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ABSTRACT
Il presente elaborato si propone di indagare sugli argomenti del cambiamento
organizzativo e delle competenze. Questi temi, alla luce della spinta dei mercati
verso il cambiamento continuo negli ambienti organizzativi, si dimostrano
profondamente correlati. In un mercato caratterizzato dalla discontinuità e da forte
competitività, diventano fondamentali quelle competenze trasversali che facilitano
i cambiamenti di ruolo, di mansione, se non di azienda. La meta cui tendere è in
questo caso l’alleostasi, ovvero il mantenimento della stabilità attraverso il
cambiamento, per il raggiungimento della quale sono fondamentali tutte quelle
competenze che permettano una ricostituzione resiliente della rottura che ogni
cambiamento provoca nello status quo delle persone. Diventa importante per
rimanere aderenti allo sviluppo dei mercati tarare ogni cambiamento
organizzativo secondo una logica di sviluppo di competenze, per raggiungere
quella competenza organizzativa che è chiave del successo per l’organizzazione
moderna. Nella prima parte di questo elaborato sarà riportata una rassegna
bibliografica riguardante i due temi, ed un approfondimento sui modelli presenti
in letteratura che meglio li collegano. Nella seconda parte sarà riportata invece
una ricerca qualitativa condotta su un caso di cambiamento organizzativo in
un’Agenzia per il Lavoro italiana tramite lo strumento dell’intervista semi-
strutturata. Questa si pone come obiettivi di analizzare se e come il caso di studio
abbia affrontato le sfide per il cambiamento concettualizzate nel modello di Kotter
(1995) approfondito nella prima parte e quali competenze trasversali siano viste
dal campione intervistato come facilitanti per una ricostituzione resiliente.
2
INDICE
INTRODUZIONE
PARTE PRIMA
1. CAMBIAMENTO
1.1. Premessa
1.2. Il cambiamento organizzativo nella psicologia delle organizzazioni
1.3. Modelli di cambiamento organizzativo
1.4. Resistenze al cambiamento organizzativo
2. COMPETENZE
2.1. Premessa
2.2. Le competenze: tentativi di definizione
2.3. Competenze per l’organizzazione moderna
2.4. Trasversalità e trasferibilità delle competenze
2.5. La gestione delle risorse umane secondo la logica dello sviluppo di
competenze
2.6. La valutazione delle competenze
3. COMPETENZE PER IL CAMBIAMENTO
3.1. Premessa
3.2. Un iceberg che si scioglie
3.3. Compiere il cambiamento
3.4. Quali competenze per il cambiamento?
3.5. Un tentativo di sintesi
p. 4
p. 7
p. 8
p. 8
p. 9
p. 12
p. 19
p. 24
p. 24
p. 25
p. 29
p. 32
p. 35
p. 39
p. 43
p. 43
p. 44
p. 48
p. 50
p. 57
3
PARTE SECONDA
4. ANALISI DEL CASO DI UNA APL ITALIANA
4.1. Obiettivi
4.2. Contesto e soggetti
4.3. Strumento e procedura
4.4. Analisi dei dati
4.5. Risultati
4.6. Discussione
4.7. Implicazioni operative e di ricerca
ALLEGATI
A. Dizionario Soft Skills 6x6
B. Traccia dell’intervista
C. Interviste sbobinate
D. Gerarchizzazione Soft Skills
E. Categorizzazione del materiale delle interviste
BIBLIOGRAFIA
p. 59
p. 60
p. 60
p. 63
p. 67
p. 74
p. 77
p. 111
p. 118
p. 121
p. 122
p. 128
p. 132
p. 158
p. 164
p. 182
4
INTRODUZIONE
Negli ultimi decenni il panorama organizzativo mondiale ha conosciuto
un’evoluzione importante, in cui le organizzazioni si sono trasformate, citando
una metafora di Butera (2012), da orologi a organismi, da castelli a reti.
Molto è cambiato nelle strutture, nei sistemi di coordinamento, in quelli di
controllo, nell’organizzazione del lavoro e delle risorse, nei ruoli e nella cultura di
aziende e pubbliche amministrazioni. Il contesto attuale è caratterizzato dalla
continua ricerca d’innovazione e di garanzie di successo organizzativo, ricerca che
ha contraddistinto il superamento dei vecchi modelli organizzativi. Nonostante
ciò, come sottolinea l’autore, i vecchi modelli taylor - fordisti sono stati
caratterizzati da una tale pervasività e potenza nei modi di produzione e consumo,
che il cambiarli e l’aggiornarli assecondando le spinte che l’ambiente e i mercati
impongono è un compito assai arduo.
Questa difficoltà non può comunque diventare scusante per l’immobilismo, in
quanto le sfide della terziarizzazione dell’economia, dei mercati sottoposti a
pressioni concorrenziali estreme, dell’instabilità delle situazioni e dei contesti di
lavoro, dell’evoluzione demografica, pongono come necessario un cambiamento
tanto strutturale quanto culturale della gestione delle organizzazioni.
Il modello taylorista delle procedure, delle prescrizioni e dei protocolli è inadatto
a rispondere a tali sfide, ed esse non possono sostituirsi alle capacità di
comprensione e d’interpretazione della situazione. Secondo Le Boterf (2008),
infatti, “non si può eliminare l’imprevisto rafforzando fino all’estremo i controlli
o affidandosi ad una tecnologia sofisticata” (ivi, p. 24). Nonostante egli ammetta
che la produttività non possa in alcun caso essere trascurata, queste nuove sfide
presuppongono un approccio diverso da parte dell’attore organizzativo, che deve
diventare un professionista sulle cui competenze si possa fare affidamento nei
momenti di rischio e incertezza. Saranno quindi sempre più richiesti da parte
dell’organizzazione la responsabilizzazione, l’investimento personale e
5
l’iniziativa locale. Il sistema di competenze diventa quindi leva centrale per il
cambiamento all’interno delle organizzazioni. Citando Le Boterf: “l’impresa del
terzo millennio può funzionare e svilupparsi soltanto se può fare affidamento sulla
competenza dei professionisti” (ivi, p. 26).
Questo scritto propone un’indagine riguardante questi temi, partendo da un’analisi
dello stato dell’arte della letteratura organizzativa.
Nei primi due capitoli verrà proposta una rassegna bibliografica riguardante i temi
del cambiamento organizzativo e delle competenze, cercando di sottolineare nel
primo i diversi modelli teorici che ne hanno caratterizzato lo studio negli ultimi
decenni e i conseguenti risvolti applicativi; tentando di dare nel secondo una
chiarificazione del concetto di competenza che sia aderente al contesto
organizzativo attuale e fornendo una panoramica degli strumenti che la letteratura
propone per un suo utilizzo proficuo.
Nel terzo capitolo si cercherà di collegare le due tematiche proponendo una
rassegna bibliografica che indaghi sull’interrogativo di quali siano le competenze
trasversali che permettano di giungere ad un compimento reale dei processi di
cambiamento organizzativo, trovando nel modello di cambiamento di Kotter
(1996) un background teorico forte nel ricordare come il riconoscimento, la
valutazione, la gestione e lo sviluppo delle competenze degli attori organizzativi
siano un momento fondamentale di promozione e di messa in pratica del
cambiamento organizzativo. Si è inoltre riconosciuto nel costrutto di competenze
di resilienza un ruolo chiave nello svolgere da moderatrici delle resistenze al
cambiamento, indicate in letteratura come gli ostacoli più grandi al compimento
del cambiamento organizzativo (Quaglino, 2007).
Nel quarto ed ultimo capitolo sarà presentata l’indagine su un caso di una Agenzia
per il Lavoro italiana che ha recentemente messo in atto un importante processo di
cambiamento organizzativo, indagine svolta tramite l’impiego del metodo
qualitativo dell’intervista semi-strutturata. Obiettivi dell’indagine saranno in
questo caso capire quali fasi del modello di Kotter (1996) si sono affrontate nel
caso in esame, e, soprattutto, come sono state affrontate, e quali sono state le
6
competenze riconosciute come più importanti per compiere un cambiamento in
maniera resiliente.
7
PARTE PRIMA
8
1. CAMBIAMENTO
1.1 Premessa
“Il cambiamento, con tutti i rischi che comporta, è la legge dell'esistenza”
(Kennedy, in Biagi, 1971).
Biagi in questa citazione mette in risalto due aspetti fondamentali che riguardano
il cambiamento: la sua necessità e al contempo la sua rischiosità. La prima
rimanda alle numerose spinte che ambiente, individui e organizzazioni,
interagendo, esercitano continuamente gli uni sugli altri; la seconda invece
riguarda l’incertezza degli esiti del cambiamento in rapporto agli sforzi intrapresi
per attuarlo. Incertezza derivante dalle molteplici variabili in gioco in un processo
di cambiamento, riguardi esso dimensioni individuali, di gruppo o organizzative.
Il concetto di cambiamento organizzativo è da tempo oggetto di studi approfonditi
da parte di gran parte delle discipline che si occupano di tematiche economiche,
organizzative e del lavoro. Nonostante esso andrebbe “considerato come evento
corrente, come naturale connotazione della dinamica evolutiva di sistemi
complessi come le organizzazioni” (Tanucci in Argentero, Cortese, Piccardo,
2010, p. 321), diventa argomento di attualità ogniqualvolta per affrontare
congiunture economiche avverse come quelle attuali, le organizzazioni sono
costrette a ripensare a se stesse e a mutare.
Sono molteplici le forze che spingono le organizzazioni a modificare le proprie
azioni, le proprie strutture e i propri obiettivi in funzione di una maggiore o
rinnovata efficacia. Spinte esterne all’organizzazione, di tipo socioeconomico,
culturale e valoriale che investono tematiche come l’innovazione tecnologica, il
mutamento delle caratteristiche dei mercati e della forza lavoro (Daft, Noe, 2001),
ma anche interne ad essa, che riguardano la gestione delle risorse umane e il
comportamento manageriale, e individuali, che riguardano soprattutto la gestione
dei ruoli, delle transizioni (Fraccaroli, 1998).
9
La molteplicità, il valore, e la forza di queste spinte rendono il cambiamento
evento necessario nella vita delle organizzazioni, e la sua gestione diventa “la
carta vincente di ogni organizzazione che intende sopravvivere al mercato e
resistere alla concorrenza” (Piccardo e Colombo, 2007, p. VII). “Cambiare,
governare i mutamenti, e sapersi adattare sono le parole chiave di ogni
organizzazione che intende essere al passo con i tempi” (ibidem).
Il motivo dell’ importanza della gestione del cambiamento va ricercata nelle
difficoltà che si incontrano nel tentativo di prevederne gli esiti, che possono essere
anche pesantemente compromettenti per il funzionamento organizzativo. Per
questo si è andata diffondendo sia nella teoria che nella pratica del management la
consapevolezza che una sfida di tale portata necessiti lo sviluppo di specifiche
competenze, conoscenze e capacità da parte dei suoi attori principali, sviluppo che
deve portare ad una sintesi congruente le diverse istanze tecnico-razionali e
psicologico - sociali (Rebora e Minelli, 2007) che entrano in gioco in un processo
di cambiamento.
1.2 Il cambiamento nella psicologia delle organizzazioni
Molti autori hanno cercato di dare una definizione di cambiamento organizzativo,
i loro sforzi se da un lato hanno permesso di coglierne le sfumature nella vastità
del termine, dall’altro hanno lasciato molti margini di ambiguità al concetto.
Sembra riproporsi anche in quest’ambito il problema della coperta troppo corta.
Per quanto si cerchi di abbracciare il fenomeno in tutti i suoi aspetti, la sua
complessità lo rende difficile da definire nella sua interezza.
Quaglino (1990, p. 323), seppure in una accezione che lo descrive come atto
deliberativo e finalizzato, e che quindi tralascia la “natura e le caratteristiche
dinamiche dei sistemi organizzativi e del loro divenire” (Piccardo e Colombo,
2007, p. 11), parla del cambiamento organizzativo “come quell’insieme di azioni
pensate e orientate dichiaratamente e deliberatamente verso un obiettivo di
mutamento dell’organizzazione”.
10
In questa accezione il cambiamento organizzativo diventa intervento necessario
all’organizzazione in un momento in cui il suo funzionamento diventa critico, e
quindi c’è l’urgenza di risolvere una situazione-problema attraverso l’introduzione
di un’innovazione. Si configura in un “passaggio di stato”, ovvero una transizione
da uno stato A, che “rappresenta l’insorgenza di una situazione o di un problema
che interferisce con la stabilità dell’organizzazione oppure impedisce il
mantenimento o il miglioramento di un livello di prestazione” (ibidem) , ad uno
stato B che rappresenta l’esito desiderato del cambiamento, in una certa unità di
tempo. La situazione-problema può scaturire da fatti e aspetti che si riferiscono sia
agli elementi tecnici, sia a quelli sociali che compongono l’organizzazione
(Quaglino, 2007). Nella sua definizione Quaglino (1990) pone le basi per una più
chiara definizione del contenuto del cambiamento e del processo di cambiamento.
Il contenuto andrebbe individuato nella differenza tra lo stato B sperato e lo stato
A attuale; il processo invece in ciò che viene agito per passare dallo stato A
attuale allo stato B sperato.
Tichy (1983) si sofferma invece sulle forme che può assumere il cambiamento
organizzativo: ad una forma “strategica, di carattere essenzialmente discontinuo,
orientata e diretta a conseguire una trasformazione profonda dell’organizzazione”
(Piccardo e Colombo, 2007, p. 15), che rimanda quindi alla definizione di
cambiamento come azione deliberata da parte dell’organizzazione, egli
contrappone una forma “evolutiva, risultato di eventi in larga misura al di fuori
del controllo degli attori organizzativi” (ibidem), cogliendone quindi anche la
natura dinamica. Fraccaroli (1998, p. 14) pone ancora di più l’accento su questo
aspetto, parlando di “processi dinamici ed evolutivi delle culture, delle strutture,
delle strategie e dei gruppi di potere nelle organizzazioni”. March (1981) nel suo
modello dell’incertezza, sottolinea come proprio questi processi evolutivi siano i
più difficili da riconoscere e gestire, in quanto non sono né determinabili, né
razionalizzabili, ma guidati sostanzialmente dal caso.
Rice (1963) sposta il focus sugli aspetti individuali del cambiamento
descrivendolo come “mutamento dei ruoli e delle relazioni proprie dei ruoli e
11
quindi delle mansioni e dei rapporti personali di coloro che li esplicano” (ivi,
p.14). Dalla sua definizione emerge l’importanza dell’aspetto umano e sociale che
già Lawrence (1954) e in tempi più recenti Rebora (2007) hanno contrapposto
all’aspetto tecnico del cambiamento. Mentre quest’ultimo si riferirebbe ad una
modificazione nei processi lavorativi, il primo si riferisce al “modo in cui le
persone, che sono direttamente coinvolte nello stesso processo di cambiamento,
pensano che esso modificherà le loro radicate relazioni nell’organizzazione”
(ibidem).
Come si può notare, il concetto di cambiamento con le numerose sfaccettature, è
andato evolvendosi su specifici focus a seconda del livello d’analisi adottato dai
diversi autori, pur mantenendo come punto di contatto lo stretto rapporto di
interdipendenza tra ambiente esterno, organizzazione e individui che ne fanno
parte. Rapporto che suggerisce l’utilità di utilizzo di un approccio sistemico allo
studio del cambiamento organizzativo, sforzo portato avanti dal Tavistock
Institute of Human Relations fin dai primi anni ’60, frutto della sintesi di modelli
teorici diversi e spesso lontani tra loro: il modello psicodinamico (Freud, Klein,
Bion), le indicazioni proposte da Bertalanffy per una teoria generale dei sistemi, i
lavori di Mayo e Lewin (Quaglino, 2007). L’assunto di base è che
l’organizzazione:
“si presenta come una totalità in sé: qualsiasi modificazione che
intervenga a livello di un suo elemento particolare o meglio delle
relazioni che tale elemento ha con altri elementi, non va mai vista
come un fatto isolato nella misura in cui determina una completa
modificazione della struttura stessa nella sua totalità.” (ivi, p.15)
Il fenomeno, quindi, va considerato come un insieme strutturato di parti, nei
termini delle relazioni esistenti tra esse. Questo permette di considerare al
contempo tutti i diversi livelli, individuale, infragruppo, intergruppi,
organizzativo, e di cogliere come il processo di cambiamento influenza questi
livelli e come questi sono in grado di influenzare il processo in sé e i suoi esiti.
12
In sintesi, per dirla con Quaglino (2007, p.120) la letteratura suggerisce degli
assunti di base dai quali partire nello studio del cambiamento organizzativo.
 Il cambiamento non è più momento eccezionale, ma la costante dei
processi organizzativi.
 Difficilmente al cambiamento corrisponde il profilo della normalità e
della continuità evolutiva e della padronanza razionale dei suoi contenuti.
 Affrontare al meglio il cambiamento non vuol dire solo aver capacità di
ripensare strategie e strutture, ma anche di trasformare mentalità e cultura.
1.3 Modelli di cambiamento organizzativo
Uno dei primi e più famosi modelli di cambiamento organizzativo presenti in
letteratura è quello di Lewin. Egli già dai primi anni ’50 “propone un modello
dinamico del comportamento dei gruppi che punta l’attenzione sulla tendenza a
mantenere uno stato di equilibrio costante nel tempo, anche in presenza di spinte
al cambiamento” (Piccardo e Colombo, 2007, p. 29). Nel suo modello ipotizza
l’esistenza di due tipi di forze che agiscono su questo equilibrio, da una parte
quelle che spingono verso il cambiamento, dall’altra quelle che cercano di
resistere ad esso. Tendenzialmente queste forze si controbilanciano in una sorta di
omeostasi, ma avviene che per ragioni diverse, come pressioni presenti
nell’ambiente, diminuzione dell’efficacia, riconoscimento di un problema, le
spinte vincano le resistenze, dando inizio al processo di cambiamento. È questa la
prima fase del modello di Lewin, ovvero quella dello scongelamento, dove
avviene “la rottura dell’equilibrio esistente all’interno dell’organizzazione”
(Piccardo e Colombo, 2007, p. 30), durante questa fase l’organizzazione riconosce
di dover cambiare e da il via alla seconda fase, ovvero quella del cambiamento
vero e proprio, che continua fino al raggiungimento di un nuovo equilibrio tra le
due forze. Una volta raggiunto questo equilibrio si arriva alla terza fase, quella
finale del ricongelamento, dove “i cambiamenti sono rinforzati e stabilizzati fino
13
alla loro istituzionalizzazione come parte di una normale routine” (ivi, p.31). È
questa la fase di rinforzo e valutazione dei cambiamenti apportati.
Il compito di un buon management secondo questo modello è quello di
individuare alle spinte al cambiamento, e cercare di sfruttare le eventuali fonti di
insoddisfazione per attivare la fase di scongelamento, fase fondamentale per il
buon esito del processo di cambiamento, in quanto è attraverso questa fase che si
può cercare di regolare la direzione che prenderà il sistema sbilanciato. (ibidem)
Per quanto questo modello sia molto diffuso, e nonostante gli sia riconosciuta la
primogenitura nell’affrontare il tema e nei suoi pioneristici risvolti metodologici,
la sua eccessiva linearità lo ha reso oggetto di critiche. Esso infatti, è ritenuto
“eccessivamente generico per una comprensione e una spiegazione approfondita
del cambiamento organizzativo” (ivi, p. 39). Va detto però che Lewin in origine
non sviluppò il suo modello specificatamente per studiare il cambiamento
organizzativo, ma la sua ottica era allargata ad una dimensione di “sistema” che
comprende anche strutture differenti da quella dell’organizzazione. Da ciò
probabilmente deriva la sua genericità. Manca infatti un’analisi e delle linee guida
per la progettazione e la reale implementazione del cambiamento. Per questo
motivo, Lussier (1996) propone un suo modello integrandolo a quello di Lewin.
Alle tre fasi di Lewin egli contrappone un modello a cinque fasi. Il modello resta
lineare, quindi vede il cambiamento come una serie di tappe prestabilite, ma ha il
merito di mettere in risalto gli aspetti gestionali del cambiamento organizzativo
trascurati da Lewin.
Di seguito le fasi definite nel modello di Lussier.
 Definire il cambiamento: in quanto ad “obiettivi, soggetti, mansioni da
svolgere, effetti creati” (Foglio, 2011, p. 93). Si tratta di stabilire la
direzione verso la quale la situazione sta evolvendo, tenendo sotto
controllo quanto e come questo avrà effetto sulle altre variabili
organizzative.
14
 Identificare le resistenze al cambiamento: trovarne la fonte, comprendere
le caratteristiche e l’intensità.
 Pianificare il cambiamento: progettare e sostenere l’intervento,
strutturando i macro-obiettivi in sotto-obiettivi intermedi, pianificando
mezzi, risorse e tempo. Importante in questa fase il sostegno al
cambiamento, messo in atto attraverso “un adeguato sistema di
supervisione degli obiettivi intermedi e un monitoraggio delle resistenze
che possono ostacolare il processo” (Piccardo e Colombo, 2007, p. 40)
Questa sembra corrispondere alla fase di scongelamento di Lewin, in
quanto in questa fase il management deve apportare un “rinforzo guidato
delle spinte che hanno generato il bisogno di cambiamento” (ibidem)
 Promuovere il cambiamento: fase di attivazione del processo di
cambiamento attraverso il coinvolgimento di tutti gli attori organizzativi,
che devono essere informati in maniera chiara sulla necessità del
cambiamento e sui suoi possibili effetti. In questa fase è necessario
mettere i nuovi obiettivi in relazione con i valori esistenti
nell’organizzazione, usare stili di supervisione opportuni, permettere a
tutti gli attori di esprimere dubbi, timori, attese e speranze. È il
management che “deve farsi carico delle incertezze individuali al fine di
promuovere e garantire il successo del processo di apprendimento”
(ibidem).
 Controllare il cambiamento: verificare la realizzazione effettiva e il
mantenimento nel tempo dell’intervento di cambiamento.
Il merito di questo modello è quello di spingere verso una sensibilizzazione e una
responsabilizzazione di tutti gli attori organizzativi, dal management ai
dipendenti. Questi ultimi vanno resi partecipi nel progetto per diventare essi stessi
agenti del cambiamento e non semplici spettatori paganti. L’eccessiva linearità del
modello di Lewin, però, resta intatta. Le organizzazioni, come gli uomini che le
compongono, peccano di razionalità limitata, e molto spesso “vi è uno scarto
15
incolmabile tra progetto e processo” (Quaglino, 2007, p. 343). “I processi
evolutivi non sono determinati e razionalizzabili, ma caratterizzati da
indeterminatezza, discontinuità e saltuarietà” (Piccardo e Colombo, 2007, p. 36)
A questo proposito March (1981) propone un modello di cambiamento
organizzativo come “certezza dell’incertezza” (ibidem), modello che vede nel
cambiamento la ragione stessa dell’esistenza dell’organizzazione. Il problema è
che raramente le organizzazioni realizzano quello che realmente avevano
progettato, proprio per via del loro vincolo di razionalità limitata, che le condanna
a conseguenze inattese in ogni azione intrapresa ed alla scarsa capacità di
apprendere dal proprio contesto. Spesso quando le organizzazioni cambiano
hanno a disposizione poche soluzioni, inoltre dimostrano difficoltà
nell’individuare nessi di causalità tra problemi e soluzioni, quindi i cambiamenti
sono guidati più dalle soluzioni possibili che dal problema in sé. Inoltre spesso
esse stesse si trasformano durante il processo di cambiamento, mutando i propri
obiettivi ed elaborandone di nuovi, ma rischiando di trovarsi nella trappola di quel
meccanismo di difesa di matrice psicodinamica che Hinshelwood (1987) definisce
come “spostamento del compito” (p. 92). Infine Maslow fa notare come
“raramente si verifica una piena coerenza tra le esigenze di cambiamento
dell’organizzazione, degli individui che ad essa appartengono e delle altre
organizzazioni appartenenti al medesimo settore” (citato in Quaglino, 1990, p.
338), e quindi spesso le spinte al cambiamento interne ed esterne
all’organizzazione andranno verso direzioni diverse, caotiche e conflittuali.
L’intervento di Maslow fa capire quanto un approccio di tipo lineare allo studio
del cambiamento organizzativo sia poco aderente alla realtà delle organizzazioni,
e pone in rilievo la necessità di un modello che ne colga meglio la realtà
complessa.
Kreitner e Kinicki (2004), sulla base dei lavori di Fuquba e Kurpis (1993), Nadler
e Tushman (1997), Buelens (1999) hanno sviluppato a questo proposito un
modello basato sull’assunto che ogni tipo di cambiamento “ha un impatto a
cascata all’interno delle organizzazioni” (Piccardo e Colombo, 2007, p. 42),
16
impatto che riguarda “politiche aziendali, procedure, struttura, sistemi gestionali,
personale, processi, lavoro, tecnologia, ecc” (Foglio, 2011, p. 94). Si tratta di un
modello sistemico, sviluppato sulle basi del relativo approccio citato nel paragrafo
1.1, che è caratterizzato dall’azione di tre componenti sull’organizzazione: input,
elementi del cambiamento e output.
Gli input fanno riferimento alla mission e alla vision dell’organizzazione. La
prima rappresenta lo scopo intrinseco dell’esistenza dell’organizzazione, la
seconda la via da seguire per il cambiamento, che si struttura in un piano
strategico scelto sulla base delle potenzialità dell’organizzazione e le opportunità
offertele dall’ambiente.
Gli elementi del cambiamento sono gli aspetti dell’organizzazione che sono
oggetto del cambiamento: “aspetti organizzativi, obiettivi, metodi, fattori sociali,
attori organizzativi” (Piccardo e Colombo, 2007, p. 45), tutti tra loro legati da
relazione sistemica, quindi ogni cambiamento sul singolo elemento ha effetti sugli
altri.
Gli output fanno riferimento invece ai risultati che si vogliono conseguire tramite
l’intervento di cambiamento.
Il cambiamento quindi si esplica in un input dato dalla potenzialità
dell’organizzazione, uno dato da un’occasione dettata dal contesto a partire dai
quali viene strutturata la strategia per il raggiungimento degli output desiderati.
Obiettivi, metodi, fattori sociali e aspetti organizzativi che ruotano attorno agli
attori organizzativi, fanno da mediatori tra i primi e gli ultimi e ne condizionano il
rapporto. Il vantaggio del modello sistemico è appunto quello di cogliere
l’importanza di questi mediatori nel processo di cambiamento, di riconoscerli, e
quindi di darne un resoconto oggettivo sulla base del quale andare a strutturare un
intervento che vada a colpire obiettivi specifici e circoscritti con il fine di generare
e promuovere il cambiamento all’interno dell’organizzazione.
Un esempio di intervento di questo tipo, sviluppato nella metà degli anni ’60 negli
Stati Uniti e diffusosi successivamente in Europa è l’OD, Organizational
Developement, descritto da Piccardo e Colombo (2007, p. 47) come “vera e
17
propria strategia per perseguire il cambiamento pianificato[…]adottando una
prospettiva di tipo educativo mirata ad agire sull’apprendimento degli individui”,
attraverso quindi “l’applicazione delle conoscenze tipiche delle scienze
comportamentali” (ivi, p. 51).
Questo tipo di approccio parte dal presupposto che nel processo di cambiamento
sia necessaria la partecipazione attiva del personale coinvolto, e che quindi esso
non vada attuato secondo le logiche top-down attualmente in uso dalla maggior
parte delle organizzazioni, ma tramite processi che apportino aggiustamenti di
tipo incrementale che coinvolgano tutti gli attori organizzativi.
Dunphy e Stace (1988) sottolineano come questo modello incrementale si
contrapponga ad un modello di cambiamento di tipo trasformazionale, necessario
quando non c’è coerenza tra organizzazione e ambiente esterno, e quindi c’è
necessità di adattamenti continui da parte della prima rispetto al secondo. In
questo caso il management ha scarso controllo diretto sulle spinte al
cambiamento, ed il processo perde di prevedibilità. In quest’ottica, “di fronte a
crisi originate da instabilità e dalla non prevedibilità dello scenario in cui si
colloca l’organizzazione, l’impresa ha come unica alternativa, […] la sua stessa
trasformazione”
Processi di questo tipo, necessitando di azioni dirette e spesso prive di apparente
(o reale) coerenza, possono apparire coercitive, soprattutto per chi subisce l’onda
del cambiamento senza intuirne la direzione. Di contro invece un intervento di
OD “si presenta come un processo altamente partecipativo in grado di coinvolgere
il cliente in tutti gli stadi dell’intervento, focalizzando l’attenzione sugli individui
coinvolti nel cambiamento stesso in quanto fondamentali per la sua realizzazione”
(Piccardo e Colombo, 2007, p. 52). È un intervento teso a produrre stabilità e
crescita nell’organizzazione attraverso la valorizzazione e il potenziamento degli
attori organizzativi in una logica di empowerment.
Questo tipo di intervento è complementare a quello trasformativo, in quanto le
condizioni per una sua attuazione sono in antitesi con quelle descritte in
precedenza. Un intervento di cambiamento di tipo incrementale necessita di
18
coerenza con l’ambiente, buona prevedibilità delle situazioni e del tempo
necessario per produrlo. Si basa sulla logica di interventi coerenti tra loro, dove
ogni attore organizzativo possiede le giuste quantità di informazioni per capirne la
direzione e lo scopo. Si basa quindi su un principio di diffusione, assimilazione e
interiorizzazione di tali informazioni. Il suo scopo è ridurre l’incertezza, rafforzare
la sicurezza percepita, e conseguentemente ridurre l’ansia riguardo gli esiti e le
modificazioni che ogni cambiamento porterà ai suoi attori.
L’OD si configura come un processo sviluppato a partire della ricerca-azione di
Lewin (McShane, 2001), che prevede quindi fasi di analisi dei bisogni di
cambiamento, interventi veri e propri e fasi di valutazione degli esiti. Benton
(1995, citato in Picardo e Colombo, 2007, p. 52) individua le aree da presidiare in
un intervento di Organizational Developement:
 la definizione degli obiettivi e degli scopi sia per l’organizzazione, sia per
gli individui;
 i tempi e i costi dell’intervento;
 gli aspetti psicologici con particolare attenzione alla ricerca di soluzioni
adatte al contesto socioculturale;
 la fiducia reciproca come collante tra individuo e organizzazione, tra il
livello dirigenziale e i dipendenti;
 il team building e l’intervento sulle relazioni tra ed entro i gruppi;
 l’apprendimento dall’esperienza cosi da valorizzare la capacità di
imparare dai propri errori.
Esso è portato avanti da agenti del cambiamento, che McShane (2001) definisce
come “individui che possiedono le giuste conoscenze, le abilità e il potere di
guidare facilmente il cambiamento” (Piccardo e Colombo, 2007, p. 83). Questi
devono essere sia interni all’organizzazione, quindi persone che ne posseggano
una conoscenza approfondita e che occupino posizioni di leadership, sia esterni, in
quanto portatori di un punto di vista più distaccato e oggettivo
19
sull’organizzazione. L’azione combinata di questi due tipi di agenti, deve dare
forma e struttura al processo, aiutando a costruire il commitment necessario per
raggiungere gli esiti sperati. Il loro compito è quello di “rendere tutti i dipendenti
agenti di cambiamento, cosi da responsabilizzarli nei confronti di un progetto
collettivo” (McShane, 2001, citato in Picardo e Colombo 2007, p. 84).
1.4 Resistenze al cambiamento organizzativo
Un processo di cambiamento va ad attaccare una situazione di status quo nel quale
ruoli, norme, obiettivi e valori sembrano stabili e cristallizzati
nell’organizzazione, ed in un certo senso infondono sicurezza proprio perché
conosciuti e riconosciuti socialmente dal gruppo di appartenenza. Il cambiamento,
avendo come naturale esito la modificazione di tali elementi che rivestono
un’importanza fondamentale nello sviluppo identitario all’interno di ogni gruppo
sociale o organizzazione, porterà inevitabilmente con se fattori di incertezza
inerenti sia la dimensione operativa, quindi azioni e decisioni volte al
raggiungimento del compito primario, che quella relazionale, ovvero percezioni,
sentimenti ed emozioni che si creeranno inevitabilmente durante la collaborazione
o il confronto con altri membri dell’organizzazione (Quaglino, 2004). Questa
incertezza è inevitabilmente fonte di ansia, che dovrà essere contenuta o
mascherata, o ancora evitata, tramite l’utilizzo di molteplici meccanismi di difesa
che, “pur originando dalla storia di ciascuno, vengono di fatto ad assumere un
carattere condiviso e socializzato” (ivi, p. 4)
Come spiegano Piccardo e Colombo (2007) in realtà questa dimensione difensiva
è sempre presente nelle organizzazioni, ed è alla base di tutti i comportamenti
mutevoli e poco prevedibili del comportamento organizzativo. Essa riguarda la
protezione messa in atto a tutti i costi contro conseguenze vere o immaginarie del
cambiamento, ed è ancora più accentuata nel mondo del lavoro moderno, in
quanto meno routinario, più situazionale, insicuro e mutevole rispetto al passato
(Quaglino, 2004).
20
Piccardo e Colombo (2007) riconducono l’attivazione delle difese sociali al
concetto di confine rispetto a tre diverse dimensioni della vita organizzativa: i
confini organizzativi, i confini di ruolo e i confini di autorità.
I confini organizzativi riguardano l’apertura (o la chiusura) del mondo
organizzativo all’ambiente esterno. Esso sarà infatti fonte di instabilità e di
continue spinte al cambiamento. L’obiettivo del management è in questo caso la
buona negoziazione di tali confini, in modo che l’ambiente interno sia
adeguatamente protetto dall’instabilità esterna, ma che allo stesso tempo
l’organizzazione abbia sufficiente sensibilità ad essa, in modo da potervisi
adattare prontamente. È proprio tale negoziazione, secondo gli autori, la prima
fonte di ansia all’interno delle organizzazioni.
I confini di ruolo riguardano una dimensione più interindividuale.
L’organizzazione moderna del lavoro comporta spesso un ampliamento delle
attività lavorative e delle responsabilità. A questo ampliamento consegue la
necessaria integrazione tra i diversi ruoli all’interno delle organizzazioni, ruoli che
a volte possono risultare sovrapporsi o essere in conflitto tra di loro. Secondo gli
autori la seconda fonte di ansia è proprio la negoziazione di tali confini di ruoli,
alla ricerca del mantenimento dell’integrità del proprio ruolo e della necessaria
integrazione con gli altri.
I confini di autorità riguardano infine una dimensione legata più all’esercizio del
potere all’interno del proprio ruolo organizzativo. In questo caso l’ansia è legata
ai meccanismi di presa di decisione e alle loro conseguenze.
Comprendere come queste ansie e le loro conseguenti difese influenzino gli
atteggiamenti, e quindi i comportamenti degli attori organizzativi rispetto al
cambiamento diventa sfida cruciale per il management. Sono esse infatti le cause
di ciò che rappresenta l’ostacolo principale di ogni processo di cambiamento,
ovvero la reazione di chiusura e irrigidimento degli attori coinvolti nei suoi
confronti. Come sottolinea infatti Hinshelwood (1987, p. 187) le forme di
irrigidimento dell’integrità di gruppo “sono un metodo mediante il quale si tenta
di evitare lo stato di frammentazione”. È innegabile che ogni cambiamento porti
21
con sé destrutturazione e ristrutturazione di schemi esistenti, adozione di nuovi
comportamenti e adesione a nuove norme, valori e stili di vita. L’incertezza e
l’inadeguatezza sono i sentimenti che accompagnano la rottura del precedente
status quo. Il conosciuto, per quanto non possa piacere, è sempre più rassicurante
dell’ignoto (Piccardo e Colombo, 2007).
Ma l’irrigidimento offre una protezione dalle ansie soltanto relativa e limitata nel
tempo, che porta con sé pericolosi svantaggi come depersonalizzazione, diminuita
capacità di giudizio sulla realtà e distorsione dei compiti in funzione difensiva
(Hinshelwood, 1987), oltre a rischiare di portare ad un effetto che Guichard e
Huteau (2003) descrivono come Hysteresis, in cui certi attori continuano per un
certo tempo ad applicare schemi di lettura o di giudizio e comportamenti ormai
inadatti all’organizzazione ormai mutata. Ansie e resistenze riducono quindi
l’efficienza dell’organizzazione.
Al contrario:
“Accettare il cambiamento implica sforzo, volontà vera di farsi
coinvolgere attivamente e non passivamente nel processo, fiduciosi
che la nuova situazione, ancorché ignota e sotto certi punti di vista
ambigua, rappresenti uno sviluppo della situazione passata” (Piccardo
e Colombo, 2007, p. 60).
Analizzare le resistenze è fondamentale nell’implementazione di un processo di
cambiamento. Serve infatti a comprendere come procedere per raggiungere gli
obiettivi preposti (Daft e Noe, 2001). Quaglino (2004), in un’ottica
psicodinamica, riconduce le resistenze al cambiamento a due livelli, un livello
individuale e uno di gruppo.
Il livello individuale riguarda innanzitutto le percezioni di incertezza e
insicurezza, ovvero la minaccia percepita e la mancanza di informazioni complete
sugli effetti che il processo di cambiamento avrà sull’individuo. Effetti che
andranno a toccare l’identità occupazionale (Benton, 1995), le competenze
maturate e la sicurezza economica (McKenna, 2000). Altra fonte di resistenze a
livello individuale è la selezione percettiva delle informazioni, ovvero la tendenza
22
a selezionare le informazioni “coerenti con le proprie opinioni e gli schemi
consolidati e utilizzati abitualmente” (Piccardo e Colombo, 2007, p. 68). Queste
sarebbero fonte di distorsione dei messaggi e delle informazioni riguardo il
processo di cambiamento, i suoi obiettivi, le sue motivazioni, e quindi di
resistenze da parte degli attori coinvolti. Si attivano resistenze individuali anche
nel momento in cui il cambiamento minaccia credenze, abitudini, significati
condivisi che hanno valore di status (ibidem).
A livello di gruppo le resistenze sono attivate come reazione a minacce che
riguardano il gruppo nella sua totalità dinamica. Esse possono essere legate al
potere e ai conflitti inter e infragruppo, ad una struttura organizzativa
eccessivamente burocratizzata, da un’eccessiva coesione all’interno del gruppo,
che porterà ad una strenua difesa dello status quo nel quale il gruppo aveva
raggiunto una sua omeostasi. Altra fonte di resistenze di gruppo è riconducibile ad
una comunicazione non adeguata e ambigua, che può dar luogo a interpretazioni
plurime e contrastanti dell’obiettivo e del metodo del processo di cambiamento
(Martin, 1998).
Sulla base di queste fonti di resistenza, gli attori organizzativi metteranno in atto
diversi comportamenti, dei quali Furnham (1997), sulla base dei lavori di Baron e
Greenberg (1992) propone una tassonomia citata in Piccardo e Colombo (2007, p.
63), tassonomia che viaggia lungo un continuum che va dal totale rifiuto al totale
sostegno al processo di cambiamento.
 Abbandono dell’organizzazione: comportamento estremo di rifiuto del
cambiamento.
 Resistenza attiva: tentativo di modificare la natura stessa del
cambiamento, cercando alleati tra gli attori organizzativi.
 Opposizione passiva: tendenza a ritardare o a sabotare passivamente il
processo di cambiamento.
 Acquiescenza: accettazione passiva del processo di cambiamento,
derivante da un senso di incombente inevitabilità nei suoi confronti.
23
 Consenso passivo: atteggiamento indifferente e acritico, approvazione
priva di partecipazione.
 Consenso negoziale: accettazione del cambiamento tramite la
negoziazione del processo con il management.
 Supporto attivo: accettazione della proposta di cambiamento e
impegno attivo in direzione dei suoi obiettivi.
Tocca al management cercare di guidare i comportamenti degli attori
organizzativi quanto è più possibile verso una dimensione di sostegno nei
confronti del processo i cambiamento. Le resistenze al processo andranno quindi
accettate come inevitabili, ma anche affrontate in modo adeguato (Buchanan e
Hoczynski, 1997). In questa direzione vanno fatti sforzi comunicativi in grado di
motivare efficacemente il cambiamento e negoziarlo in maniera adeguata.
Strategie coercitive alzano inevitabilmente il livello delle resistenze individuali e
di gruppo. Strategie basate sulla razionalità possono essere ritenute sospette e
poco dimostrabili. Strategie basate sulla condivisione del potere possono essere
valutate come manipolative e non autentiche (Piccardo e Colombo, 2007). Il
cambiamento deve apparire ragionevole e migliorativo, e deve esserne percepito il
controllo da parte di tutti.
Lussier (1996) suggerisce dei metodi per facilitare il fronteggiamento delle
resistenze, ovvero sviluppare un clima favorevole al cambiamento, attraverso
l’utilizzo di strategie di sviluppo della cooperazione e dell’interdipendenza tra
diversi reparti dell’organizzazione; incoraggiare l’interesse e l’attenzione nei
confronti dello sviluppo e della valorizzazione delle proprie competenze, e
mostrare il cambiamento come un’opportunità in questo senso; pianificare il
cambiamento identificando le possibili resistenze e pianificando il modo migliore
di affrontarle.
La dimensione comunicativa è fondamentale in questo senso: “L’obiettivo è
sensibilizzare gli individui circa il cambiamento prima che questo sia attuato e
aiutarli a comprenderne la logica” (Piccardo e Colombo, 2007, p. 73)
24
2. COMPETENZE
2.1 Premessa
“I tipi di competenze richiesti per praticare occupazioni flessibili, nel complesso,
non comportano un apprendimento sistematico e a lungo termine; più
frequentemente, essi trasformano in svantaggio un corpo logicamente coerente e
ben conformato di capacità e abitudini acquisite, che un tempo costituiva una
risorsa” (Bauman, 2002).
Bauman, seppur con accezione fortemente critica, mette in risalto una
problematica importante delle nuove realtà organizzative: il problema delle
competenze. Infatti, in una realtà caratterizzata dall’imprevedibilità dei contesti,
dal rapido rinnovarsi di condizioni operative che altrettanto rapidamente
diventano obsolete, ma soprattutto dalla temporaneità dei rapporti di lavoro, va in
crisi tutto il sistema che ha caratterizzato lo sviluppo di competenze durante il
secolo scorso.
Fino a un recente passato erano le competenze tecniche, il sapere e il saper fare,
alla base della ricerca dell’eccellenza da parte dell’organizzazione. Esse venivano
sviluppate durante un lungo percorso del quale l’organizzazione stessa era custode
e nutrice. “Gli individui che entravano nelle diverse realtà organizzative o che le
conoscevano dall’esterno sviluppavano le proprie competenze recependole
dall’ambiente, dai colleghi anziani, o, ancora dal clima generale” (Soro e
Acquadro Maran, 2008, p. XII).
L’importanza di queste certo non è venuta meno, ma nel nuovo panorama
organizzativo si è sentito il bisogno di andare alla ricerca di un sistema di
competenze che riesca ad essere più aderente alla realtà di un continuo
cambiamento.
È diventato fondamentale il concetto di trasversalità e trasferibilità delle
competenze. Per trasversalità si intende la caratteristica delle competenze di
25
essere aspecifiche, quindi spendibili in contesti diversi tra loro, e che permettono
di svolgere mansioni o ruoli differenti (Gallo e Boerchi, 2011). Per trasferibilità si
intende invece la possibilità di poter riutilizzare le competenze acquisite, grazie ad
un apposito processo di ristrutturazione, in un contesto o in situazioni lavorative
differenti (ivi, p. 23).
Sono diventate fondamentali inoltre, quelle competenze di cooperazione (Le
Boterf, 2008) che rendono possibile l’emergere di performance superiori anche
nei gruppi di lavoro, facendo da collante tra le competenze individuali di ciascun
membro del gruppo, in modo che esse siano pienamente fruibili all’interno
dell’ambiente di lavoro.
Sono questi i concetti che vanno a dare una risposta alla critica di Bauman: in un
mercato del lavoro caratterizzato in questo modo da rapidi mutamenti la
competenza tecnica (o job-based) cui faceva riferimento è realmente una risorsa
obsolescente se non accompagnata da un bagaglio di altre competenze che
permettano a questa di modificarsi, riattualizzarsi e spendersi in ogni contesto in
cui l’individuo andrà ad imbattersi durante la sua vita lavorativa. Per dirla con Le
Boterf (2008, p.20):
“Per un numero crescente di lavori, l’esperienza risultante
dall’anzianità non basta più: diventa imperativo per chi li esercita
costruire in modo permanente delle competenze nuove che non erano
prevedibili e specificate all’inizio della loro carriera. La qualificazione
non può più essere, dunque, uno stock iniziale da valorizzare nel
tempo. È soltanto un punto di partenza per un impegno nella dinamica
dell’apprendimento.”
2.2 Le competenze: tentativi di definizione
Il concetto di competenza è entrato a far parte del vocabolario della letteratura
organizzativa a partire dai primi anni ’70, quando, per via della messa in
discussione delle relazioni di subordinazione gerarchica e delle rivendicazioni di
26
un più forte riconoscimento delle persone nelle situazioni di lavoro (Le Boterf,
2008), si è arrivati ad un superamento del concetto di qualifica lavorativa che si
esplicava in una forma di lavoro di tipo prescrittivo e aderente a procedure e
standard di stampo neotaylorista, superamento dovuto al riconoscimento della
necessità di tener conto delle competenze individuali in vista del raggiungimento
di performance ottimali. Le Boterf (ivi, p.18) parla infatti di uno spostamento del
focus sul “lavoro reale che doveva completare e a volte anche superare quello
prescritto”.
Uno dei primi autori a prendere in considerazione il concetto di competenza è
stato McClelland (1973) che mosse i suoi studi convinto della scarsa validità dei
test attitudinali, fino a quel momento largamente in uso all’interno delle
organizzazioni, come predittori dei comportamenti individuali al lavoro. Egli
proponeva come alternativa il modello delle competenze di successo, ovvero un
“sistema di schemi cognitivi e di comportamenti operativi causalmente correlato
al successo nel lavoro” (Gallo e Boerchi, 2011, p. 15).
L’autore definiva la competenza come “una caratteristica misurabile di una
persona che consente di distinguere in modo attendibile gli outstanding dai typical
performers in un particolare lavoro. Queste caratteristiche sono predittive di una
performance superiore” (ibidem).
Boyatzis (1982), riprendendo questo concetto e lo ampliano, inserendo la
condizione di causalità: “La competenza è una caratteristica intrinseca individuale
che è causalmente collegata ad una performance efficace o superiore in un’attività
lavorativa e che è misurabile in base ad un criterio prestabilito” (ibidem).
Un ulteriore contributo in chiave sistemica nel tentativo di dare una definizione
quanto più esauriente possibile al costrutto della competenza arriva con Gilbert
(1992). Egli scrive che “le competenze formano insiemi strutturati i cui elementi
si combinano, si dispongono, si ordinano secondo gerarchie, al fine di rispondere
alle esigenze delle attività che devono essere realizzate” (Rey, 2007, p. 55). Il
maggiore contributo che arriva da questa ulteriore puntualizzazione del costrutto
di competenza deriva dal fatto che gli autori riconoscano che esso non abbia una
27
omogeneità psicologica, ma di risultato. Il costrutto di competenza “Può
sicuramente comprendere conoscenze, saper-fare, ragionamenti, schemi motori e
sensoriali, ma ciò che ne fa l’unità è la sua utilità, è l’attività tecnico-sociale nella
quale essa sfocia” (ibidem). Essa quindi sarà quindi osservabile a partire dalle
azioni funzionali alle quali da luogo.
Il messaggio per le organizzazioni a questo punto è chiaro: esistono caratteristiche
soggettive dei vostri membri che sono legate a performance lavorative migliori, in
quanto hanno rapporto causale con i comportamenti che determinano questo tipo
di prestazioni, ed esse sono misurabili a partire da azioni osservabili che le
esplicano.
Dato il naturale interesse dell’ambiente organizzativo per un costrutto che sia in
grado di essere predittivo delle best performances, il naturale passo successivo è
stato uno sviluppo del modello delle competenze sotto il profilo delle pratiche
gestionali, sviluppo che ne consente quindi un’applicabilità e un utilizzo
manageriale.
In questa direzione si è svolto il lavoro di Spencer e Spencer (1993). Essi
rielaborano il modello andando a definire quali sono le caratteristiche che
compongono le competenze. Suddividono inoltre queste caratteristiche in tre
livelli, dal più superficiale e visibile a quello più profondo. Per quanto riguarda il
livello superficiale gli autori parlano di conoscenze e abilità, corrispondenti ai
classici “sapere” e “saper fare”. Queste, oltre ad essere le caratteristiche più
visibili sono anche quelle più facilmente modificabili e sviluppabili. Al livello
intermedio gli autori inseriscono l’immagine di sé, gli atteggiamenti ed i valori.
Essi corrispondono al “saper essere”, e, sebbene modificabili, hanno bisogno di
maggiore tempo e soprattutto maggiore sforzo per svilupparsi e quindi sono più
resistenti agli stimoli esterni. Al livello più profondo, infine, gli autori inseriscono
i tratti e le motivazioni. Essi sono difficili da diagnosticare, ma sono ancora più
difficili da modificare, proprio in relazione alla loro profondità e al loro essere
ancorati al nocciolo duro dell’identità e della struttura di personalità degli
individui.
28
Posta quindi questa strutturazione degli elementi caratterizzanti le competenze, è
compito del management gestire i diversi livelli in vista di un miglioramento delle
performance: strutturare idonei percorsi formativi per quanto riguarda i primi due
livelli, e, data la scarsa propensione alla modificazione del livello più profondo,
delegare ai processi di selezione il presidio di quest’ultimo (Gallo e Boerchi,
2011).
Gli autori hanno inoltre ideato un vero e proprio strumento a supporto
dell’applicazione del proprio modello. Raccogliendo, catalogando e
categorizzando centinaia di comportamenti di successo in varie attività, essi
giungono a definire il primo dizionario della competenza, strumento poi
rielaborato in molteplici varianti adattabili ai più diversi scopi e contesti
organizzativi. Esso si compone di vari cluster di competenze ricavate da modelli
di successo che, una volta applicati ai contesti in analisi, sono in grado di fornire
un modello generico di competenza predittivo dei comportamenti di successo
(Soro e Acquadro Maran, 2008).
Il contributo di Spencer e Spencer, seppur abbia avuto importanti risvolti pratici,
non esaurisce però il dibattito accademico, sviluppatosi soprattutto a partire dagli
ultimi anni ’90 per via delle nuove esigenze di competitività e di maggiore
complessità delle organizzazioni. Esse, per via di queste esigenze, hanno lasciato
ulteriori spazi di iniziativa alle azioni dei propri membri, spazi che sono stati
colmati dalla messa in opera delle competenze individuali di questi ultimi (Le
Boterf, 2008). Le competenze quindi, da essere un surplus fine al raggiungimento
di performance superiori, sono diventate essenziali per il buon funzionamento e
per il successo delle organizzazioni moderne.
La nozione stessa di competenza si è evoluta. “Essere competenti in una
situazione di lavoro oggi non significa più la stessa cosa che esserlo negli anni ’50
o negli anni ‘70” (ivi, p.20). Le competenze che avevano portato al successo in
passato “sono diventate oggi competenze necessarie solamente per competere.
Analogamente, parte di quelle che fino a pochi anni addietro erano competenze
richieste per esserci sono diventate competenze perdenti o marginali” (Galli e
29
Torreggiani, 2006, p. 14). L’oggetto del dibattito si è spostato dunque sul tipo di
concetto di competenza di cui le organizzazioni hanno bisogno.
2.3 Competenze per l’organizzazione moderna
In un contesto evolutivo del lavoro sempre più caratterizzato dall’inedito e
dall’eventuale, essere competenti significa in maniera sempre maggiore “essere
capace di gestire delle situazioni complesse e impreviste” (Le Boterf, 2008, p. 45).
Sono queste situazioni, che vanno al di la del prescritto, generate in funzione di
quelle nuove sfide di qualità, reattività, economia della varietà e innovazione (ivi,
p. 21) quelle che il contesto organizzativo attuale rende fondamentali per il
successo di un’azienda.
Le Boterf (ivi, p.22) sottolinea che di fronte a queste sfide, le organizzazioni fino
a qualche tempo fa hanno risposto mettendo a punto procedure e dispositivi
automatizzati. L’ottica era quella del “rischio zero”, in un contesto caratterizzato
dal controllo e la standardizzazione.
Sebbene questo approccio abbia permesso di realizzare notevoli progressi,
l’autore non può fare a meno di considerarne anche i grossi limiti. Fermo restando
che “le procedure sono indispensabili e la loro adozione generalizzata ha
permesso di evitare molti incidenti e manchevolezze” (ibidem), egli sottolinea che
il loro eccesso paralizza l’iniziativa, deresponsabilizza, abbassa il livello di
vigilanza e limita la necessaria flessibilità.
Le procedure non possono sostituire la capacità di comprensione e di
interpretazione delle situazioni, né tantomeno potremmo oggi giudicare un
individuo come competente per il semplice fatto che con i suoi comportamenti
aderisca a dettagli procedurali o ad una descrizione della mansione da svolgere,
bensì la sua competenza si esplicherà proprio nella sua capacità di prendere buone
iniziative di fronte all’imprevisto e all’inedito. Agire, infatti, “comporta
necessariamente dei rischi, perché implica il confronto con la realtà” (ivi, p. 24) e
30
il professionista dovrà quindi possedere le giuste competenze ed i giusti margini
di manovra che gli permettano di prendere iniziative pertinenti alla situazione.
Viste le nuove esigenze delle organizzazioni, le persone fondamentali per il
successo dell’organizzazione sono quelle:
“capaci di prendere iniziativa e decisioni a livello locale per far fronte
ai rischi e agli imprevisti; sono persone capaci di cooperare
efficacemente a dei progetti decentralizzati contribuendo
all’innovazione alla creazione di valore; sono dei lavoratori che
mettono in gioco la loro soggettività nell’interpretazione delle
prescrizioni, mettendo l’accento più sui risultati da realizzare che sulle
procedure atte a raggiungerli” (ivi, p.25).
Sono queste quelle che l’autore indica come competenze centrali per il successo
dell’organizzazione nel contesto odierno, competenze che rendono l’individuo
nell’espletamento della sua mansione, non più un semplice lavoratore, ma un
professionista (ibidem). Queste, come sottolinea l’autore, non possono quindi
essere più solo di carattere tecnico, ma devono essere necessariamente considerate
a livello pluridimensionale, integrando alle prime tutte quelle competenze “soft”
che garantiscano il soddisfacimento delle esigenze di qualità, di reattività e di
relazione (ivi, p. 29).
La sola competenza tecnica infatti, come sottolineano Blandino e Tartaglia (in
Soro e Acquadro Maran, 2008), si rivela in molti casi solamente un tecnicismo.
Per gli autori è la “competenza clinica” (ivi, p. 44) a dare spessore e significato
alla prestazione offerta. Essa si esplica in “capacità che fanno riferimento alla
flessibilità mentale, all’apprendere continuamente dall’esperienza, alla gestione
dei conflitti, alla creatività, alla gestione dello stress” (ivi, p. 45) oltre che nelle
tradizionali competenze relazionali ed emotive.
La competenza clinica comprende quindi un’ampio raggio di capacità relative a
categorie quali tratti di personalità, qualità personali, caratteristiche di natura
emotiva ed affettiva che costituiscono un costrutto alla base di quella “intelligenza
sociale” che Goleman (2006) ritiene funzionare in sinergia con quella cognitiva.
31
Egli ritiene infatti che “una carenza in queste abilità potrebbe ostacolare l’uso
dell’expertise tecnico e delle doti intellettuali, per quanto pronunciate esse siano”
(Soro e Acquadro Maran, 2008, p. 45).
A questo proposito Le Boterf (2008) introduce il concetto di “competenze di
cooperazione” (ivi, p. 187). Egli partendo infatti dal presupposto che non esistono
ruoli privi di relazioni, comunicazioni e scambi con gli altri attori organizzativi, e
che il raggiungimento di risultati superiori è sempre più spesso legato al lavoro di
gruppi o di reti all’interno dei quali si trovano individui con competenze anche
molto differenti tra loro, parla per questi casi di competenza collettiva, al cui
raggiungimento sono necessarie competenze di cooperazione in grado di far
esprimere le diverse competenze individuali in maniera virtuosa e utile al
raggiungimento dell’obiettivo.
L’autore (ivi, p. 192) fornisce dunque un elenco degli indicatori riguardo la
presenza di competenze di cooperazione all’interno di un collettivo di lavoro.
 Capacità di costruzione di rappresentazioni condivise a partire dalle varie
rappresentazioni individuali riguardo problemi da risolvere, situazioni da
discutere, obiettivi da raggiungere e strumenti da utilizzare.
 Comunicazione efficace tramite l’utilizzo di un linguaggio comune,
capacità di comprenderlo e saperlo adottare dal punto di vista degli altri.
 Utilizzo di comportamenti-tipo che permettono di anticipare e valutare le
possibilità di cooperazione e scambio con gli altri.
 Superamento delle differenze tramite la messa in atto di pratiche
interdisciplinari o interprofessionali.
 Accettazione, riconoscimento e gestione puntuale dei contrasti interni.
 Messa in atto di organizzazioni adeguate per raggiungere collettivamente i
risultati attesi nelle diverse fasi del progetto.
 Divisione equa dei carichi di lavoro.
32
 Sincronia nel ragionamento e nello svolgere le azioni. Questo presuppone
riuscire a tener conto della micro - organizzazione o micro -
pianificazione di ogni altro membro della rete.
 Messa in atto di azioni concertate.
 Padronanza dei dettagli che possono turbare il funzionamento collettivo.
Le implicazioni pratiche di questo tipo di approccio sono importanti: innanzitutto
esso situa la valutazione delle prestazioni a livello collettivo; in secondo luogo
fornisce criteri o indicatori riguardo la valutazione delle modalità di interazione
dei componenti di un collettivo; infine definisce e collega le condizioni di
sviluppo di azioni di cooperazione tra i componenti di un gruppo o di una rete.
(ibidem).
2.4 Trasversalità e trasferibilità delle competenze
La moderna organizzazione del lavoro, oltre a richiedere lo sviluppo di nuove
competenze prima poco considerate, ha avuto un’altra conseguenza importante
per i soggetti coinvolti e per il loro sistema di competenze. È terminata infatti
l’epoca in cui un individuo occupava la maggior parte della sua vita professionale
in un’unica azienda.
Secondo Le Boterf (2008, p. 32) “un ingegnere del terzo millennio dovrà
cambiare cinque o sei volte impresa e contesto di lavoro durante la sua vita
professionale”. Inoltre l’autore fa notare che questo cambiamento non riguarda
solo il passaggio da un’organizzazione all’altra, ma anche la situazione lavorativa
all’interno della stessa organizzazione. Questa è infatti “sottoposta a delle forti
evoluzioni, a delle trasformazioni a volte radicali” (ibidem).
Per il lavoratore, quindi, diventa una sfida fondamentale adattarsi alla naturale
evoluzione del proprio ruolo, ed essere in grado di cambiarlo e riaggiustarlo,
ragionando in termini di occupabilità più che in termini di occupazione.
33
Questo presuppone per esso ragionare in termini di sviluppo su quelle competenze
che Gallo e Boerchi (2011) identificano come trasversali in quanto “spendibili in
contesti diversi tra loro, e quindi tutte quelle competenze che, per la loro
aspecificità, possono essere utilizzate nello svolgere mansioni e nel ricoprire ruoli
differenti” (ivi, p. 22).
In letteratura il concetto di competenze trasversali è ancora molto dibattuto. Da
una parte ci sono tutti quegli autori che, ragionando in termini di competenza-
comportamento (Gillet, 1973) o competenza-funzione (Gillet in Parisot, 1991),
ovvero fondandone il possesso sulla best performance in una mansione specifica,
lo ritengono un concetto privo di senso. Essendo infatti questa legata alle
condizioni particolari di un contesto specifico, “essa sarà specifica per il compito
o per i generi di compiti che permette di assolvere” (Rey, 2007, p. 68).
All’opposto la pensa chi, ispirandosi al concetto di competenza linguistica
definito da Chomsky (1969a), ovvero come “potere dell’uomo di adattare i propri
atti e le proprie parole a un’infinità di situazioni inedite” (Rey, 2007, p. 68), la
definisce come potere generativo e di adattamento delle azioni e quindi ne reputa
come intrinseca la caratteristica di trasversalità.
Un primo tentativo di sintesi a questo dibattito viene proposto da Levati e Saraò
(1993), che classificano la trasversalità delle competenze in due macro-categorie:
work based e worker based.
Le prime sono riferibili a conoscenze e abilità che riguardano un largo range di
mansioni che non sono trasversali per loro caratteristica intrinseca, ma per la loro
adattabilità in contesti diversi ma limitati; le seconde invece riguardano le
modalità di funzionamento del soggetto. Esse sembrano effettivamente essere utili
in qualsiasi contesto, ma per un loro uso operativo è necessaria di volta in volta
una specifica azione di contestualizzazione. (Gallo e Boerchi, 2011).
Gallo e Boerchi, a questo proposito, obiettano che forse sarebbe più utile riferirsi
al concetto di “trasferibilità” (ivi, p. 23) delle competenze piuttosto che a quello di
trasversalità. Essi per trasferibilità infatti intendono “la possibilità di riutilizzare
alcune competenze acquisite, grazie ad un apposito processo di
34
ricontestualizzazione, in un contesto e in situazioni lavorative differenti” (ibidem).
Si tratta quindi di un processo di ridefinizione professionale, che richiede sia un
aggiornamento e una ridefinizione delle competenze possedute, che la capacità di
ridefinire la propria identità professionale, ed è questa un’attività indispensabile
che ogni individuo deve essere pronto a compiere in un mercato del lavoro che
come si è già sottolineato richiede grande flessibilità nel gestire della propria
professionalità.
Gli autori a tal proposito ricordano che “ogni azione di valutazione e di sviluppo
delle competenze deve tenere in considerazione l’eventualità che queste debbano,
prima o poi, essere trasferite in un vissuto lavorativo differente rispetto a quello in
cui esse sono state formate.” (ibidem). Essi inoltre introducono il concetto di
“competenze trasferenti” (ivi, p.24) riferendosi a quelle competenze che svolgono
la funzione di facilitatori del trasferimento di alcune competenze da un contesto
all’altro.
Citando Di Francesco (1992) essi riconoscono questa funzione in quelle
competenze che riguardano l’interazione con la complessità tecnico-organizzativa
quali ad esempio:
 la capacità di analisi per comprendere il nuovo contesto;
 la capacità di autoanalisi per conoscere le proprie motivazioni,
competenze e potenzialità;
 la capacità di progettare per definire un proprio obiettivo
professionale ed un piano d’azione per raggiungerlo;
 la disponibilità al cambiamento;
 un’identità professionale forte ma flessibile. (ibidem)
È facile notare che tutte queste competenze trasferenti facciano parte di quella
macrocategoria definita solitamente in letteratura organizzativa come quella delle
competenze trasversali o soft-skills. In questo caso è stato fondamentale l’apporto
degli autori nel chiarire il motivo per cui esse vengono considerate tali e qual è la
35
loro reale funzione, ovvero la “creazione delle condizioni per un efficace
trasferibilità delle competenze possedute dal singolo” (ibidem).
È utile infatti parlare di trasversalità di competenze non tanto come caratteristica
intrinseca di alcune di esse, quanto come possibilità, e soprattutto capacità, di
trasferire quelle già possedute in contesti diversi, ristrutturandole e riadattandole.
2.5 La gestione delle risorse umane secondo la logica dello sviluppo di
competenze
Il crescente interesse che la letteratura organizzativa ha sviluppato per il tema
delle competenze è stato in tempi brevi accompagnato dall’interesse del mondo
manageriale per un argomento in grado di dare risposte al problema del successo
organizzativo.
Le competenze, in quanto caratteristiche causali del successo e misurabili tramite
l’osservazione delle azioni dell’individuo nello svolgimento della sua mansione, si
sono ricavate ben presto un ruolo centrale nella gestione e nello sviluppo delle
risorse umane. Infatti in un momento storico in cui “sono le persone il vero e
tangibile fattore di successo organizzativo” (Soro e Acquadro Maran, 2008, p.
41), la differenza, in un contesto caratterizzato da forte competizione, la farà “la
qualità delle persone e delle loro competenze, che crea valore aggiunto ed è
garanzia di successo per l’impresa” (ibidem).
Numerose imprese hanno compreso questo messaggio, e hanno introdotto il
riconoscimento e lo sviluppo delle competenze dei propri membri nelle proprie
strategie di sviluppo, vedendo in esse “una via d’uscita per una situazione di crisi
o semplicemente una condizione di sopravvivenza” (Le Boterf, 2008, p. 251).
Le prime a cogliere nel messaggio che la letteratura organizzativa ha promosso
riguardo le competenze un’opportunità di crescita e di vantaggio competitivo sono
state le grandi aziende e le grandi agenzie di audit e consulenza, che hanno
integrato la dimensione della competenza nei loro strumenti e metodi di
intervento. Esse hanno sviluppato una grande varietà di pratiche nelle quali il
sistema di gestione della competenza è andato a toccare, e a modificare, i sistemi
36
di selezione e di valutazione del personale, i sistemi di formazione, i sistemi di
professionalizzazione, di retribuzione, quelli di sviluppo delle carriere e quelli
riguardanti la mobilità interna. In alcuni casi l’interesse per l’argomento è stato
tale da andare a modificare tutto l’insieme delle politiche delle risorse umane.
In quest’ottica le organizzazioni da una parte sono state chiamate ad azioni di
“mappatura attenta e dettagliata delle competenze necessarie alle posizioni; di
censimento delle competenze possedute dalle persone; di mantenimento delle
medesime attraverso azioni di aggiornamento, di ri-ordinamento, sviluppo,
mobilità” (Soro e Acquadro Maran, 2008, p. 30); dall’altra ad individuare quali
sono le competenze distintive del loro particolare contesto organizzativo,
competenze che Prahalad e Hamel (1990) denominano “core competencies”
aziendali, riferendosi ad “un’area di expertise di alta specializzazione in cui
vengono integrati processi tecnologici complessi e attività di lavoro” (Soro e
Acquadro Maran, 2008, p. 6). Sono queste le caratteristiche di successo che
detiene l’organizzazione ed il suo particolare contesto, che vengono identificate
dagli autori tramite tre caratteristiche:
 offre accesso a una vasta varietà di mercati;
 provvede un contributo significativo ai vantaggi percepiti per l’utente
finale;
 è difficile da imitare da parte dei concorrenti (Prahalad e Hamel, 1990, pp.
83-84).
Sono queste dunque le competenze che, secondo Consoli (2002), sono in grado di
consentire all’azienda di raggiungere e mantenere nel tempo un vantaggio
competitivo, andando esse a toccare “processi strategici di importanza cruciale”
(Soro e Acquadro Maran, 2008, p. 6). Si è sviluppato quindi, accanto ad un
approccio individuale alle competenze, che ha come obiettivo la valutazione, la
formazione e lo sviluppo delle competenze dei singoli attori organizzativi, un
approccio strategico “volto a rilevare e anticipare le competenze emergenti, quelle
37
che potranno definire il successo competitivo aziendale nel prossimo futuro”
(ibidem).
Sono state inoltre messe appunto, all’interno delle organizzazioni stesse, le
condizioni necessarie affinché i propri membri siano in grado di sviluppare le
proprie in un’ottica di mobilità interna finalizzata alla riorganizzazione
dell’azienda secondo la logica delle competenze. Secondo Le Boterf (2008),
infatti, “le imprese dovranno tendere a reclutare non solamente in funzione delle
capacità da esercitare in un determinato posto di lavoro, ma in funzione della
capacità dei candidati di realizzare un itinerario professionale che non può essere
pianificato o previsto fin dall’inizio” (ivi, p. 33). Questo rimanda ad un’ottica di
formazione continua in cui le competenze fondamentali per il successo all’interno
dell’organizzazione sono probabilmente quelle che nel paragrafo precedente sono
state indicate come trasferenti, ovvero come quelle in grado di svolgere da
facilitatori del trasferimento delle competenze di un individuo tra contesti
differenti. L’autore cita come esempio i casi di Thales, che nel 2001 ha spostato il
60% degli ingegneri e quadri dirigenziali presso le filiali tramite la realizzazione
di una cartografia delle competenze; del gruppo Bouygues, che nel quadro di una
gestione interprofessionale ha inserito la possibilità per un dipendente di
intraprendere un progetto di mobilità interna tramite un colloquio confidenziale
con il proprio direttore delle risorse umane (che ha avuto come risultato nel solo
2001 la mutazione professionale interna di quasi il 5% dei propri collaboratori); di
Schlumberger, che tramite la realizzazione di un career center nella propria
intranet ha permesso ai dipendenti di depositare in esso le proprie aspettative e
condizioni di mobilità, non riferite ad una posizione specifica, ma a disposizione
della direzione delle Risorse Umane che quindi è in grado di gestire la mobilità
interna tramite un sistema di competenze supportati da un sistema in grado di
monitorare le motivazioni personali di ogni dipendente.
Data la grande quantità e soprattutto la non omogeneità delle tipologie di
interventi messi in atto, Le Boterf (ivi, p. 251) precisa che non tutti sono stati
caratterizzati da una coerenza d’insieme, ma spesso ci si è trovati di fronte a
38
interventi caratterizzati da quello che egli chiama “effetto arcipelago”, ovvero
l’introduzione di procedure “poco coerenti, addirittura divergenti, che coesistono
tra siti e dipartimenti della stessa organizzazione” (ibidem). Sebbene egli ammetta
che non esista una “one best way” riguardo al sistema di gestione delle
competenze, propone un modello in grado di “aiutare le imprese e le
organizzazioni a fare delle scelte, a percepirne meglio le dimensioni e le
implicazioni” (ivi, p. 252).
Il suo modello propone di adottare una “logica di competenza” in tutto l’insieme
della politica delle Risorse Umane ricercando una forte coerenza in tutte le sue
variabili in modo da creare la giusta convergenza per rendere lo sviluppo delle
competenze non soltanto una risorsa, ma soprattutto una fonte di creazione di
valore (ivi, p. 254). Investire in una logica di competenza vuol dire per l’autore
andare a toccare:
 le relazioni sociali: tramite accordi che permettano l’inserimento della
formazione continua basata sulla gestione delle competenze come
obiettivo sia per l’azienda che per il suo dipendente;
 i referenziali, i percorsi professionali e la mobilità interna: uscendo dalla
logica dell’imprigionamento nel posto di lavoro e dell’esecuzione di
compiti frammentati, concependo i referenziali come spazi di evoluzione
professionale costruiti in modo partecipativo;
 i processi ed i progetti operativi: prendendo in considerazione in essi le
competenze individuali, collettive e di cooperazione necessarie al loro
successo;
 l’organizzazione del lavoro: ottimizzandola in modo da renderla
favorevole alla costruzione di competenze individuali e collettive, e
assicurandogli la necessaria coerenza tra l’autonomia richiesta dai gruppi
e la delega del potere corrispondente;
 il management: impegnandosi a delegare un reale potere manageriale ai
servizi per l’impiego, che gli consenta di prendere decisioni sulla
39
formazione, l’organizzazione del lavoro, la mobilità, gli incentivi
economici;
 la comunicazione interna ed esterna: impegnata a svolgere un ruolo di
rappresentazione cartografica che dia visibilità e leggibilità ai referenziali,
alle opportunità e ai percorsi-tipo, dando una visione delle possibilità di
evoluzione e organizzando un marketing per attirare talenti;
 il piano di formazione: strutturandolo in modo che faccia acquisire le
giuste risorse, le competenze per agire su di esse e che proponga moduli a
scelta per rendere possibili i progetti personalizzati;
 la valutazione e la validazione: organizzandole per farle avvicinare quanto
più possibile all’obbiettività;
 la classificazione e la remunerazione: applicandole tramite regole esplicite
e forti, con criteri solidamente stabiliti. Il non tenerne conto espone il
sistema di gestione delle competenze al rischio di perdita di credibilità
(ivi, pp. 258-259).
È chiaro nel modello di Le Boterf (2008), che gli interventi per l’introduzione
della logica delle competenze nelle organizzazioni comporti una ristrutturazione
totale della gestione delle risorse umane al loro interno. Essa presuppone un
capovolgimento di prospettiva che renderebbe l’organizzazione “ciò che permette
di mettere in rete e in sinergia le competenze individuali e di mestiere” (ivi, p.
253). Lo sviluppo dell’impresa in questo modo non andrebbe più verso la
riduzione dei costi degli effettivi, ma verso l’ottimizzazione dell’utilizzo del
potenziale degli attori organizzativi.
2.6 La valutazione delle competenze
Diventa fondamentale, nel momento in cui un’organizzazione decide di usare
come strumento di sviluppo il sistema di competenze, che si sia in grado di
riconoscere e valutare queste in maniera quanto più oggettiva possibile.
40
Arrivare ad una misurazione standardizzata delle competenze è in alcuni casi un
compito molto complesso, per questo Gallo e Boerchi (2011) includono nel
concetto di valutazione anche quei processi descrittivi che “risultano comunque
efficaci rispetto all’obiettivo che in alcuni contesti ci si pone” (ivi, p.25).
La valutazione delle competenze diventa fondamentale sia per l’organizzazione
che deve basarsi su di essa per monitorare il background professionale di cui si
dispone, sia per i suoi attori, che, potendosi trovare di fronte ad eventi di
transizione lavorativa, necessitano di conoscere quali siano le competenze
spendibili sul mercato del lavoro di cui sono in possesso.
La valutazione delle competenze può rispondere a diverse esigenze, delle quali gli
autori provano a fare una tassonomia (ivi, p. 26).
 Mappatura: per conoscere e valorizzare le risorse esistenti.
 Tavole di rimpiazzo: per gestire la corretta pianificazione delle risorse.
 Incentivi economici: per sostenere il sistema in rapporto a obiettivi e
strategie.
 Azioni di sviluppo e coaching: per fornire strumenti di gestione delle
risorse umane ottimali.
 Individuazione di risorse suscettibili di mobilità.
 Integrazione nel processo di analisi di valutazione della posizione e
della prestazione.
Sono stati sviluppati negli anni diversi strumenti per la valutazione delle
competenze, una varietà che è comunque riconducibile a due metodologie
fondamentali e preponderanti nel panorama organizzativo attuale: il Bilancio di
Competenze, e l’Assessment Center. Il loro obiettivo è quello di costruire un
“portafoglio di competenze”, strumento che permette l’archiviazione e il
monitoraggio, tramite dossier e fascicoli personali, delle competenze sviluppate
da ogni soggetto e che “più di ogni altro, permette di dare visibilità in modo
41
strutturato ed efficace, alle competenze possedute da una persona” (Gallo e
Boerchi, 2011, p. 35).
Il Bilancio di Competenze, sviluppatosi nel contesto francese a partire dagli anni
’90, si caratterizza per una forte connotazione autovalutativa. Esso, sottolineano
gli autori, ha un carattere prevalentemente orientativo più che valutativo in senso
stretto, e presuppone di analizzare le competenze dei soggetti in funzione di una
loro migliore spendibilità sul mercato del lavoro. Esso viene progettato e
strutturato in maniera personale a partire dalla situazione professionale attuale e
coerentemente agli obiettivi che il soggetto vuole raggiungere, e viene sviluppato
in ottica consulenziale, richiedendo quindi un forte investimento partecipativo del
soggetto.
L’Assessment Center, sviluppatosi invece nel contesto statunitense durante la II
Guerra Mondiale, si pone in un’ottica speculare rispetto al Bilancio di
Competenze, ovvero quella di ricercare negli individui le competenze individuate
e ricercate dalle organizzazioni. Esso si serve di un gran numero di strumenti quali
test, colloqui, prove di gruppo, in basket, simulazioni, in modo da arrivare ad un
giudizio quanto più oggettivo possibile tramite l’eliminazione degli errori
sistematici di valutazione. Esso viene condotto e presidiato da Assessors,
adeguatamente formati e presenti contemporaneamente durante le prove, in modo
da assicurare una valutazione finale che sia il meno soggettiva possibile. È
utilizzato soprattutto nei processi di selezione e per individuare i piani di
formazione, ma negli ultimi anni è stato introdotto anche come metodo di
valutazione del potenziale per la mobilità interna, per lo sviluppo delle
competenze e per l’individuazione di talenti. Gli autori sottolineano che questa,
non essendo una metodologia partecipativa, ed essendo i soggetti all’oscuro del
significato di ciò che stanno facendo, è una metodologia poco incline allo
sviluppo se non prevede di fornire agli individui il significato della valutazione, e
soprattutto un feedback in grado di scatenare in essi un momento di riflessione.
Per questo motivo essi propongono uno sviluppo dell’Assessment Center, ovvero
il Developement Center, che propone come ultimo step un colloquio di feedback,
42
che diventa per i soggetti “il primo step dello sviluppo della risorsa: consente di
aumentare e migliorare il proprio livello di consapevolezza ed auto-valutazione
per orientarsi allo sviluppo” (ivi, p. 30)
L’auto-valutazione è un elemento fondamentale per lo sviluppo delle competenze
degli individui. Essa ha il fine di “mobilitare le energie della persona in funzione
della comprensione ed espressione dei propri livelli di competenza” (ivi, p. 187),
ma necessita di individui in grado di condurre un buon esame della realtà e
motivati all’auto-sviluppo.
43
3. COMPETENZE PER IL CAMBIAMENTO
3.1 Premessa
Nei primi due capitoli di questo scritto si sono affrontati due temi che rivestono
una centralità assoluta nella letteratura organizzativa attuale. Da un lato il tema
del cambiamento, del quale si è sottolineato il carattere di necessità e di scarsa
prevedibilità degli esiti; dall’altro quello delle competenze, del quale si è
sottolineato invece l’importanza nel successo delle organizzazioni.
In questo terzo capitolo si proporrà un tentativo di sintesi sui due temi, partendo
da una domanda che appare quasi scontata: può il modello delle competenze dare
una risposta alla scarsa prevedibilità degli esiti di un processo di cambiamento? In
altre parole: esistono competenze che permettono di prevedere una buona riuscita
di un processo di cambiamento?
La letteratura, pur in un panorama che presenta molteplici punti di vista e alcuni
tratti di ambiguità, sembra dare una risposta affermativa a questa domanda: le
organizzazioni che cambiano, “necessitano di persone in possesso di nuove
competenze/capacità che vanno sviluppate e formate adeguatamente.” (Soro e
Acquadro Maran, 2008, p. 26). Si fa in questo caso riferimento a quelle soft skill
che permettono di cogliere appieno l’urgenza della necessità del cambiamento,
che permettono di creare una visione della nuova situazione verso la quale
dirigersi, ma soprattutto che permettono di superare le resistenze che ogni
cambiamento porterà con se in quanto portatore di insicurezza.
Solo una volta superati questi scogli infatti si sarà in grado di andare a trasformare
efficacemente quegli aspetti della vita organizzativa il cui rimodellamento è tanto
duro quanto necessario per il buon esito di un cambiamento organizzativo: i
modelli organizzativi, i ruoli, le modalità gestionali e gli stili di leadership
(ibidem).
44
3.2 Un iceberg che si scioglie
Uno dei maggiori contributi presenti in letteratura riguardante la tematica del
cambiamento organizzativo secondo una logica di riconoscimento, gestione e
sviluppo delle competenze arriva da John Kotter. Il suo contributo parte dal
presupposto che, per via del nuovo scenario socio-economico ed organizzativo, è
mutata la natura stessa del concetto di cambiamento organizzativo. Mentre in
passato le trasformazioni dipendevano da motivi quali il cambiamento delle
norme, delle regole di riferimento, delle linee guida e delle strategie del
management, delle attese dei clienti e delle persone che facevano parte
dell’organizzazione stessa, “oggi ci troviamo di fronte a una serie di mutamenti
che evidenziano la presenza di inediti fattori di successo per l’efficacia e la
competitività delle aziende” (Soro e Acquadro Maran, 2008, p. 26)
“Per affrontare con successo questi percorsi trasformativi, le organizzazioni
necessitano di persone in possesso di nuove competenze/capacità […] non
riconducibili al solo piano strettamente tecnico-professionale, ma anche al piano
relazionale ed emotivo” (ibidem).
A tal proposito Kotter (1996) sviluppa un modello ad otto fasi che ha riscosso
rapido successo nell’ambiente manageriale, e che ha poi successivamente
arricchito e trasformato in chiave metaforica in una favola moderna, basandosi su
una teoria dell’apprendimento fondata su “storie facili da ricordare e stimoli
visivi” (Kotter e Rathgeber, 2005, p. 140).
Nata come esercizio studiato per essere utilizzato dai manager e dagli altri attori
organizzativi coinvolti in un processo di cambiamento, è divenuta, grazie
all’applicazione nei più svariati contesti aziendali, una storia efficace in grado di
esplicare il modello di Kotter in un linguaggio tanto semplice quanto evocativo.
Kotter punta sul fatto che ogni cambiamento sul livello emotivo porta a
significative trasformazioni comportamentali, e sviluppa il suo modello sotto
forma di racconto proprio perché pensa che “una buona storia è in grado di
45
indurre all’azione una vasta gamma di persone in modo notevolmente diverso dai
testi professionali più tradizionali” (ibidem).
La storia narra di una colonia di pinguini il cui iceberg, sul quale vivono da
quando hanno memoria, si sta sciogliendo. Dare soluzione ad un problema del
genere implica per loro riconoscere il problema come reale, rompere lo status quo
basato su tradizioni e cultura dure da modificare, insomma, un cambiamento
radicale rispetto a quello che sono sempre stati.
Il cambiamento viene affrontato con un metodo che prevede passaggi chiave
messi in atto e analizzati attentamente dall’autore tramite i suoi “attori”. Questi
passaggi chiave sono gli stessi che Kotter (1995) aveva indicato nel suo modello.
Secondo l’autore infatti affrontare il cambiamento significa:
 preparare il terreno;
 decidere cosa fare;
 agire;
 fare in modo che il cambiamento diventi duraturo.
Questi passaggi chiave vengono ulteriormente sviluppati dall’autore, e sono alla
base del suo modello ad otto fasi.
 Creare una sensazione di urgenza, facendo comprendere a tutti la necessità
del cambiamento e l’urgenza di agire.
 Creare un team che guidi il cambiamento con forti doti di leadership,
credibilità, capacità comunicativa, autorità e competenze analitiche e
motivazionali.
 Sviluppare la visione e la strategia di cambiamento spiegando con
chiarezza come sarà il futuro e in che modo la visione si trasformerà in
realtà.
 Comunicare la visione del cambiamento assicurandosi che più persone
possibili comprendano e accettino la visione e la necessaria strategia.
 Delegare all'azione rimuovendo le barriere.
46
 Generare successi a breve termine fissando obiettivi intermedi e
raggiungibili.
 Non riposare sugli allori ma insistere fino a quando la visione diventerà
realtà.
 Creare una nuova cultura, perseverando nel nuovo modo di agire e
assicurarsi che abbia successo finché non avrà forza sufficiente per
rimpiazzare le vecchie abitudini.
Fig. 3.1, modelli di cambiamento di Kotter (1995) e Lewin (1951) a confronto.
Il modello di Kotter si basa sul modello tripartito di Lewin (1951, vedi fig. 3.1), in
quanto le sue otto fasi possono essere viste come un approfondimento delle tre
fasi di scongelamento, cambiamento e ricongelamento di Lewin. Ne risulta uno
sviluppo interessante sia perché ne da una versione operazionalizzata, in grado di
essere applicata nei più svariati contesti organizzativi e di gruppo, sia perché pone
come centrale la questione degli agenti del cambiamento, ovvero di chi porta
47
avanti tramite le sue azioni concrete il processo di cambiamento all’interno
dell’organizzazione.
Il team di pinguini che nella favola di Kotter (2005) è in grado di trasformare
radicalmente le abitudini della colonia nella quale vive, facendola evolvere da
gruppo stanziale a gruppo nomade per rispondere alle esigenze di un ambiente
non più sicuro, non è composto da caratteri casuali. Essi riescono nel compito di
portare a termine il programma di cambiamento, compito che sfugge a due
organizzazioni su tre che tentano di cambiare (Kotter, 1996; Aiken, e Keller,
2009), sfruttando proprio quelle che Le Boterf (2008) chiama competenze di
cooperazione, che permettono alle diverse competenze specifiche di ognuno di
loro di lavorare in sincrono in funzione dell’obiettivo del gruppo.
Ogni carattere citato da Kotter è infatti portatore di proprie competenze specifiche
che da sole sarebbero risultate inutili al fine di portare il processo al compimento
reale. L’enfasi del’autore sulla creazione di un team di successo va proprio in
questa direzione. Sono molti gli autori che trovano infatti nel termine “agenzia del
cambiamento” (Stoker, 2009) una nozione più valida e forte di quella di singolo
agente del cambiamento. Lo sottolineano Buchanan e Badham (1999), scrivendo
che il cambiamento andrebbe portato avanti da una “squadra di personaggi”
perché sia effettivo. Ci si trova all’interno di un profilo di competenze che
privilegia la dimensione relazionale. Gli agenti del cambiamento dovranno quindi
“acquisire e sviluppare una professionalità e nuove competenze intese non come
un surplus psicologico, ma come leva primaria di gestione” (Soro e Acquadro
Maran, 2008, p. 34).
Ciò naturalmente non vuol dire che le competenze “hard” perdono di significato,
ma che esse in un contesto di cambiamento vanno affiancate giocoforza a
“capacità di gestire gruppi di lavoro, di facilitare la comunicazione, di controllare
situazioni critiche e conflittuali, e soprattutto, di favorire la possibilità di ragionare
anche in situazioni di incertezza e turbolenza, e, conseguentemente, di prendere
decisioni come frutto di pensiero piuttosto che come modo per scaricare subito,
nell’azione, l’angoscia che la gestione di situazioni critiche comporta” (ibidem).
48
3.3 Compiere il cambiamento
Kotter (2002) nell’esplicazione del suo modello, è molto attento nel sottolineare
come una delle fasi più importanti e rischiose del processo di cambiamento
organizzativo sia quella in cui sembra esserci la tentazione di crogiolarsi dei primi
risultati ottenuti non prestando attenzione alle resistenze che si sono manifestate
durante la fase di implementazione.
Quaglino nel 2007 introduce a questo proposito il concetto di compimento del
cambiamento. Egli sottolinea come molto spesso, anche se il processo di
cambiamento è progettato nel migliore dei modi, la sua messa in atto comporti
una fatica tale da non riuscire a conseguire pienamente l’esito atteso.
Bisogna partire dal presupposto che la situazione di un’organizzazione durante un
processo di cambiamento non è statica, bensì è pregna di forze che spingono in
direzioni diverse e a volte contrastanti, e che in un contesto come questo non è
raro imbattersi in situazioni inizialmente non previste. In questo caso risulta di
fondamentale importanza riuscire a riconoscere questo tipo di situazioni,
prenderne atto, darne un senso all’interno dell’intero processo e quindi
programmare le azioni per farvi fronte.
Uno dei rischi che Quaglino (2007) segnala è infatti quello di allentare la tensione
in seguito all’ottenimento di successi nelle prime tappe del processo. “Compiere il
cambiamento significa fare tutto ciò che si è ritenuto qualificante nel momento
della progettazione e tutto ciò che è diventato necessitante a mano a mano che lo
si stava attuando” (ivi, p.123). Per necessitante egli intende “tutto ciò che non è
stato previsto nella fase di progettazione ma che è sicuramente emerso nel
momento dell’implementazione e che non può non essere affrontato, non avere
seguito, semplicemente perché non era compreso nel disegno” (ibidem)
L’attenzione va quindi sempre riposta sull’obiettivo del processo di cambiamento,
sul reale bisogno dell’organizzazione. Questo vuol dire programmare azioni
coerenti non tanto rispetto alla decisione passata, quanto rispetto al traguardo
previsto. Per fare ciò è necessaria una progettazione aperta e flessibile, ma
49
soprattutto attenzione nel riconoscere e affrontare quelle resistenze che sono
inevitabilmente coinvolte, anzi caratterizzano, ogni processo di cambiamento.
Sostiene infatti l’autore: “l’insuccesso del cambiamento è sempre la vittoria delle
resistenze” (ivi, p.125). Superare le resistenze è però possibile, a patto che
vengano rispettate precise condizioni durante la messa in atto dell’intervento,
condizioni che riguardano i comportamenti da promuovere e attuare al fine di
attuare il compimento del cambiamento organizzativo.
Quaglino (ivi, p.127) individua quattro condizioni tramite le quali è possibile
superare le resistenze e quindi giungere al compimento del cambiamento.
 Coinvolgere, ovvero sollecitare la propositività per evitare il manifestarsi
dell’oppositività.
 Motivare, ovvero catalizzare l’energia motivazionale per procedere
effettivamente nella direzione del cambiamento, allontanando il pericolo
di una accettazione senza impegno.
 Sostenere, ovvero promuovere l’azione in termini di percorso graduale e
di riposizionamento, che sappia affrontare la necessità e l’imperativo di
cambiare in modo aperto e flessibile, tramite azioni protratte, intense e
continue.
 Potenziare, ovvero impegnarsi a ragionare con tutti coloro che sono
chiamati al cambiamento, in termini di possibilità di crescita e sviluppo, a
chiarire i vincoli e a costruire le opportunità, a sostenere il
riposizionamento attraverso un reale potenziamento di competenze.
Non è un caso che queste condizioni siano coniugate all’infinito. Esse
presuppongono infatti dei comportamenti da attuare in funzione del loro
raggiungimento, comportamenti che necessitino una base di competenze
specifiche per essere messi in atto.
È palese che nel coinvolgere, motivare, sostenere e potenziare siano implicate
tutte quelle competenze “soft” che in precedenza sono state indicate come soft
50
skills o competenze trasversali, siano esse di tipo organizzativo, siano esse
relazionali, siano esse individuali, skills che, come sottolinea l’autore stesso,
vanno potenziate in tutti gli attori organizzativi tramite interventi specifici, che
permettano ad essi di giungere ad un riposizionamento virtuoso rispetto alla nuova
situazione organizzativa verso la quale muove ogni intervento di cambiamento.
3.4 Quali competenze per il cambiamento?
Data una risposta affermativa alla prima domanda, ovvero se esistano competenze
correlate con il compimento effettivo di un processo di cambiamento
organizzativo, resta da indagare quali esse siano e in che modo possano risultare
decisive nelle varie fasi del cambiamento.
La letteratura organizzativa si divide nel trattare questo argomento a seconda della
tipologia di focus che i vari autori utilizzano nella propria analisi.
C’è grande sintonia nella letteratura di riferimento nel considerare che le
competenze fondamentali per un successo in un cambiamento sono quelle che
permettano di minimizzare le resistenze al cambiamento degli attori organizzativi,
ma se da una parte c’è chi si sofferma più ad un livello di gruppo, e quindi mette
in primo piano soft skills di tipo relazionale per sottolineare l’importanza della
cooperazione tra i diversi agenti del cambiamento, dall’altra c’è chi pone
l’accento su soft skills di tipo individuale per indagare su chi sono gli attori
organizzativi che garantiranno una minore resistenza al processo e su quali
caratteristiche essi abbiano. C’è inoltre chi a queste due tipologie di competenze
affianca quelle di tipo organizzativo - gestionale in grado di tradursi in azioni di
supporto concreto al progetto.
Stoker (2009) afferma che il ruolo e le skills degli agenti di cambiamento sono
cruciali nel compiere o facilitare il cambiamento in maniera effettiva. Un agente
del cambiamento privo di quelle competenze relazionali che gli permettano di
intervenire nel processo politico interno, di spingere verso azioni specifiche, di
influenzare le decisioni e i decisori, di affrontare le critiche e le sfide, di superare
51
le resistenze e di mantenere la sua coerenza di ruolo, è inevitabilmente destinato a
fallire (Buchanan e Badham, 1999).
Come deve comportarsi quindi l’agente del cambiamento per essere un
partecipante virtuoso nel processo di cambiamento? Secondo Buchanan e Boddy
(1992) egli deve dare supporto alla “public performance” (ivi, p.27) in maniera
“razionalmente graduale, visibilmente partecipativa, ricercando e mantenendo il
supporto nell’identificare e bloccare le resistenze” (ibidem).
Balogus (2008) enfatizza l’importanza di competenze interpersonali e
comunicative più che quelle tecniche come fattori di successo in un processo di
cambiamento organizzativo. Specificano anzi ancora di più su che tipo di
competenze puntare, ovvero giudizio politico, capacità di fare rete e propositività
in azioni di backstage in grado di favorire lo scioglimento delle resistenze,
competenze che devono essere tenute in primo piano dai decisori, che devono
fornire supporto e formazione adeguata su questo piano, soprattutto a quegli
elementi del middle management che si troveranno nel difficile ma centrale ruolo
di dover “assorbire lo shock” del cambiamento, dovendo rispondere da un lato
alle esigenze della dirigenza, e dall’altro all’esternarsi delle resistenze al
cambiamento da parte dei propri colleghi e collaboratori. Questo delicato ruolo li
costringerà spesso ad un lavoro fortemente emotivo, privo di un copione
prestabilito, e scarsamente riconosciuto.
Spreitzer e Quinn (1996), spostano invece l’attenzione su competenze, sempre
“soft”, ma di tipo individuale e su quali di queste garantiscono un coinvolgimento
maggiore nel processo di cambiamento da parte degli attori organizzativi. Essi
nella loro ricerca che ha preso in esame ruoli, skill e supporto sociale, hanno
riscontrato che quelli con i più alti livelli di self confidence e supporto sociale
percepito erano i più aperti ad un cambiamento organizzativo. La loro ricerca ha
inoltre evidenziato come fossero tre i comportamenti fondamentali per quel che
riguarda invece le competenze di tipo relazionale che contraddistinguevano gli
individui più propensi a rendersi partecipi di un processo di cambiamento, ovvero
52
la condivisione di informazioni, la condivisione di risorse e la ricerca di accesso ai
network chiave.
Tornando sul piano individuale, non bisogna dimenticare una questione
fondamentale implicata in ogni cambiamento organizzativo: quella dello stress
generato dal cambiamento. Come già sottolineato nel primo capitolo ogni
cambiamento organizzativo porterà inevitabilmente con se sentimenti di
incertezza percepiti da parte degli attori organizzativi. Questi sentimenti di
incertezza riguardano la propria posizione all’interno dell’organizzazione, le
pressioni di ruolo, il timore di perdere il lavoro, la riduzione delle risorse
disponibili (Hui e Lee, 2000). Altri timori riguardano l’alterazione o il
cambiamento delle competenze tecniche necessarie per il soddisfacimento delle
richieste organizzative (Shabracq e Cooper, 1998). Secondo gli autori infatti,
quando i dipendenti non riescono ad apportare i necessari adeguamenti, il senso di
incertezza sul futuro aumenta causando stress.
È il senso di inadeguatezza rispetto a queste richieste il detonatore principale dello
stress e al contempo l’ostacolo al cambiamento. Kotter e Cohen (2002) hanno
fatto notare che i problemi fondamentali dei cambiamenti organizzativi non sono
tanto la strategia, la struttura, la cultura o il sistema. I veri problemi sorgono al
momento di decidere come aiutare i dipendenti ad adattarsi al cambiamento. Ciò
che va evitato in questo caso, è che una percezione negativa dell’evento possa
portare a sentimenti negativi di sfiducia e disaffezione nell’organizzazione, che
possono sfociare in comportamenti di resistenza o in vero e proprio disagio
psicologico e minare le basi dei rapporti di cooperazione tra le persone.
Infatti, in ossequio al modello transazionale di Lazarus e Folkman (1984) che
definiscono lo stress come condizione dinamica derivante dall’interazione di
variabili ambientali e individuali che vengono mediate da variabili di tipo
cognitivo, si può affermare che gli eventi saranno stressanti per l’individuo nella
misura in cui egli li percepirà come tali. Di fondamentale importanza saranno
questa volta proprio quelle variabili cognitive individuali in grado di moderare la
risposta di stress, in quanto da tale mediazione dipenderà la valutazione che
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Competenze per il cambiamento e cambiamento tramite le competenze.

  • 1. 1 ABSTRACT Il presente elaborato si propone di indagare sugli argomenti del cambiamento organizzativo e delle competenze. Questi temi, alla luce della spinta dei mercati verso il cambiamento continuo negli ambienti organizzativi, si dimostrano profondamente correlati. In un mercato caratterizzato dalla discontinuità e da forte competitività, diventano fondamentali quelle competenze trasversali che facilitano i cambiamenti di ruolo, di mansione, se non di azienda. La meta cui tendere è in questo caso l’alleostasi, ovvero il mantenimento della stabilità attraverso il cambiamento, per il raggiungimento della quale sono fondamentali tutte quelle competenze che permettano una ricostituzione resiliente della rottura che ogni cambiamento provoca nello status quo delle persone. Diventa importante per rimanere aderenti allo sviluppo dei mercati tarare ogni cambiamento organizzativo secondo una logica di sviluppo di competenze, per raggiungere quella competenza organizzativa che è chiave del successo per l’organizzazione moderna. Nella prima parte di questo elaborato sarà riportata una rassegna bibliografica riguardante i due temi, ed un approfondimento sui modelli presenti in letteratura che meglio li collegano. Nella seconda parte sarà riportata invece una ricerca qualitativa condotta su un caso di cambiamento organizzativo in un’Agenzia per il Lavoro italiana tramite lo strumento dell’intervista semi- strutturata. Questa si pone come obiettivi di analizzare se e come il caso di studio abbia affrontato le sfide per il cambiamento concettualizzate nel modello di Kotter (1995) approfondito nella prima parte e quali competenze trasversali siano viste dal campione intervistato come facilitanti per una ricostituzione resiliente.
  • 2. 2 INDICE INTRODUZIONE PARTE PRIMA 1. CAMBIAMENTO 1.1. Premessa 1.2. Il cambiamento organizzativo nella psicologia delle organizzazioni 1.3. Modelli di cambiamento organizzativo 1.4. Resistenze al cambiamento organizzativo 2. COMPETENZE 2.1. Premessa 2.2. Le competenze: tentativi di definizione 2.3. Competenze per l’organizzazione moderna 2.4. Trasversalità e trasferibilità delle competenze 2.5. La gestione delle risorse umane secondo la logica dello sviluppo di competenze 2.6. La valutazione delle competenze 3. COMPETENZE PER IL CAMBIAMENTO 3.1. Premessa 3.2. Un iceberg che si scioglie 3.3. Compiere il cambiamento 3.4. Quali competenze per il cambiamento? 3.5. Un tentativo di sintesi p. 4 p. 7 p. 8 p. 8 p. 9 p. 12 p. 19 p. 24 p. 24 p. 25 p. 29 p. 32 p. 35 p. 39 p. 43 p. 43 p. 44 p. 48 p. 50 p. 57
  • 3. 3 PARTE SECONDA 4. ANALISI DEL CASO DI UNA APL ITALIANA 4.1. Obiettivi 4.2. Contesto e soggetti 4.3. Strumento e procedura 4.4. Analisi dei dati 4.5. Risultati 4.6. Discussione 4.7. Implicazioni operative e di ricerca ALLEGATI A. Dizionario Soft Skills 6x6 B. Traccia dell’intervista C. Interviste sbobinate D. Gerarchizzazione Soft Skills E. Categorizzazione del materiale delle interviste BIBLIOGRAFIA p. 59 p. 60 p. 60 p. 63 p. 67 p. 74 p. 77 p. 111 p. 118 p. 121 p. 122 p. 128 p. 132 p. 158 p. 164 p. 182
  • 4. 4 INTRODUZIONE Negli ultimi decenni il panorama organizzativo mondiale ha conosciuto un’evoluzione importante, in cui le organizzazioni si sono trasformate, citando una metafora di Butera (2012), da orologi a organismi, da castelli a reti. Molto è cambiato nelle strutture, nei sistemi di coordinamento, in quelli di controllo, nell’organizzazione del lavoro e delle risorse, nei ruoli e nella cultura di aziende e pubbliche amministrazioni. Il contesto attuale è caratterizzato dalla continua ricerca d’innovazione e di garanzie di successo organizzativo, ricerca che ha contraddistinto il superamento dei vecchi modelli organizzativi. Nonostante ciò, come sottolinea l’autore, i vecchi modelli taylor - fordisti sono stati caratterizzati da una tale pervasività e potenza nei modi di produzione e consumo, che il cambiarli e l’aggiornarli assecondando le spinte che l’ambiente e i mercati impongono è un compito assai arduo. Questa difficoltà non può comunque diventare scusante per l’immobilismo, in quanto le sfide della terziarizzazione dell’economia, dei mercati sottoposti a pressioni concorrenziali estreme, dell’instabilità delle situazioni e dei contesti di lavoro, dell’evoluzione demografica, pongono come necessario un cambiamento tanto strutturale quanto culturale della gestione delle organizzazioni. Il modello taylorista delle procedure, delle prescrizioni e dei protocolli è inadatto a rispondere a tali sfide, ed esse non possono sostituirsi alle capacità di comprensione e d’interpretazione della situazione. Secondo Le Boterf (2008), infatti, “non si può eliminare l’imprevisto rafforzando fino all’estremo i controlli o affidandosi ad una tecnologia sofisticata” (ivi, p. 24). Nonostante egli ammetta che la produttività non possa in alcun caso essere trascurata, queste nuove sfide presuppongono un approccio diverso da parte dell’attore organizzativo, che deve diventare un professionista sulle cui competenze si possa fare affidamento nei momenti di rischio e incertezza. Saranno quindi sempre più richiesti da parte dell’organizzazione la responsabilizzazione, l’investimento personale e
  • 5. 5 l’iniziativa locale. Il sistema di competenze diventa quindi leva centrale per il cambiamento all’interno delle organizzazioni. Citando Le Boterf: “l’impresa del terzo millennio può funzionare e svilupparsi soltanto se può fare affidamento sulla competenza dei professionisti” (ivi, p. 26). Questo scritto propone un’indagine riguardante questi temi, partendo da un’analisi dello stato dell’arte della letteratura organizzativa. Nei primi due capitoli verrà proposta una rassegna bibliografica riguardante i temi del cambiamento organizzativo e delle competenze, cercando di sottolineare nel primo i diversi modelli teorici che ne hanno caratterizzato lo studio negli ultimi decenni e i conseguenti risvolti applicativi; tentando di dare nel secondo una chiarificazione del concetto di competenza che sia aderente al contesto organizzativo attuale e fornendo una panoramica degli strumenti che la letteratura propone per un suo utilizzo proficuo. Nel terzo capitolo si cercherà di collegare le due tematiche proponendo una rassegna bibliografica che indaghi sull’interrogativo di quali siano le competenze trasversali che permettano di giungere ad un compimento reale dei processi di cambiamento organizzativo, trovando nel modello di cambiamento di Kotter (1996) un background teorico forte nel ricordare come il riconoscimento, la valutazione, la gestione e lo sviluppo delle competenze degli attori organizzativi siano un momento fondamentale di promozione e di messa in pratica del cambiamento organizzativo. Si è inoltre riconosciuto nel costrutto di competenze di resilienza un ruolo chiave nello svolgere da moderatrici delle resistenze al cambiamento, indicate in letteratura come gli ostacoli più grandi al compimento del cambiamento organizzativo (Quaglino, 2007). Nel quarto ed ultimo capitolo sarà presentata l’indagine su un caso di una Agenzia per il Lavoro italiana che ha recentemente messo in atto un importante processo di cambiamento organizzativo, indagine svolta tramite l’impiego del metodo qualitativo dell’intervista semi-strutturata. Obiettivi dell’indagine saranno in questo caso capire quali fasi del modello di Kotter (1996) si sono affrontate nel caso in esame, e, soprattutto, come sono state affrontate, e quali sono state le
  • 6. 6 competenze riconosciute come più importanti per compiere un cambiamento in maniera resiliente.
  • 8. 8 1. CAMBIAMENTO 1.1 Premessa “Il cambiamento, con tutti i rischi che comporta, è la legge dell'esistenza” (Kennedy, in Biagi, 1971). Biagi in questa citazione mette in risalto due aspetti fondamentali che riguardano il cambiamento: la sua necessità e al contempo la sua rischiosità. La prima rimanda alle numerose spinte che ambiente, individui e organizzazioni, interagendo, esercitano continuamente gli uni sugli altri; la seconda invece riguarda l’incertezza degli esiti del cambiamento in rapporto agli sforzi intrapresi per attuarlo. Incertezza derivante dalle molteplici variabili in gioco in un processo di cambiamento, riguardi esso dimensioni individuali, di gruppo o organizzative. Il concetto di cambiamento organizzativo è da tempo oggetto di studi approfonditi da parte di gran parte delle discipline che si occupano di tematiche economiche, organizzative e del lavoro. Nonostante esso andrebbe “considerato come evento corrente, come naturale connotazione della dinamica evolutiva di sistemi complessi come le organizzazioni” (Tanucci in Argentero, Cortese, Piccardo, 2010, p. 321), diventa argomento di attualità ogniqualvolta per affrontare congiunture economiche avverse come quelle attuali, le organizzazioni sono costrette a ripensare a se stesse e a mutare. Sono molteplici le forze che spingono le organizzazioni a modificare le proprie azioni, le proprie strutture e i propri obiettivi in funzione di una maggiore o rinnovata efficacia. Spinte esterne all’organizzazione, di tipo socioeconomico, culturale e valoriale che investono tematiche come l’innovazione tecnologica, il mutamento delle caratteristiche dei mercati e della forza lavoro (Daft, Noe, 2001), ma anche interne ad essa, che riguardano la gestione delle risorse umane e il comportamento manageriale, e individuali, che riguardano soprattutto la gestione dei ruoli, delle transizioni (Fraccaroli, 1998).
  • 9. 9 La molteplicità, il valore, e la forza di queste spinte rendono il cambiamento evento necessario nella vita delle organizzazioni, e la sua gestione diventa “la carta vincente di ogni organizzazione che intende sopravvivere al mercato e resistere alla concorrenza” (Piccardo e Colombo, 2007, p. VII). “Cambiare, governare i mutamenti, e sapersi adattare sono le parole chiave di ogni organizzazione che intende essere al passo con i tempi” (ibidem). Il motivo dell’ importanza della gestione del cambiamento va ricercata nelle difficoltà che si incontrano nel tentativo di prevederne gli esiti, che possono essere anche pesantemente compromettenti per il funzionamento organizzativo. Per questo si è andata diffondendo sia nella teoria che nella pratica del management la consapevolezza che una sfida di tale portata necessiti lo sviluppo di specifiche competenze, conoscenze e capacità da parte dei suoi attori principali, sviluppo che deve portare ad una sintesi congruente le diverse istanze tecnico-razionali e psicologico - sociali (Rebora e Minelli, 2007) che entrano in gioco in un processo di cambiamento. 1.2 Il cambiamento nella psicologia delle organizzazioni Molti autori hanno cercato di dare una definizione di cambiamento organizzativo, i loro sforzi se da un lato hanno permesso di coglierne le sfumature nella vastità del termine, dall’altro hanno lasciato molti margini di ambiguità al concetto. Sembra riproporsi anche in quest’ambito il problema della coperta troppo corta. Per quanto si cerchi di abbracciare il fenomeno in tutti i suoi aspetti, la sua complessità lo rende difficile da definire nella sua interezza. Quaglino (1990, p. 323), seppure in una accezione che lo descrive come atto deliberativo e finalizzato, e che quindi tralascia la “natura e le caratteristiche dinamiche dei sistemi organizzativi e del loro divenire” (Piccardo e Colombo, 2007, p. 11), parla del cambiamento organizzativo “come quell’insieme di azioni pensate e orientate dichiaratamente e deliberatamente verso un obiettivo di mutamento dell’organizzazione”.
  • 10. 10 In questa accezione il cambiamento organizzativo diventa intervento necessario all’organizzazione in un momento in cui il suo funzionamento diventa critico, e quindi c’è l’urgenza di risolvere una situazione-problema attraverso l’introduzione di un’innovazione. Si configura in un “passaggio di stato”, ovvero una transizione da uno stato A, che “rappresenta l’insorgenza di una situazione o di un problema che interferisce con la stabilità dell’organizzazione oppure impedisce il mantenimento o il miglioramento di un livello di prestazione” (ibidem) , ad uno stato B che rappresenta l’esito desiderato del cambiamento, in una certa unità di tempo. La situazione-problema può scaturire da fatti e aspetti che si riferiscono sia agli elementi tecnici, sia a quelli sociali che compongono l’organizzazione (Quaglino, 2007). Nella sua definizione Quaglino (1990) pone le basi per una più chiara definizione del contenuto del cambiamento e del processo di cambiamento. Il contenuto andrebbe individuato nella differenza tra lo stato B sperato e lo stato A attuale; il processo invece in ciò che viene agito per passare dallo stato A attuale allo stato B sperato. Tichy (1983) si sofferma invece sulle forme che può assumere il cambiamento organizzativo: ad una forma “strategica, di carattere essenzialmente discontinuo, orientata e diretta a conseguire una trasformazione profonda dell’organizzazione” (Piccardo e Colombo, 2007, p. 15), che rimanda quindi alla definizione di cambiamento come azione deliberata da parte dell’organizzazione, egli contrappone una forma “evolutiva, risultato di eventi in larga misura al di fuori del controllo degli attori organizzativi” (ibidem), cogliendone quindi anche la natura dinamica. Fraccaroli (1998, p. 14) pone ancora di più l’accento su questo aspetto, parlando di “processi dinamici ed evolutivi delle culture, delle strutture, delle strategie e dei gruppi di potere nelle organizzazioni”. March (1981) nel suo modello dell’incertezza, sottolinea come proprio questi processi evolutivi siano i più difficili da riconoscere e gestire, in quanto non sono né determinabili, né razionalizzabili, ma guidati sostanzialmente dal caso. Rice (1963) sposta il focus sugli aspetti individuali del cambiamento descrivendolo come “mutamento dei ruoli e delle relazioni proprie dei ruoli e
  • 11. 11 quindi delle mansioni e dei rapporti personali di coloro che li esplicano” (ivi, p.14). Dalla sua definizione emerge l’importanza dell’aspetto umano e sociale che già Lawrence (1954) e in tempi più recenti Rebora (2007) hanno contrapposto all’aspetto tecnico del cambiamento. Mentre quest’ultimo si riferirebbe ad una modificazione nei processi lavorativi, il primo si riferisce al “modo in cui le persone, che sono direttamente coinvolte nello stesso processo di cambiamento, pensano che esso modificherà le loro radicate relazioni nell’organizzazione” (ibidem). Come si può notare, il concetto di cambiamento con le numerose sfaccettature, è andato evolvendosi su specifici focus a seconda del livello d’analisi adottato dai diversi autori, pur mantenendo come punto di contatto lo stretto rapporto di interdipendenza tra ambiente esterno, organizzazione e individui che ne fanno parte. Rapporto che suggerisce l’utilità di utilizzo di un approccio sistemico allo studio del cambiamento organizzativo, sforzo portato avanti dal Tavistock Institute of Human Relations fin dai primi anni ’60, frutto della sintesi di modelli teorici diversi e spesso lontani tra loro: il modello psicodinamico (Freud, Klein, Bion), le indicazioni proposte da Bertalanffy per una teoria generale dei sistemi, i lavori di Mayo e Lewin (Quaglino, 2007). L’assunto di base è che l’organizzazione: “si presenta come una totalità in sé: qualsiasi modificazione che intervenga a livello di un suo elemento particolare o meglio delle relazioni che tale elemento ha con altri elementi, non va mai vista come un fatto isolato nella misura in cui determina una completa modificazione della struttura stessa nella sua totalità.” (ivi, p.15) Il fenomeno, quindi, va considerato come un insieme strutturato di parti, nei termini delle relazioni esistenti tra esse. Questo permette di considerare al contempo tutti i diversi livelli, individuale, infragruppo, intergruppi, organizzativo, e di cogliere come il processo di cambiamento influenza questi livelli e come questi sono in grado di influenzare il processo in sé e i suoi esiti.
  • 12. 12 In sintesi, per dirla con Quaglino (2007, p.120) la letteratura suggerisce degli assunti di base dai quali partire nello studio del cambiamento organizzativo.  Il cambiamento non è più momento eccezionale, ma la costante dei processi organizzativi.  Difficilmente al cambiamento corrisponde il profilo della normalità e della continuità evolutiva e della padronanza razionale dei suoi contenuti.  Affrontare al meglio il cambiamento non vuol dire solo aver capacità di ripensare strategie e strutture, ma anche di trasformare mentalità e cultura. 1.3 Modelli di cambiamento organizzativo Uno dei primi e più famosi modelli di cambiamento organizzativo presenti in letteratura è quello di Lewin. Egli già dai primi anni ’50 “propone un modello dinamico del comportamento dei gruppi che punta l’attenzione sulla tendenza a mantenere uno stato di equilibrio costante nel tempo, anche in presenza di spinte al cambiamento” (Piccardo e Colombo, 2007, p. 29). Nel suo modello ipotizza l’esistenza di due tipi di forze che agiscono su questo equilibrio, da una parte quelle che spingono verso il cambiamento, dall’altra quelle che cercano di resistere ad esso. Tendenzialmente queste forze si controbilanciano in una sorta di omeostasi, ma avviene che per ragioni diverse, come pressioni presenti nell’ambiente, diminuzione dell’efficacia, riconoscimento di un problema, le spinte vincano le resistenze, dando inizio al processo di cambiamento. È questa la prima fase del modello di Lewin, ovvero quella dello scongelamento, dove avviene “la rottura dell’equilibrio esistente all’interno dell’organizzazione” (Piccardo e Colombo, 2007, p. 30), durante questa fase l’organizzazione riconosce di dover cambiare e da il via alla seconda fase, ovvero quella del cambiamento vero e proprio, che continua fino al raggiungimento di un nuovo equilibrio tra le due forze. Una volta raggiunto questo equilibrio si arriva alla terza fase, quella finale del ricongelamento, dove “i cambiamenti sono rinforzati e stabilizzati fino
  • 13. 13 alla loro istituzionalizzazione come parte di una normale routine” (ivi, p.31). È questa la fase di rinforzo e valutazione dei cambiamenti apportati. Il compito di un buon management secondo questo modello è quello di individuare alle spinte al cambiamento, e cercare di sfruttare le eventuali fonti di insoddisfazione per attivare la fase di scongelamento, fase fondamentale per il buon esito del processo di cambiamento, in quanto è attraverso questa fase che si può cercare di regolare la direzione che prenderà il sistema sbilanciato. (ibidem) Per quanto questo modello sia molto diffuso, e nonostante gli sia riconosciuta la primogenitura nell’affrontare il tema e nei suoi pioneristici risvolti metodologici, la sua eccessiva linearità lo ha reso oggetto di critiche. Esso infatti, è ritenuto “eccessivamente generico per una comprensione e una spiegazione approfondita del cambiamento organizzativo” (ivi, p. 39). Va detto però che Lewin in origine non sviluppò il suo modello specificatamente per studiare il cambiamento organizzativo, ma la sua ottica era allargata ad una dimensione di “sistema” che comprende anche strutture differenti da quella dell’organizzazione. Da ciò probabilmente deriva la sua genericità. Manca infatti un’analisi e delle linee guida per la progettazione e la reale implementazione del cambiamento. Per questo motivo, Lussier (1996) propone un suo modello integrandolo a quello di Lewin. Alle tre fasi di Lewin egli contrappone un modello a cinque fasi. Il modello resta lineare, quindi vede il cambiamento come una serie di tappe prestabilite, ma ha il merito di mettere in risalto gli aspetti gestionali del cambiamento organizzativo trascurati da Lewin. Di seguito le fasi definite nel modello di Lussier.  Definire il cambiamento: in quanto ad “obiettivi, soggetti, mansioni da svolgere, effetti creati” (Foglio, 2011, p. 93). Si tratta di stabilire la direzione verso la quale la situazione sta evolvendo, tenendo sotto controllo quanto e come questo avrà effetto sulle altre variabili organizzative.
  • 14. 14  Identificare le resistenze al cambiamento: trovarne la fonte, comprendere le caratteristiche e l’intensità.  Pianificare il cambiamento: progettare e sostenere l’intervento, strutturando i macro-obiettivi in sotto-obiettivi intermedi, pianificando mezzi, risorse e tempo. Importante in questa fase il sostegno al cambiamento, messo in atto attraverso “un adeguato sistema di supervisione degli obiettivi intermedi e un monitoraggio delle resistenze che possono ostacolare il processo” (Piccardo e Colombo, 2007, p. 40) Questa sembra corrispondere alla fase di scongelamento di Lewin, in quanto in questa fase il management deve apportare un “rinforzo guidato delle spinte che hanno generato il bisogno di cambiamento” (ibidem)  Promuovere il cambiamento: fase di attivazione del processo di cambiamento attraverso il coinvolgimento di tutti gli attori organizzativi, che devono essere informati in maniera chiara sulla necessità del cambiamento e sui suoi possibili effetti. In questa fase è necessario mettere i nuovi obiettivi in relazione con i valori esistenti nell’organizzazione, usare stili di supervisione opportuni, permettere a tutti gli attori di esprimere dubbi, timori, attese e speranze. È il management che “deve farsi carico delle incertezze individuali al fine di promuovere e garantire il successo del processo di apprendimento” (ibidem).  Controllare il cambiamento: verificare la realizzazione effettiva e il mantenimento nel tempo dell’intervento di cambiamento. Il merito di questo modello è quello di spingere verso una sensibilizzazione e una responsabilizzazione di tutti gli attori organizzativi, dal management ai dipendenti. Questi ultimi vanno resi partecipi nel progetto per diventare essi stessi agenti del cambiamento e non semplici spettatori paganti. L’eccessiva linearità del modello di Lewin, però, resta intatta. Le organizzazioni, come gli uomini che le compongono, peccano di razionalità limitata, e molto spesso “vi è uno scarto
  • 15. 15 incolmabile tra progetto e processo” (Quaglino, 2007, p. 343). “I processi evolutivi non sono determinati e razionalizzabili, ma caratterizzati da indeterminatezza, discontinuità e saltuarietà” (Piccardo e Colombo, 2007, p. 36) A questo proposito March (1981) propone un modello di cambiamento organizzativo come “certezza dell’incertezza” (ibidem), modello che vede nel cambiamento la ragione stessa dell’esistenza dell’organizzazione. Il problema è che raramente le organizzazioni realizzano quello che realmente avevano progettato, proprio per via del loro vincolo di razionalità limitata, che le condanna a conseguenze inattese in ogni azione intrapresa ed alla scarsa capacità di apprendere dal proprio contesto. Spesso quando le organizzazioni cambiano hanno a disposizione poche soluzioni, inoltre dimostrano difficoltà nell’individuare nessi di causalità tra problemi e soluzioni, quindi i cambiamenti sono guidati più dalle soluzioni possibili che dal problema in sé. Inoltre spesso esse stesse si trasformano durante il processo di cambiamento, mutando i propri obiettivi ed elaborandone di nuovi, ma rischiando di trovarsi nella trappola di quel meccanismo di difesa di matrice psicodinamica che Hinshelwood (1987) definisce come “spostamento del compito” (p. 92). Infine Maslow fa notare come “raramente si verifica una piena coerenza tra le esigenze di cambiamento dell’organizzazione, degli individui che ad essa appartengono e delle altre organizzazioni appartenenti al medesimo settore” (citato in Quaglino, 1990, p. 338), e quindi spesso le spinte al cambiamento interne ed esterne all’organizzazione andranno verso direzioni diverse, caotiche e conflittuali. L’intervento di Maslow fa capire quanto un approccio di tipo lineare allo studio del cambiamento organizzativo sia poco aderente alla realtà delle organizzazioni, e pone in rilievo la necessità di un modello che ne colga meglio la realtà complessa. Kreitner e Kinicki (2004), sulla base dei lavori di Fuquba e Kurpis (1993), Nadler e Tushman (1997), Buelens (1999) hanno sviluppato a questo proposito un modello basato sull’assunto che ogni tipo di cambiamento “ha un impatto a cascata all’interno delle organizzazioni” (Piccardo e Colombo, 2007, p. 42),
  • 16. 16 impatto che riguarda “politiche aziendali, procedure, struttura, sistemi gestionali, personale, processi, lavoro, tecnologia, ecc” (Foglio, 2011, p. 94). Si tratta di un modello sistemico, sviluppato sulle basi del relativo approccio citato nel paragrafo 1.1, che è caratterizzato dall’azione di tre componenti sull’organizzazione: input, elementi del cambiamento e output. Gli input fanno riferimento alla mission e alla vision dell’organizzazione. La prima rappresenta lo scopo intrinseco dell’esistenza dell’organizzazione, la seconda la via da seguire per il cambiamento, che si struttura in un piano strategico scelto sulla base delle potenzialità dell’organizzazione e le opportunità offertele dall’ambiente. Gli elementi del cambiamento sono gli aspetti dell’organizzazione che sono oggetto del cambiamento: “aspetti organizzativi, obiettivi, metodi, fattori sociali, attori organizzativi” (Piccardo e Colombo, 2007, p. 45), tutti tra loro legati da relazione sistemica, quindi ogni cambiamento sul singolo elemento ha effetti sugli altri. Gli output fanno riferimento invece ai risultati che si vogliono conseguire tramite l’intervento di cambiamento. Il cambiamento quindi si esplica in un input dato dalla potenzialità dell’organizzazione, uno dato da un’occasione dettata dal contesto a partire dai quali viene strutturata la strategia per il raggiungimento degli output desiderati. Obiettivi, metodi, fattori sociali e aspetti organizzativi che ruotano attorno agli attori organizzativi, fanno da mediatori tra i primi e gli ultimi e ne condizionano il rapporto. Il vantaggio del modello sistemico è appunto quello di cogliere l’importanza di questi mediatori nel processo di cambiamento, di riconoscerli, e quindi di darne un resoconto oggettivo sulla base del quale andare a strutturare un intervento che vada a colpire obiettivi specifici e circoscritti con il fine di generare e promuovere il cambiamento all’interno dell’organizzazione. Un esempio di intervento di questo tipo, sviluppato nella metà degli anni ’60 negli Stati Uniti e diffusosi successivamente in Europa è l’OD, Organizational Developement, descritto da Piccardo e Colombo (2007, p. 47) come “vera e
  • 17. 17 propria strategia per perseguire il cambiamento pianificato[…]adottando una prospettiva di tipo educativo mirata ad agire sull’apprendimento degli individui”, attraverso quindi “l’applicazione delle conoscenze tipiche delle scienze comportamentali” (ivi, p. 51). Questo tipo di approccio parte dal presupposto che nel processo di cambiamento sia necessaria la partecipazione attiva del personale coinvolto, e che quindi esso non vada attuato secondo le logiche top-down attualmente in uso dalla maggior parte delle organizzazioni, ma tramite processi che apportino aggiustamenti di tipo incrementale che coinvolgano tutti gli attori organizzativi. Dunphy e Stace (1988) sottolineano come questo modello incrementale si contrapponga ad un modello di cambiamento di tipo trasformazionale, necessario quando non c’è coerenza tra organizzazione e ambiente esterno, e quindi c’è necessità di adattamenti continui da parte della prima rispetto al secondo. In questo caso il management ha scarso controllo diretto sulle spinte al cambiamento, ed il processo perde di prevedibilità. In quest’ottica, “di fronte a crisi originate da instabilità e dalla non prevedibilità dello scenario in cui si colloca l’organizzazione, l’impresa ha come unica alternativa, […] la sua stessa trasformazione” Processi di questo tipo, necessitando di azioni dirette e spesso prive di apparente (o reale) coerenza, possono apparire coercitive, soprattutto per chi subisce l’onda del cambiamento senza intuirne la direzione. Di contro invece un intervento di OD “si presenta come un processo altamente partecipativo in grado di coinvolgere il cliente in tutti gli stadi dell’intervento, focalizzando l’attenzione sugli individui coinvolti nel cambiamento stesso in quanto fondamentali per la sua realizzazione” (Piccardo e Colombo, 2007, p. 52). È un intervento teso a produrre stabilità e crescita nell’organizzazione attraverso la valorizzazione e il potenziamento degli attori organizzativi in una logica di empowerment. Questo tipo di intervento è complementare a quello trasformativo, in quanto le condizioni per una sua attuazione sono in antitesi con quelle descritte in precedenza. Un intervento di cambiamento di tipo incrementale necessita di
  • 18. 18 coerenza con l’ambiente, buona prevedibilità delle situazioni e del tempo necessario per produrlo. Si basa sulla logica di interventi coerenti tra loro, dove ogni attore organizzativo possiede le giuste quantità di informazioni per capirne la direzione e lo scopo. Si basa quindi su un principio di diffusione, assimilazione e interiorizzazione di tali informazioni. Il suo scopo è ridurre l’incertezza, rafforzare la sicurezza percepita, e conseguentemente ridurre l’ansia riguardo gli esiti e le modificazioni che ogni cambiamento porterà ai suoi attori. L’OD si configura come un processo sviluppato a partire della ricerca-azione di Lewin (McShane, 2001), che prevede quindi fasi di analisi dei bisogni di cambiamento, interventi veri e propri e fasi di valutazione degli esiti. Benton (1995, citato in Picardo e Colombo, 2007, p. 52) individua le aree da presidiare in un intervento di Organizational Developement:  la definizione degli obiettivi e degli scopi sia per l’organizzazione, sia per gli individui;  i tempi e i costi dell’intervento;  gli aspetti psicologici con particolare attenzione alla ricerca di soluzioni adatte al contesto socioculturale;  la fiducia reciproca come collante tra individuo e organizzazione, tra il livello dirigenziale e i dipendenti;  il team building e l’intervento sulle relazioni tra ed entro i gruppi;  l’apprendimento dall’esperienza cosi da valorizzare la capacità di imparare dai propri errori. Esso è portato avanti da agenti del cambiamento, che McShane (2001) definisce come “individui che possiedono le giuste conoscenze, le abilità e il potere di guidare facilmente il cambiamento” (Piccardo e Colombo, 2007, p. 83). Questi devono essere sia interni all’organizzazione, quindi persone che ne posseggano una conoscenza approfondita e che occupino posizioni di leadership, sia esterni, in quanto portatori di un punto di vista più distaccato e oggettivo
  • 19. 19 sull’organizzazione. L’azione combinata di questi due tipi di agenti, deve dare forma e struttura al processo, aiutando a costruire il commitment necessario per raggiungere gli esiti sperati. Il loro compito è quello di “rendere tutti i dipendenti agenti di cambiamento, cosi da responsabilizzarli nei confronti di un progetto collettivo” (McShane, 2001, citato in Picardo e Colombo 2007, p. 84). 1.4 Resistenze al cambiamento organizzativo Un processo di cambiamento va ad attaccare una situazione di status quo nel quale ruoli, norme, obiettivi e valori sembrano stabili e cristallizzati nell’organizzazione, ed in un certo senso infondono sicurezza proprio perché conosciuti e riconosciuti socialmente dal gruppo di appartenenza. Il cambiamento, avendo come naturale esito la modificazione di tali elementi che rivestono un’importanza fondamentale nello sviluppo identitario all’interno di ogni gruppo sociale o organizzazione, porterà inevitabilmente con se fattori di incertezza inerenti sia la dimensione operativa, quindi azioni e decisioni volte al raggiungimento del compito primario, che quella relazionale, ovvero percezioni, sentimenti ed emozioni che si creeranno inevitabilmente durante la collaborazione o il confronto con altri membri dell’organizzazione (Quaglino, 2004). Questa incertezza è inevitabilmente fonte di ansia, che dovrà essere contenuta o mascherata, o ancora evitata, tramite l’utilizzo di molteplici meccanismi di difesa che, “pur originando dalla storia di ciascuno, vengono di fatto ad assumere un carattere condiviso e socializzato” (ivi, p. 4) Come spiegano Piccardo e Colombo (2007) in realtà questa dimensione difensiva è sempre presente nelle organizzazioni, ed è alla base di tutti i comportamenti mutevoli e poco prevedibili del comportamento organizzativo. Essa riguarda la protezione messa in atto a tutti i costi contro conseguenze vere o immaginarie del cambiamento, ed è ancora più accentuata nel mondo del lavoro moderno, in quanto meno routinario, più situazionale, insicuro e mutevole rispetto al passato (Quaglino, 2004).
  • 20. 20 Piccardo e Colombo (2007) riconducono l’attivazione delle difese sociali al concetto di confine rispetto a tre diverse dimensioni della vita organizzativa: i confini organizzativi, i confini di ruolo e i confini di autorità. I confini organizzativi riguardano l’apertura (o la chiusura) del mondo organizzativo all’ambiente esterno. Esso sarà infatti fonte di instabilità e di continue spinte al cambiamento. L’obiettivo del management è in questo caso la buona negoziazione di tali confini, in modo che l’ambiente interno sia adeguatamente protetto dall’instabilità esterna, ma che allo stesso tempo l’organizzazione abbia sufficiente sensibilità ad essa, in modo da potervisi adattare prontamente. È proprio tale negoziazione, secondo gli autori, la prima fonte di ansia all’interno delle organizzazioni. I confini di ruolo riguardano una dimensione più interindividuale. L’organizzazione moderna del lavoro comporta spesso un ampliamento delle attività lavorative e delle responsabilità. A questo ampliamento consegue la necessaria integrazione tra i diversi ruoli all’interno delle organizzazioni, ruoli che a volte possono risultare sovrapporsi o essere in conflitto tra di loro. Secondo gli autori la seconda fonte di ansia è proprio la negoziazione di tali confini di ruoli, alla ricerca del mantenimento dell’integrità del proprio ruolo e della necessaria integrazione con gli altri. I confini di autorità riguardano infine una dimensione legata più all’esercizio del potere all’interno del proprio ruolo organizzativo. In questo caso l’ansia è legata ai meccanismi di presa di decisione e alle loro conseguenze. Comprendere come queste ansie e le loro conseguenti difese influenzino gli atteggiamenti, e quindi i comportamenti degli attori organizzativi rispetto al cambiamento diventa sfida cruciale per il management. Sono esse infatti le cause di ciò che rappresenta l’ostacolo principale di ogni processo di cambiamento, ovvero la reazione di chiusura e irrigidimento degli attori coinvolti nei suoi confronti. Come sottolinea infatti Hinshelwood (1987, p. 187) le forme di irrigidimento dell’integrità di gruppo “sono un metodo mediante il quale si tenta di evitare lo stato di frammentazione”. È innegabile che ogni cambiamento porti
  • 21. 21 con sé destrutturazione e ristrutturazione di schemi esistenti, adozione di nuovi comportamenti e adesione a nuove norme, valori e stili di vita. L’incertezza e l’inadeguatezza sono i sentimenti che accompagnano la rottura del precedente status quo. Il conosciuto, per quanto non possa piacere, è sempre più rassicurante dell’ignoto (Piccardo e Colombo, 2007). Ma l’irrigidimento offre una protezione dalle ansie soltanto relativa e limitata nel tempo, che porta con sé pericolosi svantaggi come depersonalizzazione, diminuita capacità di giudizio sulla realtà e distorsione dei compiti in funzione difensiva (Hinshelwood, 1987), oltre a rischiare di portare ad un effetto che Guichard e Huteau (2003) descrivono come Hysteresis, in cui certi attori continuano per un certo tempo ad applicare schemi di lettura o di giudizio e comportamenti ormai inadatti all’organizzazione ormai mutata. Ansie e resistenze riducono quindi l’efficienza dell’organizzazione. Al contrario: “Accettare il cambiamento implica sforzo, volontà vera di farsi coinvolgere attivamente e non passivamente nel processo, fiduciosi che la nuova situazione, ancorché ignota e sotto certi punti di vista ambigua, rappresenti uno sviluppo della situazione passata” (Piccardo e Colombo, 2007, p. 60). Analizzare le resistenze è fondamentale nell’implementazione di un processo di cambiamento. Serve infatti a comprendere come procedere per raggiungere gli obiettivi preposti (Daft e Noe, 2001). Quaglino (2004), in un’ottica psicodinamica, riconduce le resistenze al cambiamento a due livelli, un livello individuale e uno di gruppo. Il livello individuale riguarda innanzitutto le percezioni di incertezza e insicurezza, ovvero la minaccia percepita e la mancanza di informazioni complete sugli effetti che il processo di cambiamento avrà sull’individuo. Effetti che andranno a toccare l’identità occupazionale (Benton, 1995), le competenze maturate e la sicurezza economica (McKenna, 2000). Altra fonte di resistenze a livello individuale è la selezione percettiva delle informazioni, ovvero la tendenza
  • 22. 22 a selezionare le informazioni “coerenti con le proprie opinioni e gli schemi consolidati e utilizzati abitualmente” (Piccardo e Colombo, 2007, p. 68). Queste sarebbero fonte di distorsione dei messaggi e delle informazioni riguardo il processo di cambiamento, i suoi obiettivi, le sue motivazioni, e quindi di resistenze da parte degli attori coinvolti. Si attivano resistenze individuali anche nel momento in cui il cambiamento minaccia credenze, abitudini, significati condivisi che hanno valore di status (ibidem). A livello di gruppo le resistenze sono attivate come reazione a minacce che riguardano il gruppo nella sua totalità dinamica. Esse possono essere legate al potere e ai conflitti inter e infragruppo, ad una struttura organizzativa eccessivamente burocratizzata, da un’eccessiva coesione all’interno del gruppo, che porterà ad una strenua difesa dello status quo nel quale il gruppo aveva raggiunto una sua omeostasi. Altra fonte di resistenze di gruppo è riconducibile ad una comunicazione non adeguata e ambigua, che può dar luogo a interpretazioni plurime e contrastanti dell’obiettivo e del metodo del processo di cambiamento (Martin, 1998). Sulla base di queste fonti di resistenza, gli attori organizzativi metteranno in atto diversi comportamenti, dei quali Furnham (1997), sulla base dei lavori di Baron e Greenberg (1992) propone una tassonomia citata in Piccardo e Colombo (2007, p. 63), tassonomia che viaggia lungo un continuum che va dal totale rifiuto al totale sostegno al processo di cambiamento.  Abbandono dell’organizzazione: comportamento estremo di rifiuto del cambiamento.  Resistenza attiva: tentativo di modificare la natura stessa del cambiamento, cercando alleati tra gli attori organizzativi.  Opposizione passiva: tendenza a ritardare o a sabotare passivamente il processo di cambiamento.  Acquiescenza: accettazione passiva del processo di cambiamento, derivante da un senso di incombente inevitabilità nei suoi confronti.
  • 23. 23  Consenso passivo: atteggiamento indifferente e acritico, approvazione priva di partecipazione.  Consenso negoziale: accettazione del cambiamento tramite la negoziazione del processo con il management.  Supporto attivo: accettazione della proposta di cambiamento e impegno attivo in direzione dei suoi obiettivi. Tocca al management cercare di guidare i comportamenti degli attori organizzativi quanto è più possibile verso una dimensione di sostegno nei confronti del processo i cambiamento. Le resistenze al processo andranno quindi accettate come inevitabili, ma anche affrontate in modo adeguato (Buchanan e Hoczynski, 1997). In questa direzione vanno fatti sforzi comunicativi in grado di motivare efficacemente il cambiamento e negoziarlo in maniera adeguata. Strategie coercitive alzano inevitabilmente il livello delle resistenze individuali e di gruppo. Strategie basate sulla razionalità possono essere ritenute sospette e poco dimostrabili. Strategie basate sulla condivisione del potere possono essere valutate come manipolative e non autentiche (Piccardo e Colombo, 2007). Il cambiamento deve apparire ragionevole e migliorativo, e deve esserne percepito il controllo da parte di tutti. Lussier (1996) suggerisce dei metodi per facilitare il fronteggiamento delle resistenze, ovvero sviluppare un clima favorevole al cambiamento, attraverso l’utilizzo di strategie di sviluppo della cooperazione e dell’interdipendenza tra diversi reparti dell’organizzazione; incoraggiare l’interesse e l’attenzione nei confronti dello sviluppo e della valorizzazione delle proprie competenze, e mostrare il cambiamento come un’opportunità in questo senso; pianificare il cambiamento identificando le possibili resistenze e pianificando il modo migliore di affrontarle. La dimensione comunicativa è fondamentale in questo senso: “L’obiettivo è sensibilizzare gli individui circa il cambiamento prima che questo sia attuato e aiutarli a comprenderne la logica” (Piccardo e Colombo, 2007, p. 73)
  • 24. 24 2. COMPETENZE 2.1 Premessa “I tipi di competenze richiesti per praticare occupazioni flessibili, nel complesso, non comportano un apprendimento sistematico e a lungo termine; più frequentemente, essi trasformano in svantaggio un corpo logicamente coerente e ben conformato di capacità e abitudini acquisite, che un tempo costituiva una risorsa” (Bauman, 2002). Bauman, seppur con accezione fortemente critica, mette in risalto una problematica importante delle nuove realtà organizzative: il problema delle competenze. Infatti, in una realtà caratterizzata dall’imprevedibilità dei contesti, dal rapido rinnovarsi di condizioni operative che altrettanto rapidamente diventano obsolete, ma soprattutto dalla temporaneità dei rapporti di lavoro, va in crisi tutto il sistema che ha caratterizzato lo sviluppo di competenze durante il secolo scorso. Fino a un recente passato erano le competenze tecniche, il sapere e il saper fare, alla base della ricerca dell’eccellenza da parte dell’organizzazione. Esse venivano sviluppate durante un lungo percorso del quale l’organizzazione stessa era custode e nutrice. “Gli individui che entravano nelle diverse realtà organizzative o che le conoscevano dall’esterno sviluppavano le proprie competenze recependole dall’ambiente, dai colleghi anziani, o, ancora dal clima generale” (Soro e Acquadro Maran, 2008, p. XII). L’importanza di queste certo non è venuta meno, ma nel nuovo panorama organizzativo si è sentito il bisogno di andare alla ricerca di un sistema di competenze che riesca ad essere più aderente alla realtà di un continuo cambiamento. È diventato fondamentale il concetto di trasversalità e trasferibilità delle competenze. Per trasversalità si intende la caratteristica delle competenze di
  • 25. 25 essere aspecifiche, quindi spendibili in contesti diversi tra loro, e che permettono di svolgere mansioni o ruoli differenti (Gallo e Boerchi, 2011). Per trasferibilità si intende invece la possibilità di poter riutilizzare le competenze acquisite, grazie ad un apposito processo di ristrutturazione, in un contesto o in situazioni lavorative differenti (ivi, p. 23). Sono diventate fondamentali inoltre, quelle competenze di cooperazione (Le Boterf, 2008) che rendono possibile l’emergere di performance superiori anche nei gruppi di lavoro, facendo da collante tra le competenze individuali di ciascun membro del gruppo, in modo che esse siano pienamente fruibili all’interno dell’ambiente di lavoro. Sono questi i concetti che vanno a dare una risposta alla critica di Bauman: in un mercato del lavoro caratterizzato in questo modo da rapidi mutamenti la competenza tecnica (o job-based) cui faceva riferimento è realmente una risorsa obsolescente se non accompagnata da un bagaglio di altre competenze che permettano a questa di modificarsi, riattualizzarsi e spendersi in ogni contesto in cui l’individuo andrà ad imbattersi durante la sua vita lavorativa. Per dirla con Le Boterf (2008, p.20): “Per un numero crescente di lavori, l’esperienza risultante dall’anzianità non basta più: diventa imperativo per chi li esercita costruire in modo permanente delle competenze nuove che non erano prevedibili e specificate all’inizio della loro carriera. La qualificazione non può più essere, dunque, uno stock iniziale da valorizzare nel tempo. È soltanto un punto di partenza per un impegno nella dinamica dell’apprendimento.” 2.2 Le competenze: tentativi di definizione Il concetto di competenza è entrato a far parte del vocabolario della letteratura organizzativa a partire dai primi anni ’70, quando, per via della messa in discussione delle relazioni di subordinazione gerarchica e delle rivendicazioni di
  • 26. 26 un più forte riconoscimento delle persone nelle situazioni di lavoro (Le Boterf, 2008), si è arrivati ad un superamento del concetto di qualifica lavorativa che si esplicava in una forma di lavoro di tipo prescrittivo e aderente a procedure e standard di stampo neotaylorista, superamento dovuto al riconoscimento della necessità di tener conto delle competenze individuali in vista del raggiungimento di performance ottimali. Le Boterf (ivi, p.18) parla infatti di uno spostamento del focus sul “lavoro reale che doveva completare e a volte anche superare quello prescritto”. Uno dei primi autori a prendere in considerazione il concetto di competenza è stato McClelland (1973) che mosse i suoi studi convinto della scarsa validità dei test attitudinali, fino a quel momento largamente in uso all’interno delle organizzazioni, come predittori dei comportamenti individuali al lavoro. Egli proponeva come alternativa il modello delle competenze di successo, ovvero un “sistema di schemi cognitivi e di comportamenti operativi causalmente correlato al successo nel lavoro” (Gallo e Boerchi, 2011, p. 15). L’autore definiva la competenza come “una caratteristica misurabile di una persona che consente di distinguere in modo attendibile gli outstanding dai typical performers in un particolare lavoro. Queste caratteristiche sono predittive di una performance superiore” (ibidem). Boyatzis (1982), riprendendo questo concetto e lo ampliano, inserendo la condizione di causalità: “La competenza è una caratteristica intrinseca individuale che è causalmente collegata ad una performance efficace o superiore in un’attività lavorativa e che è misurabile in base ad un criterio prestabilito” (ibidem). Un ulteriore contributo in chiave sistemica nel tentativo di dare una definizione quanto più esauriente possibile al costrutto della competenza arriva con Gilbert (1992). Egli scrive che “le competenze formano insiemi strutturati i cui elementi si combinano, si dispongono, si ordinano secondo gerarchie, al fine di rispondere alle esigenze delle attività che devono essere realizzate” (Rey, 2007, p. 55). Il maggiore contributo che arriva da questa ulteriore puntualizzazione del costrutto di competenza deriva dal fatto che gli autori riconoscano che esso non abbia una
  • 27. 27 omogeneità psicologica, ma di risultato. Il costrutto di competenza “Può sicuramente comprendere conoscenze, saper-fare, ragionamenti, schemi motori e sensoriali, ma ciò che ne fa l’unità è la sua utilità, è l’attività tecnico-sociale nella quale essa sfocia” (ibidem). Essa quindi sarà quindi osservabile a partire dalle azioni funzionali alle quali da luogo. Il messaggio per le organizzazioni a questo punto è chiaro: esistono caratteristiche soggettive dei vostri membri che sono legate a performance lavorative migliori, in quanto hanno rapporto causale con i comportamenti che determinano questo tipo di prestazioni, ed esse sono misurabili a partire da azioni osservabili che le esplicano. Dato il naturale interesse dell’ambiente organizzativo per un costrutto che sia in grado di essere predittivo delle best performances, il naturale passo successivo è stato uno sviluppo del modello delle competenze sotto il profilo delle pratiche gestionali, sviluppo che ne consente quindi un’applicabilità e un utilizzo manageriale. In questa direzione si è svolto il lavoro di Spencer e Spencer (1993). Essi rielaborano il modello andando a definire quali sono le caratteristiche che compongono le competenze. Suddividono inoltre queste caratteristiche in tre livelli, dal più superficiale e visibile a quello più profondo. Per quanto riguarda il livello superficiale gli autori parlano di conoscenze e abilità, corrispondenti ai classici “sapere” e “saper fare”. Queste, oltre ad essere le caratteristiche più visibili sono anche quelle più facilmente modificabili e sviluppabili. Al livello intermedio gli autori inseriscono l’immagine di sé, gli atteggiamenti ed i valori. Essi corrispondono al “saper essere”, e, sebbene modificabili, hanno bisogno di maggiore tempo e soprattutto maggiore sforzo per svilupparsi e quindi sono più resistenti agli stimoli esterni. Al livello più profondo, infine, gli autori inseriscono i tratti e le motivazioni. Essi sono difficili da diagnosticare, ma sono ancora più difficili da modificare, proprio in relazione alla loro profondità e al loro essere ancorati al nocciolo duro dell’identità e della struttura di personalità degli individui.
  • 28. 28 Posta quindi questa strutturazione degli elementi caratterizzanti le competenze, è compito del management gestire i diversi livelli in vista di un miglioramento delle performance: strutturare idonei percorsi formativi per quanto riguarda i primi due livelli, e, data la scarsa propensione alla modificazione del livello più profondo, delegare ai processi di selezione il presidio di quest’ultimo (Gallo e Boerchi, 2011). Gli autori hanno inoltre ideato un vero e proprio strumento a supporto dell’applicazione del proprio modello. Raccogliendo, catalogando e categorizzando centinaia di comportamenti di successo in varie attività, essi giungono a definire il primo dizionario della competenza, strumento poi rielaborato in molteplici varianti adattabili ai più diversi scopi e contesti organizzativi. Esso si compone di vari cluster di competenze ricavate da modelli di successo che, una volta applicati ai contesti in analisi, sono in grado di fornire un modello generico di competenza predittivo dei comportamenti di successo (Soro e Acquadro Maran, 2008). Il contributo di Spencer e Spencer, seppur abbia avuto importanti risvolti pratici, non esaurisce però il dibattito accademico, sviluppatosi soprattutto a partire dagli ultimi anni ’90 per via delle nuove esigenze di competitività e di maggiore complessità delle organizzazioni. Esse, per via di queste esigenze, hanno lasciato ulteriori spazi di iniziativa alle azioni dei propri membri, spazi che sono stati colmati dalla messa in opera delle competenze individuali di questi ultimi (Le Boterf, 2008). Le competenze quindi, da essere un surplus fine al raggiungimento di performance superiori, sono diventate essenziali per il buon funzionamento e per il successo delle organizzazioni moderne. La nozione stessa di competenza si è evoluta. “Essere competenti in una situazione di lavoro oggi non significa più la stessa cosa che esserlo negli anni ’50 o negli anni ‘70” (ivi, p.20). Le competenze che avevano portato al successo in passato “sono diventate oggi competenze necessarie solamente per competere. Analogamente, parte di quelle che fino a pochi anni addietro erano competenze richieste per esserci sono diventate competenze perdenti o marginali” (Galli e
  • 29. 29 Torreggiani, 2006, p. 14). L’oggetto del dibattito si è spostato dunque sul tipo di concetto di competenza di cui le organizzazioni hanno bisogno. 2.3 Competenze per l’organizzazione moderna In un contesto evolutivo del lavoro sempre più caratterizzato dall’inedito e dall’eventuale, essere competenti significa in maniera sempre maggiore “essere capace di gestire delle situazioni complesse e impreviste” (Le Boterf, 2008, p. 45). Sono queste situazioni, che vanno al di la del prescritto, generate in funzione di quelle nuove sfide di qualità, reattività, economia della varietà e innovazione (ivi, p. 21) quelle che il contesto organizzativo attuale rende fondamentali per il successo di un’azienda. Le Boterf (ivi, p.22) sottolinea che di fronte a queste sfide, le organizzazioni fino a qualche tempo fa hanno risposto mettendo a punto procedure e dispositivi automatizzati. L’ottica era quella del “rischio zero”, in un contesto caratterizzato dal controllo e la standardizzazione. Sebbene questo approccio abbia permesso di realizzare notevoli progressi, l’autore non può fare a meno di considerarne anche i grossi limiti. Fermo restando che “le procedure sono indispensabili e la loro adozione generalizzata ha permesso di evitare molti incidenti e manchevolezze” (ibidem), egli sottolinea che il loro eccesso paralizza l’iniziativa, deresponsabilizza, abbassa il livello di vigilanza e limita la necessaria flessibilità. Le procedure non possono sostituire la capacità di comprensione e di interpretazione delle situazioni, né tantomeno potremmo oggi giudicare un individuo come competente per il semplice fatto che con i suoi comportamenti aderisca a dettagli procedurali o ad una descrizione della mansione da svolgere, bensì la sua competenza si esplicherà proprio nella sua capacità di prendere buone iniziative di fronte all’imprevisto e all’inedito. Agire, infatti, “comporta necessariamente dei rischi, perché implica il confronto con la realtà” (ivi, p. 24) e
  • 30. 30 il professionista dovrà quindi possedere le giuste competenze ed i giusti margini di manovra che gli permettano di prendere iniziative pertinenti alla situazione. Viste le nuove esigenze delle organizzazioni, le persone fondamentali per il successo dell’organizzazione sono quelle: “capaci di prendere iniziativa e decisioni a livello locale per far fronte ai rischi e agli imprevisti; sono persone capaci di cooperare efficacemente a dei progetti decentralizzati contribuendo all’innovazione alla creazione di valore; sono dei lavoratori che mettono in gioco la loro soggettività nell’interpretazione delle prescrizioni, mettendo l’accento più sui risultati da realizzare che sulle procedure atte a raggiungerli” (ivi, p.25). Sono queste quelle che l’autore indica come competenze centrali per il successo dell’organizzazione nel contesto odierno, competenze che rendono l’individuo nell’espletamento della sua mansione, non più un semplice lavoratore, ma un professionista (ibidem). Queste, come sottolinea l’autore, non possono quindi essere più solo di carattere tecnico, ma devono essere necessariamente considerate a livello pluridimensionale, integrando alle prime tutte quelle competenze “soft” che garantiscano il soddisfacimento delle esigenze di qualità, di reattività e di relazione (ivi, p. 29). La sola competenza tecnica infatti, come sottolineano Blandino e Tartaglia (in Soro e Acquadro Maran, 2008), si rivela in molti casi solamente un tecnicismo. Per gli autori è la “competenza clinica” (ivi, p. 44) a dare spessore e significato alla prestazione offerta. Essa si esplica in “capacità che fanno riferimento alla flessibilità mentale, all’apprendere continuamente dall’esperienza, alla gestione dei conflitti, alla creatività, alla gestione dello stress” (ivi, p. 45) oltre che nelle tradizionali competenze relazionali ed emotive. La competenza clinica comprende quindi un’ampio raggio di capacità relative a categorie quali tratti di personalità, qualità personali, caratteristiche di natura emotiva ed affettiva che costituiscono un costrutto alla base di quella “intelligenza sociale” che Goleman (2006) ritiene funzionare in sinergia con quella cognitiva.
  • 31. 31 Egli ritiene infatti che “una carenza in queste abilità potrebbe ostacolare l’uso dell’expertise tecnico e delle doti intellettuali, per quanto pronunciate esse siano” (Soro e Acquadro Maran, 2008, p. 45). A questo proposito Le Boterf (2008) introduce il concetto di “competenze di cooperazione” (ivi, p. 187). Egli partendo infatti dal presupposto che non esistono ruoli privi di relazioni, comunicazioni e scambi con gli altri attori organizzativi, e che il raggiungimento di risultati superiori è sempre più spesso legato al lavoro di gruppi o di reti all’interno dei quali si trovano individui con competenze anche molto differenti tra loro, parla per questi casi di competenza collettiva, al cui raggiungimento sono necessarie competenze di cooperazione in grado di far esprimere le diverse competenze individuali in maniera virtuosa e utile al raggiungimento dell’obiettivo. L’autore (ivi, p. 192) fornisce dunque un elenco degli indicatori riguardo la presenza di competenze di cooperazione all’interno di un collettivo di lavoro.  Capacità di costruzione di rappresentazioni condivise a partire dalle varie rappresentazioni individuali riguardo problemi da risolvere, situazioni da discutere, obiettivi da raggiungere e strumenti da utilizzare.  Comunicazione efficace tramite l’utilizzo di un linguaggio comune, capacità di comprenderlo e saperlo adottare dal punto di vista degli altri.  Utilizzo di comportamenti-tipo che permettono di anticipare e valutare le possibilità di cooperazione e scambio con gli altri.  Superamento delle differenze tramite la messa in atto di pratiche interdisciplinari o interprofessionali.  Accettazione, riconoscimento e gestione puntuale dei contrasti interni.  Messa in atto di organizzazioni adeguate per raggiungere collettivamente i risultati attesi nelle diverse fasi del progetto.  Divisione equa dei carichi di lavoro.
  • 32. 32  Sincronia nel ragionamento e nello svolgere le azioni. Questo presuppone riuscire a tener conto della micro - organizzazione o micro - pianificazione di ogni altro membro della rete.  Messa in atto di azioni concertate.  Padronanza dei dettagli che possono turbare il funzionamento collettivo. Le implicazioni pratiche di questo tipo di approccio sono importanti: innanzitutto esso situa la valutazione delle prestazioni a livello collettivo; in secondo luogo fornisce criteri o indicatori riguardo la valutazione delle modalità di interazione dei componenti di un collettivo; infine definisce e collega le condizioni di sviluppo di azioni di cooperazione tra i componenti di un gruppo o di una rete. (ibidem). 2.4 Trasversalità e trasferibilità delle competenze La moderna organizzazione del lavoro, oltre a richiedere lo sviluppo di nuove competenze prima poco considerate, ha avuto un’altra conseguenza importante per i soggetti coinvolti e per il loro sistema di competenze. È terminata infatti l’epoca in cui un individuo occupava la maggior parte della sua vita professionale in un’unica azienda. Secondo Le Boterf (2008, p. 32) “un ingegnere del terzo millennio dovrà cambiare cinque o sei volte impresa e contesto di lavoro durante la sua vita professionale”. Inoltre l’autore fa notare che questo cambiamento non riguarda solo il passaggio da un’organizzazione all’altra, ma anche la situazione lavorativa all’interno della stessa organizzazione. Questa è infatti “sottoposta a delle forti evoluzioni, a delle trasformazioni a volte radicali” (ibidem). Per il lavoratore, quindi, diventa una sfida fondamentale adattarsi alla naturale evoluzione del proprio ruolo, ed essere in grado di cambiarlo e riaggiustarlo, ragionando in termini di occupabilità più che in termini di occupazione.
  • 33. 33 Questo presuppone per esso ragionare in termini di sviluppo su quelle competenze che Gallo e Boerchi (2011) identificano come trasversali in quanto “spendibili in contesti diversi tra loro, e quindi tutte quelle competenze che, per la loro aspecificità, possono essere utilizzate nello svolgere mansioni e nel ricoprire ruoli differenti” (ivi, p. 22). In letteratura il concetto di competenze trasversali è ancora molto dibattuto. Da una parte ci sono tutti quegli autori che, ragionando in termini di competenza- comportamento (Gillet, 1973) o competenza-funzione (Gillet in Parisot, 1991), ovvero fondandone il possesso sulla best performance in una mansione specifica, lo ritengono un concetto privo di senso. Essendo infatti questa legata alle condizioni particolari di un contesto specifico, “essa sarà specifica per il compito o per i generi di compiti che permette di assolvere” (Rey, 2007, p. 68). All’opposto la pensa chi, ispirandosi al concetto di competenza linguistica definito da Chomsky (1969a), ovvero come “potere dell’uomo di adattare i propri atti e le proprie parole a un’infinità di situazioni inedite” (Rey, 2007, p. 68), la definisce come potere generativo e di adattamento delle azioni e quindi ne reputa come intrinseca la caratteristica di trasversalità. Un primo tentativo di sintesi a questo dibattito viene proposto da Levati e Saraò (1993), che classificano la trasversalità delle competenze in due macro-categorie: work based e worker based. Le prime sono riferibili a conoscenze e abilità che riguardano un largo range di mansioni che non sono trasversali per loro caratteristica intrinseca, ma per la loro adattabilità in contesti diversi ma limitati; le seconde invece riguardano le modalità di funzionamento del soggetto. Esse sembrano effettivamente essere utili in qualsiasi contesto, ma per un loro uso operativo è necessaria di volta in volta una specifica azione di contestualizzazione. (Gallo e Boerchi, 2011). Gallo e Boerchi, a questo proposito, obiettano che forse sarebbe più utile riferirsi al concetto di “trasferibilità” (ivi, p. 23) delle competenze piuttosto che a quello di trasversalità. Essi per trasferibilità infatti intendono “la possibilità di riutilizzare alcune competenze acquisite, grazie ad un apposito processo di
  • 34. 34 ricontestualizzazione, in un contesto e in situazioni lavorative differenti” (ibidem). Si tratta quindi di un processo di ridefinizione professionale, che richiede sia un aggiornamento e una ridefinizione delle competenze possedute, che la capacità di ridefinire la propria identità professionale, ed è questa un’attività indispensabile che ogni individuo deve essere pronto a compiere in un mercato del lavoro che come si è già sottolineato richiede grande flessibilità nel gestire della propria professionalità. Gli autori a tal proposito ricordano che “ogni azione di valutazione e di sviluppo delle competenze deve tenere in considerazione l’eventualità che queste debbano, prima o poi, essere trasferite in un vissuto lavorativo differente rispetto a quello in cui esse sono state formate.” (ibidem). Essi inoltre introducono il concetto di “competenze trasferenti” (ivi, p.24) riferendosi a quelle competenze che svolgono la funzione di facilitatori del trasferimento di alcune competenze da un contesto all’altro. Citando Di Francesco (1992) essi riconoscono questa funzione in quelle competenze che riguardano l’interazione con la complessità tecnico-organizzativa quali ad esempio:  la capacità di analisi per comprendere il nuovo contesto;  la capacità di autoanalisi per conoscere le proprie motivazioni, competenze e potenzialità;  la capacità di progettare per definire un proprio obiettivo professionale ed un piano d’azione per raggiungerlo;  la disponibilità al cambiamento;  un’identità professionale forte ma flessibile. (ibidem) È facile notare che tutte queste competenze trasferenti facciano parte di quella macrocategoria definita solitamente in letteratura organizzativa come quella delle competenze trasversali o soft-skills. In questo caso è stato fondamentale l’apporto degli autori nel chiarire il motivo per cui esse vengono considerate tali e qual è la
  • 35. 35 loro reale funzione, ovvero la “creazione delle condizioni per un efficace trasferibilità delle competenze possedute dal singolo” (ibidem). È utile infatti parlare di trasversalità di competenze non tanto come caratteristica intrinseca di alcune di esse, quanto come possibilità, e soprattutto capacità, di trasferire quelle già possedute in contesti diversi, ristrutturandole e riadattandole. 2.5 La gestione delle risorse umane secondo la logica dello sviluppo di competenze Il crescente interesse che la letteratura organizzativa ha sviluppato per il tema delle competenze è stato in tempi brevi accompagnato dall’interesse del mondo manageriale per un argomento in grado di dare risposte al problema del successo organizzativo. Le competenze, in quanto caratteristiche causali del successo e misurabili tramite l’osservazione delle azioni dell’individuo nello svolgimento della sua mansione, si sono ricavate ben presto un ruolo centrale nella gestione e nello sviluppo delle risorse umane. Infatti in un momento storico in cui “sono le persone il vero e tangibile fattore di successo organizzativo” (Soro e Acquadro Maran, 2008, p. 41), la differenza, in un contesto caratterizzato da forte competizione, la farà “la qualità delle persone e delle loro competenze, che crea valore aggiunto ed è garanzia di successo per l’impresa” (ibidem). Numerose imprese hanno compreso questo messaggio, e hanno introdotto il riconoscimento e lo sviluppo delle competenze dei propri membri nelle proprie strategie di sviluppo, vedendo in esse “una via d’uscita per una situazione di crisi o semplicemente una condizione di sopravvivenza” (Le Boterf, 2008, p. 251). Le prime a cogliere nel messaggio che la letteratura organizzativa ha promosso riguardo le competenze un’opportunità di crescita e di vantaggio competitivo sono state le grandi aziende e le grandi agenzie di audit e consulenza, che hanno integrato la dimensione della competenza nei loro strumenti e metodi di intervento. Esse hanno sviluppato una grande varietà di pratiche nelle quali il sistema di gestione della competenza è andato a toccare, e a modificare, i sistemi
  • 36. 36 di selezione e di valutazione del personale, i sistemi di formazione, i sistemi di professionalizzazione, di retribuzione, quelli di sviluppo delle carriere e quelli riguardanti la mobilità interna. In alcuni casi l’interesse per l’argomento è stato tale da andare a modificare tutto l’insieme delle politiche delle risorse umane. In quest’ottica le organizzazioni da una parte sono state chiamate ad azioni di “mappatura attenta e dettagliata delle competenze necessarie alle posizioni; di censimento delle competenze possedute dalle persone; di mantenimento delle medesime attraverso azioni di aggiornamento, di ri-ordinamento, sviluppo, mobilità” (Soro e Acquadro Maran, 2008, p. 30); dall’altra ad individuare quali sono le competenze distintive del loro particolare contesto organizzativo, competenze che Prahalad e Hamel (1990) denominano “core competencies” aziendali, riferendosi ad “un’area di expertise di alta specializzazione in cui vengono integrati processi tecnologici complessi e attività di lavoro” (Soro e Acquadro Maran, 2008, p. 6). Sono queste le caratteristiche di successo che detiene l’organizzazione ed il suo particolare contesto, che vengono identificate dagli autori tramite tre caratteristiche:  offre accesso a una vasta varietà di mercati;  provvede un contributo significativo ai vantaggi percepiti per l’utente finale;  è difficile da imitare da parte dei concorrenti (Prahalad e Hamel, 1990, pp. 83-84). Sono queste dunque le competenze che, secondo Consoli (2002), sono in grado di consentire all’azienda di raggiungere e mantenere nel tempo un vantaggio competitivo, andando esse a toccare “processi strategici di importanza cruciale” (Soro e Acquadro Maran, 2008, p. 6). Si è sviluppato quindi, accanto ad un approccio individuale alle competenze, che ha come obiettivo la valutazione, la formazione e lo sviluppo delle competenze dei singoli attori organizzativi, un approccio strategico “volto a rilevare e anticipare le competenze emergenti, quelle
  • 37. 37 che potranno definire il successo competitivo aziendale nel prossimo futuro” (ibidem). Sono state inoltre messe appunto, all’interno delle organizzazioni stesse, le condizioni necessarie affinché i propri membri siano in grado di sviluppare le proprie in un’ottica di mobilità interna finalizzata alla riorganizzazione dell’azienda secondo la logica delle competenze. Secondo Le Boterf (2008), infatti, “le imprese dovranno tendere a reclutare non solamente in funzione delle capacità da esercitare in un determinato posto di lavoro, ma in funzione della capacità dei candidati di realizzare un itinerario professionale che non può essere pianificato o previsto fin dall’inizio” (ivi, p. 33). Questo rimanda ad un’ottica di formazione continua in cui le competenze fondamentali per il successo all’interno dell’organizzazione sono probabilmente quelle che nel paragrafo precedente sono state indicate come trasferenti, ovvero come quelle in grado di svolgere da facilitatori del trasferimento delle competenze di un individuo tra contesti differenti. L’autore cita come esempio i casi di Thales, che nel 2001 ha spostato il 60% degli ingegneri e quadri dirigenziali presso le filiali tramite la realizzazione di una cartografia delle competenze; del gruppo Bouygues, che nel quadro di una gestione interprofessionale ha inserito la possibilità per un dipendente di intraprendere un progetto di mobilità interna tramite un colloquio confidenziale con il proprio direttore delle risorse umane (che ha avuto come risultato nel solo 2001 la mutazione professionale interna di quasi il 5% dei propri collaboratori); di Schlumberger, che tramite la realizzazione di un career center nella propria intranet ha permesso ai dipendenti di depositare in esso le proprie aspettative e condizioni di mobilità, non riferite ad una posizione specifica, ma a disposizione della direzione delle Risorse Umane che quindi è in grado di gestire la mobilità interna tramite un sistema di competenze supportati da un sistema in grado di monitorare le motivazioni personali di ogni dipendente. Data la grande quantità e soprattutto la non omogeneità delle tipologie di interventi messi in atto, Le Boterf (ivi, p. 251) precisa che non tutti sono stati caratterizzati da una coerenza d’insieme, ma spesso ci si è trovati di fronte a
  • 38. 38 interventi caratterizzati da quello che egli chiama “effetto arcipelago”, ovvero l’introduzione di procedure “poco coerenti, addirittura divergenti, che coesistono tra siti e dipartimenti della stessa organizzazione” (ibidem). Sebbene egli ammetta che non esista una “one best way” riguardo al sistema di gestione delle competenze, propone un modello in grado di “aiutare le imprese e le organizzazioni a fare delle scelte, a percepirne meglio le dimensioni e le implicazioni” (ivi, p. 252). Il suo modello propone di adottare una “logica di competenza” in tutto l’insieme della politica delle Risorse Umane ricercando una forte coerenza in tutte le sue variabili in modo da creare la giusta convergenza per rendere lo sviluppo delle competenze non soltanto una risorsa, ma soprattutto una fonte di creazione di valore (ivi, p. 254). Investire in una logica di competenza vuol dire per l’autore andare a toccare:  le relazioni sociali: tramite accordi che permettano l’inserimento della formazione continua basata sulla gestione delle competenze come obiettivo sia per l’azienda che per il suo dipendente;  i referenziali, i percorsi professionali e la mobilità interna: uscendo dalla logica dell’imprigionamento nel posto di lavoro e dell’esecuzione di compiti frammentati, concependo i referenziali come spazi di evoluzione professionale costruiti in modo partecipativo;  i processi ed i progetti operativi: prendendo in considerazione in essi le competenze individuali, collettive e di cooperazione necessarie al loro successo;  l’organizzazione del lavoro: ottimizzandola in modo da renderla favorevole alla costruzione di competenze individuali e collettive, e assicurandogli la necessaria coerenza tra l’autonomia richiesta dai gruppi e la delega del potere corrispondente;  il management: impegnandosi a delegare un reale potere manageriale ai servizi per l’impiego, che gli consenta di prendere decisioni sulla
  • 39. 39 formazione, l’organizzazione del lavoro, la mobilità, gli incentivi economici;  la comunicazione interna ed esterna: impegnata a svolgere un ruolo di rappresentazione cartografica che dia visibilità e leggibilità ai referenziali, alle opportunità e ai percorsi-tipo, dando una visione delle possibilità di evoluzione e organizzando un marketing per attirare talenti;  il piano di formazione: strutturandolo in modo che faccia acquisire le giuste risorse, le competenze per agire su di esse e che proponga moduli a scelta per rendere possibili i progetti personalizzati;  la valutazione e la validazione: organizzandole per farle avvicinare quanto più possibile all’obbiettività;  la classificazione e la remunerazione: applicandole tramite regole esplicite e forti, con criteri solidamente stabiliti. Il non tenerne conto espone il sistema di gestione delle competenze al rischio di perdita di credibilità (ivi, pp. 258-259). È chiaro nel modello di Le Boterf (2008), che gli interventi per l’introduzione della logica delle competenze nelle organizzazioni comporti una ristrutturazione totale della gestione delle risorse umane al loro interno. Essa presuppone un capovolgimento di prospettiva che renderebbe l’organizzazione “ciò che permette di mettere in rete e in sinergia le competenze individuali e di mestiere” (ivi, p. 253). Lo sviluppo dell’impresa in questo modo non andrebbe più verso la riduzione dei costi degli effettivi, ma verso l’ottimizzazione dell’utilizzo del potenziale degli attori organizzativi. 2.6 La valutazione delle competenze Diventa fondamentale, nel momento in cui un’organizzazione decide di usare come strumento di sviluppo il sistema di competenze, che si sia in grado di riconoscere e valutare queste in maniera quanto più oggettiva possibile.
  • 40. 40 Arrivare ad una misurazione standardizzata delle competenze è in alcuni casi un compito molto complesso, per questo Gallo e Boerchi (2011) includono nel concetto di valutazione anche quei processi descrittivi che “risultano comunque efficaci rispetto all’obiettivo che in alcuni contesti ci si pone” (ivi, p.25). La valutazione delle competenze diventa fondamentale sia per l’organizzazione che deve basarsi su di essa per monitorare il background professionale di cui si dispone, sia per i suoi attori, che, potendosi trovare di fronte ad eventi di transizione lavorativa, necessitano di conoscere quali siano le competenze spendibili sul mercato del lavoro di cui sono in possesso. La valutazione delle competenze può rispondere a diverse esigenze, delle quali gli autori provano a fare una tassonomia (ivi, p. 26).  Mappatura: per conoscere e valorizzare le risorse esistenti.  Tavole di rimpiazzo: per gestire la corretta pianificazione delle risorse.  Incentivi economici: per sostenere il sistema in rapporto a obiettivi e strategie.  Azioni di sviluppo e coaching: per fornire strumenti di gestione delle risorse umane ottimali.  Individuazione di risorse suscettibili di mobilità.  Integrazione nel processo di analisi di valutazione della posizione e della prestazione. Sono stati sviluppati negli anni diversi strumenti per la valutazione delle competenze, una varietà che è comunque riconducibile a due metodologie fondamentali e preponderanti nel panorama organizzativo attuale: il Bilancio di Competenze, e l’Assessment Center. Il loro obiettivo è quello di costruire un “portafoglio di competenze”, strumento che permette l’archiviazione e il monitoraggio, tramite dossier e fascicoli personali, delle competenze sviluppate da ogni soggetto e che “più di ogni altro, permette di dare visibilità in modo
  • 41. 41 strutturato ed efficace, alle competenze possedute da una persona” (Gallo e Boerchi, 2011, p. 35). Il Bilancio di Competenze, sviluppatosi nel contesto francese a partire dagli anni ’90, si caratterizza per una forte connotazione autovalutativa. Esso, sottolineano gli autori, ha un carattere prevalentemente orientativo più che valutativo in senso stretto, e presuppone di analizzare le competenze dei soggetti in funzione di una loro migliore spendibilità sul mercato del lavoro. Esso viene progettato e strutturato in maniera personale a partire dalla situazione professionale attuale e coerentemente agli obiettivi che il soggetto vuole raggiungere, e viene sviluppato in ottica consulenziale, richiedendo quindi un forte investimento partecipativo del soggetto. L’Assessment Center, sviluppatosi invece nel contesto statunitense durante la II Guerra Mondiale, si pone in un’ottica speculare rispetto al Bilancio di Competenze, ovvero quella di ricercare negli individui le competenze individuate e ricercate dalle organizzazioni. Esso si serve di un gran numero di strumenti quali test, colloqui, prove di gruppo, in basket, simulazioni, in modo da arrivare ad un giudizio quanto più oggettivo possibile tramite l’eliminazione degli errori sistematici di valutazione. Esso viene condotto e presidiato da Assessors, adeguatamente formati e presenti contemporaneamente durante le prove, in modo da assicurare una valutazione finale che sia il meno soggettiva possibile. È utilizzato soprattutto nei processi di selezione e per individuare i piani di formazione, ma negli ultimi anni è stato introdotto anche come metodo di valutazione del potenziale per la mobilità interna, per lo sviluppo delle competenze e per l’individuazione di talenti. Gli autori sottolineano che questa, non essendo una metodologia partecipativa, ed essendo i soggetti all’oscuro del significato di ciò che stanno facendo, è una metodologia poco incline allo sviluppo se non prevede di fornire agli individui il significato della valutazione, e soprattutto un feedback in grado di scatenare in essi un momento di riflessione. Per questo motivo essi propongono uno sviluppo dell’Assessment Center, ovvero il Developement Center, che propone come ultimo step un colloquio di feedback,
  • 42. 42 che diventa per i soggetti “il primo step dello sviluppo della risorsa: consente di aumentare e migliorare il proprio livello di consapevolezza ed auto-valutazione per orientarsi allo sviluppo” (ivi, p. 30) L’auto-valutazione è un elemento fondamentale per lo sviluppo delle competenze degli individui. Essa ha il fine di “mobilitare le energie della persona in funzione della comprensione ed espressione dei propri livelli di competenza” (ivi, p. 187), ma necessita di individui in grado di condurre un buon esame della realtà e motivati all’auto-sviluppo.
  • 43. 43 3. COMPETENZE PER IL CAMBIAMENTO 3.1 Premessa Nei primi due capitoli di questo scritto si sono affrontati due temi che rivestono una centralità assoluta nella letteratura organizzativa attuale. Da un lato il tema del cambiamento, del quale si è sottolineato il carattere di necessità e di scarsa prevedibilità degli esiti; dall’altro quello delle competenze, del quale si è sottolineato invece l’importanza nel successo delle organizzazioni. In questo terzo capitolo si proporrà un tentativo di sintesi sui due temi, partendo da una domanda che appare quasi scontata: può il modello delle competenze dare una risposta alla scarsa prevedibilità degli esiti di un processo di cambiamento? In altre parole: esistono competenze che permettono di prevedere una buona riuscita di un processo di cambiamento? La letteratura, pur in un panorama che presenta molteplici punti di vista e alcuni tratti di ambiguità, sembra dare una risposta affermativa a questa domanda: le organizzazioni che cambiano, “necessitano di persone in possesso di nuove competenze/capacità che vanno sviluppate e formate adeguatamente.” (Soro e Acquadro Maran, 2008, p. 26). Si fa in questo caso riferimento a quelle soft skill che permettono di cogliere appieno l’urgenza della necessità del cambiamento, che permettono di creare una visione della nuova situazione verso la quale dirigersi, ma soprattutto che permettono di superare le resistenze che ogni cambiamento porterà con se in quanto portatore di insicurezza. Solo una volta superati questi scogli infatti si sarà in grado di andare a trasformare efficacemente quegli aspetti della vita organizzativa il cui rimodellamento è tanto duro quanto necessario per il buon esito di un cambiamento organizzativo: i modelli organizzativi, i ruoli, le modalità gestionali e gli stili di leadership (ibidem).
  • 44. 44 3.2 Un iceberg che si scioglie Uno dei maggiori contributi presenti in letteratura riguardante la tematica del cambiamento organizzativo secondo una logica di riconoscimento, gestione e sviluppo delle competenze arriva da John Kotter. Il suo contributo parte dal presupposto che, per via del nuovo scenario socio-economico ed organizzativo, è mutata la natura stessa del concetto di cambiamento organizzativo. Mentre in passato le trasformazioni dipendevano da motivi quali il cambiamento delle norme, delle regole di riferimento, delle linee guida e delle strategie del management, delle attese dei clienti e delle persone che facevano parte dell’organizzazione stessa, “oggi ci troviamo di fronte a una serie di mutamenti che evidenziano la presenza di inediti fattori di successo per l’efficacia e la competitività delle aziende” (Soro e Acquadro Maran, 2008, p. 26) “Per affrontare con successo questi percorsi trasformativi, le organizzazioni necessitano di persone in possesso di nuove competenze/capacità […] non riconducibili al solo piano strettamente tecnico-professionale, ma anche al piano relazionale ed emotivo” (ibidem). A tal proposito Kotter (1996) sviluppa un modello ad otto fasi che ha riscosso rapido successo nell’ambiente manageriale, e che ha poi successivamente arricchito e trasformato in chiave metaforica in una favola moderna, basandosi su una teoria dell’apprendimento fondata su “storie facili da ricordare e stimoli visivi” (Kotter e Rathgeber, 2005, p. 140). Nata come esercizio studiato per essere utilizzato dai manager e dagli altri attori organizzativi coinvolti in un processo di cambiamento, è divenuta, grazie all’applicazione nei più svariati contesti aziendali, una storia efficace in grado di esplicare il modello di Kotter in un linguaggio tanto semplice quanto evocativo. Kotter punta sul fatto che ogni cambiamento sul livello emotivo porta a significative trasformazioni comportamentali, e sviluppa il suo modello sotto forma di racconto proprio perché pensa che “una buona storia è in grado di
  • 45. 45 indurre all’azione una vasta gamma di persone in modo notevolmente diverso dai testi professionali più tradizionali” (ibidem). La storia narra di una colonia di pinguini il cui iceberg, sul quale vivono da quando hanno memoria, si sta sciogliendo. Dare soluzione ad un problema del genere implica per loro riconoscere il problema come reale, rompere lo status quo basato su tradizioni e cultura dure da modificare, insomma, un cambiamento radicale rispetto a quello che sono sempre stati. Il cambiamento viene affrontato con un metodo che prevede passaggi chiave messi in atto e analizzati attentamente dall’autore tramite i suoi “attori”. Questi passaggi chiave sono gli stessi che Kotter (1995) aveva indicato nel suo modello. Secondo l’autore infatti affrontare il cambiamento significa:  preparare il terreno;  decidere cosa fare;  agire;  fare in modo che il cambiamento diventi duraturo. Questi passaggi chiave vengono ulteriormente sviluppati dall’autore, e sono alla base del suo modello ad otto fasi.  Creare una sensazione di urgenza, facendo comprendere a tutti la necessità del cambiamento e l’urgenza di agire.  Creare un team che guidi il cambiamento con forti doti di leadership, credibilità, capacità comunicativa, autorità e competenze analitiche e motivazionali.  Sviluppare la visione e la strategia di cambiamento spiegando con chiarezza come sarà il futuro e in che modo la visione si trasformerà in realtà.  Comunicare la visione del cambiamento assicurandosi che più persone possibili comprendano e accettino la visione e la necessaria strategia.  Delegare all'azione rimuovendo le barriere.
  • 46. 46  Generare successi a breve termine fissando obiettivi intermedi e raggiungibili.  Non riposare sugli allori ma insistere fino a quando la visione diventerà realtà.  Creare una nuova cultura, perseverando nel nuovo modo di agire e assicurarsi che abbia successo finché non avrà forza sufficiente per rimpiazzare le vecchie abitudini. Fig. 3.1, modelli di cambiamento di Kotter (1995) e Lewin (1951) a confronto. Il modello di Kotter si basa sul modello tripartito di Lewin (1951, vedi fig. 3.1), in quanto le sue otto fasi possono essere viste come un approfondimento delle tre fasi di scongelamento, cambiamento e ricongelamento di Lewin. Ne risulta uno sviluppo interessante sia perché ne da una versione operazionalizzata, in grado di essere applicata nei più svariati contesti organizzativi e di gruppo, sia perché pone come centrale la questione degli agenti del cambiamento, ovvero di chi porta
  • 47. 47 avanti tramite le sue azioni concrete il processo di cambiamento all’interno dell’organizzazione. Il team di pinguini che nella favola di Kotter (2005) è in grado di trasformare radicalmente le abitudini della colonia nella quale vive, facendola evolvere da gruppo stanziale a gruppo nomade per rispondere alle esigenze di un ambiente non più sicuro, non è composto da caratteri casuali. Essi riescono nel compito di portare a termine il programma di cambiamento, compito che sfugge a due organizzazioni su tre che tentano di cambiare (Kotter, 1996; Aiken, e Keller, 2009), sfruttando proprio quelle che Le Boterf (2008) chiama competenze di cooperazione, che permettono alle diverse competenze specifiche di ognuno di loro di lavorare in sincrono in funzione dell’obiettivo del gruppo. Ogni carattere citato da Kotter è infatti portatore di proprie competenze specifiche che da sole sarebbero risultate inutili al fine di portare il processo al compimento reale. L’enfasi del’autore sulla creazione di un team di successo va proprio in questa direzione. Sono molti gli autori che trovano infatti nel termine “agenzia del cambiamento” (Stoker, 2009) una nozione più valida e forte di quella di singolo agente del cambiamento. Lo sottolineano Buchanan e Badham (1999), scrivendo che il cambiamento andrebbe portato avanti da una “squadra di personaggi” perché sia effettivo. Ci si trova all’interno di un profilo di competenze che privilegia la dimensione relazionale. Gli agenti del cambiamento dovranno quindi “acquisire e sviluppare una professionalità e nuove competenze intese non come un surplus psicologico, ma come leva primaria di gestione” (Soro e Acquadro Maran, 2008, p. 34). Ciò naturalmente non vuol dire che le competenze “hard” perdono di significato, ma che esse in un contesto di cambiamento vanno affiancate giocoforza a “capacità di gestire gruppi di lavoro, di facilitare la comunicazione, di controllare situazioni critiche e conflittuali, e soprattutto, di favorire la possibilità di ragionare anche in situazioni di incertezza e turbolenza, e, conseguentemente, di prendere decisioni come frutto di pensiero piuttosto che come modo per scaricare subito, nell’azione, l’angoscia che la gestione di situazioni critiche comporta” (ibidem).
  • 48. 48 3.3 Compiere il cambiamento Kotter (2002) nell’esplicazione del suo modello, è molto attento nel sottolineare come una delle fasi più importanti e rischiose del processo di cambiamento organizzativo sia quella in cui sembra esserci la tentazione di crogiolarsi dei primi risultati ottenuti non prestando attenzione alle resistenze che si sono manifestate durante la fase di implementazione. Quaglino nel 2007 introduce a questo proposito il concetto di compimento del cambiamento. Egli sottolinea come molto spesso, anche se il processo di cambiamento è progettato nel migliore dei modi, la sua messa in atto comporti una fatica tale da non riuscire a conseguire pienamente l’esito atteso. Bisogna partire dal presupposto che la situazione di un’organizzazione durante un processo di cambiamento non è statica, bensì è pregna di forze che spingono in direzioni diverse e a volte contrastanti, e che in un contesto come questo non è raro imbattersi in situazioni inizialmente non previste. In questo caso risulta di fondamentale importanza riuscire a riconoscere questo tipo di situazioni, prenderne atto, darne un senso all’interno dell’intero processo e quindi programmare le azioni per farvi fronte. Uno dei rischi che Quaglino (2007) segnala è infatti quello di allentare la tensione in seguito all’ottenimento di successi nelle prime tappe del processo. “Compiere il cambiamento significa fare tutto ciò che si è ritenuto qualificante nel momento della progettazione e tutto ciò che è diventato necessitante a mano a mano che lo si stava attuando” (ivi, p.123). Per necessitante egli intende “tutto ciò che non è stato previsto nella fase di progettazione ma che è sicuramente emerso nel momento dell’implementazione e che non può non essere affrontato, non avere seguito, semplicemente perché non era compreso nel disegno” (ibidem) L’attenzione va quindi sempre riposta sull’obiettivo del processo di cambiamento, sul reale bisogno dell’organizzazione. Questo vuol dire programmare azioni coerenti non tanto rispetto alla decisione passata, quanto rispetto al traguardo previsto. Per fare ciò è necessaria una progettazione aperta e flessibile, ma
  • 49. 49 soprattutto attenzione nel riconoscere e affrontare quelle resistenze che sono inevitabilmente coinvolte, anzi caratterizzano, ogni processo di cambiamento. Sostiene infatti l’autore: “l’insuccesso del cambiamento è sempre la vittoria delle resistenze” (ivi, p.125). Superare le resistenze è però possibile, a patto che vengano rispettate precise condizioni durante la messa in atto dell’intervento, condizioni che riguardano i comportamenti da promuovere e attuare al fine di attuare il compimento del cambiamento organizzativo. Quaglino (ivi, p.127) individua quattro condizioni tramite le quali è possibile superare le resistenze e quindi giungere al compimento del cambiamento.  Coinvolgere, ovvero sollecitare la propositività per evitare il manifestarsi dell’oppositività.  Motivare, ovvero catalizzare l’energia motivazionale per procedere effettivamente nella direzione del cambiamento, allontanando il pericolo di una accettazione senza impegno.  Sostenere, ovvero promuovere l’azione in termini di percorso graduale e di riposizionamento, che sappia affrontare la necessità e l’imperativo di cambiare in modo aperto e flessibile, tramite azioni protratte, intense e continue.  Potenziare, ovvero impegnarsi a ragionare con tutti coloro che sono chiamati al cambiamento, in termini di possibilità di crescita e sviluppo, a chiarire i vincoli e a costruire le opportunità, a sostenere il riposizionamento attraverso un reale potenziamento di competenze. Non è un caso che queste condizioni siano coniugate all’infinito. Esse presuppongono infatti dei comportamenti da attuare in funzione del loro raggiungimento, comportamenti che necessitino una base di competenze specifiche per essere messi in atto. È palese che nel coinvolgere, motivare, sostenere e potenziare siano implicate tutte quelle competenze “soft” che in precedenza sono state indicate come soft
  • 50. 50 skills o competenze trasversali, siano esse di tipo organizzativo, siano esse relazionali, siano esse individuali, skills che, come sottolinea l’autore stesso, vanno potenziate in tutti gli attori organizzativi tramite interventi specifici, che permettano ad essi di giungere ad un riposizionamento virtuoso rispetto alla nuova situazione organizzativa verso la quale muove ogni intervento di cambiamento. 3.4 Quali competenze per il cambiamento? Data una risposta affermativa alla prima domanda, ovvero se esistano competenze correlate con il compimento effettivo di un processo di cambiamento organizzativo, resta da indagare quali esse siano e in che modo possano risultare decisive nelle varie fasi del cambiamento. La letteratura organizzativa si divide nel trattare questo argomento a seconda della tipologia di focus che i vari autori utilizzano nella propria analisi. C’è grande sintonia nella letteratura di riferimento nel considerare che le competenze fondamentali per un successo in un cambiamento sono quelle che permettano di minimizzare le resistenze al cambiamento degli attori organizzativi, ma se da una parte c’è chi si sofferma più ad un livello di gruppo, e quindi mette in primo piano soft skills di tipo relazionale per sottolineare l’importanza della cooperazione tra i diversi agenti del cambiamento, dall’altra c’è chi pone l’accento su soft skills di tipo individuale per indagare su chi sono gli attori organizzativi che garantiranno una minore resistenza al processo e su quali caratteristiche essi abbiano. C’è inoltre chi a queste due tipologie di competenze affianca quelle di tipo organizzativo - gestionale in grado di tradursi in azioni di supporto concreto al progetto. Stoker (2009) afferma che il ruolo e le skills degli agenti di cambiamento sono cruciali nel compiere o facilitare il cambiamento in maniera effettiva. Un agente del cambiamento privo di quelle competenze relazionali che gli permettano di intervenire nel processo politico interno, di spingere verso azioni specifiche, di influenzare le decisioni e i decisori, di affrontare le critiche e le sfide, di superare
  • 51. 51 le resistenze e di mantenere la sua coerenza di ruolo, è inevitabilmente destinato a fallire (Buchanan e Badham, 1999). Come deve comportarsi quindi l’agente del cambiamento per essere un partecipante virtuoso nel processo di cambiamento? Secondo Buchanan e Boddy (1992) egli deve dare supporto alla “public performance” (ivi, p.27) in maniera “razionalmente graduale, visibilmente partecipativa, ricercando e mantenendo il supporto nell’identificare e bloccare le resistenze” (ibidem). Balogus (2008) enfatizza l’importanza di competenze interpersonali e comunicative più che quelle tecniche come fattori di successo in un processo di cambiamento organizzativo. Specificano anzi ancora di più su che tipo di competenze puntare, ovvero giudizio politico, capacità di fare rete e propositività in azioni di backstage in grado di favorire lo scioglimento delle resistenze, competenze che devono essere tenute in primo piano dai decisori, che devono fornire supporto e formazione adeguata su questo piano, soprattutto a quegli elementi del middle management che si troveranno nel difficile ma centrale ruolo di dover “assorbire lo shock” del cambiamento, dovendo rispondere da un lato alle esigenze della dirigenza, e dall’altro all’esternarsi delle resistenze al cambiamento da parte dei propri colleghi e collaboratori. Questo delicato ruolo li costringerà spesso ad un lavoro fortemente emotivo, privo di un copione prestabilito, e scarsamente riconosciuto. Spreitzer e Quinn (1996), spostano invece l’attenzione su competenze, sempre “soft”, ma di tipo individuale e su quali di queste garantiscono un coinvolgimento maggiore nel processo di cambiamento da parte degli attori organizzativi. Essi nella loro ricerca che ha preso in esame ruoli, skill e supporto sociale, hanno riscontrato che quelli con i più alti livelli di self confidence e supporto sociale percepito erano i più aperti ad un cambiamento organizzativo. La loro ricerca ha inoltre evidenziato come fossero tre i comportamenti fondamentali per quel che riguarda invece le competenze di tipo relazionale che contraddistinguevano gli individui più propensi a rendersi partecipi di un processo di cambiamento, ovvero
  • 52. 52 la condivisione di informazioni, la condivisione di risorse e la ricerca di accesso ai network chiave. Tornando sul piano individuale, non bisogna dimenticare una questione fondamentale implicata in ogni cambiamento organizzativo: quella dello stress generato dal cambiamento. Come già sottolineato nel primo capitolo ogni cambiamento organizzativo porterà inevitabilmente con se sentimenti di incertezza percepiti da parte degli attori organizzativi. Questi sentimenti di incertezza riguardano la propria posizione all’interno dell’organizzazione, le pressioni di ruolo, il timore di perdere il lavoro, la riduzione delle risorse disponibili (Hui e Lee, 2000). Altri timori riguardano l’alterazione o il cambiamento delle competenze tecniche necessarie per il soddisfacimento delle richieste organizzative (Shabracq e Cooper, 1998). Secondo gli autori infatti, quando i dipendenti non riescono ad apportare i necessari adeguamenti, il senso di incertezza sul futuro aumenta causando stress. È il senso di inadeguatezza rispetto a queste richieste il detonatore principale dello stress e al contempo l’ostacolo al cambiamento. Kotter e Cohen (2002) hanno fatto notare che i problemi fondamentali dei cambiamenti organizzativi non sono tanto la strategia, la struttura, la cultura o il sistema. I veri problemi sorgono al momento di decidere come aiutare i dipendenti ad adattarsi al cambiamento. Ciò che va evitato in questo caso, è che una percezione negativa dell’evento possa portare a sentimenti negativi di sfiducia e disaffezione nell’organizzazione, che possono sfociare in comportamenti di resistenza o in vero e proprio disagio psicologico e minare le basi dei rapporti di cooperazione tra le persone. Infatti, in ossequio al modello transazionale di Lazarus e Folkman (1984) che definiscono lo stress come condizione dinamica derivante dall’interazione di variabili ambientali e individuali che vengono mediate da variabili di tipo cognitivo, si può affermare che gli eventi saranno stressanti per l’individuo nella misura in cui egli li percepirà come tali. Di fondamentale importanza saranno questa volta proprio quelle variabili cognitive individuali in grado di moderare la risposta di stress, in quanto da tale mediazione dipenderà la valutazione che