella disgraziata». «E sei un matto di guerra, che ci hai fatto col cervello?» «E trovati un
lavoro, fannullone». «E specchiati invece a tuo fratello». Si immagini come dovetti restarci quando,
dopo l’ennesimo fiasco con Pencella – la quale, persa la pazienza, e istigata da quel beota di
Castragalli, stava pensando lei di lasciarmi –, già saturo di intrugli, di tossine magiche, di mestruo
assorbito e polverine varie (la megera, conosciute le intenzioni della figlia, ci dava dentro a tutto
vapore, come non mai: mi veniva da dirle “rassegnati, puttana. Mica ci devo rimettere io, se quella
stronza di tua figlia non mi vuole più”), si immagini come dovetti restarci quando un sabato notte,
tornando alle due e un quarto, trovai sopra il cuscino una lettera scritta da mio padre, di suo proprio
pugno, dettata certamente da mia madre, tutta in stampatello, a biro blu, su cartoncino rigido
bianco:
ALLA TUA ETÀ È ORA CHE NON ROMPI PIÙ I COGLIONI. PERCIÒ PRENDI UNA
DECISIONE; SE VUOI FARE COME TI PARE, VAI A VIVERE PER CONTO TUO. NEL
FRATTEMPO CHE TI TROVI UNA CASA, LE REGOLE SONO QUESTE: RISPETTO PER I
GENITORI, CHE SIGNIFICA NON PRETENDERE NULLA, NON ALZARE LA VOCE,
TENERE IN ORDINE LE TUE COSE E SOPRATTUTTO L’EDUCAZIONE. IL RAPPORTO
DEVE ESSERE PIÙ FAMILIARE, E NO CHE TUAMADRE NON DEVE GUARDARE NEI
CASSETTI. QUESTA ESTRANEITÀ NON VA BENE. QUANDO IO LAVORAVO E STAVO
CON I MIEI, I SOLDI CHE RISPARMIAVO LI TENEVA MIA MADRE, CHE AVEVA ACCESSO
A TUTTE LE MIE COSE, PERCHÉ ERA MIA MADRE E MI FIDAVO. NON FACEVO COME
TE, CHE LA TRATTI DA ESTRANEA COME VIVESSI IN ALBERGO. VUOI TUTTE LE
COMODITÀ E NOI NON CONTIAMO NIENTE. DA QUESTO MOMENTO LE COSE
CAMBIANO. PRENDITI UN PERIODO PER TROVARTI CASA AL PIÙ PRESTO E…
VATTENE.

                                                                                                   Papà

A tanto si era arrivati! La lettera, invero un po’ patetica e tirata per i capelli, nasceva da una lunga
discussione del pomeriggio, scaturita dalle mie rimostranze per i “controlli” che di nascosto, senza
parer di nulla, mia madre pretendeva di effettuare sulle mie zone private, ispezionando il portafogli,
le tasche dei pantaloni, i cassetti del comodino, i ripiani dell’armadio, le pagine della mia agenda.
Mi dava fastidio, più che la cosa in sé, proprio quel farlo di nascosto, non in mia presenza.
«Chiedimi quel che vuoi vedere, che te lo mostro io. Tanto poi me ne accorgo». E lei, piccata: «Ti
piacerebbe, cocco. Così porti alla luce solo quello che ti pare. Che controllo è?» A tanto si era
arrivati! “Allora basta”, sibilai a fior di labbra infilandomi nel letto: “se le cose stanno così,
domattina raduno le mie quattro carabattole e non sento ragioni: faccio bagagli, chiudo e me ne
vado. Ma, se me ne vado, non torno mai più. Per sempre, per sempre! Avrete voglia, poi, di pentirvi,
di richiamarmi indietro! Vedrete, vedrete, se stavolta non lo faccio… vedrete…” mormorai
ronzando nel pensiero, mentre già il sonno mi divorava. Dormii profondamente per una mezz’ora.
Poi, all’improvviso, mi attraversò un brivido gelido di orrore. Riemersi dalle nebbie cimmerie e…
avvertii una presenza immateriale che mi fissava da un angolo della stanza. Era un idolo nero dallo
sguardo lucido, penetrante. Lo vedevo nel buio. Il sorriso stampato sul volto camuso, la bocca
aperta, i denti digrignati. Mi alzai di scatto, urlando, madido di sudore. Annaspai intorno all’abat-
jour, accesi la luce. Era tutto al suo posto, non c’era nessun idolo. Ma sentivo un odore strano
nell’aria, un puzzo che non è di questo mondo. E degli scricchiolii sospetti lungo il corridoio.
«Questo è troppo, cazzo» e mi diressi difilato nella camera dei miei. Mio padre, bofonchiando, mi
lasciò il posto: mi rifugiai tra le braccia di mia madre, nel lettone. Erano anni e anni che non ci
venivo. Lei mi asperse di acquasanta e mi segnò, mormorando preghiere. Così, singhiozzando,
acquietai pian piano il tremito, mi riscaldai un poco e trovai pace.
(dalla Parte quinta: “Il perfezionamento”)

Fuori, intanto, si è mescolata la notte con il giorno: è notte e giorno al tempo stesso. Vedo un
reticolo dorato sotto la tenebra. E poi la luce madre, di un bianco inconcepibile assoluto. E il cielo
azzurro che si riempie di stelle, in pieno giorno. E il sole che risplende a notte alta. È allora che
sento qualcosa che mi preme il petto da dentro, e bussa, e bussa, come ad una porta che si sta per
aprire. E vomito il mio cuore. Mi esce dalla bocca una sfera rossastra ondeggiante che galleggia,
plop… come il palloncino dei bambini, quando sfugge loro il filo dalle mani. E sale, e sale… non lo
riprendo più… Resto così a guardarlo, su nel cielo, sempre più piccolo, sempre più lontano… fino a
che scompare in una nube, non c’è più… Lo so, lo sento: è diventato una virgola di luce, l’ha
divorato il blu. Sicché, d’ora in poi, ogni volta che guarderò il cielo mi parrà di guardarmi allo
specchio. Perché palpito lassù, son diventato parte di lassù. Guardo il fondo del cielo e trovo il mio
cuore. Prima, accadeva l’esatto contrario: guardavo il mio cuore e trovavo il fondo del cielo. Si
rende ora visibile, l’invisibile. Vedo il cono d’ombra della luna, dove moltitudini passate, decollate,
dai vinchi del tempo divelte – insonni, tra le braccia serene del vero – bisbigliano messaggi
all’universo. Sono miliardi di ponti radio, che ricevono e trasmettono le onde, in continuazione.
Innumerabili: come le stelle, come i granelli di sabbia in riva al mare. Le onde del cosmo che
muoiono a riva per sciogliere in canto la loro storia, le loro storie infinite; e con essa, con esse,
quella stessa – eterna – del mare. E vedo le anime lucenti che scintillano, oscillando, sui campi del
mistero: è un ondeggiar di mani nella mente. Scorrono correnti di energia, cavalcando il suono dei
colori. Ventagli silenziosi e multiversi: eliche, girandole, spirali. Ora, senza cuore, mi sento
finalmente libero da impacci. Più leggero, più acuto, più insensibile (diversamente sensibile: non in
senso umano). Mi si è aperta la percezione: son diventati liberi i canali. Respiro con il cervello.
Guardo con gli occhi interiori: oltre le superfici, dentro le luci opache. Ho paura di vedere fin
troppo, con questo sguardo da angelo, da bambino prima di nascere, da uomo eterno, etereo. Lo
sguardo di uno che muore fra un minuto ed è già oltre. Lo sguardo di Ulisse, che da tutto prende
commiato. Sono uno, ormai, che ascolta una musica laddove gli altri sentono il silenzio. O che fa
del silenzio la propria musica: la musica delle musiche, che le racchiude tutte. Uno che danza
nell’aria, nuotando verso il cielo, su ritmi diversi. Io vedo l’aria. Il corpo dell’aria che vibra e
ondeggia sospeso, come un tessuto vivo, un ectoplasma sottile, una bandiera di seta trasparente.
Vedo i fiumi del tempo che scorrono veloci. Le strade iridescenti dei colori, racchiuse in ogni atomo
di luce. Vedo le nuvole scomparse nell’azzurro, e quelle che devono ancora nascere. Le scie degli
aerei che hanno graffiato il ghiaccio delle altitudini. I voli delle anime sul bordo dell’infinito. Le
immagini riflesse dagli specchi nel corso del tempo. I colori che hanno brillato. Le musiche che
hanno suonato. I timbri delle voci e le parole che hanno detto. Il colore degli occhi e le cose del
mondo che hanno visto. Tutto quello che si è perso e non c’è più.

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Schegge di Me - Tahereh Mafi - Cap. 1
 

Senza cuore

  • 1. (dalla Parte prima: “Nel magma”) io. Mi sveglio dunque in un lamento. Un pianto che proviene da lontano. Come se da sempre attendessi il momento – a chiudere un ciclo esistenziale – nel sortilegio vano delle cose. L’incanto è sciolto: la conocchia prilla e si dipana. Le porte della notte sono schiuse. Nessuno, mi pare, aveva bussato. Eppure. Solo ora poteva cominciare. Doveva, per evidenza lampante di fatto. Cosa, non so. Ma qualcosa, certo, è andato misteriosamente a cominciare. E ne sono dentro fino al collo, purtroppo: oggetto e spettatore involontario. Che un dio me la mandi buona, non altro. Hanno dato la stura. La vasca colma che scola. Si sono aperte le cateratte dello spazio interno, vuoto e abissale. Il punto cieco del mondo. Il culo del sacco, il fondo del barile. Tutto mi precipita addosso, tutto mi viene. È crepata una valvola di carne guasta. Sfintere prolassato, botto varicoso di fiele gelato. Eccolo qui: bulbo del fiore di grasso, giglio del barbiglio, trombo del budello, punta del martello che mi batte sopra il chiodo dell’uccello, volo del cervello nel silenzio del collasso universale. Un salasso, perdiana, un salasso! Avrei bisogno di… Tutto vola, tutto cade. E me? Campisco e ammonticchio le misure. Però un fiotto, di sangue e di pus, mi sta allagando la gola. Tossisco, vomito, sputo. Melma di petrolio e di catrame. Rame, smegma del colore. Cuore: schiuma spumeggiante del cruore. E mi scuoto, mi muovo. Ero spiaccicato addosso al muro, come una zanzara ciabattata, ricordo di voli inopportuni. Gli occhi incollati di mucosa sul mattone rosso, pieni di polvere e intricati di ragnatele. Lo sguardo avvitato di vertigine, rovesciato all’interno. Di bianco, righe, in campo bianco. Labirinto di sentieri. La belva camusa che ancora mi cerca, e mi annusa. Sincronia di metronomi. Lampi di falene. Spasmi di clessidre. La bocca aperta, arroccata, gonfia di vuoto e di stelle, traboccante di muco, di poltiglia putrefatta, di saliva agglutinata e scolo nero. La medusa spappolata che si ammolla. Mi allontano dal muro e, traballante, mi guardo attorno. È una strada, forse. Il marciapiede di una strada. Tutto gira, tutto vortica e barolla. Il mio passo è una danza isterica. Tre misure e una pausa, schiaffo, riso, e poi di nuovo a riprovare. Ballando sotto la pioggia di questa luce tossica di cenere acida, la testa che gira, le ossa elastiche di gomma, le orecchie che ronzano di mosche, il sangue verde che arde nelle vene. Il burattino scricchiola non poco. Al primo anfratto di muro, è chiaro, s’impone la svolta: entrata obbligatoria e dritti, poi, difilato a perdifiato, giù, quantunque si sfondi, ovunque si arrivi, giù, senza paure, senza ombre di orgoglio e verecondia, ad implorare aiuto. Sono un baccalà impanato di calce e impiumato di spume che zampetta e quarabatta sulle pinne in equilibrio. Un salmone affumicato dal respiro del tempo, coperto di glassa dorata, che risale la corrente delle cose, verso la sorgente, duro nel flutto amaro del fiume salso, impigliato nella melma del cammino. Devo uscire dallo spazio, farmi notare, farmi salvare. Allora mi fermo e mi concentro, ascolto e prendo fiato… richiamo la voce dai precordi e sputo il fetore del mio alito malato: «Attenzione, attenzione! Trovato, per caso, buffo tipo strano in crinolina, truccato di cera e di biacca, frollato con la pasta di farina, naso rosso da pagliaccio, sul ventre un canovaccio a palandrana, la bocca ruminante di una vacca, la lingua lunga, ruvida, violacea, ricoperta di poltiglia purulente, di papille e pustole infette, e il collo di nervi gronchi, di vermi macerati e bruchi attorti, e il tosco degli inverni sulle coglie, le forre maculate di fungaie, la faccia butterata di petecchie, pillacchere d’orecchie, le gerle foderate di panzane, il riso di spellate melanzane, il tubo del sifone che gorgoglia, la crosta che si stacca, la cipria che si toglie, la cera che cola e brucia sugli occhi cisposi di pollo e i pidocchi che pungono in fondo alla parrucca, e il filo dell’albume – eccomi, presente: riemergo dal profondo del mio fiume... Allora, interessa? È bello, in fondo, non vale l’apparenza. Allora, qualcuno lo reclama? È in cerca di famiglia, qualcuno se lo piglia? Costa poco, dura a lungo, riga dritto, non ha pretese: per questo lo si ama. Si accontenta del cantuccio di una stanza. È un bifolco onesto di paese, del genere più raro. Dico davvero, lo giuro sulle palle: mi possano ammazzare se non son balle! Allora?…»
  • 2. La mia grida ha risuonato come niente. Banditore inefficace. Suono permanente del silenzio, sasso del mistero. Ebbene sì, purtroppo, murato vivo in fondo al peso del silenzio: al volo di questa mosca – cic, mancata – che cuce, che pugna, che fila, che bolla, che rugna, che sogna, che scimma, che rulla, che balla, che soffia, che bava, lucente di membrana, nel riflesso del ponte che smeriglia, nel bersaglio del suo tiro a cerbottana. Cisterna di vuoto e di luce, il mio cervello-cielo. Pesce nell’acquario, boccheggio segnali d’amore che nessuno sguardo raccoglie. Nessuno mi vuole, e niente: anche il muro, così duro, mi respinge. (dalla Parte terza: “L’investitura”) Ogni giorno era la solita solfa: urla, imprecazioni, pugni sul tavolo, porte sbattute con fragore, a far tremare i muri. Ogni pasto era occasione di fare casa del diavolo, tra provocazioni, risposte, repliche, contro-risposte e contro-repliche, in una escalation che si avvitava su se stessa, senza fine, perdendo lungo il cammino i motivi del fomite iniziale – non c’era un motivo vero, ma la situazione in sé – e risolvendoli in una futile gara a chi, prevalendo, avrebbe avuto l’ultima parola: «E quando la lasci, quella disgraziata». «E sei un matto di guerra, che ci hai fatto col cervello?» «E trovati un lavoro, fannullone». «E specchiati invece a tuo fratello». Si immagini come dovetti restarci quando, dopo l’ennesimo fiasco con Pencella – la quale, persa la pazienza, e istigata da quel beota di Castragalli, stava pensando lei di lasciarmi –, già saturo di intrugli, di tossine magiche, di mestruo assorbito e polverine varie (la megera, conosciute le intenzioni della figlia, ci dava dentro a tutto vapore, come non mai: mi veniva da dirle “rassegnati, puttana. Mica ci devo rimettere io, se quella stronza di tua figlia non mi vuole più”), si immagini come dovetti restarci quando un sabato notte, tornando alle due e un quarto, trovai sopra il cuscino una lettera scritta da mio padre, di suo proprio pugno, dettata certamente da mia madre, tutta in stampatello, a biro blu, su cartoncino rigido bianco:
  • 3. ALLA TUA ETÀ È ORA CHE NON ROMPI PIÙ I COGLIONI. PERCIÒ PRENDI UNA DECISIONE; SE VUOI FARE COME TI PARE, VAI A VIVERE PER CONTO TUO. NEL FRATTEMPO CHE TI TROVI UNA CASA, LE REGOLE SONO QUESTE: RISPETTO PER I GENITORI, CHE SIGNIFICA NON PRETENDERE NULLA, NON ALZARE LA VOCE, TENERE IN ORDINE LE TUE COSE E SOPRATTUTTO L’EDUCAZIONE. IL RAPPORTO DEVE ESSERE PIÙ FAMILIARE, E NO CHE TUAMADRE NON DEVE GUARDARE NEI CASSETTI. QUESTA ESTRANEITÀ NON VA BENE. QUANDO IO LAVORAVO E STAVO CON I MIEI, I SOLDI CHE RISPARMIAVO LI TENEVA MIA MADRE, CHE AVEVA ACCESSO A TUTTE LE MIE COSE, PERCHÉ ERA MIA MADRE E MI FIDAVO. NON FACEVO COME TE, CHE LA TRATTI DA ESTRANEA COME VIVESSI IN ALBERGO. VUOI TUTTE LE COMODITÀ E NOI NON CONTIAMO NIENTE. DA QUESTO MOMENTO LE COSE CAMBIANO. PRENDITI UN PERIODO PER TROVARTI CASA AL PIÙ PRESTO E… VATTENE. Papà A tanto si era arrivati! La lettera, invero un po’ patetica e tirata per i capelli, nasceva da una lunga discussione del pomeriggio, scaturita dalle mie rimostranze per i “controlli” che di nascosto, senza parer di nulla, mia madre pretendeva di effettuare sulle mie zone private, ispezionando il portafogli, le tasche dei pantaloni, i cassetti del comodino, i ripiani dell’armadio, le pagine della mia agenda. Mi dava fastidio, più che la cosa in sé, proprio quel farlo di nascosto, non in mia presenza. «Chiedimi quel che vuoi vedere, che te lo mostro io. Tanto poi me ne accorgo». E lei, piccata: «Ti piacerebbe, cocco. Così porti alla luce solo quello che ti pare. Che controllo è?» A tanto si era arrivati! “Allora basta”, sibilai a fior di labbra infilandomi nel letto: “se le cose stanno così, domattina raduno le mie quattro carabattole e non sento ragioni: faccio bagagli, chiudo e me ne vado. Ma, se me ne vado, non torno mai più. Per sempre, per sempre! Avrete voglia, poi, di pentirvi, di richiamarmi indietro! Vedrete, vedrete, se stavolta non lo faccio… vedrete…” mormorai ronzando nel pensiero, mentre già il sonno mi divorava. Dormii profondamente per una mezz’ora. Poi, all’improvviso, mi attraversò un brivido gelido di orrore. Riemersi dalle nebbie cimmerie e… avvertii una presenza immateriale che mi fissava da un angolo della stanza. Era un idolo nero dallo sguardo lucido, penetrante. Lo vedevo nel buio. Il sorriso stampato sul volto camuso, la bocca aperta, i denti digrignati. Mi alzai di scatto, urlando, madido di sudore. Annaspai intorno all’abat- jour, accesi la luce. Era tutto al suo posto, non c’era nessun idolo. Ma sentivo un odore strano nell’aria, un puzzo che non è di questo mondo. E degli scricchiolii sospetti lungo il corridoio. «Questo è troppo, cazzo» e mi diressi difilato nella camera dei miei. Mio padre, bofonchiando, mi lasciò il posto: mi rifugiai tra le braccia di mia madre, nel lettone. Erano anni e anni che non ci venivo. Lei mi asperse di acquasanta e mi segnò, mormorando preghiere. Così, singhiozzando, acquietai pian piano il tremito, mi riscaldai un poco e trovai pace.
  • 4. (dalla Parte quinta: “Il perfezionamento”) Fuori, intanto, si è mescolata la notte con il giorno: è notte e giorno al tempo stesso. Vedo un reticolo dorato sotto la tenebra. E poi la luce madre, di un bianco inconcepibile assoluto. E il cielo azzurro che si riempie di stelle, in pieno giorno. E il sole che risplende a notte alta. È allora che sento qualcosa che mi preme il petto da dentro, e bussa, e bussa, come ad una porta che si sta per aprire. E vomito il mio cuore. Mi esce dalla bocca una sfera rossastra ondeggiante che galleggia, plop… come il palloncino dei bambini, quando sfugge loro il filo dalle mani. E sale, e sale… non lo riprendo più… Resto così a guardarlo, su nel cielo, sempre più piccolo, sempre più lontano… fino a che scompare in una nube, non c’è più… Lo so, lo sento: è diventato una virgola di luce, l’ha divorato il blu. Sicché, d’ora in poi, ogni volta che guarderò il cielo mi parrà di guardarmi allo specchio. Perché palpito lassù, son diventato parte di lassù. Guardo il fondo del cielo e trovo il mio cuore. Prima, accadeva l’esatto contrario: guardavo il mio cuore e trovavo il fondo del cielo. Si rende ora visibile, l’invisibile. Vedo il cono d’ombra della luna, dove moltitudini passate, decollate, dai vinchi del tempo divelte – insonni, tra le braccia serene del vero – bisbigliano messaggi all’universo. Sono miliardi di ponti radio, che ricevono e trasmettono le onde, in continuazione. Innumerabili: come le stelle, come i granelli di sabbia in riva al mare. Le onde del cosmo che muoiono a riva per sciogliere in canto la loro storia, le loro storie infinite; e con essa, con esse, quella stessa – eterna – del mare. E vedo le anime lucenti che scintillano, oscillando, sui campi del mistero: è un ondeggiar di mani nella mente. Scorrono correnti di energia, cavalcando il suono dei colori. Ventagli silenziosi e multiversi: eliche, girandole, spirali. Ora, senza cuore, mi sento finalmente libero da impacci. Più leggero, più acuto, più insensibile (diversamente sensibile: non in senso umano). Mi si è aperta la percezione: son diventati liberi i canali. Respiro con il cervello. Guardo con gli occhi interiori: oltre le superfici, dentro le luci opache. Ho paura di vedere fin troppo, con questo sguardo da angelo, da bambino prima di nascere, da uomo eterno, etereo. Lo sguardo di uno che muore fra un minuto ed è già oltre. Lo sguardo di Ulisse, che da tutto prende commiato. Sono uno, ormai, che ascolta una musica laddove gli altri sentono il silenzio. O che fa del silenzio la propria musica: la musica delle musiche, che le racchiude tutte. Uno che danza nell’aria, nuotando verso il cielo, su ritmi diversi. Io vedo l’aria. Il corpo dell’aria che vibra e ondeggia sospeso, come un tessuto vivo, un ectoplasma sottile, una bandiera di seta trasparente. Vedo i fiumi del tempo che scorrono veloci. Le strade iridescenti dei colori, racchiuse in ogni atomo di luce. Vedo le nuvole scomparse nell’azzurro, e quelle che devono ancora nascere. Le scie degli aerei che hanno graffiato il ghiaccio delle altitudini. I voli delle anime sul bordo dell’infinito. Le immagini riflesse dagli specchi nel corso del tempo. I colori che hanno brillato. Le musiche che hanno suonato. I timbri delle voci e le parole che hanno detto. Il colore degli occhi e le cose del mondo che hanno visto. Tutto quello che si è perso e non c’è più.