Sceneggiatura in concorso nell'ambito del progetto:
"Dal palcoscenico alla realtà: @ scuola di prevenzione", ed. 2023/24, promosso da Inail Puglia e Regione Puglia
XIII Lezione - Arabo G.Rammo @ Libera Accademia Romana
16 Calasso Lecce - Ricordi di lavoro.pdf
1. Progetto-concorso
“Dal palcoscenico alla realtà: @ scuola di prevenzione”
finalizzato alla promozione della cultura della sicurezza, a casa, a scuola e nei luoghi di lavoro,
promosso per l’anno scolastico 2023/2024 da Inail – Direzione Regionale per la Puglia e la
Regione Puglia - Assessorato alla promozione della Salute -,
in collaborazione con l’Ufficio Scolastico Regionale per la Puglia
SCUOLA: I.I.S.S. “F.CALASSO” di Lecce
STUDENTI PARTECIPANTI:
GILENARDI Flavio e RUSSO Diego della classe 4^L,
MARCUCCIO Siria e NOTARANGELO Enrico della classe 4^N,
POSO Cristiano della classe 3^L e CAIONE Francesca della classe 3^M.
PRESENTAZIONE
DI UNA SCENEGGIATURA TEATRALE
Siamo un gruppo di studenti del Liceo Scientifico Sportivo “Francesco Calasso” di Lecce.
Abbiamo aderito al Progetto INAIL sul tema della Sicurezza nei luoghi di lavoro e ci siamo cimentati
a scrivere una sceneggiatura teatrale sul tema indicato, così come richiesto dal bando. Lo abbiamo
svolto nell’ambito di un progetto di Lettura avviato dalla nostra scuola, intitolato “Leggere il mondo
per riscriverlo”. Ci è piaciuto molto lavorare tutti insieme.
Siamo voluti partire dalla realtà della nostra terra, il Salento, dal racconto di storie di lavoro
che abbiamo raccolto, con attenzione e stupore, dai nostri nonni, dalle loro vicende così cariche di
emozioni, ma anche di tristi episodi di realtà a noi prima sconosciute. Inoltre ci siamo divertiti a
scoprire canti e canzoni che non conoscevamo.
Cinque esperienze di vita vissute nel mondo del lavoro con tanti episodi di rischio, ma anche
con tanti bellissimi ricordi di amicizia e di aiuto. Tutto questo per dire che, come spesso succede,
accanto agli aspetti negativi che si possono rilevare in qualsiasi situazione, ci possono essere anche
degli aspetti positivi, grandi manifestazioni di affetto e solidarietà che vale la pena di salvare, come
importantissimo patrimonio di valori in via di estinzione.
Come titolo, abbiamo voluto inserire un acronimo di estrema importanza nell’ambito della
sicurezza nel mondo del lavoro: “DVR”, Documentazione di Valutazione dei Rischi, “Ricordi di
lavoro”; perché alla fine abbiamo compreso che tutte le nostre storie potevano ritenersi una sorta di
documento vero, reale di quello che viene detto. Pochissimi sono i contenuti di racconto che abbiamo
modificato e/o aggiunto, o inventato.
3. SCENA I
Una volta spente le luci in sala, una voce fuori campo (al microfono o
precedentemente registrata) declama:
- Se oggi pensiamo all’importanza del lavoro, nella vita dell’uomo, non pensiamo
solo al suo potere nobilitante, come si continua a dire; ma anche a tutte quelle
grandi imprese e attività del passato che sono servite per costruire, modificare,
elaborare idee, progettare, inventare. Sorridiamo compiaciuti e ammirati, alla
dedizione che è servita per portarle avanti, ma pensiamo anche agli inevitabili
rischi che ogni lavoro ha comportato nel tempo.
Pensiamo all’incessante e paziente attività delle piccole formiche che si
distinguono per la loro abilità nel suddividersi i compiti, stando molto attente a non
affollare troppo i loro luoghi di lavoro, anche se a noi sembrano sempre tante, tutte
insieme, ogni volta che le scorgiamo. Possiamo pensare al lavoro operoso e
sapiente delle amate api operaie che rischiano di estinguersi a causa dei numerosi
pericoli procurati da noi uomini. Già da esse capiamo come il lavoro sia usurante,
se consideriamo che la vita media di un’ape operaia oscilla da pochi giorni ad
alcuni mesi a seconda dello stress lavorativo dei diversi periodi a cui sono
sottoposte.
Infine potremmo pensare ad Èfesto, l’antico dio del fuoco, che fondeva
metalli per creare armi e gioielli, aiutato dai suoi collaboratori, i ciclopi, alcuni dei
quali fabbri costruttori dei fulmini di Zeus e forti costruttori di imponenti strutture
come quella di Tirinto. Quanti rischi hanno corso tutti ma quante cose importanti ci
hanno lasciato.
SCENA II
(Racconto di vita delle tabacchine)
Terminata la lettura del testo, ancora con il buio in sala, parte il brano musicale
“Fimmene fimmene” (ancora solo musicale). Alla graduale dissolvenza del buio inizia la
parte cantata, mentre si intravede una donna seduta al centro della scena. Dopo poco, 4 o
5 attori danzanti avanzano insieme da entrambi i lati del palco (metà da una parte e metà
dall’altra) portando oggetti di scena (Una cesta, delle foglie di tabacco) che lasceranno
vicino alla donna. I danzatori, dopo aver lasciato gli oggetti di cui sopra, rimangono in scena
simulando le azioni ricorrenti nell’attività di lavoro delle tabacchine (Tutto questo dura alcuni
minuti).
Appena sfuma la parte cantata, gli attori danzanti escono uno per volta; la musica si
interrompe completamente all’uscita dell’ultimo attore danzante. Dopo un brevissimo
silenzio inizia il racconto/monologo del primo personaggio.
PRIMO PERSONAGGO (figlia di una capo operaie, tabacchine)
- Mia madre lavorava al servizio di un duca e la nostra casa era vicina, sentivo le
donne che cantavano durante il loro lavoro e la voce di mia madre che le sgridava.
4. Arrivavano carichi di tabacco di vario tipo, dalla Basilicata, e poi veniva scelto
quello da lavorare.
Infilavano le loro foglie così… come questi miei fogli di memoria.
(L'attrice, infila con un ago e filo delle pagine disegnate. Nel frattempo, sullo schermo posto
in fondo al palco, vengono proiettate delle immagini di fogli disegnati da lei bambina)
La giornata di lavoro iniziava alle sette e lavoravano sino alle 12; poi avevano
un’ora di pausa ma nessuna di loro ritornava a casa, perché abitavano troppo
lontano…
Ciascuna di loro, dopo aver consumato velocemente il frugale pasto quotidiano,
sarebbe corsa a raccogliere nei campi vicini alcune cicorie e altri prodotti della
terra che, una volta rientrate a casa, al tramonto, avrebbero cotto per il nuovo
pasto del giorno seguente.
Ricordo anche che erano molto solidali tra loro. Mia madre, una sera mi raccontò
che una loro collega, ormai molto anziana, era ormai troppo lenta nel suo lavoro,
ma avendo troppo bisogno non poteva permettersi di abbandonare quel lavoro,
pertanto ciascuna di loro, tra una foglia e l’altra ne regalava una a lei perché non
rimanesse troppo indietro.
Ho sempre ammirato questo lavoro. Mi incuriosiva molto vedere il tabacco
essiccato, che veniva avvolto come in balle di paglia su cui… veniva spruzzato
quel maledetto veleno perché quelle belle foglie di lavoro non venissero mangiate
dai vermi. Ma un giorno capitò che alcune operaie si sentirono male… erano state
colte da spasmi, vomiti e difficoltà respiratorie, e furono condotte con urgenza in
ospedale. Erano state interessate da un bruttissimo avvelenamento.
A sinistra della scena, dall’alto, viene fatta scendere la silhouette di una grande foglia di
tabacco realizzata su compensato, colorata con colori pop, che rimarrà sospesa a metà,
nell’aria, sino alla fine della rappresentazione, insieme con gli altri oggetti distintivi dei vari
episodi, che andranno via via ad aggiungersi, unitamente ai corrispondenti segnali di
prescrizione circolari di colore blu.
Ma basta! Adesso voglio pensare alla mia famiglia…a me.
Io ero portata per lo studio, e mi piaceva molto; purtroppo, però, non mi è stata
data l’opportunità di frequentare l’università e mi sono dovuta arrangiare a modo
mio: le lezioni si tenevano in presenza e io dovevo pensare alle faccende di casa,
che nessun altro poteva fare. Non avevo neanche tante amiche, poiché la villa si
trovava in campagna. Passavo le giornate ammirando la forza e la volontà di
queste donne. Dopo tutti i processi di lavorazione arrivava il momento più atteso
dell’anno: l’incontro con i compratori che stabiliva le sorti del tabacco e, alla fine,
anche un po’ di tutte loro… di tutti noi.
La donna si alza e si allontana dalla scena mentre si inizia a sentire il forte rumore di
una rotativa.
Contemporaneamente, dall’altra parte entra in scena il secondo personaggio (in abiti
da tipografo, grembiule sporco di inchiostro e manicotti) che raggiunge il centro della scena
sedendosi su una pila di giornali o di libri. Appena la luce lo illumina, sfuma il rumore di
fondo della rotativa e inizia il monologo.
5. SCENA III
(In una tipografia)
Ahh che bello che è stato il mio primo lavoro, io e mio fratello Giovanni eravamo
proprio appassionati di questo mestiere, il tipografo.
Mi ricordo il primo giorno di lavoro. (L’attore si alza e cammina avanzando sul
palco)
Siamo entrati insieme in questa fabbrica, era enorme!
Un odore di inchiostro, mischiato al forte odore del solvente utilizzato per pulire,
più che un odore sgradevole, era un profumo.
C’erano varie stanze piene di cassettiere ed enormi marginiere, i tipografi erano
tutti velocissimi, lavoravano senza mai fermarsi (l’attore simula il lavoro di
composizione).
Nell’altra stanza c’erano i macchinari: maestosi, pesanti e pieni di ingranaggi a
vista…
WOW! io e Giovanni ci guardammo, eravamo entusiasti del fatto che, il giorno
successivo, avremmo potuto utilizzare quelle macchine.
seeee poveri illusi (ridacchiando)
Ma quali macchinari maestosi!!!... Per i primi due mesi abbiamo esclusivamente
fatto pulizie… e togli la polvere, e lucida il pavimento, e pulisci l’inchiostro; la
cosa più difficile era non pensare agli altri che stavano svolgendo il lavoro che
avremmo voluto fare noi.
Col passare del tempo, abbiamo iniziato a fare lavori veri! da vero tipografo!
Potevamo finalmente comporre e scomporre le forme da stampa, ma le
macchine, il nostro capo, ancora non ce le faceva utilizzare.
Era buffo quando quotidianamente ci obbligava a bere il mezzo litro di latte,
convinto che ci avrebbe fatto disintossicare dalle esalazioni nocive prodotte dal
piombo dei caratteri mobili.
Non era brutto comporre, anzi io e mio fratello facevamo sempre a gara,
l'obiettivo era comporre il più velocemente possibile senza commettere refusi,
io non ero lento eh, però Giovanni mi batteva sempre (secondi di silenzio e
nostalgia) era il migliore.
Era invidiato da tutti, perché non aveva mai fatto cadere una lettera per terra, era
l'unico a non essere mai stato sgridato dal capo! (con voce fiera)
6. Era diventato il “pupillo” del capo; era riuscito ad ottenere il “pass” per utilizzare le
macchine, prima di me e prima di tanta altra gente che lavorava lì da molti più
anni prima di noi.
Io lo guardavo dall'altra sala; si vedeva proprio che era il suo lavoro dei sogni,
lavorava in simbiosi con la macchina, una piano cilindrica 70x100, utilizzata
prevalentemente per stampare manifesti.
il suo lavoro era molto complesso, prima di utilizzare la macchina da stampa,
aveva svolto tantissimi corsi per imparare ad utilizzarla, lui doveva occuparsi di
quest’ultima come se fosse sua figlia. Non si occupava solamente di inserire
manualmente foglio per foglio, ma doveva conoscere ogni meccanismo, dal più
piccolo al più grande, in modo da saper dove mettere le mani in caso di guasto, o
semplicemente per fare manutenzione.
A questo punto il personaggio, tace, inizia ad intristirsi e a corrugare la fronte.
Io non so come sia stato possibile, che quel giorno, quella macchina, così
importante per Giovanni, gli abbia potuto togliere la vita.
Mi fa rabbia pensare che, se solo il capo gli avesse dato il grembiule adeguato e
avesse messo a disposizione più sistemi di sicurezza, quella maledetta sciarpa,
utilizzata perché ammalato, non si sarebbe mai impigliata, tirando
nell’ingranaggio mio fratello. Ora… Giovanni ed io staremmo ancora insieme.
A sinistra della scena, accanto a quella precedente, viene fatta scendere la silhouette
di una grande macchina rotativa realizzata sempre su compensato, e sempre colorata con
colori pop, che rimarrà sospesa a metà, nell’aria, sino alla fine della rappresentazione.
L’attore si toglie il camice e si ritrova già vestito, sotto, con una tuta da lavoro, pronto
ad interpretare uno dei tre personaggi della prossima scena.
Pertanto viene raggiunto da altri due attori, mentre la luce di scena si trasforma per
rendere l’ambientazione della nuova scena. Essa diventa di un bianco spettrale esasperato
dagli effetti di fumo.
SCENA IV
(In un’azienda produttrice di calce)
La scena comincia con tre attori che interpretano i colleghi di una vita, ormai, del nonno
Franco, che chiameremo Angelo, Davide e Silvio.
La scena è caratterizzata da un inconveniente avvenuto durante il turno della mattina,
quando i tre impiegati sono incaricati di pulire le fornaci. In tre non sono in grado di portare
a termine il lavoro, perché solo Franco è veramente pratico di questa operazione. Ma Franco
dov'è? È a casa che aiuta sua moglie a sbrigare alcune faccende domestiche e, verso le
dieci del mattino, Antonio, il dirigente dell’azienda, chiama a rapporto Franco per poter
7. uscire da questa scomoda situazione e Franco, anche se un po’ scettico, si sistema per
raggiungere, subito, i suoi tre colleghi.
I tre attori che rappresentano i tre colleghi inesperti sono in divisa lavorativa, quindi
vestiti con tuta e maglietta grigia e con indosso gli stivali antinfortunistici.
L’attore che raffigura il dirigente invece è vestito con un jeans modello standard e
una camicia bianca base.
Infine, l’attore che interpreta Franco, nel momento in cui risponde alla fatidica
chiamata, è vestito con una tuta sportiva. Ma dopo aver sentito il dirigente si cambia con gli
indumenti che vestono i tre attori iniziali.
Lavoravo nelle fornaci, era un’azienda dove si produceva la calce. Il lavoro si
svolgeva in tre turni: mattina, pomeriggio e notte; perché la produzione si
estendeva per 24 ore consecutive e lavoravo anche nei giorni festivi come Pasqua,
Natale e Capodanno.
La fase del lavoro più faticosa e rischiosa avveniva la mattina, quando si dovevano
pulire i forni, oppure nei momenti in cui succedevano inconvenienti, per esempio
quando si inceppavano le fornaci, ed eccezionalmente, per risolvere il problema,
anche se illegalmente, usavamo la dinamite.
Si era in continuo rischio di malanni, per la troppa polvere di cenere e di
combustibile, scarti di legna di segheria. Questa situazione si aggravava quando
si rimaneva da soli nei turni di lavoro; a me è successo qualche volta: dovevamo
evacuare dal capannone per la temperatura troppo alta al suo interno, addirittura
dovevamo andare all’esterno, con tutto che magari pioveva.
Devo precisare che, non a caso, mi trovavo da solo, perché in quel periodo, in
seguito all’introduzione di importanti novità nel processo produttivo, lavoravo come
unico impiegato, durante la notte e, secondo quello che prescrive la legge, “È
ASSOLUTAMENTE ILLEGALE.”
A dirla tutta, furono le numerose innovazioni che indussero l’azienda alla crisi e
alla sua successiva chiusura.
Ancora meditando, un triste pensiero riaffiora
…Qualche volta, dopo aver concluso il turno di notte, rientrando verso casa,
mentre guidavo la mia auto, avevo dei colpi di sonno, ho rischiato veramente tante
volte dei bruttissimi incidenti. È fortuna che io sia qui a raccontarlo.
La luce bianca della scena appena terminata, rimarrà anche nelle altre due scene
successive. Escono gli attori della scena precedente, mentre entra in scena un’attrice che
raggiunge il centro del palco srotolandosi da un filo che la avvolgeva, quasi comne fosse
una spoletta. E rimanendo in piedi, ancora un po’ imbrigliata dal filo, inizia a dire:
8. SCENA V
(Tra fili, aghi e pericolosi ferri da stiro di una sartoria)
La mia nonna paterna si chiamava Maria, era una persona esemplare e dal
carattere d’oro; da quel che ricordo, con me era molto dolce e affettuosa nell’ultimo
periodo della sua vita. Dai racconti di mio padre e dei miei zii, lei aveva un carattere
molto espansivo e prorompente tanto da essere paragonata ad un vulcano. Nella
sua vita è stata una bravissima sarta, lavoro che ha iniziato ad esercitare già all’età
di dieci anni e ha portato avanti fino alla sua età più matura, proprio perché questo
mestiere si tramanda, nella nostra famiglia, da diverse generazioni e ad oggi
continua ad esserlo grazie a mia zia Rosy che porta avanti questa tradizione.
Di mia nonna mi hanno raccontato tanti episodi, spesso divertenti e a volte
anche tristi; lei sapeva sempre come superare i momenti più difficili con la sua
autoironia ed era un solido supporto per tutti. Ricordo un episodio in particolare di
quando mia nonna, in età adolescenziale, lavorava nella sartoria di una nostra
prozia di nome Chiarina. Era una sartoria molto rinomata, conosciuta non solo nel
mio paese ma anche in tutta la provincia. In questo laboratorio lavoravano tante
donne, spesso adolescenti, che prestavano la propria manodopera gratuitamente
per poter imparare il mestiere. Mi raccontavano di queste stanze bianche con le
volte a stella dove tante persone lavoravano tra una miriade di fili colorati e stoffe
di vario genere, per consegnare, in tempi brevi, gli abiti delle feste o della
domenica; o addirittura gli abiti da matrimonio…
Nella luce bianca spettrale cadono dall’alto, nella zona centrale del palcoscenico, fili grossi
di lana colorata, che rimarranno sino alla fine. Ma dopo scenderanno, sempre dall’alto, le
silhouette di un ago gigante con un filo e un paio di forbici, che subito dopo scompariranno
per far posto alla silhouette del ferro da stiro che, invece, rimarrà sino alla fine.
… E proprio in queste mura si lavorava spesso con grandi forbici affilate,
aghi appuntiti e un attrezzo molto pericoloso, il ferro da stiro riscaldato con i carboni
ardenti, presi dal camino sempre acceso, che serviva principalmente per il lavoro
ma contemporaneamente utilizzato per riscaldare l’ambiente. Mia nonna ricordava
e raccontava spesso che… proprio per colpa del ferro da stiro rovente aveva
contratto una malattia chiamata faringite, dovuta all’inalazione dei fumi emanati dal
carbone ardente. Una malattia che si manifestava spesso con il suono della voce
un po’ sbiadito e rauco, che si è portata avanti per tutta la sua vita.
Raccontava, inoltre, che nella sartoria tirava spesso aria di buon umore, in
quanto si lavorava a porte aperte per dar modo di farsi vedere dai giovanotti che
passavano e spassavano dalla strada, in bicicletta, per il corteggiamento, mentre
dalla grossa radio a valvole si sentiva la canzone di Claudio Villa che le ragazze
canticchiavano tutte in coro:
Stupidella, non capisci che ti voglio ancora bene?
Stupi di du di du,
Non t'accorgi che il mio cuore tutto intero t'appartiene?
Stupi di du di du.
Ora basta, per favore, o m'arrabbierò,
e se perdo la pazienza, ti sculaccerò.
9. Ho scherzato quando ho detto
che non ti volevo più.
Stupidella, non lo sai
che mi sei tanto, tanto cara,
stupi di du di du,
che ti penso quando è notte,
quando è giorno e quando è sera,
stupi di du di du?
Se talvolta litighiamo, questo non vuol dir
che non ci vogliamo bene, che dovrà finir.
Questo nostro amore è fatto
anche di baci e di sospir.
Vieni qui, vieni qui!
Dammi un bacio e poi non ne parliamo più.
Senti un po', senti un po':
la ragazza che amo sul serio sei tu.
Stupidella, non capisci che ti voglio ancora bene?
Stupi di du di du.
Non t'accorgi che il mio cuore tutto intero t'appartiene?
Stupi di du di du.
Ora asciugati quegli occhi, non sopporto più
di vederti così brutta, non mi sembri tu.
Tu, che sei una stupidella,
ma sei bella e sei l'amor.
Stupidella, stupidella,
stupidella, stupidella del mio cuor!
Era il 1958 e qualche anno più tardi mia nonna Maria decise di candidarsi
come consigliera comunale con il Partito Comunista Italiano, la prima donna in
politica nel mio paese, passando, così, da Claudio Villa alla canzone “Bandiera
rossa” che pare sia stata anche una delle mie ninna nanne che, da piccolo, la
nonna mi cantava. Purtroppo il 2011 è stato un anno fatale per la mia nonna,
falciata via da un male incurabile che lei spesso riconduceva al suo amato ferro
da stiro.
La donna esce di scena andando dritto in fondo al palco, da dove verrà fuori un uomo
anziano.
SCENA VI
(In un’industria siderurgica. Maledetto trapano!)
10. Le luci sono puntate su di lui, intorno il buio. Dietro, al centro del palco, c’è un tavolino con
una vecchia radio anni 80. In sottofondo la parte strumentale di “A mano a mano” (di R.
Gaetano)
Negli anni 80 lavoravo presso una fabbrica siderurgica in Svizzera. Ci occupavamo
di costruire la struttura interna dei sedili degli aerei. Un giorno, lavoravo con il
trapano a colonna, uno strumento imponente, d’altronde lo usavo per bucare il
ferro. E sì, era proprio quello che stavo facendo quando successe il fattaccio.
Entra in scena anche un ragazzo, che indossa una tuta da lavoro, un casco antinfortunistico
e dei guanti da giardinaggio. Ha una mano ingessata. Passeggia dietro all’uomo anziano e
si guarda intorno.
Non indossavo dei guanti in cuoio o in lamina di ferro come avrei dovuto, i guanti
che mi erano stati dati erano poco più resistenti di quelli che oggi uso per fare
giardinaggio, in più mi andavano un po’ grandi. Lavoravo su dei pezzettini di ferro
abbastanza piccoli, lunghi circa sette centimetri e larghi uno.
Il ragazzo esce di scena.
Mentre foravo un’estremità di essi, il mio guanto è rimasto impigliato sotto la punta
del trapano. Non ho avuto il tempo di sfilare la mano dal guanto e mi sono ritrovato
con la mano incastrata. Il dolore era indescrivibile, il trapano continuava a tirare.
In sottofondo le urla del ragazzo fuoricampo.
Fortunatamente, in un attimo di lucidità, sono riuscito a spegnerlo. Non riuscivo
ugualmente a srotolare la mano, gridavo per il dolore, ma nessuno mi sentiva, il
rumore dei macchinari sovrastava le mie urla.
Le urla cessano.
Dopo qualche minuto, il capo si è accorto della mia situazione. Arrivato vicino a
me, non accorgendosi che il trapano era già spento, lo riaccese, rischiando di
spezzarmi il braccio. Una volta liberato da quella macchina infernale, mi portarono
in ospedale. Me la cavai con tre dita rotte.
Entra in scena il ragazzo. Con lui c’è anche una ragazza, la quale è visibilmente preoccupata
per lui. Lui cerca di tranquillizzarla.
Tornai in Italia, mia moglie alla vista della mia mano ingessata non trattenne le
lacrime, così decisi di rallegrarla alzando il volume della radio.
Il ragazzo alza il volume della vecchia radio in scena. I due si prendono per mano e
cominciano a ballare “A mano a mano” dalla strofa:
“ma dammi la mano e torna vicino può nascere un fiore nel nostro giardino
che neanche l'inverno potrà mai gelare
può crescere un fiore da questo mio amore per te”.
Si spengono le luci. FINE