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INDICE
Diversity Management – Prospettive e criticità
Introduzione
Capitolo 1. Il Diversity Management: un’opportunità di sviluppo per l'organizzazione e il benessere
delle risorse umane
1.1 Il processo di mutamento del sistema impresa e la centralità della persona nell’organizzazione
di lavoro.
1.1.1 I vantaggi organizzativi di una filosofia manageriale che valorizza le diversità
1.2 Concetti di Differenza e Gestione delle Differenze
1.2.1 Concetto di Differenza
1.2 .2 Evoluzione storica del concetto di Gestione delle Differenze
1.3 Concetto teorico di riferimento per la Gestione delle Differenze e sua problematicità
1.4 Specificità del caso italiano?
Capitolo 2. Differenze e gestione aziendale
2.1 Le Differenze di maggior rilievo per la realtà italiana
2.2 Bisogni, necessità ed aspettative generati dalle differenze.
2.2.1 Istanze del personale e prassi di gestione del personale
2.2.2 Istanze del personale e processi di business
2.3 Istanze del personale e performance aziendale
2.3.1 Bene-starci personale e benessere organizzativo
2.3.2 Istanze, coinvolgimento, delega e performance
2.4 Politiche HR, istanze e performance aziendale..
Capitolo 3. Consapevolezza, azione e miglioramento
3.1 Differenze di genere: consapevolezza delle forme sottili di prevenzione.
3.1.1 Descrizione dell’azienda
3.1.2 L’esposizione alle Differenze
3.1.3 Il caso
3.2 Differenze di età: opportunità dai più giovani.
3.2.1 Descrizione dell’azienda
3.2.2 L’esposizione alle Differenze
3.2.3 Il caso
Conclusioni
Bibliografia
1
Diversity Management – Prospettive e criticità
Introduzione
Il tema del Diversity Management o, come più ci piace tradurre, della Gestione delle Differenze, è
un tema ampiamente trattato in letteratura almeno a partire dagli 60’, anche se le sue radici sono
molto più antiche (il tema razziale e della schiavitù, il tema dell’emancipazione femminile datano
almeno al XVIII secolo). In questi ultimi 50 anni, il suo significato ha subito evoluzioni e
cambiamenti sostanziali. Inoltre si è ampliato e differenziato lo spettro, la varietà, delle differenze
considerate. Infine, l’interrogarsi sul tema della gestione delle differenze si è intensificato (dal
contesto politico- sociale a quello aziendale a quello delle relazioni interpersonali), sino a diventare
argomento quasi quotidiano di confronto sugli organi di comunicazione e fra le persone.
A parte brevi cenni storici su evoluzione – differenziazione – estensione del significato dei termini
Differenze e Gestione delle Differenze, cercheremo di delineare quelle che a nostro parere sono le
principali criticità e prospettive in questo ambito, soprattutto nel contesto delle organizzazioni
aziendali orientate al profitto; altre realtà organizzative, come quelle no profit o di servizio
pubblico, hanno specificità tali da dover prudentemente essere considerate a parte. A tale riguardo si
rimanda anche all’interessante studio di I. Castiglioni (Castiglioni, 2009).
Partiremo da una rapida analisi del processo di mutamento del sistema impresa e della cultura
manageriale, facendo riferimento all’affermazione del paradigma antropocentrico, per giungere ad
una definizione, più ampia ed attuale possibile, dei concetti di Differenza e di Gestione della
Differenza. Cercheremo di individuare quali differenze più di altre sembrano porsi come sfida o
opportunità per il contesto aziendale in Italia. Proporremo uno schema che aiuti a:
- interpretare come interagiscono con processi/prassi organizzative;
- comprendere come possono influire sui risultati complessivi di performance.
Quindi analizzeremo come la funzione HR possa giocare un ruolo di promozione di prassi tese a
valorizzare le differenze. Due specifici casi aziendali saranno brevemente descritti per confrontarsi
sulle modalità, spesso semplici, con cui è possibile in pratica sbloccare apparenti situazioni di
empasse nella gestione di alcune differenze. Ove possibile, cercheremo di dare cenni sulle
somiglianze, o sulle specificità, del panorama che si presenta in Italia rispetto ad altri paesi.
La metodologia d’indagine utilizzata è in parte costituita da ricerca bibliografica ed in parte basata
sulla raccolta e l’analisi delle opinioni di attori organizzativi.
Nell'ambito della ricerca bibliografica sono state utilizzate in larga misura risorse e strumenti
reperibili sul web. Sono stai utilizzati siti di istituzioni, società di consulenza, associazioni
professionali, stampa on-line. La maggior parte delle opinioni analizzate è stata raccolta tramite
interazioni (o l’osservazione di interazioni) all’interno di Social Networks e di forum d’associazioni
(ad esempio: LinkedIn, InterNations, Associazione italiana per la Direzione del Personale - AIDP,
Society for HR Management - SHRM).
Il metodo per sua natura non fornisce evidenze quantitative per le ipotesi che formuleremo nel corso
dell’analisi. In tal senso, le conclusioni dello studio sono proposte come elementi, spunti aperti, per
ulteriori riflessioni e discussioni. In quello che del resto, proprio in considerazione della natura del
nostro tema, non può che intrinsecamente essere, secondo noi, un continuo, senza termine, dialogo e
confronto.
Nello scegliere tale metodo, volutamente ci siamo assunti una quota parte di rischio, rischio legato
fra l’altro alla volatilità (di vario grado) delle fonti stesse. Del resto, il web è oramai diventato, e
sempre più tenderà a divenire, uno degli strumenti principali attraverso cui si forma, e si trasforma,
la nostra percezione della realtà meno prossima, meno direttamente oggetto della nostra
testimonianza. La capacità di utilizzare e discriminare le sue fonti, di venire a patti con la velocità e
l’accelerazione con cui sono prodotte, e con cui ci rimandano nuove immagini di ciò che noi
2
assumiamo come “la realtà che ci circonda”, in se costituisce una delle nuove “soft skill” che
crediamo tutti noi dobbiamo abituarci ad esercitare.
1 Il Diversity Management: un’opportunità di sviluppo per l'organizzazione e il benessere
delle risorse umane
1.1 Il processo di mutamento del sistema impresa e la centralità della persona nell’organizzazione
di lavoro
È sempre più diffusa l’opinione che nel nuovo scenario economico e sociale globalizzato,
interessato da un processo di profondo mutamento, rappresentato dalla rilevante pervasività
dell’innovazione tecnologica, da un costante sviluppo dei modelli organizzativi nonché da una
profonda trasformazione dei processi produttivi, il vero vantaggio competitivo per il sistema
impresa risiede nell’adozione di politiche gestionali integrate mirate ad offrire un’uguaglianza delle
opportunità nella piena valorizzazione delle risorse umane, a partire dalla valorizzazione delle
differenze e delle diversità che caratterizzano ciascuna persona nelle relazioni di lavoro (Cocozza,
2006).
L’uguaglianza e la diversità, infatti, sono le due direttrici principali attraverso le quali si è formata
la coscienza politico-sociale e lavorativa delle persone nell’attuale contesto socio-economico e
culturale, a partire dal riconoscimento delle principali differenze rappresentate dal genere, dall’età,
dalla provenienza etnica e quella culturale, o da quella che interessa le persone disabili.
Le indicazioni che la letteratura offre sull’argomento del Diversity management sono state
sintetizzate (Thomas, 1999a; 1999b) specificando tre modi attraverso cui le organizzazioni di lavoro
hanno scelto di approcciarsi alla questione “diversità”:
- Affermative action: si focalizza sull’inclusione e richiede un’azione speciale per correggere
gli squilibri;
- Valuing differences: pone l’accento sulle relazioni e su come le persone si rapportano
all’interno delle organizzazioni;
- Diversity management: punta a creare un ambiente che stimoli l’emergere del talento di tutti
i soggetti coinvolti.
Nello specifico, il Diversity management si fonda su una concezione olistica delle risorse
umane valorizzando la persona su una serie di dimensioni quali: comportamentale, dove enfasi
viene posta sulla costruzione di specifiche abilità e sulla costruzione di politiche che riescano a tirar
fuori il meglio da ogni lavoratore; strategica, in cui i risultati di politiche di Diversity management
contribuiscono al raggiungimento dei fini e degli obiettivi organizzativi e sono legati a ricompense;
e sinergica, nella misura in cui il modello si fonda sull’assunto che gruppi diversi creeranno nuovi
modi di lavorare insieme in modo efficace (Cocozza, 2008c).
Nasce così il concetto di Diversity management, termine con cui si indica generalmente:
“l’adozione di politiche del personale mirate e segmentate, tese a valorizzare le diverse necessità, i
bisogni e le aspettative delle varie tipologie di persone che lavorano, in funzione del miglioramento
delle performance complessive dell’azienda” (Cocozza, 2008b). In questa nuova prospettiva la vera
sfida di un’organizzazione diventa la valorizzazione delle persone attraverso il potenziamento dei
talenti e del patrimonio cognitivo (competencies), nel rispetto delle differenze soggettive che si
profilano nell’universo aziendale.
L’avvento del paradigma antropocentrico, che pone l’individuo al centro dell’organizzazione e del
lavoro, è la naturale conseguenza di un processo evolutivo delle organizzazioni aziendali che ha
investito tre diverse grandi dimensioni di tipo: strutturale, organizzativa e gestionale (Cocozza,
2008a, 2008b).
3
Come è stato opportunamente sostenuto (Butera, 1988): “La gestione delle imprese, prima centrata
sulla produzione, viene ora sempre più centrata sul mercato, accettando la variabilità del mercato e
la conseguente varietà di prodotto che essa comporta”. In particolare nel passaggio da una economia
di scala ad una economia della flessibilità cambiano radicalmente i criteri di gestione delle imprese
ed assume un’accezione diversa il concetto di “efficacia economica”, intesa come la necessità di
realizzare prodotti o servizi appropriati nel tempo, nel luogo e nel modo in cui gli stessi sono
richiesti dal mercato e dai criteri di qualità e personalizzazione attesa dal cliente.
Il sistema impresa vive profonde modifiche nella dimensione strutturale e organica in forza
dell’affermazione di una serie di variabili inarrestabili, che hanno contribuito all’esplosione delle
contraddizioni del paradigma organizzativo imperante a livello mondiale per oltre settant’anni. Le
variabili che hanno maggiormente contribuito ad imprimere un forte impulso al mutamento sono
riconducibili all’estrema pervasività dell’innovazione tecnologica, alla costante evoluzione dei
modelli organizzativi, alla profonda trasformazione dei processi di regolazione dei rapporti di
lavoro. Il passaggio da una filosofia gestionale fortemente ancorata ai postulati del taylor-fordismo
ad una gestione più innovativa, ha determinato il collasso dell’intero apparato di norme, conoscenze
e comportamenti, noto come “scientific management” (Cocozza, 2008a).
Si assiste nella cultura di impresa all’affermazione di una serie di tendenze e impostazioni teoriche,
del tutto antitetiche al modello taylor fordista. Innanzitutto, frana la certezza della “one best way”,
ossia la filosofia che vede una sola modalità di produzione e gestione attraverso cui è possibile
raggiungere, in un determinato tempo, i risultati produttivi attesi. Ad essa si sostituisce la necessità
di rinvenire volta per volta l’assetto organizzativo più confacente alle specificità del mercato,
nonché alle esigenze della popolazione produttiva operante in azienda (Iacci, 2004). Si supera la
pregnanza del rapporto gerarchico funzionale all’interno dell’organizzazione, in favore di un
progressivo decentramento delle decisioni, di un sistema di comunicazione, confronto e scambio di
opinioni e proposte (organizzazione informale) non gerarchico (top down) e prescrittivo. Si assiste,
poi, all’attivazione di forme di empowerment, con l’esercizio di una leadership orientata a infondere
energia, a favorire autodeterminazione, a influenzare positivamente le persone, creando relazioni
collaborative e non conflittuali (Cocozza, 2008a, 2008b).
L’intero processo di mutamento del sistema impresa ha portato all’affermazione di nuovi modelli
organizzativi orientati ai principi della Total Quality Management (TQM), della lean production, o
learning organization, ove la risorsa umana smette di essere considerata esclusivamente un “costo”,
per considerarsi l’unico strumento strategico indispensabile e irriproducibile, che consente di
adeguare l’organizzazione interna ai mutamenti dello scenario esterno.
In questa prospettiva la dimensione individuale diventa prioritaria all’interno dell’organizzazione
che ha avviato al suo interno processi di snellimento, semplificazione e appiattimento delle strutture
costitutive.
L’economista premio nobel Theodore Schultz ha introdotto nella teoria economica neoclassica la
nozione di “capitale umano”, identificando il “livello di conoscenza aggregata presente in una
società che ne influenza qualunque processo produttivo” (Schultz, 1961). L’importanza di tale
definizione risiede nell’aver rivisitato il ruolo dell’uomo all’interno del meccanismo produttivo,
etichettato nel corso degli anni prima “forza lavoro”, poi “manodopera”, fino a “risorsa umana”,
sottolineando come il valore aggiunto passasse progressivamente da una dimensione fisica ad una
intellettiva e di conoscenza. La nuova impostazione teorica richiede, pertanto, alle organizzazioni
un’efficace gestione del capitale umano, attraverso la valorizzazione del potenziale e delle attitudini
proprie di ogni singola persona, facendo leva sulla motivazione e tenendo conto delle singole
aspirazioni (Cocozza, 2008c).
4
1.1.1 I vantaggi organizzativi di una filosofia manageriale che valorizza le diversità
In questo nuovo scenario le organizzazioni di lavoro che recepiscono l’essenza del
cambiamento e la portata rivoluzionaria dei nuovi paradigmi teorici, condividono la necessità di
implementare politiche di diversity, partendo dall’assunto che le diversità esistenti in ciascuna
risorsa umana sono funzionali all’organizzazione nel conseguire vantaggio competitivo.
Le organizzazioni che sviluppano politiche di gestione delle diversità, puntano sulla centralità
dell’individuo per raccoglierne l’impegno e il consenso verso i valori e le strategie aziendali.
“Oggi l’organizzazione non può esimersi dal provvedere ad investire sugli uomini che potranno
dirigerla domani; deve insomma rinnovare il suo capitale umano, deve valorizzare costantemente le
sue risorse umane” (Drucker ,1985).
Il vantaggio competitivo viene indiscutibilmente a legarsi al valore professionale del capitale umano
e al grado di motivazione impiegato da quest’ultimo nel processo di produzione. I bisogni
dell’individuo e le esigenze dell’organizzazione trovano congiunta soddisfazione nel Diversity
management, riconosciuto come l’anello virtuoso di collegamento e scambio tra persone e
organizzazione (Cocozza, 2008b)).
In un contesto come quello appena descritto risulta indispensabile ripensare il rapporto tra le
persone e l’organizzazione, mettendo in campo strumenti gestionali e culturali in grado di
sviluppare un senso di “cittadinanza organizzativa” che sfoci in comportamenti che supportino
concretamente il raggiungimento degli obiettivi (Cuomo, Mapelli, 2007).
A seguito delle recenti evoluzioni del mercato del lavoro, rapporti contrattuali sempre più flessibili
hanno letteralmente preso il posto dei tradizionali contratti a tempo indeterminato, caratterizzati
dalla promessa del “posto di lavoro fisso e per sempre” e dalle garanzie e tutele ad esse associate.
Si sono diffuse forme contrattuali meno impegnative per le organizzazioni: Co.Co.Co, Contratti a
progetto, a tempo determinato, etc. (Cocozza, 2008b, 2008c).
I datori di lavoro, di conseguenza, non sono più in grado di offrire sicurezze di lavoro e opportunità
di carriere a lungo termine. Per poter attrarre risorse umane sono tenuti a garantire al lavoratore un
ambiente favorevole alla crescita e all’apprendimento, così che questi raggiunga l’esperienza e le
competenze necessarie per incrementare la sua occupabilità nell’organizzazione o altrove (Cuomo,
Mapelli, 2007). I lavoratori, diventati nomadi o multi-impiego, sono spinti a ritrovare la sicurezza e
la certezza del posto di lavoro attraverso nuove forme (Elling, 1998). Ecco che, di fronte a un
rapporto di lavoro contrattualmente meno rigido e standardizzato, la centralità dell’individuo in
termini di costante valorizzazione e accrescimento diventa assolutamente strategica e
imprescindibile per sostenere le motivazioni dei propri collaboratori e raccoglierne l’impegno e il
consenso verso i valori e le strategie aziendali.
Il difficile problema della contemporaneità è pertanto quello di tenere insieme particolarità e
universalità, località e globalità, evitando che le istanze di universalità si traducano in omologazione
totalitaria, con la conseguente riduzione della varietà di forme di vita e di cultura, di linguaggi ed
intelligenze, con l’esclusione, ovvero, della possibilità di essere “altrimenti” e di pensare
diversamente (Minerva, 2002).
Relativamente alla creatività ed all’innovazione, bisogna tener presente che un atto creativo richiede
anzitutto conoscenze, immaginazione e interazione. Le capacità delle imprese di migliorare le
proprie performance innovative sono spesso limitate da una comprensione inadeguata della natura
del processo creativo e dal mancato riconoscimento dei tratti individuali e delle condizioni
organizzative che favoriscono la creatività (Grant, 2006).
Leonard (1997) in una sua ricerca esplora la composizione e la gestione delle équipe creative,
sottolineando l’importanza “dell’abrasione creativa” ossia il promuovere l’innovazione attraverso
l’interazione di personalità e punti di vista differenti. I manager non dovrebbero radunare dei
“cloni” ma dovrebbero prediligere la diversità delle caratteristiche cognitive e comportamentali
all’interno dei gruppi di lavoro, creando “team di cervelli”.
5
L’innovazione e la creatività molto spesso vengono travisate come elementi di instabilità
nell’organizzazione mentre l’equilibrio di un sistema è frutto di un apprendimento continuo
attraverso il confronto tra persone diverse. Il confronto e l’apertura a input differenti creano
maggiore flessibilità per il sistema tutelando la sua sopravvivenza nel mercato.
Tutto ciò consente di affermare che i progetti e le politiche di Diversity mangement trovano un
terreno fertile quando gli individui singolarmente, e quindi la cultura organizzativa nel suo
complesso, manifestano spiragli di apertura verso ciò che è considerato “altro”.
Da quanto sopra esposto, emerge che l’affermazione di un approccio diversificato alla gestione
delle risorse umane, nel quadro delle possibili e auspicabili strategie di impresa, si deve alla
progressiva diversificazione della forza lavoro ed ai profondi cambiamenti in atto all’interno del
mercato del lavoro, in ambito sociale, demografico, economico e culturale (Cocozza, 2008a).
Nuovi e pertanto diversi sono, quindi, i fattori che permettono di garantire la motivazione, la
soddisfazione, la dedizione e fidelizzazione delle risorse umane. Elementi che utilizzati
sinergicamente consentono di avviare un impegno di comprensione dei nuovi bisogni di cui sono
portatrici le persone.
Una buona politica di retention implica un uso combinato di fattori motivazionali, retributivi,
organizzativi, ambientali e formativi. La leva della Formazione, in particolare, quale strumento di
valorizzazione delle risorse umane, contribuisce alla costituzione e alla sedimentazione delle
competenze sia nelle persone sia nell’impresa, competenze che producono direttamente e
autonomamente valore aggiunto, per la loro stessa natura di capitale raro e inimitabile (Cocozza,
2006). L’elevata presenza di knoledge workers nell’organizzazione, l’estrema varietà di competenze
necessarie per il raggiungimento degli obiettivi aziendali, impone l’ingresso del Diversity
Management nelle strategie d’impresa, per valorizzare quelle conoscenze e abilità che ogni persona,
vista come unica e non replicabile, porta dentro di sé.
In questa logica le organizzazioni sensibili al tema della gestione delle diversità hanno una
maggiore capacità di trattenere al proprio interno i “talenti” caratterizzati da forte eterogeneità. In
un mercato del lavoro fortemente competitivo, il capitale umano tende ad essere attratto
maggiormente da realtà lavorative in cui si applicano concretamente meccanismi di valorizzazione
delle specificità individuali.
Tutto ciò consente di asserire che le imprese che scelgono di investire nel Diversity management,
puntando sulla valorizzazione delle risorse umane in quanto fonti potenziali di vantaggio
competitivo, individuano una risposta organizzativa per ottimizzare la gestione del proprio business
e migliorare il clima e il benessere dell’organizzazione.
1.2 Concetti di Differenza e Gestione delle Differenze
1.2.1. Concetto di Differenza
Secondo il “Glossario dei Termini HR” della Society for HR Management - SHRM per Differenza
si intende “una definizione ampia di Differenza spazia da:la personalità e gli stili di lavoro; a tutte le
dimensioni visibili quali razza1
, età, etnia o genere; alle influenze secondarie quali la religione, gli
aspetti socio economici e la scolarità; alle differenze correlate alla organizzazione del lavoro quali
l’appartenere al gruppo manageriale anziché al sindacato, il tipo o il livello della funzione, la
prossimità o meno agli Head Quarter…” (Tracey, 2007).
Questa definizione evidenzia una struttura ben definita della differenza, sostenuta anche altrove in
letteratura (Gardenswarts, Rowe,1994). Secondo questa struttura, possiamo osservare che la prima
1
Razza: con questo termine, negli Usa si fa riferimento al problema di relazione fra le popolazioni bianche e quelle
afroamericane. Come tale non ha un corrispettivo in Europa. Inoltre, geneticamente, le razze non esistono. Il concetto
essere più propriamente essere sostituito dal termine etnia.
6
fonte di differenziazione è l’essere persona, cioè un’entità intrinsecamente differente da qualunque
altra.
Quindi la definizione isola delle differenze visibili: rilevabili sulla base di qualche segno esteriore o
comportamento, purché comune ad un intero gruppo di individui. Ad esempio: alcuni tratti somatici
sessuali e non, i segni della progressiva maturazione o dell’invecchiamento, l’orientamento
sessuale, il grado di abilità fisica.
Altre differenze (secondarie) sono accomunate dall’essere generate da influenze educative ed in
genere da fattori sociali. Ad esempio: competenze e scolarità, hobbies, abitudini, localizzazione
geografica, status famigliare.
Infine ve ne sono altre, più contingenti ancora, legate alle particolari esigenze del microcosmo
creato dai processi di organizzazione del lavoro. Ne sono un esempio: l’area professionale o
funzionale, l’unità organizzativa di appartenenza, il sito di lavoro, la relazione di lavoro (es. il tipo
di contratto), l’anzianità lavorativa, la posizione organizzativa ecc.
Tuttavia, per quanto ampia sia questo tipo di definizione, anch’essa è culturalmente connotata.
Ciò ha effetti non solamente sul censimento, sulla lista delle differenze, ma anche sulla loro
classificazione, sulla loro gerarchia (personalità al primo posto, quindi elementi visibili, poi
secondari, infine specificamente correlati all’organizzazione del lavoro e quindi emersi abbastanza
di recente nelle società industrializzate).
In altri paesi/aree geografiche la lista potrebbe vedere sia l’aggiunta di ulteriori elementi (per non
tacere la possibilità di censurarne altri) sia il mutare dei loro rapporti gerarchici e quindi della loro
importanza relativa/priorità.
Ad esempio, nei paesi latino-americani (ad esclusione del Brasile), non solo l’elemento etnico è
scarsamente rilevante numericamente, ma è anche secondario rispetto allo status economico e di
privilegio. Basti rammentare che in epoca coloniale, per cittadini di colore era possibile acquistare
certificati di appartenenza al gruppo etnico dominante (Tapia, 2008b).
Una definizione del termine Differenza, pur potendo declinarsi come indicato da SHRM, dovrebbe
anche tenere conto di questi spunti critici, assumendo una forma più aperta, adattabile ai vari
contesti culturali/specifici. Magari entrando come elemento di un processo di continuo riesame
critico, di un continuo interrogarsi su cosa sia differenza nella mia realtà.
1.2.2 Evoluzione storica del concetto di Gestione delle Differenze
Abbiamo già rilevato che il concetto ha subito evoluzioni importanti nel tempo. Evoluzioni legate
alla visione del tipo di relazione che dovrebbe istituirsi fra i soggetti Differenti ed il resto della
popolazione.
Negli anni ‘60 domina il concetto di “assimilazione”. Secondo questo concetto, si considera che, al
di là delle differenze, il dato fondamentale è la condivisione di un ben più ampio patrimonio
comune, una comune umanità.
La natura di questa comunanza, più che su tratti veramente generali, in realtà risulta essere
concretamente definita sulla base della cultura, delle norme e delle prassi esistenti e prevalenti in un
dato paese/area (mono culturalismo). In questo senso (“siamo tutti eguali”), la modalità prevalente
di gestione delle differenze è quella che cerca di mettere tutti in condizioni di giocare con le stesse
regole. Regole, però, dettate dalla maggioranza. E’ l’approccio fondato sulla creazione di pari
opportunità, che con strumenti prevalentemente normativi e formativi delle minoranze portatrici di
differenze, cerca di allineare sul nastro di partenza della vita tutti i cittadini. Dotandoli innanzi tutto
di eguali diritti e di opportunità di sviluppare eguali capacità. Questo approccio risente molto dei
fondamenti della democrazia nord-americana, basata sui diritti dell’individuo e su un concetto di
società di eguali (discrimination and fairness paradigm).
7
Per quanto riguarda il mondo delle aziende, questa è l’epoca in cui l’approccio alle differenze si
esaurisce nella conformità (compliance) a norme e regolamenti. Magari con politiche di assunzione
che tendono a riprodurre, nella composizione percentuale degli organici, le principali differenze
presenti sul mercato del lavoro. Del resto, come è oramai ben documentato in letteratura (Thomas,
1996), questo approccio non comporta alcun incremento automatico delle prestazioni aziendali.
Anzi, può fare aumentare le tensioni fra colleghi, con conseguenze piuttosto negative per le
organizzazioni. La popolazione aziendale si differenzia, ma non il modo di lavorare. Il tipo ideale di
queste organizzazioni, differenziate ma definitivamente monoculturali, è quello delle Forze Armate.
Nei decenni successivi aumenta la sensibilità ai fattori differenzianti, piuttosto che alle comunanze.
L’approccio è quello della differenziazione (“celebrazione delle differenze”), dell’orgoglio della
differenza, come punto focale dell’attenzione sia essa politica o sociale.
Si parla quindi di separazione per esaltare un multi culturalismo di soggetti collettivi equivalenti,
ma con percorsi propri, autonomi, di sviluppo. Questo arco di tempo, è l’epoca delle lotte per i
diritti civili, particolarmente sentite negli Usa (cittadini di colore, cittadini con orientamenti non
etero-sessuali, etc.: access and legitimacy paradigm), ma presenti anche in Europa, ad esempio col
movimento femminista.
In questo periodo, comincia a diffondersi nelle aziende l’utilizzo a vario titolo (progettisti,
venditori…) dei collaboratori appartenenti a determinati segmenti di Diversità come ambassador
verso quegli stessi segmenti di mercato. Infatti, è riconosciuto un progressivo incremento del potere
di acquisto delle minoranze e l’affermarsi di stili di acquisto sempre più connotati. Ma al di là di
questa casistica, le aziende continuano a vivere in modo passivo il tema delle differenze. Semmai va
aumentando la loro sensibilità in termini di gestione del rischio (risk management): dato il diffuso
clima di conflitto in tema di diritti civili, un comportamento aziendale non a norma, o irrispettoso di
alcune differenze, più facilmente potrebbe generare un’azione legale. Come per il modello basato
sull’assimilazione, anche in questo caso i vantaggi per le aziende sono stati limitati. Il potenziale
delle differenze al più è stato usato localmente, nei punti di contatto con nicchie di mercato; spesso
senza sapere neppure come e perché funziona, perché porta risultati, se e come potrebbe influire
sull’efficacia complessiva e l’innovazione dei processi aziendali. Le differenze possono essere
usate, ma non sono comprese, non si apprende da esse. Non è strano, in questo contesto, come varie
forme di “soffitto di cristallo” rendono difficili, se non impossibili, le carriere degli appartenenti ai
segmenti di Diversità; per quanto capaci e dotati di potenziale di sviluppo.
Con la fine degli anni ‘90, si afferma invece un concetto di relazione con le differenze che cerca di
integrare e superare i due precedenti (Thomas, 1996). E’ il modello cosiddetto dell’inclusione, che
da un lato continua a porre come centrale il tema delle pari opportunità ma, dall’altro, cerca di
cogliere le differenze come un valore, anziché come un fattore accidentale o controproducente
(learning and effectiveness paradigm).
Col concetto di Inclusione ci si pone costantemente due problemi:
- individuare le differenze mano a mano che si presentano;
- chiedersi quale sia il loro Valore per l’intero contesto in cui si manifestano (ad esempio per il
modo di operare di un’azienda).
In questo senso, un atteggiamento inclusivo è costantemente portato all’ascolto, è aperto al
cambiamento e ad un cambiamento che coinvolge tutti i soggetti, stimolandoli a modalità di
convivenza sempre differenti, risultanti di una continua e comune evoluzione culturale
(interculturalismo).
E’ in questo periodo che le aziende cominciano a diventare soggetti più attivi nella gestione delle
differenze, stimolate dalla potenziale dimensione di utilità strategica della differenza come valore
ovvero come un reale potenziale di miglioramento dell’efficacia complessiva dei propri processi
(differenze come elementi per la costruzione del Business Case). In questo senso, i portatori di
differenze cominciano ad essere percepiti come “in grado di apportare conoscenze e prospettive sul
come svolgere una certa attività che sono differenti, importanti e competitivamente rilevanti. Come
8
progettare un processo, raggiungere dei risultati, definire dei compiti, creare team efficaci,
scambiare idee, guidare le persone…” (Thomas, 1996)2
.
1.3 Concetto teorico di riferimento per la Gestione delle Differenze e sua problematicità
In questo studio facciamo la scelta di considerare l’Inclusione come modello di riferimento per la
gestione delle differenze. Le definizioni coerenti col modello che abbiamo scelto sono comunque
abbastanza diversificate. Ci sono definizioni che vedono nella funzione HR l’attore principale nella
gestione delle differenze, per il tramite delle sue politiche e dei suoi processi, e che sono interessate
alle differenze solo se funzionali al miglioramento della performance aziendale (Cocozza, 2008b).
All’estremo opposto abbiamo definizioni che assumono l’attenzione alle differenze come un valore
di base delle organizzazioni e del vivere civile (European Commission, 2007), quasi solo come
ricaduta di questa diffusa consapevolezza il saperne trarre vantaggio nelle organizzazioni aziendali
(Lockwood, 2005) e comunque nell’ambito del più alto livello di pianificazione strategica del
business (Keil, 2007). Faremo nostra la prima tipologia di definizioni. Considerando il contesto
manageriale e sociale italiano, ci sembra che esse siano al contempo realistiche e sfidanti. Da un
lato, non possiamo ancora presumere che le differenze siano percepite come un valore base,
ampiamente condiviso, nel tessuto della convivenza civile del nostro paese, né che siano
considerate, come passo iniziale, elementi a pieno diritto del processo di pianificazione strategica
(vedere anche il paragrafo 1.4). D’altro canto, è alla portata di una funzione HR porsi, su questa
tematica, un obiettivo di stimolo e sviluppo nei confronti del contesto aziendale in cui opera. Siamo
convinti che questa assunzione non sia affatto velleitaria. Anche in letteratura (McMahon, 2006) è
un dato consolidato che approcci inclusivi possono manifestarsi grazie ad inneschi molto differenti
fra loro, e l’iniziativa della funzione HR è fra questi. Inoltre, quando esistono iniziative specifiche
sulla gestione delle differenze, la responsabilità primaria è quasi sempre allocata nella funzione HR
(SHRM, 2001).
Tutto ciò premesso, è legittimo e ragionevole concepire la Gestione delle Differenze come
l'adozione di politiche di HR finalizzate a valorizzare le diverse necessità, i bisogni, le aspettative
delle differenti tipologie di persone che lavorano all'interno dell'organizzazione in funzione del
miglioramento delle perfomance di business dell'azienda.
1.4 Specificità del caso italiano?
Ma quanto è specifico il caso italiano (modelli culturali del paese e manageriali)? Forse non troppo
o non nella misura in cui comunemente (in modo stereotipato) si pensa. Da un lato, molte delle
esperienze che facciamo o delle informazioni che riceviamo riguardo al nostro vivere politico, civile
ed economico, ci ritornano segnali critici. Due considerazioni a titolo d’esempio.
2
Su questa linea esistono alcune policy aziendali, ad esempio la Carta Aziendale della Diversità in Germania (Keil,
2007), iniziativa del 2006, autonoma e volontaria, di Deutsche Telekom AG, Deutsche BP, Deutsche Bank AG,
DaimlerChrysler AG, cher ecita “Dobbiamo capire che avremo successo negli affari solo se conosciamo ed investiamo
sulla diversità. La diversità della nostra forza lavoro e la diversità dei bisogni dei nostri clienti e degli altri partner
d’affari. Le diverse competenze ed i diversi talenti di gestione aprono a nuove sfide per soluzioni creative ed
innovative….”. Oppure, la policy sulla Diversità di Nokia Siemens Networks, azienda a capitale misto tedesco –
finlandese di recente formazione (2007), che recita “…Fare leva sulle differenze in un contesto di fiducia e di stimolo, a
beneficio di entrambi, gli individui e l’organizzazione. ...Poiché crediamo che una comunità di collaboratori varia sia
per noi un vantaggio, persone con differenti storie/provenienze, esperienze e capacità apportano l’innovazione e la
comprensione di clienti/mercati che sono cruciali per il business di Nokia Siemens Networks…”.
9
Sono rilevabili diffusi segnali di ritardo culturale degli approcci alle differenze nelle aziende,
approcci databili tranquillamente agli anni ‘60: conformità formale/burocratica alla norma,
soprattutto quando è considerato eccessivo il rischio d’inadempienza (es. le quote di disabili);
E’ difficile trovare riscontri di un dibattito sufficientemente serio, sereno, e di decisioni coerenti nei
vari ambiti del nostro vivere civile (istituzionali, geografici, settoriali….), in merito al modello
auspicato/promosso di relazione sociale con e fra le differenze. In questo campo si va
tranquillamente dalla “assimilazione” (“esiste ed esiterà sempre uno ed un solo modello di
normalità, cui tutti indistintamente debbono adeguarsi pena il non riconoscimento, la
marginalizzazione se non l’espulsione”) al rifiuto del differente in quanto fonte di inquietudine, ma
più spesso e tout-court di paura (esclusione), al loro opposto a tracce di celebrazione o accettazione
apparentemente acritica di ogni differenza anche estremistica, in quanto intese come espressione o
di una cultura o della libertà di pensiero/parola (es: amputazioni sessuali, diritto di assoggettamento
della moglie, pensieri politici terroristici, etc.).
D’altro canto siamo in buona compagnia, almeno per quanto riguarda l’approccio più diffuso nella
cultura media aziendale. Problematiche del tutto simili sono riscontrabili in paesi con una cultura
manageriale, su altri versanti, più avanzata della nostra. Ad esempio, per quanto riguarda le
differenze di genere, basta citare i casi degli Usa e degli UK. Ricerche e pubblicazioni in questi
paesi, a partire dal 2004-05, hanno cominciato ad occuparsi dell’evidente difficoltà nel gestire i
bisogni, d’interruzione temporanea e di reinserimento, di collaboratrici con elevata scolarità e con
elevate prestazioni lavorative (Hewlett, 2005; Management Issues, 2005). La medesima fotografia
problematica emerge da uno studio di Accenture su 6 paesi di diversi continenti (Accenture, 2006).
In esso si analizzano le cause percepite del soffitto di vetro secondo tre dimensioni: ostacoli legati
alle caratteristiche personali, alla cultura aziendale ed alla cultura del paese. La dimensione cultura
paese risulta rilevante in 5 paesi su 6.
Se vogliamo vedere casi più positivi, sempre per restare in tema di genere, secondo gli studi di
Hofsteede (Hofsteede, 2001) sull’indice di mascolinità delle culture nazionali, dovremmo riferirci a
paesi con basso indice. Questi paesi sono infine molto pochi e concentrati in Scandinavia. Ma anche
in questi casi, come non rilevare che, ad un certo punto, è diventato necessario forzare il sistema, ad
esempio tramite il meccanismo delle quote, per introdurre un cambiamento significativo? E’ il caso
della Norvegia, in cui il Governo ha chiesto alle 500 aziende quotate nella Borsa di Oslo, di dotarsi
di un Board of Director con almeno il 40% di genere femminile entro 2 anni (Accenture, 2006)).
Certamente le differenze fra paese e paese sono rilevanti. Tuttavia, forte permane l’impressione che
c’è un elemento chiave del tutto generale, per stimolare ed avviare un cambiamento più ampio nella
capacità di gestire le differenze, e non in condizioni di urgenza. Esso sembra risiedere nella volontà,
nella determinazione, nella capacità di comunicazione e coinvolgimento, nel coraggio talvolta, di
almeno un attore. Tale attore, a seconda del contesto, si qualificherà come organizzativo (nel nostro
caso la funzione HR, oppure qualche membro del team di vertice, oppure lo stesso imprenditore),
anziché sociale, anziché politico.
2. Differenze e gestione aziendale
2.1 Le differenze di maggior rilievo per la realtà italiana
Il tema della presenza e della rilevanza di una differenza va sempre contestualizzato rispetto alla
specifica realtà organizzativa in esame (azienda, sito, funzione, singolo ufficio). Dovendo
comunque fare un discorso generale, in Italia, le dimensioni della diversità più tradizionalmente
sperimentate e percepite, sino a circa una decina d’anni fa, erano quelle del genere e della disabilità.
Invece, considerando dati ed esperienze più recenti, a nostro parere si evidenzia un significativo
10
aumento sia nel numero delle differenze, sia nella complessità delle interazioni fra loro. Come
vedremo, ciò comporta un similare aumento di complessità a carico delle interazioni fra differenze e
prassi di gestione aziendale.
Questa maggiore complessità ha una sua prima causa profonda in alcune dinamiche demografiche.
Sono cause oggettive. Non si tratta semplicemente di una maggiore sensibilità al tema. Queste
dinamiche demografiche sono documentate nel nostro paese e ci accomunano a tutto l’occidente a
sviluppo avanzato. In queste aree, anche alla presenza di tassi di crescita economica moderata,
l’effetto della forbice demografica (meno giovani che entrano nel mercato del lavoro rispetto agli
anziani che ne escono) faceva prevedere, prima della crisi in corso, un aumento del numero di posti
di lavoro vacanti nei prossimi anni.
Torneremo più avanti sulla possibile influenza dell’attuale crisi su queste stime. Prima di essa, negli
Usa, il Department of Labor stimava che al termine del prossimo decennio vi sarebbe stata una
carenza di forza lavoro (posti vacanti) fra i 10 ed i 28 milioni di posti di lavoro (Tapia, 2008a). Già
nel 2008, In Italia si poteva stimare in circa 200.000 la quantità dei posti vacanti (Banca dati Con-
Istat).
Solo un incremento della occupazione femminile e/o della immigrazione potrebbero sostenere la
crescita della nostra economia. Per dare un dato, l’occupazione femminile in Italia è in ritardo di
circa 20 punti percentuali (pp) rispetto ai paesi nordici e di 10 pp rispetto all’EU25 (Banca dati
Eiro). Certo, l’alternativa potrebbe essere la de-localizzazione estera delle attività (non solo
produttive). Ma questa scelta non muterebbe la necessità di un adeguamento dei modelli gestionali,
che in ogni caso dovrebbero essere più aperti alle sfide della diversità insite nell’operare in un paese
straniero, diversità prioritariamente interculturali e normative (ulteriore complicazione).
Le dinamiche di diversificazione delle fonti delle forza lavoro, indotte dalla forbice demografica,
prima della crisi stavano quindi aumentando la varietà e la complessità delle differenze, nel tessuto
della nostra convivenza civile e negli ambienti di lavoro. La crisi in corso come può influire,
volendo escludere l’ipotesi che il suo primo e principale effetto sia quello di favorire un diffuso e
riconosciuto clima discriminatorio? Sul lungo termine, è difficile immaginare come la crisi possa
comportare un mutamento qualitativo dello scenario base: il mondo non diverrà meno globale negli
scambi di beni e servizi e meno interconnesso (comunicazione ed informazione). Sul breve-medio
termine, al più i suoi effetti saranno quelli di esacerbare quanto già stiamo osservando come sfide di
coesistenza ed uso ottimale delle differenze già presenti. Semmai, si renderà ancora più urgente la
necessità d’affrontare queste tematiche in modo costruttivo, maggiormente profittevole per tutti.
Analizzando più in dettaglio come sta aumentando la complessità, innanzi tutto rileviamo che sono
più numerose le differenze visibili. Fra queste in particolare quelle legate ad etnia/lingua. A titolo
d’esempio in Italia (Caritas, 2007):
- cittadini stranieri nel 1970: 144.000; nel 2008: 3.700.000 (6,7% della popolazione, circa in
media EU), di questi, il 63% nel Nord (in Lombardia circa 1 milione);
- circa 20 i gruppi nazionali principali: in testa europei (52%), africani (23%), asiatici (16%);
- le lingue rappresentate in Italia, già nel 2001 erano 150;
- matrimoni: 24.000 coppie miste, ossia il 10% sul totale dei matrimoni (25% in 9 regioni del
nord) e il doppio dei matrimoni con entrambi i coniugi stranieri. 1 nato su 8 è da coppie miste;
- 165.000 aziende sono d’immigrati (con tassi di crescita negli ultimi 5 anni del 10% annuo);
- 3% delle imprese è guidata da immigrati (maggiore presenza assoluta in Lombardia: 33.000).
Si tratta di un quadro di internazionalità importata, perciò la relazione fra culture differenti è
prevedibile divenga un fattore rilevante anche per aziende non esposte, o esposte solo in modo
marginale, ai mercati esteri. I due meccanismi principali di esposizione sono quelli di sourcing della
forza lavoro e d’interazione cliente-fornitore. Due esempi del primo tipo: il caso dell’industria della
pesca nei porti dell’Adriatico ed il caso insorgente delle società di trasporti pubblici. Nel caso della
pesca adriatica, si ha un significativo incremento degli occupati di origine africana: sempre
maggiore è l’indisponibilità del personale italiano alle ininterrotte missioni settimanali di pesca in
alto mare. Trasporti: ATM, la società milanese non riesce più a completare i bandi di assunzione,
11
cui il Regio Decreto 148 del 1931, con l’articolo 10, ammette solo cittadini italiani (“personale delle
ferrovie, delle tramvie e delle linee di navigazione”), e sta chiedendo l’abrogazione di questa
limitazione per poter assumere cittadini stranieri).
A seguire, va aumentando anche la varietà delle fasce d’età anagrafica compresenti nella forza
lavoro. La forbice demografica, unitamente all’innalzamento dell’età pensionabile, o comunque il
prolungamento dell’età lavorativa (reso possibile anche dalla disponibilità di molteplici forme
contrattuali e dal cumulo di redditi da lavoro e pensioni), hanno come conseguenza l’incremento
della diversificazione delle generazioni presenti sul luogo di lavoro. Il tema delle differenze d’età è
abbastanza emblematico per come può essere fuorviante basare le proprie valutazioni sugli
stereotipi esistenti. Le generazioni lavorative sono convenzionalmente così suddivise/descritte3
:
- Maturi, nati prima del 1945, grandi lavoratori ma tradizionalisti sul lavoro;
- Baby Boomer, 1946/1964, prediligono la lealtà, ma hanno un’etica del successo personale;
- Generazione X, 1965/1979, cercano bilanciamento vita privata e lavoro, non si impegnano molto;
- Generazione Y , 1980/in poi, sono stimolati dall’innovazione e dal cambiamento ma sono ancor
più individualisti dei baby boomer.
Esiste un’ampia letteratura di origine anglosassone che da un lato conferma alcune differenze di
preferenze aspettative e valori, e rispetto a queste differenze evidenzia l’opportunità di ottimizzare
l’efficacia alcuni sistemi di gestione, ad esempio il Compensation & Benefit (Gurchiek, 2008;
Deloitte, 2007; Burke, 2004), oppure di monitorare il rischio di possibili conflitti, in particolare
nelle organizzazioni di più grosse dimensioni e su temi come il mutuo rispetto, gli atteggiamenti nei
confronti dei criteri gerarchici del cambiamento o delle nuove tecnologie (Burke, 2004). Ma nel
contempo sono sottolineate le più sostanziali somiglianze fra generazioni nei comportamenti sul
lavoro (Hasting, 2007; Randstad, 2007) e la tutto sommata bassa incidenza di reali situazioni di
conflitto. Inoltre, queste ricerche aiutano a chiarire meglio come la causa reale di alcune differenze
di comportamento sia imputabile a parametri differenti dall’età. Un esempio valga per tutti. La
propensione a lavorare per un numero di ore maggiore dell’orario standard (face time o extended
hour) risulterebbe essere più direttamente correlata col livello della posizione aziendale piuttosto
che con l’età anagrafica. La prudenza che suggeriscono questi studi è triplice: diffidare degli
stereotipi, verificare nella propria realtà la validità delle conclusioni tratte in altri contesti (es.: Italia
= Usa?), verificare nel tempo la persistenza di alcune conclusioni generali (es.: valide anche per la
generazione 1995- 2010?).
Se le spinte demografiche possono essere individuate come cause-radice, il moltiplicarsi stesso del
grado di diversità sembra generare ulteriore complessità. Ad esempio:
- la varietà generazionale è spesso correlata alla diversificazione del contratto di lavoro;
- la varietà etnica comporta quella delle fedi religiose. In Italia, gli immigrati per metà sono
cristiani, per un terzo musulmani e per il resto credenti di varie fedi religiose (Caritas, 2007).
Alla fine, anche limitandosi alle sole differenze etniche, il quadro complessivo porta a prevedere
che, entro il 2016, il 75% dei nuovi entranti nel mercato del lavoro mondiale molto probabilmente
saranno provenienti da paesi asiatici, mentre dal Nord America e dall’Europa proverrà un contributo
intorno al 3% (Lockwood, 2005).
Poche e brevi osservazioni ma, a nostro parere, sufficienti a delimitare adeguatamente il campo
della diversità che un’azienda, nel nostro paese, è molto probabile debba gestire. Tale campo è
costituito da 4 differenze di tipo visibile (genere, disabilità, etnia / lingua, età), più la fede religiosa
ed il tipo di contratto di lavoro.
Fedeli alla definizione adottata di Gestione delle Differenze, rispetto a tale varietà e complessità, di
seguito dovremo porci le seguenti domande:
- se e come, le 6 tipologie di differenza citate, possono generare specifici bisogni, necessità ed
aspettative nei collaboratori delle aziende (paragrafo 2.2);
3
Non è superfluo rammentare che questi profili sono stati definiti per persone in età lavorativa in paesi occidentali.
Perdono completamente di significato in altre aree geografiche, ad esempio per ragioni storiche (Cina), culturali (India,
Giappone…) etc.
12
- se e come questi bisogni, necessità ed aspettative (istanze nel seguito), influenzano la
performance aziendale. Sarà in questa area che cercheremo di far emergere opportunità e
criticità della gestione delle differenze (paragrafo 2.3);
- ed in ultima analisi se e come le politiche HR si possono dimostrare all’altezza di riconoscere e
corrispondere tali istanze, a beneficio della performance aziendale (paragrafo 2.4).
2.2 Bisogni, necessità ed aspettative generati dalle differenze
E’ un dato riscontrabile nell’esperienza quotidiana che la presenza di differenze implichi la
presenza di differenti bisogni, necessità ed aspettative (istanze) del personale. Senza minimamente
proporci l’obiettivo d’essere esaustivi, proviamo a tracciare una mappa delle possibili aree
d’interazione fra differenze e prassi gestionali in azienda. Per questo tentativo, consideriamo queste
prassi come suddivise in due gruppi: le prassi di gestione del personale ed i processi di business.
2.2.1 Istanze del personale e prassi di gestione del personale
Nella Tabella 1, consideriamo alcune prassi gestionali del personale (gestione di tempi e spazi di
lavoro, modalità di comunicazione, benefit) nella loro interazione con le 6 differenze che abbiamo
individuato come probabilmente più rilevanti per il caso italiano. In corrispondenza degli snodi fra
queste due dimensioni si generano delle istanze nei collaboratori portatori di quelle differenze.
Tab. 1. Possibili interazioni fra differenze e prassi gestionali del personale
Differenze di: Tempi di lavoro Spazi di lavoro
Strumenti di
comunicazione Benefit
Extended hours
Standard per gli
spazi individuali Formazione linguistica Preferenze
Etichetta linguistica
Etnia Periodi di vacanza
Sensibilità differenziata
ai canali (1)
Sensibilità differenz. alla
presentazione dei
contenuti (2)
Età Extended hours (1) Preferenze
Flessibilità orari
Entrata/Uscita (2)
Disabilità Pause di lavoro Accesso (1) Preferenze
Permessi di lavoro
Standard per gli
spazi individuali
Genere Extended hours (2) Preferenze
Flessibilità orari
Entrata/Uscita
Credo Religioso Pause di lavoro Spazi di culto Etichetta linguistica Preferenze
Periodi di vacanza
"Decorazioni" degli
spazi individuali
Contratto di lavoro
Inclusione dei "flessibili"
come popolazone (3) (3)
Fonte: nostre elaborazioni.
13
Differenza
Prassi
ISTANZA
Pur nella sua semplicità ed incompletezza, la Tabella 1 evidenzia a nostro parere due elementi
interessanti. Il primo è che vi sono aree gestionali che risultano essere più densamente di altre
correlate alle differenze rappresentate nel personale. Nel nostro caso: l’eventuale sistema di benefit,
la comunicazione interna, le forme/ prassi di gestione dei tempi di lavoro. Queste sono aree critiche
per l’influenza positiva (opportunità) o negativa (rischio) che possono avere sul livello di
prestazione aziendale. Come si esercita questa influenza sarà oggetto del paragrafo 2.3.
Il secondo spunto che si può trarre dalla Tabella 1 è che, in uno stesso ambito gestionale, vi può
essere un ulteriore livello d’interferenza fra istanze provenienti da differenti segmenti di diversità.
Ad esempio: sono oramai numerosissime le ricerche che mostrano come variano le preferenze sui
benefit al variare di età (Burke, 2004), genere, posizione aziendale ecc. Si consideri anche se e
come possono essere conciliate le istanze sui tempi di lavoro fra differenze di genere (ruolo
famigliare), d’età (stili di vita, ruolo famigliare), di etnia (cultura del tempo) o religione (tempi del
culto) (Hastings, 2008). Anche queste interazioni possono intensificare criticità od opportunità nella
gestione delle differenze.
La ricerca di un efficace bilanciamento, fra istanze delle persone e reali esigenze organizzative,
tende a diventare un processo certamente più complesso e dinamico (se vuole seguire efficacemente
le evoluzioni della composizione dell’organico). I processi e le prassi, se debbono essere neutri
rispetto alle differenze per evitare effetti discriminatori, d’altro canto debbono contemporaneamente
essere opportunamente segmentati (es: comunicazione, benefit, etc.) per essere realmente efficaci.
Inoltre non va mai scordato che, anche la cosiddetta popolazione normale, coloro che sono abituati
a sentirsi come maggioranza, genera delle istanze. Queste istanze possono, a loro volta essere
influenzate dal confronto con quelle delle persone portatrici di differenze.
Quest’ultimo tipo d’interazione, se male o per nulla gestito, comporta sicuramente rischi più elevati
per il buon funzionamento dell’organizzazione, rischi legati al tipo di relazione che come
conseguenza potrebbe instaurarsi fra i differenti gruppi. Non si tratterebbe banalmente del ritorno a
forme classiche di razzismo, secondo cui l’altro è considerato tout court inferiore, incapace di
migliorare, irrimediabilmente decaduto. E’ una forma più sottile e subdola: colui che porta valori
diversi, punti di vista diversi, prima di ogni analisi e valutazione, è minaccioso per la mia identità.
Mi richiederebbe un cambiamento includere entrambi, me stesso e l’altro, in una nuova relazione.
Un cambiamento che, se non supportato da una più matura consapevolezza, mi fa percepire il punto
di incontro dei valori, o anche solo delle abitudini e dei punti di vista, come un degrado dei miei,
come un peggioramento anziché un progresso. Un cambiamento che sento, se non come una
violenza da parte di una minoranza, per lo meno come una pretesa e che quindi percepisco come
ulteriore segnale di mia (il forte) debolezza e degrado qualora dovessi cedere. In queste dinamiche
di resistenza e rifiuto del differente, non nella natura materialistica delle motivazioni (il sangue, il
codice genetico, etc.), può esserci somiglianza con comportamenti che potremmo chiamare di
intolleranza alle differenze. Per un approfondimento sulle radici di questi processi e di come è
possibile un percorso di crescita, sia personale che di gruppo, rimandiamo all’interessante ricerca di
Ida Castiglioni sulla diversità nei servizi (Castiglioni, 2009), in cui si utilizzano gli approcci ed i
metodi della comunicazione interculturale di M. J. Bennet (Bennet, Milton, 2001).
2.2.2 Istanze del personale e processi di business
Consideriamo ora l’ambito dei processi di business, quello in cui la capacità di utilizzare in modo
inclusivo il punto di vista dei portatori di differenze, differente da quello dominante (mainstream),
può fornire le opportunità più significative (Thomas, 1996). Rispetto alla estrema varietà potenziale
di bisogni, necessità ed aspettative che abbiamo visto si possono generare nell’interazione fra prassi
di gestione del personale e differenze, questa volta sembra essere in gioco uno spettro di aspettative
14
più circoscritto. L’interazione delle differenze coi processi di business genera istanze
prevalentemente legate al coinvolgimento e alla delega. Sono aspettative di partecipazione, di
ascolto dei punti di vista differenti, della loro valorizzazione in termini di influenza sul
cambiamento del modo di fare, e di un grado di autonomia decisionale, nel proprio ambito
lavorativo, che va di pari passo con la crescita delle competenze e dell’esperienza.
Tornano alla mente i fattori di coinvolgimento sui cui si basava il successo delle metodologie anni
‘90 per il miglioramento della prestazione dei processi (Total Quality Management- TQM). Oggi,
sugli stessi fattori si è capito si può basare, non solo il miglioramento incrementale, ma
l’innovazione, il cambiamento drastico. Del resto, già quindici anni fa, in una grande società di
telecomunicazioni italiana, il direttore della Qualità impegnato nei programmi Tqm soleva dire che
le minoranze di pensiero in azienda andavano salvaguardate dal mainstream, in quanto fonte di un
potenziale d’innovazione che sarebbe tornato utile possedere, al mutare imprevedibile del contesto e
dei bisogni di business, per i necessari cambiamenti quantici di obiettivi, processi ed
organizzazione.
2.3 Istanze del personale e performance aziendale
Nel paragrafo precedente abbiamo cercato di delineare quali istanze sono generate dall’interazione
fra differenze e prassi/processi aziendali. Ora, come possiamo comprendere la natura del legame fra
il trattamento di queste istanze e la performance aziendale? Abbiamo considerato il modello che
emerge dalle conclusioni della più recente letteratura in merito (Engage Group, 2009)). E’ chiaro
che la misura della sua efficacia è sempre e comunque da sottoporre a verifica. Sia a seguito di
sperimentazione/pratica attuazione sia nel tempo. Infatti, la validità di ogni modello/linea guida è
inevitabilmente legata allo specifico contesto e può mutare nel tempo. Così come nel tempo
evolvono sia la composizione della popolazione aziendale sia le modalità d’interazione fra persone,
organizzazione ed altri ambiti rilevanti della convivenza civile (es. cultura paese, momento storico).
In estrema sintesi, il modello considerato correla innanzi tutto le istanze del personale e la qualità
del loro trattamento da parte del management ad alcuni fattori ossia particolari attitudini/percezioni
dello stesso personale. Questi fattori, usualmente misurati tramite sondaggi d’opinione o test,
sempre secondo il modello risultano avere una buona qualità predittiva del grado di impegno del
collaboratore nel contribuire al successo dell’organizzazione (engagement). Infine, l’impegno così
inteso risulta essere significativamente correlato col livello complessivo delle prestazioni aziendali
in termini di efficacia (ad esempio la soddisfazione dei clienti), efficienza e risultati economici.
Fra i fattori che hanno una buona qualità predittiva del grado di impegno del collaboratore nel
contribuire al successo dell’organizzazione (engagement), quelli più tradizionali sono: orgoglio
d’appartenenza (pride), motivazione personale, apprezzamento dei responsabili per equanimità –
correttezza - rispetto (fairness dei capi), fedeltà. A questi fattori, di recente si sono aggiunte due
aspettative: l’essere coinvolti nelle decisioni e se possibile l’essere delegati, a prendere le decisioni
relative al proprio ambito lavorativo. Ovviamente, questi fattori sono tanto più importanti nel caso
di portatori di differenze per i quali, spesso, è invece in questione anche il solo riconoscimento
dell’essere differenti (rispetto).
Rispetto a questo modello, ulteriori elementi predittivi, meno indagati al momento ma sottoposti di
recente a grande attenzione, potrebbero essere quelli del bene-stare personale nelle organizzazioni e
del grado di complessivo benessere organizzativo. Il modello gestionale complessivo risultante, che
proponiamo per dare attuazione ad un approccio inclusivo delle differenze, è schematizzato nella
Figura seguente (Figura 2) e sarà oggetto di alcuni approfondimenti nei due prossimi paragrafi
(2.3.1 e 2.3.2).
15
Fig. 2. Dalle istanze del personale alla prestazione aziendale (efficienza & efficacia)
Istanze
Stili/ prassi di
gestione del personale
Rischi/ Opportunità
Esigenze di
business
•Accoglienza
•Rispetto
•Riconoscimento
Bene-stare personale
Benessere organizzativo
ed identificazione
Efficienza
Efficacia
Leverage sui
processi HR
Leverage sui
business process
Fattori predittivi
dell’engagement 2:
Step2 - Delega
Fattori predittivi
dell’engagement 2:
Step1 - Coinvolgimento
Fattori predittivi
dell’engagement 1:
•Orgoglio
•Motivazione
•Fedeltà Sviluppo del personale
Leverage sui
processi HR
Fonte: nostre elaborazioni.
In sintesi, la buona qualità delle interazioni fra istanze e prassi di gestione del personale
(ovviamente coerenti coi vincoli di business), grazie all’influenza di rispetto, accoglienza e
riconoscimento della persona del collaboratore (diverso o meno), è in grado di supportare il bene-
stare della persona nell’organizzazione. La somma e la reciproca influenza di questi bene-stare
personali porta ad un certo grado di benessere organizzativo e d’identificazione. Le prime ricadute
di questa dinamica, che può fare leva principalmente su politiche e processi HR, sono appunto
l’orgoglio di appartenenza, la motivazione e la fedeltà. Cioè il primo gruppo di elementi predittivi
del grado d’impegno per il raggiungimento dei risultati aziendali.
Un rinforzo dell’impegno sui risultati, può avvenire grazie ad un’ulteriore evoluzione in due fasi
dello stile gestionale (leadership). La qualità relazionale dei capi vista poco prima nei confronti dei
collaboratori può benissimo coesistere con processi decisionali accentrati. Per cui, una prima
evoluzione possibile è quella che porta ad un graduale coinvolgimento nel processo decisionale
(non nelle decisioni, la cui titolarità in questa fase non cambia), almeno per coloro che sono valutati
più capaci. La seconda fase evolutiva, attivabile grazie ad un preventivo investimento per lo
sviluppo delle capacità dei collaboratori, è quella che porta ad un uso progressivamente più esteso
non solo del coinvolgimento ma anche della delega del potere decisionale (qui cambia la titolarità
della decisione).
2.3.1 Bene-starci personale e benessere organizzativo
I risultati di ascolto, attenzione, soddisfazione quando possibile, o almeno rispettosa considerazione
delle istanze fatte dei vari segmenti della popolazione aziendale, sono sicuramente legati al grado di
capacità aziendale di sapersi valere del contributo dei collaboratori:
- all’estremo inferiore di questa capacità si sono risultati di efficienza;
16
- al suo estremo superiore c’è la generazione di innovazione e creatività.
Atteggiamenti opposti, banalmente possono creare situazioni di tensione e di disagio, di vario grado
e natura. Il loro esito è quello di rischiare di ridurre l’efficienza nell’impiego di forza lavoro e di
inibire il potenziale contributo innovativo di chi, dotato di punti di vista differenti, potrebbe
apportare anche idee per soluzioni alternative.
Di principio, nulla di nuovo, o di diverso da quanto si osserva quotidianamente nella gestione del
personale, anche in assenza di rilevanti problematiche di diversità. Lo mostrano dati e fatti, misurati
e monitorati oramai da decenni (rilevazioni della soddisfazione/motivazione dei collaboratori, studi
sulla correlazione di questi indici con quelli di prestazione complessiva aziendale). Tuttavia è anche
una percezione comune, un dato d’esperienza, che ci si sente a tutti gli effetti parte di un gruppo, di
una squadra, e si contribuisce tanto di più e tanto meglio agli obiettivi comuni se:
- si sente di essere i benvenuti (accoglienza);
- si percepisce di essere rispettati;
- in caso di difficoltà, si è supportati;
- si esperisce che, per il proprio contributo per quanto piccolo, si viene apprezzati.
Più ci si sente a proprio agio e maggiore è il contributo dato. Sia in termini di impegno sia in
termini di creatività, di idee. Maggiore è il bene-starci personale e maggiore è il benessere del
gruppo, dell’organizzazione4
.
E’ poi vero anche il contrario. Il male-starci personale, soprattutto se si è in condizione di
influenzare gli altri (come capo, imprenditore ecc.), fa ammalare l’organizzazione ed ha un’elevata
probabilità di far ammalare tutti coloro che con l’organizzazione entrano in contatto.
Si potrebbe obiettare che la nostra proposta, soprattutto quando considera la mediazione di fattori
come il bene-stare personale ed il benessere organizzativo, non ha valore in momenti di crisi come
quelli attuali. Il livello di benessere (personale o di gruppo) è minacciato e disturbato fa fattori
oggettivi esterni all’organizzazione. Il tema è stato discusso, all’interno di un social network fra
professionisti HR e della consulenza aziendale, nel febbraio/marzo 2009. Le opinioni raccolte
concordano che c'è un rischio costante che il malessere sia la condizione di norma, crisi o non crisi.
Se è così, per le organizzazioni l'importante è cercare di stare sopra soglia il più possibile. Nel caso
di crisi diffusa, in cui sul contesto aziendale agiscono fattori oggettivi esterni da essa non
controllabili, è vero che non è possibile evitare l’insorgere di situazioni di disagio. Tuttavia è
possibile limitarne l’effetto, perché vi sono altri elementi su cui è sempre possibile agire:
- elementi oggettivi interni, come l’organizzazione, i processi, le relazioni fra ruoli e persone,
etc.;
- elementi soggettivi, come lo stato di benessere interiore dei singoli collaboratori.
Entrambi sono elementi sempre a disposizione dell’azienda per una gestione dello stato di benessere
interno, crisi o non crisi.
Sempre dalla discussione è emerso come è stato assolutamente fondamentale la qualità delle
modalità d’intervento sugli elementi sempre nel controllo dell’azienda (elementi oggettivi interni e
soggettivi). Gli stimoli forniti dalla discussione hanno permesso di mettere a fuoco alcune capacità
utili allo sviluppo di una modalità di intervento efficace, elementi fra l’altro del tutto coerenti con
una gestione inclusiva delle differenze:
- stile aperto a discussione/confronto, che accetta le sfide del pensiero differente;
- capacità di utilizzare l'intelligenza collettiva in tutte le sue articolazioni (o differenze);
- capacità diffusa di adattamento, una capacità presente nelle persone ma che è agita solo a
condizione di poter contare su almeno alcuni riferimenti positivi (in questo senso va curata).
4
I comportamenti collettivi e personali positivi, fra l’altro, sono molto più efficaci, della paura e di forme pervasive di
controllo, nel mantenere in linea eventuali profili personali con problemi di adeguato rendimento. Casi estremi questi
ultimi, che come tali non dovrebbero (!), in alcun modo, stimolare l’opposto affermarsi di uno stereotipo del
collaboratore come: soggetto naturalmente propenso a non impegnarsi.
17
Il modello proposto nella Figura 2, quindi, sembra non essere invalidato da situazioni di crisi come
quella attuale. Potenzialmente può essere solo parzialmente indebolita l’efficacia di una buona
gestione del personale e di adeguati stili di leadership.
A tale proposito, esiste anche una recentissima verifica empirica (Itsg, 2009). Il consorzio Itsg
(aziende multinazionali del settore Itc) ha effettuato nel marzo 2009 una serie di verifiche presso le
aziende che lo compongono e che avevano appena terminato un sondaggio per stimare
l’engagement dei propri collaboratori. Il bisogno della verifica nasceva dall’osservazione che, pur
alla presenza di una pesante crisi, alcuni sondaggi mostravano un incremento dell’impegno e della
soddisfazione. Ben 8 aziende avevano già effettuato questo tipo di sondaggio: 4 di esse non avevano
rilevato peggioramenti; altre 4 avevano addirittura rilevato notevoli miglioramenti. Interrogate sul
perché di questi risultati (stabilità se non miglioramento), almeno la metà di esse hanno citato come
elemento concorrente l’adattamento psicologico alla situazione generale di maggiore insicurezza
(“visto come va ad altri e come sto io, non è poi così male”). D’altro canto, tutte hanno concordato
che questo adattamento non spiega, da solo, tutti i risultati riscontrati. Certamente può spiegare una
minore propensione alla ricerca di un nuovo lavoro (fedeltà), o una maggiore soddisfazione per i
trattamenti ricevuti. Ma certo non spiega il maggiore apprezzamento della leadership dei capi
intermedi, della comunicazione, del coinvolgimento ecc. Tutti fattori su cui, al contrario, hanno
influito il persistere o l’ulteriore miglioramento, anche in situazione di crisi, di buone prassi di
gestione, delega, coinvolgimento, riconoscimento delle differenze.
2.3.2 Istanze, coinvolgimento, delega e performance
Il prerequisito principale per sfruttare la presenza di istanze differenziate, ai fini di una migliore
performance aziendale, facendo leva sui processi di business, risiede in un atteggiamento, da parte
di chi detiene la responsabilità delle scelte (capi, manager, imprenditori), non solo di apertura ma di
ricerca attiva, addirittura di stimolo.
Nel caso delle interazioni fra istanze e prassi gestionali del personale, forse potrebbe essere
sufficiente un atteggiamento reattivo (ad esempio di risposta a crisi o quasi-crisi generate dalle
stesse differenze). Nel caso dei processi di business è sempre pericoloso attendere una loro crisi. In
questo caso, poi, è difficile attendersi che si vada alla ricerca, nella diversità dei punti di vista dei
propri collaboratori, di fonti di ispirazione per un recupero. Nei momenti difficili è più probabile
che si veda un accentramento dei processi decisionali anziché una loro apertura, addirittura quando
tale apertura è in opposizione agli stili gestionali preesistenti.
Non si delega per fare più contenti i collaboratori. Ci si arriva tramite un percorso, ed una
disciplina. Ci si arriva attraverso l’impiego di risorse ed attenzione. E’ un percorso graduale, forse
anche segnato da insuccessi momentanei, conflitti e delusioni inattesi. Si può iniziare col
coinvolgimento dei più capaci. Questo esempio può fungere da stimolo per altri che dovranno
essere però supportati nello sviluppo di capacità adeguate. Sarà così possibile un allargamento del
coinvolgimento ad una popolazione sempre più competente ed efficace. Caratteristiche che sarà
opportuno cominciare a valutare sistematicamente (valutazione delle prestazioni, in termini di
raggiungimento degli obiettivi ed adozione di comportamenti ritenuti benefici per l’organizzazione
nel suo complesso). Quindi si potrà arrivare alla delega di parte delle decisioni, ai collaboratori in
grado di prenderle.
L’effetto di un simile processo, in modo del tutto naturale, sarà l’incremento dell’impegno nel
raggiungere gli obiettivi. D’altro canto, in modo altrettanto naturale, comporterà il sorgere di sfide
per l’organizzazione e per chi la gestisce. Più persone saranno autorizzate a dire le loro e si
aspetteranno di essere ascoltate. Si aspetteranno che le loro idee siano almeno prese in
considerazione, discusse, valutate. E se scartate, si aspetteranno che siano spiegate le
argomentazioni o le motivazioni della scelta. Se il sistema di coinvolgimento sviluppo e delega non
è stato discriminatorio, sarà possibile che le persone che hanno voce nei processi decisionali siano
18
anche molto diverse fra loro. Alcune di queste diversità di pensiero, sicuramente trarranno spunto
dall’appartenere a qualche segmento di diversità: a causa del vissuto anche molto distante da quello
della maggioranza.
Il primo percepito è la complicazione gestionale, dato che solitamente scoraggia dal procedere oltre.
Tuttavia, in che senso la disponibilità di una pluralità di voci si può tramutare in un patrimonio di
conoscenze, in grado di più-che-ripagare la percezione di un surplus d’oneri gestionali? Se le realtà
organizzative agissero in contesti tutto sommato stabili, o comunque ben conosciuti, effettivamente
questa pluralità di voci forse avrebbe un valore molto limitato. Il punto è che il nostro contesto ha
sempre più caratteristiche del tutto opposte. Né è prevedibile che si stabilizzi in futuro. In queste
condizioni, nessun imprenditore da solo, nessun ristretto gruppo manageriale isolatamente, è in
grado di affrontare con efficacia costante le sfide del cambiamento e dell’incertezza. Esiste sempre
un rischio rilevante di non cogliere i segnali di pericolo giusti, o in tempo. Di non individuare le
opportunità, o di saperle sfruttare in tempo. La disponibilità di un’intelligenza diffusa serve proprio
a mitigare questi rischi ad aumentare la probabilità di cogliere queste opportunità. Da un lato serve
ad individuare in modo efficace e tempestivo i segni del cambiamento. Dall’altro, serve a riportarli
nelle sedi giuste, per concorrere ai processi decisionali più rilevanti. Contemporaneamente
permette, se necessario, una reazione locale ed immediata, autonoma, per contenere/sfruttare gli
eventi, con effetti più limitati e controllabili. Questa reazione locale, infatti, persino al di là
dell’esito (di ridotta rilevanza per il complesso dell’organizzazione, se il sistema di deleghe sarà
stato correttamente attuato), una volta ben analizzata ed intesa, potrà costituire un utile pilota per la
comprensione di nuovi fenomeni in corso!
Il nostro Paese possiede già un rilevante capitale di diversità costituito da un’elevatissima
percentuale di personale femminile con elevata e pregiata scolarità, da 20 gruppi nazionali e 150
lingue. Inoltre ha le basi per costruirsi una robusta capacità di mediazione interculturale (10% di
matrimoni misti, 12% delle nascite da coppie miste, 3% delle imprese guidate da immigrati con un
tasso di crescita del 10% anno, 6.7% della popolazione è straniero).
Facendo leva su questo capitale, in concreto, i contributi di maggior efficacia ed innovazione che
possiamo attenderci da parte dei possessori di un punto di vista differente sono molteplici (SHRM,
2001). Le competenze interculturali (cultura azienda o paese) sono un patrimonio di base
potenzialmente utile per il successo di processi di fusione, acquisizione, partnership fra aziende o
parti di organizzazione differenti. La comprensione degli habits, delle lingue e delle tradizioni di
segmenti nascenti del mercato nazionale, possono contribuire al miglioramento del risultato
commerciale di molte aziende. Inoltre, l’apprendimento di come questa comprensione può portare a
migliori risultati può incrementare la capacità organizzativa di adattarsi a nuove sfide e differenti
contesti. Lo sviluppo di relazioni commerciali con i paesi d’origine dei nostri immigrati, al di là del
supporto che può venire dalle relazioni fra stati, sarebbe grandemente facilitato dalle loro reti di
relazioni personali, nonché dalla capacità di mediazione e dalla fiducia che potremmo già aver
sviluppato con loro, anche con ricadute sulla soddisfazione dei clienti. La presenza di generazioni
differenti permette, anche con modalità informali, il trasferimento e la permanenza in azienda di
conoscenze ed esperienze che altrimenti andrebbero perdute. L’attenzione e la valorizzazione delle
differenze aumenta il valore dell’employer branding in particolare (capacità di attrarre le persone
più capaci, riduzione del turn over indesiderato e quindi inferiori costi di sostituzione, ecc.) e del
brand aziendale in generale. Si riducono gli oneri per contestazioni e cause legali (SHRM, 2008).
2.4 Politiche HR: snodo fra istanze e performance aziendale
La lista per la spesa della funzione HR è pronta. Un’iniziativa volta allo stimolo di una maggiore
capacità aziendale di gestire in modo inclusivo le eventuali differenze presenti e rilevanti, o di
reperirle pro-attivamente sul mercato, in coerenza con lo schema della Figura 2 deve proporsi di:
19
- influire sul cambiamento/miglioramento dello stile di gestione dei responsabili, sapendo fornire
le motivazioni per una maggiore trasparenza, una maggiore capacità di ascolto, una disponibilità
ad accettare (se non addirittura stimolare) le sfide ad un modo di fare le cose consolidato, un
maggior grado di coinvolgimento e delega;
- ottenere la destinazione di adeguate risorse per favorire lo sviluppo delle capacità gestionali e la
comprensione del business, da parte dei collaboratori e dei capi ai vari livelli;
- assicurare un uso efficace delle risorse destinate (tempo dei capi ed economiche), attraverso
l’implementazione di un sistema efficace e pratico di valutazione della performance e di
riconoscimento dei risultati (sia personale che complessiva).
Di per sé, questi elementi non si differenziano in nulla dalle normali aspettative aziendali di
adeguatezza rispetto ad una buona funzione HR. L’unica novità, se vogliamo, è che questi elementi
sono messi al servizio di un elemento addizionale di attenzione, rispetto alle usuali attività di
sviluppo del capitale umano posseduto: il suo grado di diversità.
Rispetto a questa sfida, come si pongono i responsabili italiani delle funzioni HR? Al momento, non
ci è ancora stato possibile effettuare una verifica diretta. Abbiamo cercato di orientarci traendo
spunti dai risultati 2006 della ricerca (II edizione) “Dove va la Direzione Risorse Umane:
evoluzione del ruolo e delle competenze” (GIDP, 2006).
Alla ricerca, effettuata tramite sondaggio dei responsabili di funzione HR iscritti alla associazione
professionale GIDP, in prevalenza (64%) avevano risposto aziende di dimensione media-grande
(segmento da 100 a 1000 collaboratori), molto spesso sedi italiane di multinazionali straniere (43%)
ed appartenenti sostanzialmente (54%) ai due settori metalmeccanico e commercio/ terziario.
Nella maggioranza dei casi (58%) i responsabili HR facevano parte del Comitato Direttivo della
loro azienda (o organismo equivalente): quindi erano in grado di influenzare il gruppo manageriale
di vertice5
. Inoltre ritenevano che, in prospettiva, le loro soft skill più importanti avrebbero dovuto
essere: gestione conflitto, innovazione e leadership. In quanto, già nel medio termine, ritenevano
che i loro obiettivi più importanti sarebbero stati: l’efficienza/efficacia dell’organizzazione
aziendale, subito seguita da qualità di clima e comunicazione interna. In questi termini, opportunità
e sfide prefigurate dai responsabili HR in Italia, già nel 2006 sembrano essere coerenti con un ruolo
di stimolo di un cambiamento culturale come quello da noi proposto.
Fortunatamente la ricerca esplorava anche due elementi più specifici, utili per testare il grado di
specifica attenzione al tema della diversità. In questo caso, purtroppo, i risultati ispirano meno
ottimismo, in quanto sembrano evidenziare una probabile mancanza di consapevolezza del tema
diversità come fonte di rischi/opportunità. I due temi indagati sono quelli degli over 50 (differenze
di età) e dell’impatto, sulle politiche HR, dell’allargamento della EU (differenze interculturali). Il
problema degli over 50 non è sentito nel 77% dei casi e, quando è percepito, è pensato
sostanzialmente (69%) in termini di incentivi all’uscita. Il 59% dei partecipanti pensa che
l’allargamento della EU non avrà impatto sulle politiche HR. Nei casi in cui è pensato come
rilevante, è inteso principalmente come necessità di sviluppare la capacità di supportare
tecnicamente le de-localizzazioni (66%). A dire il vero c’è subito dopo (53%) la percezione di
dover affrontare un tema di diversità, ma questa diversità è pensata innanzitutto come diversità
normativa, e quindi di trattamenti da dover armonizzare.
Varrebbe senz’altro approfondire tramite ulteriori ricerche l’impressione problematica che se ne
trae. Sembra essere all’opera una sottovalutazione di importanti dinamiche demografiche. Anche
ammesso, a voler essere prudenti, che per ora esse abbiano portato ad una diffusa differenziazione
degli organici aziendali solo in alcuni settori (geografici o merceologici), tutte le stime e le
valutazioni disponibili indicano che lo stesso effetto si diffonderà in modo del tutto generale in un
tempo relativamente breve.
Per quello che è lo scenario delineato, sembra quindi di poter concludere che la funzione HR ha sia
l’opportunità (è parte del team di vertice), che gli stimoli (è coinvolta in obiettivi di efficienza,
5
In area anglosassone, un sondaggio del 2001 (SHRM, 2001) forniva indicazioni similari, con il 56% delle risposte
affermative alla domanda: “Nella mia organizzazione, HR è vista come un partner strategico del business”.
20
efficacia, clima e qualità della comunicazione), che la conoscenza di alcuni degli strumenti
necessari (gestione conflitto, innovazione e leadership) per farsi promotrice di una svolta nella
capacità delle aziende di gestire in modo inclusivo ed utile per il business le differenze. Viceversa,
ciò che appare ancora critico è il livello di consapevolezza. Consapevolezza dei processi di
differenziazione in corso, delle loro tempistiche, delle conseguenze potenziali (rischi/opportunità),
sia per l’ambito delle prassi di gestione del personale sia per quello più ampio delle prestazioni
aziendali. Tutti temi che abbiamo cercato di delineare nel nostro breve studio.
Se così fosse, la proposta che facciamo rischierebbe di trovare un uditorio non sufficientemente
predisposto. Questa prospettiva, tuttavia, anziché sminuire la potenziale utilità della proposta, ci
convince ancor più della sua tempestività e pertinenza, suggerendo alla funzione HR di scendere in
campo direttamente ed il più presto possibile. Se il problema è quello di un ritardo, o di un non
sufficiente livello, di consapevolezza, infatti, siamo ancora in tempo per stimolare una discussione
ed un confronto i più ampi possibili attrezzando la funzione HR per quel ruolo di partner strategico
del business da tante parti suggerito, reclamato o auspicato.
Ruolo e strumentazione sono all’altezza. Se la consapevolezza è l’ostacolo principale, nel prossimo
paragrafo, attraverso il racconto di casi empirici molto semplici, cercheremo di capire come può
emergere questa consapevolezza. L’auspicio è che, da tale semplicità, forse banalità di questi casi,
nasca un concreto incoraggiamento per attivare quel piccolo innesco da cui possono nascere e
svilupparsi grandi esperienze.
3. Consapevolezza, azione e miglioramento
In questo paragrafo esporremo brevemente due casi. Il primo relativo alle differenze di genere, il
secondo alle differenze di età. I casi sono volutamente semplici. Siamo convinti, per prima cosa,
che è possibile introdurre miglioramenti significativi anche con piccole azioni generate da una
scintilla di consapevolezza, e poi che è su questi successi iniziali che più facilmente si possono
ottenere committment e risorse per sviluppi ulteriori. Inoltre, le aziende considerate erano già
dotate, in termini di politiche formali responsabilità definite e processi/prassi attente a temi di
Diversità. Siamo convinti che in caso di avvio di un’iniziativa sul tema della Diversità, non solo per
chi comincia da zero, ma anche nei casi più strutturati, se siamo alla presenza di mancanza/carenza
di consapevolezza, si rischia di consolidare una cultura della conformità anziché del risultato e
dell’efficacia.
3.1 Differenze di genere: consapevolezza delle forme sottili di prevenzione
3.1.1 Descrizione dell’azienda
Il primo caso che consideriamo è quello di un’azienda di grandi dimensioni, sede italiana di una
multinazionale straniera con sede principale (casa madre) in un paese nord europeo. La legal entity
italiana, presente nel nostro paese da decenni, ha un ampio portafoglio di prodotti e servizi, gestito
tramite più divisioni di prodotto. Il profilo funzionale prevalente delle divisioni è
commerciale/service, ma in alcune di esse sono presenti anche fasi produttive (tipicamente
assemblaggio) o fasi di sviluppo di prodotti/soluzioni (R&D, integrazione ecc.). Negli ultimi anni,
hanno avuto luogo non poche acquisizioni, facendo sperimentare anche i problemi legati
all’integrazione di differenti culture aziendali. Il mercato di riferimento è in genere quello italiano,
ma è presente anche un certo grado di esposizione all’estero. Infatti, parte dei materiali assemblati è
oggetto di interscambio con altre sedi estere della casa madre, alcune divisioni hanno anche un
ruolo di coordinamento degli sforzi commerciali a livello regionale europeo, ed una divisione
21
realizza metà del suo fatturato in più paesi esteri. La legal entity italiana ha responsabilità di profitti
e perdite complessivi, perciò tutti i business sono rappresentati nella Direzione, dove ha luogo lo
scambio delle rispettive esperienze. La funzione HR è articolata in ruoli specialistici centralizzati e
funzioni di gestione del personale di divisione. Queste ultime collaborano a stretto contatto coi
vertici delle divisioni. La casa madre ha sviluppato e diffuso da diversi anni politiche in tema di pari
opportunità, non discriminazione e promozione delle differenze come potenziale fonte
d’innovazione per il business. Le modalità di applicazione di queste politiche sono oggetto di audit
di processo periodici (due-tre anni). La casa madre li effettua nei vari paesi, tramite team
interfunzionali ed internazionali.
3.1.2 L’esposizione alle differenze
La sede italiana ha una percentuale degli organici impiegatizi di genere femminile pari a circa il
22%. Un’analisi di questa popolazione, approntata poco prima di uno degli audit di processo della
casa madre, conferma che essa è distribuita in modo praticamente omogeneo in quasi tutte le
funzioni aziendali. In particolare quelle commerciale, service e R&D. La verifica dei livelli di
scolarità ha riscontato una sostanziale similarità con la distribuzione dei livelli scolari della
popolazione di genere maschile (il 49% delle donne è laureata rispetto ad un 53% dei maschi), sia
complessivamente, sia per funzione, in particolare nelle aree commerciali e di R&D. Anche una
verifica delle età anagrafiche (correlabili con l’anzianità lavorativa) non ha evidenziato particolari
sbilanciamenti fra i due generi per età inferiori ai 40 anni (al di sopra di questa età, le donne laureate
sono solo il 17% rispetto al 34% degli uomini: potremmo chiamarla una testimonianza fossile di
una precedente epoca, e dell’azienda e della società del paese). Un sostanziale allineamento è
emerso nuovamente nelle aree commerciali e di R&D, a causa della forte crescita dei loro organici
negli ultimi anni, grazie ad intense campagne d’assunzione di neolaureati d’indirizzo tecnico ed
economico. L’utilizzo di forme contrattuali a tempo limitato (part time) è ridotta (solo un 3% ne
fruisce) ed è concentrato nel segmento di genere femminile.
L’esposizione alle differenze di questa azienda non è trascurabile. Sono presenti differenze di età
significative (lunga presenza in Italia e recenti intense campagne d’assunzione per neolaureati). I
business presenti sono molto differenziati in quanto a tecnologie, mercati di sbocco, struttura delle
divisioni, e si confrontano fra loro nella Direzione. C’è una certa esposizione estera e sono state
fatte diverse acquisizioni. Il tema interculturale (azienda, paese) ha potuto esercitare le sue
influenze, sia in termini di rischi che di opportunità. La differenza di genere è una delle tante ed alla
sua base non presenta disomogeneità di fattori rilevanti (scolarità e tipologia di studi, esperienza
lavorativa) ai fini dell’efficacia dell’azione lavorativa delle persone appartenenti ad un genere
anziché all’altro.
3.1.3 Il caso
Agli inizi degli anni 2000, in quest’azienda il numero delle donne con qualifica di dirigente è pari a
6. Sono in organico principalmente a funzioni centrali (3), di supporto al business e in aree R&D
(2). Nessuna siede nel Comitato Direttivo, presieduto dall’amministratore delegato. In termini
percentuali, solo l’1% delle donne è dirigente contro il 10% dei maschi. La situazione a livello di
qualifica di quadro appare migliore: il 9% delle donne è quadro contro il 18% dei maschi. E’
interessante un altro elemento: fra le donne quadro, solo il 17% ha una quota di retribuzione
variabile legata ad obiettivi di performance. Nel caso dei maschi l’incidenza sale al 41%. Siamo
quindi alla presenza di fattori segreganti, sia retributivi sia di tipo verticale (posizioni di
responsabilità), non correlabili a fattori oggettivi (età, scolarità tipo e livello, forme contrattuali).
22
La funzione HR decide di impegnarsi in un riesame delle cause della situazione. In una prima fase,
sono state evidenziate tutta una serie di aree di possibile intervento: presidio dei processi di gestione
del personale, incremento delle modalità di lavoro flessibile accompagnate da interventi di change
management sui capi, supporto al periodo di post maternità (es. asili nido convenzionati), ed alcune
iniziative sono effettivamente partite. In particolare, il monitoraggio del processo di nomina alla
dirigenza.
Questo processo prevedeva la raccolta delle candidature presentate dai capi, soddisfacenti alcuni
requisiti oggettivi (es.: età massima non superiore ai 40 anni, livello di performance eccellente negli
ultimi due anni ecc.), la loro valutazione secondo una metrica costituita da una decina di parametri
(livello di scolarità, esperienza internazionale, lingue conosciute, etc.) di peso relativo differenziato.
Fra i parametri era compreso anche il risultato di un assessment di due giorni, effettuato da un
soggetto terzo indipendente dall’azienda. Sulla base di questa metrica, ogni candidatura aveva un
punteggio complessivo di valutazione, che serviva per stilare una graduatoria. La graduatoria era
presentata al Gruppo Manageriale Ristretto (3 dirigenti di vertice), con compiti fondamentalmente
di garanzia, il quale accertava quali candidature non potevano procedere a causa del mancato
superamento di una soglia minima per il punteggio complessivo. La graduatoria era presentata al
Consiglio di Amministrazione della società che la vagliava considerando il vincolo del numero
massimo di nomine fissato per l’anno.
Il processo di screening delle nomine era effettuato di concerto fra HR ed i responsabili delle
funzioni proponenti le candidature. La valutazione formale, utilizzando la metrica, era effettuata
dalla funzione HR ed era sempre HR che presentava la graduatoria delle candidature al Gruppo
Manageriale Ristretto. HR, quindi, era un attore fondamentale e governava buona parte del
processo. Per la questione che qui ci interessa, la fase critica è risultata essere quella di screening
delle candidature, prima dell’avvio della loro valutazione formale. In questo momento, oltre ai
parametri pertinenti (es la performance), si faceva un gran parlare anche di aspetti collaterali legati
alle persone dei candidati: comportamenti, stili, eventi della loro vita privata che loro stessi/e
avevano portato a conoscenza dei responsabili.
Due di questi aspetti collaterali sono risultati particolarmente frequenti: il grado di visibilità, in
particolare in termini di face time (disponibilità indefinita a restare sul luogo di lavoro) e vicende
personali legati alla maternità. Il primo aspetto, in modo del tutto generale risultava favorevole alle
candidature maschili. Il secondo tendeva a svantaggiare quelle femminili. Nessuna di queste
considerazioni trovava spazio nelle fasi successive del processo di nomina. Ma in fase di screening,
quando un responsabile di linea tendeva a presentare più candidature di quante avesse senso far
entrare nel processo formale, quasi inevitabilmente intorno alle candidature femminili si veniva a
creare un’aura di dubbio. Le candidate risultavano essere molto meno propense al face time. Inoltre,
in un modo o nell’altro, erano spesso in una qualche fase della maternità: dopo il terzo mese,
prossime al periodo di assenza obbligatorio, in assenza obbligatoria, in permesso di maternità, con
due figli da gestire, etc. Anche in considerazione che la soglia di 40 anni portava il range di età utile
per la candidatura proprio nella fascia d’età fertile effettiva, di fatto, per donne laureate (30-40
anni). Di fronte alla scelta di limitare da cinque a due le candidature da mandare oltre, quelle
maschili predominavano nettamente (se non esclusivamente). Inoltre, non era trascurabile il caso
che la stessa funzione HR, considerando il peso dell’assessment e per mettere nelle migliori
condizioni la candidata, magari preferiva rimandare ad una sessione di valutazione successiva
l’impiegata notoriamente incinta. Il che si traduceva, in caso di fruizione di permessi di maternità in
ritardi anche di due anni, spesso nello scivolamento (se non nella fuoriuscita) dalle liste di priorità
delle funzioni di appartenenza (anche a causa di non infrequenti cambi di ruolo al rientro della
maternità e quindi di parziale riavvio della carriera). Talvolta non c’erano rientri, causa l’assenza di
supporti alla prole (cui fra l’altro uno stipendio da dirigente almeno in parte avrebbero potuto
supplire) e soprattutto i mancati stimoli di carriera.
A questo punto, l’anno successivo, la funzione HR si è imposta un codice di comportamento in
maniera tale da evitare, scoraggiare, sminuire, non dare seguito ad ogni tipo di discussione non
23
pertinente coi parametri di valutazione, soprattutto in fase screening. Al termine del processo di
quell’anno, su dieci nomine effettuate 5 erano di genere femminile, tutte in funzioni di business o
R&D, ed una delle neodirigenti era rientrata dalla maternità da appena tre mesi, peraltro avendo
sostenuto l’assessment poco prima di entrare nel periodo di assenza previsto per legge.
3.2 Differenze di età: opportunità dai più giovani
3.2.1 Descrizione dell’azienda.
Il secondo caso che consideriamo è relativo ad un’azienda di dimensioni medio/grandi, questa volta
di proprietà italiana. La società opera nel settore degli apparati elettronici. Emerge con un
portafoglio prodotti completamente rinnovato da un impegnativo processo di riconversione
tecnologica (da tecnologie elettromeccaniche ad elettronica digitale), che l’ha impegnata per tutta la
prima metà degli anni ‘80. L’evoluzione delle sue tecnologie ha avuto un pesante impatto sui suoi
organici. Da un lato si sono ridotti della metà. D’altro canto, un processo di cambio mix ancora più
lungo, durato sino alle soglie degli anni ’90, le ha permesso di acquisire collaboratori dal mercato,
principalmente neolaureati, con le professionalità adeguate alle nuove esigenze. Al termine di
questo processo, semplificando si potrebbe dire che nel suo corpo devono convivere due anime.
Quella rappresentata dalle vecchie generazioni, che devono portare a termine il processo di
cambiamento principalmente nella dimensione culturale, e quella della nuova generazione, dotata
delle nuove competenze tecniche, aperta a forme più moderne di organizzazione e collaborazione
ma ancora di limitata esperienza. L’azienda è integrata verticalmente: dallo sviluppo dei prodotti,
alla loro fabbricazione, alla vendita, installazione e servizio post vendita. La trasformazione
dell’azienda è stato un processo sostanzialmente interno: non hanno avuto luogo acquisizioni o
partnership (alcuni progetti significativi non hanno avuto seguito). Il mercato di riferimento è per il
95% quello italiano. La società ed i suoi clienti provengono dall’area delle partecipazioni statali.
3.2.2 L’esposizione alle differenze
L’esposizione alle differenze di questa azienda è concentrata principalmente sull’età. E’ rilevante
anche una differenza di genere. Tuttavia, data la predominanza numerica di personale femminile
nelle aree operaie e l’ancora ridotta presenza nelle aree tecniche e commerciali, le tematiche
sensibili a riguardo sono ancora principalmente quelle della turnazione e della segregazione
salariale. E’ anche vero che, per scelta dei vertici aziendali, alla tematica delle pari opportunità è
data una grande enfasi, sia interna che esterna. Così, sebbene il metodo con cui le istanze di genere
sono affrontate sia quello tradizionale delle Relazioni Industriali, mediante accordi integrativi
aziendali, alcuni accordi sono ispirati da approcci per l’epoca particolarmente innovativi.
3.2.3 Il caso
Il processo di evoluzione culturale ed integrazione generazionale non si è ancora concluso. A
cavallo della metà degli anni ’90, si ha un'altra evoluzione tecnologica con potenziale impatto
rilevante per le modalità di lavoro e di collaborazione. Rapidamente, in un biennio, le postazioni di
lavoro si popolano di personal computer. La logica precedente era quella delle postazioni client, con
quasi nulla potenza di calcolo locale, rapporto fra postazioni e utenti pari a 1:5 anche nelle aree più
tecniche, utilizzo del terminale praticamente confinato ai tecnici o agli operativi (es.
amministrazione, acquisti, logistica…), controllo delle attività di gestione e dei progetti basato su
24
Diversity: Prospettive (2009)
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Diversity: Prospettive (2009)

  • 1. INDICE Diversity Management – Prospettive e criticità Introduzione Capitolo 1. Il Diversity Management: un’opportunità di sviluppo per l'organizzazione e il benessere delle risorse umane 1.1 Il processo di mutamento del sistema impresa e la centralità della persona nell’organizzazione di lavoro. 1.1.1 I vantaggi organizzativi di una filosofia manageriale che valorizza le diversità 1.2 Concetti di Differenza e Gestione delle Differenze 1.2.1 Concetto di Differenza 1.2 .2 Evoluzione storica del concetto di Gestione delle Differenze 1.3 Concetto teorico di riferimento per la Gestione delle Differenze e sua problematicità 1.4 Specificità del caso italiano? Capitolo 2. Differenze e gestione aziendale 2.1 Le Differenze di maggior rilievo per la realtà italiana 2.2 Bisogni, necessità ed aspettative generati dalle differenze. 2.2.1 Istanze del personale e prassi di gestione del personale 2.2.2 Istanze del personale e processi di business 2.3 Istanze del personale e performance aziendale 2.3.1 Bene-starci personale e benessere organizzativo 2.3.2 Istanze, coinvolgimento, delega e performance 2.4 Politiche HR, istanze e performance aziendale.. Capitolo 3. Consapevolezza, azione e miglioramento 3.1 Differenze di genere: consapevolezza delle forme sottili di prevenzione. 3.1.1 Descrizione dell’azienda 3.1.2 L’esposizione alle Differenze 3.1.3 Il caso 3.2 Differenze di età: opportunità dai più giovani. 3.2.1 Descrizione dell’azienda 3.2.2 L’esposizione alle Differenze 3.2.3 Il caso Conclusioni Bibliografia 1
  • 2. Diversity Management – Prospettive e criticità Introduzione Il tema del Diversity Management o, come più ci piace tradurre, della Gestione delle Differenze, è un tema ampiamente trattato in letteratura almeno a partire dagli 60’, anche se le sue radici sono molto più antiche (il tema razziale e della schiavitù, il tema dell’emancipazione femminile datano almeno al XVIII secolo). In questi ultimi 50 anni, il suo significato ha subito evoluzioni e cambiamenti sostanziali. Inoltre si è ampliato e differenziato lo spettro, la varietà, delle differenze considerate. Infine, l’interrogarsi sul tema della gestione delle differenze si è intensificato (dal contesto politico- sociale a quello aziendale a quello delle relazioni interpersonali), sino a diventare argomento quasi quotidiano di confronto sugli organi di comunicazione e fra le persone. A parte brevi cenni storici su evoluzione – differenziazione – estensione del significato dei termini Differenze e Gestione delle Differenze, cercheremo di delineare quelle che a nostro parere sono le principali criticità e prospettive in questo ambito, soprattutto nel contesto delle organizzazioni aziendali orientate al profitto; altre realtà organizzative, come quelle no profit o di servizio pubblico, hanno specificità tali da dover prudentemente essere considerate a parte. A tale riguardo si rimanda anche all’interessante studio di I. Castiglioni (Castiglioni, 2009). Partiremo da una rapida analisi del processo di mutamento del sistema impresa e della cultura manageriale, facendo riferimento all’affermazione del paradigma antropocentrico, per giungere ad una definizione, più ampia ed attuale possibile, dei concetti di Differenza e di Gestione della Differenza. Cercheremo di individuare quali differenze più di altre sembrano porsi come sfida o opportunità per il contesto aziendale in Italia. Proporremo uno schema che aiuti a: - interpretare come interagiscono con processi/prassi organizzative; - comprendere come possono influire sui risultati complessivi di performance. Quindi analizzeremo come la funzione HR possa giocare un ruolo di promozione di prassi tese a valorizzare le differenze. Due specifici casi aziendali saranno brevemente descritti per confrontarsi sulle modalità, spesso semplici, con cui è possibile in pratica sbloccare apparenti situazioni di empasse nella gestione di alcune differenze. Ove possibile, cercheremo di dare cenni sulle somiglianze, o sulle specificità, del panorama che si presenta in Italia rispetto ad altri paesi. La metodologia d’indagine utilizzata è in parte costituita da ricerca bibliografica ed in parte basata sulla raccolta e l’analisi delle opinioni di attori organizzativi. Nell'ambito della ricerca bibliografica sono state utilizzate in larga misura risorse e strumenti reperibili sul web. Sono stai utilizzati siti di istituzioni, società di consulenza, associazioni professionali, stampa on-line. La maggior parte delle opinioni analizzate è stata raccolta tramite interazioni (o l’osservazione di interazioni) all’interno di Social Networks e di forum d’associazioni (ad esempio: LinkedIn, InterNations, Associazione italiana per la Direzione del Personale - AIDP, Society for HR Management - SHRM). Il metodo per sua natura non fornisce evidenze quantitative per le ipotesi che formuleremo nel corso dell’analisi. In tal senso, le conclusioni dello studio sono proposte come elementi, spunti aperti, per ulteriori riflessioni e discussioni. In quello che del resto, proprio in considerazione della natura del nostro tema, non può che intrinsecamente essere, secondo noi, un continuo, senza termine, dialogo e confronto. Nello scegliere tale metodo, volutamente ci siamo assunti una quota parte di rischio, rischio legato fra l’altro alla volatilità (di vario grado) delle fonti stesse. Del resto, il web è oramai diventato, e sempre più tenderà a divenire, uno degli strumenti principali attraverso cui si forma, e si trasforma, la nostra percezione della realtà meno prossima, meno direttamente oggetto della nostra testimonianza. La capacità di utilizzare e discriminare le sue fonti, di venire a patti con la velocità e l’accelerazione con cui sono prodotte, e con cui ci rimandano nuove immagini di ciò che noi 2
  • 3. assumiamo come “la realtà che ci circonda”, in se costituisce una delle nuove “soft skill” che crediamo tutti noi dobbiamo abituarci ad esercitare. 1 Il Diversity Management: un’opportunità di sviluppo per l'organizzazione e il benessere delle risorse umane 1.1 Il processo di mutamento del sistema impresa e la centralità della persona nell’organizzazione di lavoro È sempre più diffusa l’opinione che nel nuovo scenario economico e sociale globalizzato, interessato da un processo di profondo mutamento, rappresentato dalla rilevante pervasività dell’innovazione tecnologica, da un costante sviluppo dei modelli organizzativi nonché da una profonda trasformazione dei processi produttivi, il vero vantaggio competitivo per il sistema impresa risiede nell’adozione di politiche gestionali integrate mirate ad offrire un’uguaglianza delle opportunità nella piena valorizzazione delle risorse umane, a partire dalla valorizzazione delle differenze e delle diversità che caratterizzano ciascuna persona nelle relazioni di lavoro (Cocozza, 2006). L’uguaglianza e la diversità, infatti, sono le due direttrici principali attraverso le quali si è formata la coscienza politico-sociale e lavorativa delle persone nell’attuale contesto socio-economico e culturale, a partire dal riconoscimento delle principali differenze rappresentate dal genere, dall’età, dalla provenienza etnica e quella culturale, o da quella che interessa le persone disabili. Le indicazioni che la letteratura offre sull’argomento del Diversity management sono state sintetizzate (Thomas, 1999a; 1999b) specificando tre modi attraverso cui le organizzazioni di lavoro hanno scelto di approcciarsi alla questione “diversità”: - Affermative action: si focalizza sull’inclusione e richiede un’azione speciale per correggere gli squilibri; - Valuing differences: pone l’accento sulle relazioni e su come le persone si rapportano all’interno delle organizzazioni; - Diversity management: punta a creare un ambiente che stimoli l’emergere del talento di tutti i soggetti coinvolti. Nello specifico, il Diversity management si fonda su una concezione olistica delle risorse umane valorizzando la persona su una serie di dimensioni quali: comportamentale, dove enfasi viene posta sulla costruzione di specifiche abilità e sulla costruzione di politiche che riescano a tirar fuori il meglio da ogni lavoratore; strategica, in cui i risultati di politiche di Diversity management contribuiscono al raggiungimento dei fini e degli obiettivi organizzativi e sono legati a ricompense; e sinergica, nella misura in cui il modello si fonda sull’assunto che gruppi diversi creeranno nuovi modi di lavorare insieme in modo efficace (Cocozza, 2008c). Nasce così il concetto di Diversity management, termine con cui si indica generalmente: “l’adozione di politiche del personale mirate e segmentate, tese a valorizzare le diverse necessità, i bisogni e le aspettative delle varie tipologie di persone che lavorano, in funzione del miglioramento delle performance complessive dell’azienda” (Cocozza, 2008b). In questa nuova prospettiva la vera sfida di un’organizzazione diventa la valorizzazione delle persone attraverso il potenziamento dei talenti e del patrimonio cognitivo (competencies), nel rispetto delle differenze soggettive che si profilano nell’universo aziendale. L’avvento del paradigma antropocentrico, che pone l’individuo al centro dell’organizzazione e del lavoro, è la naturale conseguenza di un processo evolutivo delle organizzazioni aziendali che ha investito tre diverse grandi dimensioni di tipo: strutturale, organizzativa e gestionale (Cocozza, 2008a, 2008b). 3
  • 4. Come è stato opportunamente sostenuto (Butera, 1988): “La gestione delle imprese, prima centrata sulla produzione, viene ora sempre più centrata sul mercato, accettando la variabilità del mercato e la conseguente varietà di prodotto che essa comporta”. In particolare nel passaggio da una economia di scala ad una economia della flessibilità cambiano radicalmente i criteri di gestione delle imprese ed assume un’accezione diversa il concetto di “efficacia economica”, intesa come la necessità di realizzare prodotti o servizi appropriati nel tempo, nel luogo e nel modo in cui gli stessi sono richiesti dal mercato e dai criteri di qualità e personalizzazione attesa dal cliente. Il sistema impresa vive profonde modifiche nella dimensione strutturale e organica in forza dell’affermazione di una serie di variabili inarrestabili, che hanno contribuito all’esplosione delle contraddizioni del paradigma organizzativo imperante a livello mondiale per oltre settant’anni. Le variabili che hanno maggiormente contribuito ad imprimere un forte impulso al mutamento sono riconducibili all’estrema pervasività dell’innovazione tecnologica, alla costante evoluzione dei modelli organizzativi, alla profonda trasformazione dei processi di regolazione dei rapporti di lavoro. Il passaggio da una filosofia gestionale fortemente ancorata ai postulati del taylor-fordismo ad una gestione più innovativa, ha determinato il collasso dell’intero apparato di norme, conoscenze e comportamenti, noto come “scientific management” (Cocozza, 2008a). Si assiste nella cultura di impresa all’affermazione di una serie di tendenze e impostazioni teoriche, del tutto antitetiche al modello taylor fordista. Innanzitutto, frana la certezza della “one best way”, ossia la filosofia che vede una sola modalità di produzione e gestione attraverso cui è possibile raggiungere, in un determinato tempo, i risultati produttivi attesi. Ad essa si sostituisce la necessità di rinvenire volta per volta l’assetto organizzativo più confacente alle specificità del mercato, nonché alle esigenze della popolazione produttiva operante in azienda (Iacci, 2004). Si supera la pregnanza del rapporto gerarchico funzionale all’interno dell’organizzazione, in favore di un progressivo decentramento delle decisioni, di un sistema di comunicazione, confronto e scambio di opinioni e proposte (organizzazione informale) non gerarchico (top down) e prescrittivo. Si assiste, poi, all’attivazione di forme di empowerment, con l’esercizio di una leadership orientata a infondere energia, a favorire autodeterminazione, a influenzare positivamente le persone, creando relazioni collaborative e non conflittuali (Cocozza, 2008a, 2008b). L’intero processo di mutamento del sistema impresa ha portato all’affermazione di nuovi modelli organizzativi orientati ai principi della Total Quality Management (TQM), della lean production, o learning organization, ove la risorsa umana smette di essere considerata esclusivamente un “costo”, per considerarsi l’unico strumento strategico indispensabile e irriproducibile, che consente di adeguare l’organizzazione interna ai mutamenti dello scenario esterno. In questa prospettiva la dimensione individuale diventa prioritaria all’interno dell’organizzazione che ha avviato al suo interno processi di snellimento, semplificazione e appiattimento delle strutture costitutive. L’economista premio nobel Theodore Schultz ha introdotto nella teoria economica neoclassica la nozione di “capitale umano”, identificando il “livello di conoscenza aggregata presente in una società che ne influenza qualunque processo produttivo” (Schultz, 1961). L’importanza di tale definizione risiede nell’aver rivisitato il ruolo dell’uomo all’interno del meccanismo produttivo, etichettato nel corso degli anni prima “forza lavoro”, poi “manodopera”, fino a “risorsa umana”, sottolineando come il valore aggiunto passasse progressivamente da una dimensione fisica ad una intellettiva e di conoscenza. La nuova impostazione teorica richiede, pertanto, alle organizzazioni un’efficace gestione del capitale umano, attraverso la valorizzazione del potenziale e delle attitudini proprie di ogni singola persona, facendo leva sulla motivazione e tenendo conto delle singole aspirazioni (Cocozza, 2008c). 4
  • 5. 1.1.1 I vantaggi organizzativi di una filosofia manageriale che valorizza le diversità In questo nuovo scenario le organizzazioni di lavoro che recepiscono l’essenza del cambiamento e la portata rivoluzionaria dei nuovi paradigmi teorici, condividono la necessità di implementare politiche di diversity, partendo dall’assunto che le diversità esistenti in ciascuna risorsa umana sono funzionali all’organizzazione nel conseguire vantaggio competitivo. Le organizzazioni che sviluppano politiche di gestione delle diversità, puntano sulla centralità dell’individuo per raccoglierne l’impegno e il consenso verso i valori e le strategie aziendali. “Oggi l’organizzazione non può esimersi dal provvedere ad investire sugli uomini che potranno dirigerla domani; deve insomma rinnovare il suo capitale umano, deve valorizzare costantemente le sue risorse umane” (Drucker ,1985). Il vantaggio competitivo viene indiscutibilmente a legarsi al valore professionale del capitale umano e al grado di motivazione impiegato da quest’ultimo nel processo di produzione. I bisogni dell’individuo e le esigenze dell’organizzazione trovano congiunta soddisfazione nel Diversity management, riconosciuto come l’anello virtuoso di collegamento e scambio tra persone e organizzazione (Cocozza, 2008b)). In un contesto come quello appena descritto risulta indispensabile ripensare il rapporto tra le persone e l’organizzazione, mettendo in campo strumenti gestionali e culturali in grado di sviluppare un senso di “cittadinanza organizzativa” che sfoci in comportamenti che supportino concretamente il raggiungimento degli obiettivi (Cuomo, Mapelli, 2007). A seguito delle recenti evoluzioni del mercato del lavoro, rapporti contrattuali sempre più flessibili hanno letteralmente preso il posto dei tradizionali contratti a tempo indeterminato, caratterizzati dalla promessa del “posto di lavoro fisso e per sempre” e dalle garanzie e tutele ad esse associate. Si sono diffuse forme contrattuali meno impegnative per le organizzazioni: Co.Co.Co, Contratti a progetto, a tempo determinato, etc. (Cocozza, 2008b, 2008c). I datori di lavoro, di conseguenza, non sono più in grado di offrire sicurezze di lavoro e opportunità di carriere a lungo termine. Per poter attrarre risorse umane sono tenuti a garantire al lavoratore un ambiente favorevole alla crescita e all’apprendimento, così che questi raggiunga l’esperienza e le competenze necessarie per incrementare la sua occupabilità nell’organizzazione o altrove (Cuomo, Mapelli, 2007). I lavoratori, diventati nomadi o multi-impiego, sono spinti a ritrovare la sicurezza e la certezza del posto di lavoro attraverso nuove forme (Elling, 1998). Ecco che, di fronte a un rapporto di lavoro contrattualmente meno rigido e standardizzato, la centralità dell’individuo in termini di costante valorizzazione e accrescimento diventa assolutamente strategica e imprescindibile per sostenere le motivazioni dei propri collaboratori e raccoglierne l’impegno e il consenso verso i valori e le strategie aziendali. Il difficile problema della contemporaneità è pertanto quello di tenere insieme particolarità e universalità, località e globalità, evitando che le istanze di universalità si traducano in omologazione totalitaria, con la conseguente riduzione della varietà di forme di vita e di cultura, di linguaggi ed intelligenze, con l’esclusione, ovvero, della possibilità di essere “altrimenti” e di pensare diversamente (Minerva, 2002). Relativamente alla creatività ed all’innovazione, bisogna tener presente che un atto creativo richiede anzitutto conoscenze, immaginazione e interazione. Le capacità delle imprese di migliorare le proprie performance innovative sono spesso limitate da una comprensione inadeguata della natura del processo creativo e dal mancato riconoscimento dei tratti individuali e delle condizioni organizzative che favoriscono la creatività (Grant, 2006). Leonard (1997) in una sua ricerca esplora la composizione e la gestione delle équipe creative, sottolineando l’importanza “dell’abrasione creativa” ossia il promuovere l’innovazione attraverso l’interazione di personalità e punti di vista differenti. I manager non dovrebbero radunare dei “cloni” ma dovrebbero prediligere la diversità delle caratteristiche cognitive e comportamentali all’interno dei gruppi di lavoro, creando “team di cervelli”. 5
  • 6. L’innovazione e la creatività molto spesso vengono travisate come elementi di instabilità nell’organizzazione mentre l’equilibrio di un sistema è frutto di un apprendimento continuo attraverso il confronto tra persone diverse. Il confronto e l’apertura a input differenti creano maggiore flessibilità per il sistema tutelando la sua sopravvivenza nel mercato. Tutto ciò consente di affermare che i progetti e le politiche di Diversity mangement trovano un terreno fertile quando gli individui singolarmente, e quindi la cultura organizzativa nel suo complesso, manifestano spiragli di apertura verso ciò che è considerato “altro”. Da quanto sopra esposto, emerge che l’affermazione di un approccio diversificato alla gestione delle risorse umane, nel quadro delle possibili e auspicabili strategie di impresa, si deve alla progressiva diversificazione della forza lavoro ed ai profondi cambiamenti in atto all’interno del mercato del lavoro, in ambito sociale, demografico, economico e culturale (Cocozza, 2008a). Nuovi e pertanto diversi sono, quindi, i fattori che permettono di garantire la motivazione, la soddisfazione, la dedizione e fidelizzazione delle risorse umane. Elementi che utilizzati sinergicamente consentono di avviare un impegno di comprensione dei nuovi bisogni di cui sono portatrici le persone. Una buona politica di retention implica un uso combinato di fattori motivazionali, retributivi, organizzativi, ambientali e formativi. La leva della Formazione, in particolare, quale strumento di valorizzazione delle risorse umane, contribuisce alla costituzione e alla sedimentazione delle competenze sia nelle persone sia nell’impresa, competenze che producono direttamente e autonomamente valore aggiunto, per la loro stessa natura di capitale raro e inimitabile (Cocozza, 2006). L’elevata presenza di knoledge workers nell’organizzazione, l’estrema varietà di competenze necessarie per il raggiungimento degli obiettivi aziendali, impone l’ingresso del Diversity Management nelle strategie d’impresa, per valorizzare quelle conoscenze e abilità che ogni persona, vista come unica e non replicabile, porta dentro di sé. In questa logica le organizzazioni sensibili al tema della gestione delle diversità hanno una maggiore capacità di trattenere al proprio interno i “talenti” caratterizzati da forte eterogeneità. In un mercato del lavoro fortemente competitivo, il capitale umano tende ad essere attratto maggiormente da realtà lavorative in cui si applicano concretamente meccanismi di valorizzazione delle specificità individuali. Tutto ciò consente di asserire che le imprese che scelgono di investire nel Diversity management, puntando sulla valorizzazione delle risorse umane in quanto fonti potenziali di vantaggio competitivo, individuano una risposta organizzativa per ottimizzare la gestione del proprio business e migliorare il clima e il benessere dell’organizzazione. 1.2 Concetti di Differenza e Gestione delle Differenze 1.2.1. Concetto di Differenza Secondo il “Glossario dei Termini HR” della Society for HR Management - SHRM per Differenza si intende “una definizione ampia di Differenza spazia da:la personalità e gli stili di lavoro; a tutte le dimensioni visibili quali razza1 , età, etnia o genere; alle influenze secondarie quali la religione, gli aspetti socio economici e la scolarità; alle differenze correlate alla organizzazione del lavoro quali l’appartenere al gruppo manageriale anziché al sindacato, il tipo o il livello della funzione, la prossimità o meno agli Head Quarter…” (Tracey, 2007). Questa definizione evidenzia una struttura ben definita della differenza, sostenuta anche altrove in letteratura (Gardenswarts, Rowe,1994). Secondo questa struttura, possiamo osservare che la prima 1 Razza: con questo termine, negli Usa si fa riferimento al problema di relazione fra le popolazioni bianche e quelle afroamericane. Come tale non ha un corrispettivo in Europa. Inoltre, geneticamente, le razze non esistono. Il concetto essere più propriamente essere sostituito dal termine etnia. 6
  • 7. fonte di differenziazione è l’essere persona, cioè un’entità intrinsecamente differente da qualunque altra. Quindi la definizione isola delle differenze visibili: rilevabili sulla base di qualche segno esteriore o comportamento, purché comune ad un intero gruppo di individui. Ad esempio: alcuni tratti somatici sessuali e non, i segni della progressiva maturazione o dell’invecchiamento, l’orientamento sessuale, il grado di abilità fisica. Altre differenze (secondarie) sono accomunate dall’essere generate da influenze educative ed in genere da fattori sociali. Ad esempio: competenze e scolarità, hobbies, abitudini, localizzazione geografica, status famigliare. Infine ve ne sono altre, più contingenti ancora, legate alle particolari esigenze del microcosmo creato dai processi di organizzazione del lavoro. Ne sono un esempio: l’area professionale o funzionale, l’unità organizzativa di appartenenza, il sito di lavoro, la relazione di lavoro (es. il tipo di contratto), l’anzianità lavorativa, la posizione organizzativa ecc. Tuttavia, per quanto ampia sia questo tipo di definizione, anch’essa è culturalmente connotata. Ciò ha effetti non solamente sul censimento, sulla lista delle differenze, ma anche sulla loro classificazione, sulla loro gerarchia (personalità al primo posto, quindi elementi visibili, poi secondari, infine specificamente correlati all’organizzazione del lavoro e quindi emersi abbastanza di recente nelle società industrializzate). In altri paesi/aree geografiche la lista potrebbe vedere sia l’aggiunta di ulteriori elementi (per non tacere la possibilità di censurarne altri) sia il mutare dei loro rapporti gerarchici e quindi della loro importanza relativa/priorità. Ad esempio, nei paesi latino-americani (ad esclusione del Brasile), non solo l’elemento etnico è scarsamente rilevante numericamente, ma è anche secondario rispetto allo status economico e di privilegio. Basti rammentare che in epoca coloniale, per cittadini di colore era possibile acquistare certificati di appartenenza al gruppo etnico dominante (Tapia, 2008b). Una definizione del termine Differenza, pur potendo declinarsi come indicato da SHRM, dovrebbe anche tenere conto di questi spunti critici, assumendo una forma più aperta, adattabile ai vari contesti culturali/specifici. Magari entrando come elemento di un processo di continuo riesame critico, di un continuo interrogarsi su cosa sia differenza nella mia realtà. 1.2.2 Evoluzione storica del concetto di Gestione delle Differenze Abbiamo già rilevato che il concetto ha subito evoluzioni importanti nel tempo. Evoluzioni legate alla visione del tipo di relazione che dovrebbe istituirsi fra i soggetti Differenti ed il resto della popolazione. Negli anni ‘60 domina il concetto di “assimilazione”. Secondo questo concetto, si considera che, al di là delle differenze, il dato fondamentale è la condivisione di un ben più ampio patrimonio comune, una comune umanità. La natura di questa comunanza, più che su tratti veramente generali, in realtà risulta essere concretamente definita sulla base della cultura, delle norme e delle prassi esistenti e prevalenti in un dato paese/area (mono culturalismo). In questo senso (“siamo tutti eguali”), la modalità prevalente di gestione delle differenze è quella che cerca di mettere tutti in condizioni di giocare con le stesse regole. Regole, però, dettate dalla maggioranza. E’ l’approccio fondato sulla creazione di pari opportunità, che con strumenti prevalentemente normativi e formativi delle minoranze portatrici di differenze, cerca di allineare sul nastro di partenza della vita tutti i cittadini. Dotandoli innanzi tutto di eguali diritti e di opportunità di sviluppare eguali capacità. Questo approccio risente molto dei fondamenti della democrazia nord-americana, basata sui diritti dell’individuo e su un concetto di società di eguali (discrimination and fairness paradigm). 7
  • 8. Per quanto riguarda il mondo delle aziende, questa è l’epoca in cui l’approccio alle differenze si esaurisce nella conformità (compliance) a norme e regolamenti. Magari con politiche di assunzione che tendono a riprodurre, nella composizione percentuale degli organici, le principali differenze presenti sul mercato del lavoro. Del resto, come è oramai ben documentato in letteratura (Thomas, 1996), questo approccio non comporta alcun incremento automatico delle prestazioni aziendali. Anzi, può fare aumentare le tensioni fra colleghi, con conseguenze piuttosto negative per le organizzazioni. La popolazione aziendale si differenzia, ma non il modo di lavorare. Il tipo ideale di queste organizzazioni, differenziate ma definitivamente monoculturali, è quello delle Forze Armate. Nei decenni successivi aumenta la sensibilità ai fattori differenzianti, piuttosto che alle comunanze. L’approccio è quello della differenziazione (“celebrazione delle differenze”), dell’orgoglio della differenza, come punto focale dell’attenzione sia essa politica o sociale. Si parla quindi di separazione per esaltare un multi culturalismo di soggetti collettivi equivalenti, ma con percorsi propri, autonomi, di sviluppo. Questo arco di tempo, è l’epoca delle lotte per i diritti civili, particolarmente sentite negli Usa (cittadini di colore, cittadini con orientamenti non etero-sessuali, etc.: access and legitimacy paradigm), ma presenti anche in Europa, ad esempio col movimento femminista. In questo periodo, comincia a diffondersi nelle aziende l’utilizzo a vario titolo (progettisti, venditori…) dei collaboratori appartenenti a determinati segmenti di Diversità come ambassador verso quegli stessi segmenti di mercato. Infatti, è riconosciuto un progressivo incremento del potere di acquisto delle minoranze e l’affermarsi di stili di acquisto sempre più connotati. Ma al di là di questa casistica, le aziende continuano a vivere in modo passivo il tema delle differenze. Semmai va aumentando la loro sensibilità in termini di gestione del rischio (risk management): dato il diffuso clima di conflitto in tema di diritti civili, un comportamento aziendale non a norma, o irrispettoso di alcune differenze, più facilmente potrebbe generare un’azione legale. Come per il modello basato sull’assimilazione, anche in questo caso i vantaggi per le aziende sono stati limitati. Il potenziale delle differenze al più è stato usato localmente, nei punti di contatto con nicchie di mercato; spesso senza sapere neppure come e perché funziona, perché porta risultati, se e come potrebbe influire sull’efficacia complessiva e l’innovazione dei processi aziendali. Le differenze possono essere usate, ma non sono comprese, non si apprende da esse. Non è strano, in questo contesto, come varie forme di “soffitto di cristallo” rendono difficili, se non impossibili, le carriere degli appartenenti ai segmenti di Diversità; per quanto capaci e dotati di potenziale di sviluppo. Con la fine degli anni ‘90, si afferma invece un concetto di relazione con le differenze che cerca di integrare e superare i due precedenti (Thomas, 1996). E’ il modello cosiddetto dell’inclusione, che da un lato continua a porre come centrale il tema delle pari opportunità ma, dall’altro, cerca di cogliere le differenze come un valore, anziché come un fattore accidentale o controproducente (learning and effectiveness paradigm). Col concetto di Inclusione ci si pone costantemente due problemi: - individuare le differenze mano a mano che si presentano; - chiedersi quale sia il loro Valore per l’intero contesto in cui si manifestano (ad esempio per il modo di operare di un’azienda). In questo senso, un atteggiamento inclusivo è costantemente portato all’ascolto, è aperto al cambiamento e ad un cambiamento che coinvolge tutti i soggetti, stimolandoli a modalità di convivenza sempre differenti, risultanti di una continua e comune evoluzione culturale (interculturalismo). E’ in questo periodo che le aziende cominciano a diventare soggetti più attivi nella gestione delle differenze, stimolate dalla potenziale dimensione di utilità strategica della differenza come valore ovvero come un reale potenziale di miglioramento dell’efficacia complessiva dei propri processi (differenze come elementi per la costruzione del Business Case). In questo senso, i portatori di differenze cominciano ad essere percepiti come “in grado di apportare conoscenze e prospettive sul come svolgere una certa attività che sono differenti, importanti e competitivamente rilevanti. Come 8
  • 9. progettare un processo, raggiungere dei risultati, definire dei compiti, creare team efficaci, scambiare idee, guidare le persone…” (Thomas, 1996)2 . 1.3 Concetto teorico di riferimento per la Gestione delle Differenze e sua problematicità In questo studio facciamo la scelta di considerare l’Inclusione come modello di riferimento per la gestione delle differenze. Le definizioni coerenti col modello che abbiamo scelto sono comunque abbastanza diversificate. Ci sono definizioni che vedono nella funzione HR l’attore principale nella gestione delle differenze, per il tramite delle sue politiche e dei suoi processi, e che sono interessate alle differenze solo se funzionali al miglioramento della performance aziendale (Cocozza, 2008b). All’estremo opposto abbiamo definizioni che assumono l’attenzione alle differenze come un valore di base delle organizzazioni e del vivere civile (European Commission, 2007), quasi solo come ricaduta di questa diffusa consapevolezza il saperne trarre vantaggio nelle organizzazioni aziendali (Lockwood, 2005) e comunque nell’ambito del più alto livello di pianificazione strategica del business (Keil, 2007). Faremo nostra la prima tipologia di definizioni. Considerando il contesto manageriale e sociale italiano, ci sembra che esse siano al contempo realistiche e sfidanti. Da un lato, non possiamo ancora presumere che le differenze siano percepite come un valore base, ampiamente condiviso, nel tessuto della convivenza civile del nostro paese, né che siano considerate, come passo iniziale, elementi a pieno diritto del processo di pianificazione strategica (vedere anche il paragrafo 1.4). D’altro canto, è alla portata di una funzione HR porsi, su questa tematica, un obiettivo di stimolo e sviluppo nei confronti del contesto aziendale in cui opera. Siamo convinti che questa assunzione non sia affatto velleitaria. Anche in letteratura (McMahon, 2006) è un dato consolidato che approcci inclusivi possono manifestarsi grazie ad inneschi molto differenti fra loro, e l’iniziativa della funzione HR è fra questi. Inoltre, quando esistono iniziative specifiche sulla gestione delle differenze, la responsabilità primaria è quasi sempre allocata nella funzione HR (SHRM, 2001). Tutto ciò premesso, è legittimo e ragionevole concepire la Gestione delle Differenze come l'adozione di politiche di HR finalizzate a valorizzare le diverse necessità, i bisogni, le aspettative delle differenti tipologie di persone che lavorano all'interno dell'organizzazione in funzione del miglioramento delle perfomance di business dell'azienda. 1.4 Specificità del caso italiano? Ma quanto è specifico il caso italiano (modelli culturali del paese e manageriali)? Forse non troppo o non nella misura in cui comunemente (in modo stereotipato) si pensa. Da un lato, molte delle esperienze che facciamo o delle informazioni che riceviamo riguardo al nostro vivere politico, civile ed economico, ci ritornano segnali critici. Due considerazioni a titolo d’esempio. 2 Su questa linea esistono alcune policy aziendali, ad esempio la Carta Aziendale della Diversità in Germania (Keil, 2007), iniziativa del 2006, autonoma e volontaria, di Deutsche Telekom AG, Deutsche BP, Deutsche Bank AG, DaimlerChrysler AG, cher ecita “Dobbiamo capire che avremo successo negli affari solo se conosciamo ed investiamo sulla diversità. La diversità della nostra forza lavoro e la diversità dei bisogni dei nostri clienti e degli altri partner d’affari. Le diverse competenze ed i diversi talenti di gestione aprono a nuove sfide per soluzioni creative ed innovative….”. Oppure, la policy sulla Diversità di Nokia Siemens Networks, azienda a capitale misto tedesco – finlandese di recente formazione (2007), che recita “…Fare leva sulle differenze in un contesto di fiducia e di stimolo, a beneficio di entrambi, gli individui e l’organizzazione. ...Poiché crediamo che una comunità di collaboratori varia sia per noi un vantaggio, persone con differenti storie/provenienze, esperienze e capacità apportano l’innovazione e la comprensione di clienti/mercati che sono cruciali per il business di Nokia Siemens Networks…”. 9
  • 10. Sono rilevabili diffusi segnali di ritardo culturale degli approcci alle differenze nelle aziende, approcci databili tranquillamente agli anni ‘60: conformità formale/burocratica alla norma, soprattutto quando è considerato eccessivo il rischio d’inadempienza (es. le quote di disabili); E’ difficile trovare riscontri di un dibattito sufficientemente serio, sereno, e di decisioni coerenti nei vari ambiti del nostro vivere civile (istituzionali, geografici, settoriali….), in merito al modello auspicato/promosso di relazione sociale con e fra le differenze. In questo campo si va tranquillamente dalla “assimilazione” (“esiste ed esiterà sempre uno ed un solo modello di normalità, cui tutti indistintamente debbono adeguarsi pena il non riconoscimento, la marginalizzazione se non l’espulsione”) al rifiuto del differente in quanto fonte di inquietudine, ma più spesso e tout-court di paura (esclusione), al loro opposto a tracce di celebrazione o accettazione apparentemente acritica di ogni differenza anche estremistica, in quanto intese come espressione o di una cultura o della libertà di pensiero/parola (es: amputazioni sessuali, diritto di assoggettamento della moglie, pensieri politici terroristici, etc.). D’altro canto siamo in buona compagnia, almeno per quanto riguarda l’approccio più diffuso nella cultura media aziendale. Problematiche del tutto simili sono riscontrabili in paesi con una cultura manageriale, su altri versanti, più avanzata della nostra. Ad esempio, per quanto riguarda le differenze di genere, basta citare i casi degli Usa e degli UK. Ricerche e pubblicazioni in questi paesi, a partire dal 2004-05, hanno cominciato ad occuparsi dell’evidente difficoltà nel gestire i bisogni, d’interruzione temporanea e di reinserimento, di collaboratrici con elevata scolarità e con elevate prestazioni lavorative (Hewlett, 2005; Management Issues, 2005). La medesima fotografia problematica emerge da uno studio di Accenture su 6 paesi di diversi continenti (Accenture, 2006). In esso si analizzano le cause percepite del soffitto di vetro secondo tre dimensioni: ostacoli legati alle caratteristiche personali, alla cultura aziendale ed alla cultura del paese. La dimensione cultura paese risulta rilevante in 5 paesi su 6. Se vogliamo vedere casi più positivi, sempre per restare in tema di genere, secondo gli studi di Hofsteede (Hofsteede, 2001) sull’indice di mascolinità delle culture nazionali, dovremmo riferirci a paesi con basso indice. Questi paesi sono infine molto pochi e concentrati in Scandinavia. Ma anche in questi casi, come non rilevare che, ad un certo punto, è diventato necessario forzare il sistema, ad esempio tramite il meccanismo delle quote, per introdurre un cambiamento significativo? E’ il caso della Norvegia, in cui il Governo ha chiesto alle 500 aziende quotate nella Borsa di Oslo, di dotarsi di un Board of Director con almeno il 40% di genere femminile entro 2 anni (Accenture, 2006)). Certamente le differenze fra paese e paese sono rilevanti. Tuttavia, forte permane l’impressione che c’è un elemento chiave del tutto generale, per stimolare ed avviare un cambiamento più ampio nella capacità di gestire le differenze, e non in condizioni di urgenza. Esso sembra risiedere nella volontà, nella determinazione, nella capacità di comunicazione e coinvolgimento, nel coraggio talvolta, di almeno un attore. Tale attore, a seconda del contesto, si qualificherà come organizzativo (nel nostro caso la funzione HR, oppure qualche membro del team di vertice, oppure lo stesso imprenditore), anziché sociale, anziché politico. 2. Differenze e gestione aziendale 2.1 Le differenze di maggior rilievo per la realtà italiana Il tema della presenza e della rilevanza di una differenza va sempre contestualizzato rispetto alla specifica realtà organizzativa in esame (azienda, sito, funzione, singolo ufficio). Dovendo comunque fare un discorso generale, in Italia, le dimensioni della diversità più tradizionalmente sperimentate e percepite, sino a circa una decina d’anni fa, erano quelle del genere e della disabilità. Invece, considerando dati ed esperienze più recenti, a nostro parere si evidenzia un significativo 10
  • 11. aumento sia nel numero delle differenze, sia nella complessità delle interazioni fra loro. Come vedremo, ciò comporta un similare aumento di complessità a carico delle interazioni fra differenze e prassi di gestione aziendale. Questa maggiore complessità ha una sua prima causa profonda in alcune dinamiche demografiche. Sono cause oggettive. Non si tratta semplicemente di una maggiore sensibilità al tema. Queste dinamiche demografiche sono documentate nel nostro paese e ci accomunano a tutto l’occidente a sviluppo avanzato. In queste aree, anche alla presenza di tassi di crescita economica moderata, l’effetto della forbice demografica (meno giovani che entrano nel mercato del lavoro rispetto agli anziani che ne escono) faceva prevedere, prima della crisi in corso, un aumento del numero di posti di lavoro vacanti nei prossimi anni. Torneremo più avanti sulla possibile influenza dell’attuale crisi su queste stime. Prima di essa, negli Usa, il Department of Labor stimava che al termine del prossimo decennio vi sarebbe stata una carenza di forza lavoro (posti vacanti) fra i 10 ed i 28 milioni di posti di lavoro (Tapia, 2008a). Già nel 2008, In Italia si poteva stimare in circa 200.000 la quantità dei posti vacanti (Banca dati Con- Istat). Solo un incremento della occupazione femminile e/o della immigrazione potrebbero sostenere la crescita della nostra economia. Per dare un dato, l’occupazione femminile in Italia è in ritardo di circa 20 punti percentuali (pp) rispetto ai paesi nordici e di 10 pp rispetto all’EU25 (Banca dati Eiro). Certo, l’alternativa potrebbe essere la de-localizzazione estera delle attività (non solo produttive). Ma questa scelta non muterebbe la necessità di un adeguamento dei modelli gestionali, che in ogni caso dovrebbero essere più aperti alle sfide della diversità insite nell’operare in un paese straniero, diversità prioritariamente interculturali e normative (ulteriore complicazione). Le dinamiche di diversificazione delle fonti delle forza lavoro, indotte dalla forbice demografica, prima della crisi stavano quindi aumentando la varietà e la complessità delle differenze, nel tessuto della nostra convivenza civile e negli ambienti di lavoro. La crisi in corso come può influire, volendo escludere l’ipotesi che il suo primo e principale effetto sia quello di favorire un diffuso e riconosciuto clima discriminatorio? Sul lungo termine, è difficile immaginare come la crisi possa comportare un mutamento qualitativo dello scenario base: il mondo non diverrà meno globale negli scambi di beni e servizi e meno interconnesso (comunicazione ed informazione). Sul breve-medio termine, al più i suoi effetti saranno quelli di esacerbare quanto già stiamo osservando come sfide di coesistenza ed uso ottimale delle differenze già presenti. Semmai, si renderà ancora più urgente la necessità d’affrontare queste tematiche in modo costruttivo, maggiormente profittevole per tutti. Analizzando più in dettaglio come sta aumentando la complessità, innanzi tutto rileviamo che sono più numerose le differenze visibili. Fra queste in particolare quelle legate ad etnia/lingua. A titolo d’esempio in Italia (Caritas, 2007): - cittadini stranieri nel 1970: 144.000; nel 2008: 3.700.000 (6,7% della popolazione, circa in media EU), di questi, il 63% nel Nord (in Lombardia circa 1 milione); - circa 20 i gruppi nazionali principali: in testa europei (52%), africani (23%), asiatici (16%); - le lingue rappresentate in Italia, già nel 2001 erano 150; - matrimoni: 24.000 coppie miste, ossia il 10% sul totale dei matrimoni (25% in 9 regioni del nord) e il doppio dei matrimoni con entrambi i coniugi stranieri. 1 nato su 8 è da coppie miste; - 165.000 aziende sono d’immigrati (con tassi di crescita negli ultimi 5 anni del 10% annuo); - 3% delle imprese è guidata da immigrati (maggiore presenza assoluta in Lombardia: 33.000). Si tratta di un quadro di internazionalità importata, perciò la relazione fra culture differenti è prevedibile divenga un fattore rilevante anche per aziende non esposte, o esposte solo in modo marginale, ai mercati esteri. I due meccanismi principali di esposizione sono quelli di sourcing della forza lavoro e d’interazione cliente-fornitore. Due esempi del primo tipo: il caso dell’industria della pesca nei porti dell’Adriatico ed il caso insorgente delle società di trasporti pubblici. Nel caso della pesca adriatica, si ha un significativo incremento degli occupati di origine africana: sempre maggiore è l’indisponibilità del personale italiano alle ininterrotte missioni settimanali di pesca in alto mare. Trasporti: ATM, la società milanese non riesce più a completare i bandi di assunzione, 11
  • 12. cui il Regio Decreto 148 del 1931, con l’articolo 10, ammette solo cittadini italiani (“personale delle ferrovie, delle tramvie e delle linee di navigazione”), e sta chiedendo l’abrogazione di questa limitazione per poter assumere cittadini stranieri). A seguire, va aumentando anche la varietà delle fasce d’età anagrafica compresenti nella forza lavoro. La forbice demografica, unitamente all’innalzamento dell’età pensionabile, o comunque il prolungamento dell’età lavorativa (reso possibile anche dalla disponibilità di molteplici forme contrattuali e dal cumulo di redditi da lavoro e pensioni), hanno come conseguenza l’incremento della diversificazione delle generazioni presenti sul luogo di lavoro. Il tema delle differenze d’età è abbastanza emblematico per come può essere fuorviante basare le proprie valutazioni sugli stereotipi esistenti. Le generazioni lavorative sono convenzionalmente così suddivise/descritte3 : - Maturi, nati prima del 1945, grandi lavoratori ma tradizionalisti sul lavoro; - Baby Boomer, 1946/1964, prediligono la lealtà, ma hanno un’etica del successo personale; - Generazione X, 1965/1979, cercano bilanciamento vita privata e lavoro, non si impegnano molto; - Generazione Y , 1980/in poi, sono stimolati dall’innovazione e dal cambiamento ma sono ancor più individualisti dei baby boomer. Esiste un’ampia letteratura di origine anglosassone che da un lato conferma alcune differenze di preferenze aspettative e valori, e rispetto a queste differenze evidenzia l’opportunità di ottimizzare l’efficacia alcuni sistemi di gestione, ad esempio il Compensation & Benefit (Gurchiek, 2008; Deloitte, 2007; Burke, 2004), oppure di monitorare il rischio di possibili conflitti, in particolare nelle organizzazioni di più grosse dimensioni e su temi come il mutuo rispetto, gli atteggiamenti nei confronti dei criteri gerarchici del cambiamento o delle nuove tecnologie (Burke, 2004). Ma nel contempo sono sottolineate le più sostanziali somiglianze fra generazioni nei comportamenti sul lavoro (Hasting, 2007; Randstad, 2007) e la tutto sommata bassa incidenza di reali situazioni di conflitto. Inoltre, queste ricerche aiutano a chiarire meglio come la causa reale di alcune differenze di comportamento sia imputabile a parametri differenti dall’età. Un esempio valga per tutti. La propensione a lavorare per un numero di ore maggiore dell’orario standard (face time o extended hour) risulterebbe essere più direttamente correlata col livello della posizione aziendale piuttosto che con l’età anagrafica. La prudenza che suggeriscono questi studi è triplice: diffidare degli stereotipi, verificare nella propria realtà la validità delle conclusioni tratte in altri contesti (es.: Italia = Usa?), verificare nel tempo la persistenza di alcune conclusioni generali (es.: valide anche per la generazione 1995- 2010?). Se le spinte demografiche possono essere individuate come cause-radice, il moltiplicarsi stesso del grado di diversità sembra generare ulteriore complessità. Ad esempio: - la varietà generazionale è spesso correlata alla diversificazione del contratto di lavoro; - la varietà etnica comporta quella delle fedi religiose. In Italia, gli immigrati per metà sono cristiani, per un terzo musulmani e per il resto credenti di varie fedi religiose (Caritas, 2007). Alla fine, anche limitandosi alle sole differenze etniche, il quadro complessivo porta a prevedere che, entro il 2016, il 75% dei nuovi entranti nel mercato del lavoro mondiale molto probabilmente saranno provenienti da paesi asiatici, mentre dal Nord America e dall’Europa proverrà un contributo intorno al 3% (Lockwood, 2005). Poche e brevi osservazioni ma, a nostro parere, sufficienti a delimitare adeguatamente il campo della diversità che un’azienda, nel nostro paese, è molto probabile debba gestire. Tale campo è costituito da 4 differenze di tipo visibile (genere, disabilità, etnia / lingua, età), più la fede religiosa ed il tipo di contratto di lavoro. Fedeli alla definizione adottata di Gestione delle Differenze, rispetto a tale varietà e complessità, di seguito dovremo porci le seguenti domande: - se e come, le 6 tipologie di differenza citate, possono generare specifici bisogni, necessità ed aspettative nei collaboratori delle aziende (paragrafo 2.2); 3 Non è superfluo rammentare che questi profili sono stati definiti per persone in età lavorativa in paesi occidentali. Perdono completamente di significato in altre aree geografiche, ad esempio per ragioni storiche (Cina), culturali (India, Giappone…) etc. 12
  • 13. - se e come questi bisogni, necessità ed aspettative (istanze nel seguito), influenzano la performance aziendale. Sarà in questa area che cercheremo di far emergere opportunità e criticità della gestione delle differenze (paragrafo 2.3); - ed in ultima analisi se e come le politiche HR si possono dimostrare all’altezza di riconoscere e corrispondere tali istanze, a beneficio della performance aziendale (paragrafo 2.4). 2.2 Bisogni, necessità ed aspettative generati dalle differenze E’ un dato riscontrabile nell’esperienza quotidiana che la presenza di differenze implichi la presenza di differenti bisogni, necessità ed aspettative (istanze) del personale. Senza minimamente proporci l’obiettivo d’essere esaustivi, proviamo a tracciare una mappa delle possibili aree d’interazione fra differenze e prassi gestionali in azienda. Per questo tentativo, consideriamo queste prassi come suddivise in due gruppi: le prassi di gestione del personale ed i processi di business. 2.2.1 Istanze del personale e prassi di gestione del personale Nella Tabella 1, consideriamo alcune prassi gestionali del personale (gestione di tempi e spazi di lavoro, modalità di comunicazione, benefit) nella loro interazione con le 6 differenze che abbiamo individuato come probabilmente più rilevanti per il caso italiano. In corrispondenza degli snodi fra queste due dimensioni si generano delle istanze nei collaboratori portatori di quelle differenze. Tab. 1. Possibili interazioni fra differenze e prassi gestionali del personale Differenze di: Tempi di lavoro Spazi di lavoro Strumenti di comunicazione Benefit Extended hours Standard per gli spazi individuali Formazione linguistica Preferenze Etichetta linguistica Etnia Periodi di vacanza Sensibilità differenziata ai canali (1) Sensibilità differenz. alla presentazione dei contenuti (2) Età Extended hours (1) Preferenze Flessibilità orari Entrata/Uscita (2) Disabilità Pause di lavoro Accesso (1) Preferenze Permessi di lavoro Standard per gli spazi individuali Genere Extended hours (2) Preferenze Flessibilità orari Entrata/Uscita Credo Religioso Pause di lavoro Spazi di culto Etichetta linguistica Preferenze Periodi di vacanza "Decorazioni" degli spazi individuali Contratto di lavoro Inclusione dei "flessibili" come popolazone (3) (3) Fonte: nostre elaborazioni. 13 Differenza Prassi ISTANZA
  • 14. Pur nella sua semplicità ed incompletezza, la Tabella 1 evidenzia a nostro parere due elementi interessanti. Il primo è che vi sono aree gestionali che risultano essere più densamente di altre correlate alle differenze rappresentate nel personale. Nel nostro caso: l’eventuale sistema di benefit, la comunicazione interna, le forme/ prassi di gestione dei tempi di lavoro. Queste sono aree critiche per l’influenza positiva (opportunità) o negativa (rischio) che possono avere sul livello di prestazione aziendale. Come si esercita questa influenza sarà oggetto del paragrafo 2.3. Il secondo spunto che si può trarre dalla Tabella 1 è che, in uno stesso ambito gestionale, vi può essere un ulteriore livello d’interferenza fra istanze provenienti da differenti segmenti di diversità. Ad esempio: sono oramai numerosissime le ricerche che mostrano come variano le preferenze sui benefit al variare di età (Burke, 2004), genere, posizione aziendale ecc. Si consideri anche se e come possono essere conciliate le istanze sui tempi di lavoro fra differenze di genere (ruolo famigliare), d’età (stili di vita, ruolo famigliare), di etnia (cultura del tempo) o religione (tempi del culto) (Hastings, 2008). Anche queste interazioni possono intensificare criticità od opportunità nella gestione delle differenze. La ricerca di un efficace bilanciamento, fra istanze delle persone e reali esigenze organizzative, tende a diventare un processo certamente più complesso e dinamico (se vuole seguire efficacemente le evoluzioni della composizione dell’organico). I processi e le prassi, se debbono essere neutri rispetto alle differenze per evitare effetti discriminatori, d’altro canto debbono contemporaneamente essere opportunamente segmentati (es: comunicazione, benefit, etc.) per essere realmente efficaci. Inoltre non va mai scordato che, anche la cosiddetta popolazione normale, coloro che sono abituati a sentirsi come maggioranza, genera delle istanze. Queste istanze possono, a loro volta essere influenzate dal confronto con quelle delle persone portatrici di differenze. Quest’ultimo tipo d’interazione, se male o per nulla gestito, comporta sicuramente rischi più elevati per il buon funzionamento dell’organizzazione, rischi legati al tipo di relazione che come conseguenza potrebbe instaurarsi fra i differenti gruppi. Non si tratterebbe banalmente del ritorno a forme classiche di razzismo, secondo cui l’altro è considerato tout court inferiore, incapace di migliorare, irrimediabilmente decaduto. E’ una forma più sottile e subdola: colui che porta valori diversi, punti di vista diversi, prima di ogni analisi e valutazione, è minaccioso per la mia identità. Mi richiederebbe un cambiamento includere entrambi, me stesso e l’altro, in una nuova relazione. Un cambiamento che, se non supportato da una più matura consapevolezza, mi fa percepire il punto di incontro dei valori, o anche solo delle abitudini e dei punti di vista, come un degrado dei miei, come un peggioramento anziché un progresso. Un cambiamento che sento, se non come una violenza da parte di una minoranza, per lo meno come una pretesa e che quindi percepisco come ulteriore segnale di mia (il forte) debolezza e degrado qualora dovessi cedere. In queste dinamiche di resistenza e rifiuto del differente, non nella natura materialistica delle motivazioni (il sangue, il codice genetico, etc.), può esserci somiglianza con comportamenti che potremmo chiamare di intolleranza alle differenze. Per un approfondimento sulle radici di questi processi e di come è possibile un percorso di crescita, sia personale che di gruppo, rimandiamo all’interessante ricerca di Ida Castiglioni sulla diversità nei servizi (Castiglioni, 2009), in cui si utilizzano gli approcci ed i metodi della comunicazione interculturale di M. J. Bennet (Bennet, Milton, 2001). 2.2.2 Istanze del personale e processi di business Consideriamo ora l’ambito dei processi di business, quello in cui la capacità di utilizzare in modo inclusivo il punto di vista dei portatori di differenze, differente da quello dominante (mainstream), può fornire le opportunità più significative (Thomas, 1996). Rispetto alla estrema varietà potenziale di bisogni, necessità ed aspettative che abbiamo visto si possono generare nell’interazione fra prassi di gestione del personale e differenze, questa volta sembra essere in gioco uno spettro di aspettative 14
  • 15. più circoscritto. L’interazione delle differenze coi processi di business genera istanze prevalentemente legate al coinvolgimento e alla delega. Sono aspettative di partecipazione, di ascolto dei punti di vista differenti, della loro valorizzazione in termini di influenza sul cambiamento del modo di fare, e di un grado di autonomia decisionale, nel proprio ambito lavorativo, che va di pari passo con la crescita delle competenze e dell’esperienza. Tornano alla mente i fattori di coinvolgimento sui cui si basava il successo delle metodologie anni ‘90 per il miglioramento della prestazione dei processi (Total Quality Management- TQM). Oggi, sugli stessi fattori si è capito si può basare, non solo il miglioramento incrementale, ma l’innovazione, il cambiamento drastico. Del resto, già quindici anni fa, in una grande società di telecomunicazioni italiana, il direttore della Qualità impegnato nei programmi Tqm soleva dire che le minoranze di pensiero in azienda andavano salvaguardate dal mainstream, in quanto fonte di un potenziale d’innovazione che sarebbe tornato utile possedere, al mutare imprevedibile del contesto e dei bisogni di business, per i necessari cambiamenti quantici di obiettivi, processi ed organizzazione. 2.3 Istanze del personale e performance aziendale Nel paragrafo precedente abbiamo cercato di delineare quali istanze sono generate dall’interazione fra differenze e prassi/processi aziendali. Ora, come possiamo comprendere la natura del legame fra il trattamento di queste istanze e la performance aziendale? Abbiamo considerato il modello che emerge dalle conclusioni della più recente letteratura in merito (Engage Group, 2009)). E’ chiaro che la misura della sua efficacia è sempre e comunque da sottoporre a verifica. Sia a seguito di sperimentazione/pratica attuazione sia nel tempo. Infatti, la validità di ogni modello/linea guida è inevitabilmente legata allo specifico contesto e può mutare nel tempo. Così come nel tempo evolvono sia la composizione della popolazione aziendale sia le modalità d’interazione fra persone, organizzazione ed altri ambiti rilevanti della convivenza civile (es. cultura paese, momento storico). In estrema sintesi, il modello considerato correla innanzi tutto le istanze del personale e la qualità del loro trattamento da parte del management ad alcuni fattori ossia particolari attitudini/percezioni dello stesso personale. Questi fattori, usualmente misurati tramite sondaggi d’opinione o test, sempre secondo il modello risultano avere una buona qualità predittiva del grado di impegno del collaboratore nel contribuire al successo dell’organizzazione (engagement). Infine, l’impegno così inteso risulta essere significativamente correlato col livello complessivo delle prestazioni aziendali in termini di efficacia (ad esempio la soddisfazione dei clienti), efficienza e risultati economici. Fra i fattori che hanno una buona qualità predittiva del grado di impegno del collaboratore nel contribuire al successo dell’organizzazione (engagement), quelli più tradizionali sono: orgoglio d’appartenenza (pride), motivazione personale, apprezzamento dei responsabili per equanimità – correttezza - rispetto (fairness dei capi), fedeltà. A questi fattori, di recente si sono aggiunte due aspettative: l’essere coinvolti nelle decisioni e se possibile l’essere delegati, a prendere le decisioni relative al proprio ambito lavorativo. Ovviamente, questi fattori sono tanto più importanti nel caso di portatori di differenze per i quali, spesso, è invece in questione anche il solo riconoscimento dell’essere differenti (rispetto). Rispetto a questo modello, ulteriori elementi predittivi, meno indagati al momento ma sottoposti di recente a grande attenzione, potrebbero essere quelli del bene-stare personale nelle organizzazioni e del grado di complessivo benessere organizzativo. Il modello gestionale complessivo risultante, che proponiamo per dare attuazione ad un approccio inclusivo delle differenze, è schematizzato nella Figura seguente (Figura 2) e sarà oggetto di alcuni approfondimenti nei due prossimi paragrafi (2.3.1 e 2.3.2). 15
  • 16. Fig. 2. Dalle istanze del personale alla prestazione aziendale (efficienza & efficacia) Istanze Stili/ prassi di gestione del personale Rischi/ Opportunità Esigenze di business •Accoglienza •Rispetto •Riconoscimento Bene-stare personale Benessere organizzativo ed identificazione Efficienza Efficacia Leverage sui processi HR Leverage sui business process Fattori predittivi dell’engagement 2: Step2 - Delega Fattori predittivi dell’engagement 2: Step1 - Coinvolgimento Fattori predittivi dell’engagement 1: •Orgoglio •Motivazione •Fedeltà Sviluppo del personale Leverage sui processi HR Fonte: nostre elaborazioni. In sintesi, la buona qualità delle interazioni fra istanze e prassi di gestione del personale (ovviamente coerenti coi vincoli di business), grazie all’influenza di rispetto, accoglienza e riconoscimento della persona del collaboratore (diverso o meno), è in grado di supportare il bene- stare della persona nell’organizzazione. La somma e la reciproca influenza di questi bene-stare personali porta ad un certo grado di benessere organizzativo e d’identificazione. Le prime ricadute di questa dinamica, che può fare leva principalmente su politiche e processi HR, sono appunto l’orgoglio di appartenenza, la motivazione e la fedeltà. Cioè il primo gruppo di elementi predittivi del grado d’impegno per il raggiungimento dei risultati aziendali. Un rinforzo dell’impegno sui risultati, può avvenire grazie ad un’ulteriore evoluzione in due fasi dello stile gestionale (leadership). La qualità relazionale dei capi vista poco prima nei confronti dei collaboratori può benissimo coesistere con processi decisionali accentrati. Per cui, una prima evoluzione possibile è quella che porta ad un graduale coinvolgimento nel processo decisionale (non nelle decisioni, la cui titolarità in questa fase non cambia), almeno per coloro che sono valutati più capaci. La seconda fase evolutiva, attivabile grazie ad un preventivo investimento per lo sviluppo delle capacità dei collaboratori, è quella che porta ad un uso progressivamente più esteso non solo del coinvolgimento ma anche della delega del potere decisionale (qui cambia la titolarità della decisione). 2.3.1 Bene-starci personale e benessere organizzativo I risultati di ascolto, attenzione, soddisfazione quando possibile, o almeno rispettosa considerazione delle istanze fatte dei vari segmenti della popolazione aziendale, sono sicuramente legati al grado di capacità aziendale di sapersi valere del contributo dei collaboratori: - all’estremo inferiore di questa capacità si sono risultati di efficienza; 16
  • 17. - al suo estremo superiore c’è la generazione di innovazione e creatività. Atteggiamenti opposti, banalmente possono creare situazioni di tensione e di disagio, di vario grado e natura. Il loro esito è quello di rischiare di ridurre l’efficienza nell’impiego di forza lavoro e di inibire il potenziale contributo innovativo di chi, dotato di punti di vista differenti, potrebbe apportare anche idee per soluzioni alternative. Di principio, nulla di nuovo, o di diverso da quanto si osserva quotidianamente nella gestione del personale, anche in assenza di rilevanti problematiche di diversità. Lo mostrano dati e fatti, misurati e monitorati oramai da decenni (rilevazioni della soddisfazione/motivazione dei collaboratori, studi sulla correlazione di questi indici con quelli di prestazione complessiva aziendale). Tuttavia è anche una percezione comune, un dato d’esperienza, che ci si sente a tutti gli effetti parte di un gruppo, di una squadra, e si contribuisce tanto di più e tanto meglio agli obiettivi comuni se: - si sente di essere i benvenuti (accoglienza); - si percepisce di essere rispettati; - in caso di difficoltà, si è supportati; - si esperisce che, per il proprio contributo per quanto piccolo, si viene apprezzati. Più ci si sente a proprio agio e maggiore è il contributo dato. Sia in termini di impegno sia in termini di creatività, di idee. Maggiore è il bene-starci personale e maggiore è il benessere del gruppo, dell’organizzazione4 . E’ poi vero anche il contrario. Il male-starci personale, soprattutto se si è in condizione di influenzare gli altri (come capo, imprenditore ecc.), fa ammalare l’organizzazione ed ha un’elevata probabilità di far ammalare tutti coloro che con l’organizzazione entrano in contatto. Si potrebbe obiettare che la nostra proposta, soprattutto quando considera la mediazione di fattori come il bene-stare personale ed il benessere organizzativo, non ha valore in momenti di crisi come quelli attuali. Il livello di benessere (personale o di gruppo) è minacciato e disturbato fa fattori oggettivi esterni all’organizzazione. Il tema è stato discusso, all’interno di un social network fra professionisti HR e della consulenza aziendale, nel febbraio/marzo 2009. Le opinioni raccolte concordano che c'è un rischio costante che il malessere sia la condizione di norma, crisi o non crisi. Se è così, per le organizzazioni l'importante è cercare di stare sopra soglia il più possibile. Nel caso di crisi diffusa, in cui sul contesto aziendale agiscono fattori oggettivi esterni da essa non controllabili, è vero che non è possibile evitare l’insorgere di situazioni di disagio. Tuttavia è possibile limitarne l’effetto, perché vi sono altri elementi su cui è sempre possibile agire: - elementi oggettivi interni, come l’organizzazione, i processi, le relazioni fra ruoli e persone, etc.; - elementi soggettivi, come lo stato di benessere interiore dei singoli collaboratori. Entrambi sono elementi sempre a disposizione dell’azienda per una gestione dello stato di benessere interno, crisi o non crisi. Sempre dalla discussione è emerso come è stato assolutamente fondamentale la qualità delle modalità d’intervento sugli elementi sempre nel controllo dell’azienda (elementi oggettivi interni e soggettivi). Gli stimoli forniti dalla discussione hanno permesso di mettere a fuoco alcune capacità utili allo sviluppo di una modalità di intervento efficace, elementi fra l’altro del tutto coerenti con una gestione inclusiva delle differenze: - stile aperto a discussione/confronto, che accetta le sfide del pensiero differente; - capacità di utilizzare l'intelligenza collettiva in tutte le sue articolazioni (o differenze); - capacità diffusa di adattamento, una capacità presente nelle persone ma che è agita solo a condizione di poter contare su almeno alcuni riferimenti positivi (in questo senso va curata). 4 I comportamenti collettivi e personali positivi, fra l’altro, sono molto più efficaci, della paura e di forme pervasive di controllo, nel mantenere in linea eventuali profili personali con problemi di adeguato rendimento. Casi estremi questi ultimi, che come tali non dovrebbero (!), in alcun modo, stimolare l’opposto affermarsi di uno stereotipo del collaboratore come: soggetto naturalmente propenso a non impegnarsi. 17
  • 18. Il modello proposto nella Figura 2, quindi, sembra non essere invalidato da situazioni di crisi come quella attuale. Potenzialmente può essere solo parzialmente indebolita l’efficacia di una buona gestione del personale e di adeguati stili di leadership. A tale proposito, esiste anche una recentissima verifica empirica (Itsg, 2009). Il consorzio Itsg (aziende multinazionali del settore Itc) ha effettuato nel marzo 2009 una serie di verifiche presso le aziende che lo compongono e che avevano appena terminato un sondaggio per stimare l’engagement dei propri collaboratori. Il bisogno della verifica nasceva dall’osservazione che, pur alla presenza di una pesante crisi, alcuni sondaggi mostravano un incremento dell’impegno e della soddisfazione. Ben 8 aziende avevano già effettuato questo tipo di sondaggio: 4 di esse non avevano rilevato peggioramenti; altre 4 avevano addirittura rilevato notevoli miglioramenti. Interrogate sul perché di questi risultati (stabilità se non miglioramento), almeno la metà di esse hanno citato come elemento concorrente l’adattamento psicologico alla situazione generale di maggiore insicurezza (“visto come va ad altri e come sto io, non è poi così male”). D’altro canto, tutte hanno concordato che questo adattamento non spiega, da solo, tutti i risultati riscontrati. Certamente può spiegare una minore propensione alla ricerca di un nuovo lavoro (fedeltà), o una maggiore soddisfazione per i trattamenti ricevuti. Ma certo non spiega il maggiore apprezzamento della leadership dei capi intermedi, della comunicazione, del coinvolgimento ecc. Tutti fattori su cui, al contrario, hanno influito il persistere o l’ulteriore miglioramento, anche in situazione di crisi, di buone prassi di gestione, delega, coinvolgimento, riconoscimento delle differenze. 2.3.2 Istanze, coinvolgimento, delega e performance Il prerequisito principale per sfruttare la presenza di istanze differenziate, ai fini di una migliore performance aziendale, facendo leva sui processi di business, risiede in un atteggiamento, da parte di chi detiene la responsabilità delle scelte (capi, manager, imprenditori), non solo di apertura ma di ricerca attiva, addirittura di stimolo. Nel caso delle interazioni fra istanze e prassi gestionali del personale, forse potrebbe essere sufficiente un atteggiamento reattivo (ad esempio di risposta a crisi o quasi-crisi generate dalle stesse differenze). Nel caso dei processi di business è sempre pericoloso attendere una loro crisi. In questo caso, poi, è difficile attendersi che si vada alla ricerca, nella diversità dei punti di vista dei propri collaboratori, di fonti di ispirazione per un recupero. Nei momenti difficili è più probabile che si veda un accentramento dei processi decisionali anziché una loro apertura, addirittura quando tale apertura è in opposizione agli stili gestionali preesistenti. Non si delega per fare più contenti i collaboratori. Ci si arriva tramite un percorso, ed una disciplina. Ci si arriva attraverso l’impiego di risorse ed attenzione. E’ un percorso graduale, forse anche segnato da insuccessi momentanei, conflitti e delusioni inattesi. Si può iniziare col coinvolgimento dei più capaci. Questo esempio può fungere da stimolo per altri che dovranno essere però supportati nello sviluppo di capacità adeguate. Sarà così possibile un allargamento del coinvolgimento ad una popolazione sempre più competente ed efficace. Caratteristiche che sarà opportuno cominciare a valutare sistematicamente (valutazione delle prestazioni, in termini di raggiungimento degli obiettivi ed adozione di comportamenti ritenuti benefici per l’organizzazione nel suo complesso). Quindi si potrà arrivare alla delega di parte delle decisioni, ai collaboratori in grado di prenderle. L’effetto di un simile processo, in modo del tutto naturale, sarà l’incremento dell’impegno nel raggiungere gli obiettivi. D’altro canto, in modo altrettanto naturale, comporterà il sorgere di sfide per l’organizzazione e per chi la gestisce. Più persone saranno autorizzate a dire le loro e si aspetteranno di essere ascoltate. Si aspetteranno che le loro idee siano almeno prese in considerazione, discusse, valutate. E se scartate, si aspetteranno che siano spiegate le argomentazioni o le motivazioni della scelta. Se il sistema di coinvolgimento sviluppo e delega non è stato discriminatorio, sarà possibile che le persone che hanno voce nei processi decisionali siano 18
  • 19. anche molto diverse fra loro. Alcune di queste diversità di pensiero, sicuramente trarranno spunto dall’appartenere a qualche segmento di diversità: a causa del vissuto anche molto distante da quello della maggioranza. Il primo percepito è la complicazione gestionale, dato che solitamente scoraggia dal procedere oltre. Tuttavia, in che senso la disponibilità di una pluralità di voci si può tramutare in un patrimonio di conoscenze, in grado di più-che-ripagare la percezione di un surplus d’oneri gestionali? Se le realtà organizzative agissero in contesti tutto sommato stabili, o comunque ben conosciuti, effettivamente questa pluralità di voci forse avrebbe un valore molto limitato. Il punto è che il nostro contesto ha sempre più caratteristiche del tutto opposte. Né è prevedibile che si stabilizzi in futuro. In queste condizioni, nessun imprenditore da solo, nessun ristretto gruppo manageriale isolatamente, è in grado di affrontare con efficacia costante le sfide del cambiamento e dell’incertezza. Esiste sempre un rischio rilevante di non cogliere i segnali di pericolo giusti, o in tempo. Di non individuare le opportunità, o di saperle sfruttare in tempo. La disponibilità di un’intelligenza diffusa serve proprio a mitigare questi rischi ad aumentare la probabilità di cogliere queste opportunità. Da un lato serve ad individuare in modo efficace e tempestivo i segni del cambiamento. Dall’altro, serve a riportarli nelle sedi giuste, per concorrere ai processi decisionali più rilevanti. Contemporaneamente permette, se necessario, una reazione locale ed immediata, autonoma, per contenere/sfruttare gli eventi, con effetti più limitati e controllabili. Questa reazione locale, infatti, persino al di là dell’esito (di ridotta rilevanza per il complesso dell’organizzazione, se il sistema di deleghe sarà stato correttamente attuato), una volta ben analizzata ed intesa, potrà costituire un utile pilota per la comprensione di nuovi fenomeni in corso! Il nostro Paese possiede già un rilevante capitale di diversità costituito da un’elevatissima percentuale di personale femminile con elevata e pregiata scolarità, da 20 gruppi nazionali e 150 lingue. Inoltre ha le basi per costruirsi una robusta capacità di mediazione interculturale (10% di matrimoni misti, 12% delle nascite da coppie miste, 3% delle imprese guidate da immigrati con un tasso di crescita del 10% anno, 6.7% della popolazione è straniero). Facendo leva su questo capitale, in concreto, i contributi di maggior efficacia ed innovazione che possiamo attenderci da parte dei possessori di un punto di vista differente sono molteplici (SHRM, 2001). Le competenze interculturali (cultura azienda o paese) sono un patrimonio di base potenzialmente utile per il successo di processi di fusione, acquisizione, partnership fra aziende o parti di organizzazione differenti. La comprensione degli habits, delle lingue e delle tradizioni di segmenti nascenti del mercato nazionale, possono contribuire al miglioramento del risultato commerciale di molte aziende. Inoltre, l’apprendimento di come questa comprensione può portare a migliori risultati può incrementare la capacità organizzativa di adattarsi a nuove sfide e differenti contesti. Lo sviluppo di relazioni commerciali con i paesi d’origine dei nostri immigrati, al di là del supporto che può venire dalle relazioni fra stati, sarebbe grandemente facilitato dalle loro reti di relazioni personali, nonché dalla capacità di mediazione e dalla fiducia che potremmo già aver sviluppato con loro, anche con ricadute sulla soddisfazione dei clienti. La presenza di generazioni differenti permette, anche con modalità informali, il trasferimento e la permanenza in azienda di conoscenze ed esperienze che altrimenti andrebbero perdute. L’attenzione e la valorizzazione delle differenze aumenta il valore dell’employer branding in particolare (capacità di attrarre le persone più capaci, riduzione del turn over indesiderato e quindi inferiori costi di sostituzione, ecc.) e del brand aziendale in generale. Si riducono gli oneri per contestazioni e cause legali (SHRM, 2008). 2.4 Politiche HR: snodo fra istanze e performance aziendale La lista per la spesa della funzione HR è pronta. Un’iniziativa volta allo stimolo di una maggiore capacità aziendale di gestire in modo inclusivo le eventuali differenze presenti e rilevanti, o di reperirle pro-attivamente sul mercato, in coerenza con lo schema della Figura 2 deve proporsi di: 19
  • 20. - influire sul cambiamento/miglioramento dello stile di gestione dei responsabili, sapendo fornire le motivazioni per una maggiore trasparenza, una maggiore capacità di ascolto, una disponibilità ad accettare (se non addirittura stimolare) le sfide ad un modo di fare le cose consolidato, un maggior grado di coinvolgimento e delega; - ottenere la destinazione di adeguate risorse per favorire lo sviluppo delle capacità gestionali e la comprensione del business, da parte dei collaboratori e dei capi ai vari livelli; - assicurare un uso efficace delle risorse destinate (tempo dei capi ed economiche), attraverso l’implementazione di un sistema efficace e pratico di valutazione della performance e di riconoscimento dei risultati (sia personale che complessiva). Di per sé, questi elementi non si differenziano in nulla dalle normali aspettative aziendali di adeguatezza rispetto ad una buona funzione HR. L’unica novità, se vogliamo, è che questi elementi sono messi al servizio di un elemento addizionale di attenzione, rispetto alle usuali attività di sviluppo del capitale umano posseduto: il suo grado di diversità. Rispetto a questa sfida, come si pongono i responsabili italiani delle funzioni HR? Al momento, non ci è ancora stato possibile effettuare una verifica diretta. Abbiamo cercato di orientarci traendo spunti dai risultati 2006 della ricerca (II edizione) “Dove va la Direzione Risorse Umane: evoluzione del ruolo e delle competenze” (GIDP, 2006). Alla ricerca, effettuata tramite sondaggio dei responsabili di funzione HR iscritti alla associazione professionale GIDP, in prevalenza (64%) avevano risposto aziende di dimensione media-grande (segmento da 100 a 1000 collaboratori), molto spesso sedi italiane di multinazionali straniere (43%) ed appartenenti sostanzialmente (54%) ai due settori metalmeccanico e commercio/ terziario. Nella maggioranza dei casi (58%) i responsabili HR facevano parte del Comitato Direttivo della loro azienda (o organismo equivalente): quindi erano in grado di influenzare il gruppo manageriale di vertice5 . Inoltre ritenevano che, in prospettiva, le loro soft skill più importanti avrebbero dovuto essere: gestione conflitto, innovazione e leadership. In quanto, già nel medio termine, ritenevano che i loro obiettivi più importanti sarebbero stati: l’efficienza/efficacia dell’organizzazione aziendale, subito seguita da qualità di clima e comunicazione interna. In questi termini, opportunità e sfide prefigurate dai responsabili HR in Italia, già nel 2006 sembrano essere coerenti con un ruolo di stimolo di un cambiamento culturale come quello da noi proposto. Fortunatamente la ricerca esplorava anche due elementi più specifici, utili per testare il grado di specifica attenzione al tema della diversità. In questo caso, purtroppo, i risultati ispirano meno ottimismo, in quanto sembrano evidenziare una probabile mancanza di consapevolezza del tema diversità come fonte di rischi/opportunità. I due temi indagati sono quelli degli over 50 (differenze di età) e dell’impatto, sulle politiche HR, dell’allargamento della EU (differenze interculturali). Il problema degli over 50 non è sentito nel 77% dei casi e, quando è percepito, è pensato sostanzialmente (69%) in termini di incentivi all’uscita. Il 59% dei partecipanti pensa che l’allargamento della EU non avrà impatto sulle politiche HR. Nei casi in cui è pensato come rilevante, è inteso principalmente come necessità di sviluppare la capacità di supportare tecnicamente le de-localizzazioni (66%). A dire il vero c’è subito dopo (53%) la percezione di dover affrontare un tema di diversità, ma questa diversità è pensata innanzitutto come diversità normativa, e quindi di trattamenti da dover armonizzare. Varrebbe senz’altro approfondire tramite ulteriori ricerche l’impressione problematica che se ne trae. Sembra essere all’opera una sottovalutazione di importanti dinamiche demografiche. Anche ammesso, a voler essere prudenti, che per ora esse abbiano portato ad una diffusa differenziazione degli organici aziendali solo in alcuni settori (geografici o merceologici), tutte le stime e le valutazioni disponibili indicano che lo stesso effetto si diffonderà in modo del tutto generale in un tempo relativamente breve. Per quello che è lo scenario delineato, sembra quindi di poter concludere che la funzione HR ha sia l’opportunità (è parte del team di vertice), che gli stimoli (è coinvolta in obiettivi di efficienza, 5 In area anglosassone, un sondaggio del 2001 (SHRM, 2001) forniva indicazioni similari, con il 56% delle risposte affermative alla domanda: “Nella mia organizzazione, HR è vista come un partner strategico del business”. 20
  • 21. efficacia, clima e qualità della comunicazione), che la conoscenza di alcuni degli strumenti necessari (gestione conflitto, innovazione e leadership) per farsi promotrice di una svolta nella capacità delle aziende di gestire in modo inclusivo ed utile per il business le differenze. Viceversa, ciò che appare ancora critico è il livello di consapevolezza. Consapevolezza dei processi di differenziazione in corso, delle loro tempistiche, delle conseguenze potenziali (rischi/opportunità), sia per l’ambito delle prassi di gestione del personale sia per quello più ampio delle prestazioni aziendali. Tutti temi che abbiamo cercato di delineare nel nostro breve studio. Se così fosse, la proposta che facciamo rischierebbe di trovare un uditorio non sufficientemente predisposto. Questa prospettiva, tuttavia, anziché sminuire la potenziale utilità della proposta, ci convince ancor più della sua tempestività e pertinenza, suggerendo alla funzione HR di scendere in campo direttamente ed il più presto possibile. Se il problema è quello di un ritardo, o di un non sufficiente livello, di consapevolezza, infatti, siamo ancora in tempo per stimolare una discussione ed un confronto i più ampi possibili attrezzando la funzione HR per quel ruolo di partner strategico del business da tante parti suggerito, reclamato o auspicato. Ruolo e strumentazione sono all’altezza. Se la consapevolezza è l’ostacolo principale, nel prossimo paragrafo, attraverso il racconto di casi empirici molto semplici, cercheremo di capire come può emergere questa consapevolezza. L’auspicio è che, da tale semplicità, forse banalità di questi casi, nasca un concreto incoraggiamento per attivare quel piccolo innesco da cui possono nascere e svilupparsi grandi esperienze. 3. Consapevolezza, azione e miglioramento In questo paragrafo esporremo brevemente due casi. Il primo relativo alle differenze di genere, il secondo alle differenze di età. I casi sono volutamente semplici. Siamo convinti, per prima cosa, che è possibile introdurre miglioramenti significativi anche con piccole azioni generate da una scintilla di consapevolezza, e poi che è su questi successi iniziali che più facilmente si possono ottenere committment e risorse per sviluppi ulteriori. Inoltre, le aziende considerate erano già dotate, in termini di politiche formali responsabilità definite e processi/prassi attente a temi di Diversità. Siamo convinti che in caso di avvio di un’iniziativa sul tema della Diversità, non solo per chi comincia da zero, ma anche nei casi più strutturati, se siamo alla presenza di mancanza/carenza di consapevolezza, si rischia di consolidare una cultura della conformità anziché del risultato e dell’efficacia. 3.1 Differenze di genere: consapevolezza delle forme sottili di prevenzione 3.1.1 Descrizione dell’azienda Il primo caso che consideriamo è quello di un’azienda di grandi dimensioni, sede italiana di una multinazionale straniera con sede principale (casa madre) in un paese nord europeo. La legal entity italiana, presente nel nostro paese da decenni, ha un ampio portafoglio di prodotti e servizi, gestito tramite più divisioni di prodotto. Il profilo funzionale prevalente delle divisioni è commerciale/service, ma in alcune di esse sono presenti anche fasi produttive (tipicamente assemblaggio) o fasi di sviluppo di prodotti/soluzioni (R&D, integrazione ecc.). Negli ultimi anni, hanno avuto luogo non poche acquisizioni, facendo sperimentare anche i problemi legati all’integrazione di differenti culture aziendali. Il mercato di riferimento è in genere quello italiano, ma è presente anche un certo grado di esposizione all’estero. Infatti, parte dei materiali assemblati è oggetto di interscambio con altre sedi estere della casa madre, alcune divisioni hanno anche un ruolo di coordinamento degli sforzi commerciali a livello regionale europeo, ed una divisione 21
  • 22. realizza metà del suo fatturato in più paesi esteri. La legal entity italiana ha responsabilità di profitti e perdite complessivi, perciò tutti i business sono rappresentati nella Direzione, dove ha luogo lo scambio delle rispettive esperienze. La funzione HR è articolata in ruoli specialistici centralizzati e funzioni di gestione del personale di divisione. Queste ultime collaborano a stretto contatto coi vertici delle divisioni. La casa madre ha sviluppato e diffuso da diversi anni politiche in tema di pari opportunità, non discriminazione e promozione delle differenze come potenziale fonte d’innovazione per il business. Le modalità di applicazione di queste politiche sono oggetto di audit di processo periodici (due-tre anni). La casa madre li effettua nei vari paesi, tramite team interfunzionali ed internazionali. 3.1.2 L’esposizione alle differenze La sede italiana ha una percentuale degli organici impiegatizi di genere femminile pari a circa il 22%. Un’analisi di questa popolazione, approntata poco prima di uno degli audit di processo della casa madre, conferma che essa è distribuita in modo praticamente omogeneo in quasi tutte le funzioni aziendali. In particolare quelle commerciale, service e R&D. La verifica dei livelli di scolarità ha riscontato una sostanziale similarità con la distribuzione dei livelli scolari della popolazione di genere maschile (il 49% delle donne è laureata rispetto ad un 53% dei maschi), sia complessivamente, sia per funzione, in particolare nelle aree commerciali e di R&D. Anche una verifica delle età anagrafiche (correlabili con l’anzianità lavorativa) non ha evidenziato particolari sbilanciamenti fra i due generi per età inferiori ai 40 anni (al di sopra di questa età, le donne laureate sono solo il 17% rispetto al 34% degli uomini: potremmo chiamarla una testimonianza fossile di una precedente epoca, e dell’azienda e della società del paese). Un sostanziale allineamento è emerso nuovamente nelle aree commerciali e di R&D, a causa della forte crescita dei loro organici negli ultimi anni, grazie ad intense campagne d’assunzione di neolaureati d’indirizzo tecnico ed economico. L’utilizzo di forme contrattuali a tempo limitato (part time) è ridotta (solo un 3% ne fruisce) ed è concentrato nel segmento di genere femminile. L’esposizione alle differenze di questa azienda non è trascurabile. Sono presenti differenze di età significative (lunga presenza in Italia e recenti intense campagne d’assunzione per neolaureati). I business presenti sono molto differenziati in quanto a tecnologie, mercati di sbocco, struttura delle divisioni, e si confrontano fra loro nella Direzione. C’è una certa esposizione estera e sono state fatte diverse acquisizioni. Il tema interculturale (azienda, paese) ha potuto esercitare le sue influenze, sia in termini di rischi che di opportunità. La differenza di genere è una delle tante ed alla sua base non presenta disomogeneità di fattori rilevanti (scolarità e tipologia di studi, esperienza lavorativa) ai fini dell’efficacia dell’azione lavorativa delle persone appartenenti ad un genere anziché all’altro. 3.1.3 Il caso Agli inizi degli anni 2000, in quest’azienda il numero delle donne con qualifica di dirigente è pari a 6. Sono in organico principalmente a funzioni centrali (3), di supporto al business e in aree R&D (2). Nessuna siede nel Comitato Direttivo, presieduto dall’amministratore delegato. In termini percentuali, solo l’1% delle donne è dirigente contro il 10% dei maschi. La situazione a livello di qualifica di quadro appare migliore: il 9% delle donne è quadro contro il 18% dei maschi. E’ interessante un altro elemento: fra le donne quadro, solo il 17% ha una quota di retribuzione variabile legata ad obiettivi di performance. Nel caso dei maschi l’incidenza sale al 41%. Siamo quindi alla presenza di fattori segreganti, sia retributivi sia di tipo verticale (posizioni di responsabilità), non correlabili a fattori oggettivi (età, scolarità tipo e livello, forme contrattuali). 22
  • 23. La funzione HR decide di impegnarsi in un riesame delle cause della situazione. In una prima fase, sono state evidenziate tutta una serie di aree di possibile intervento: presidio dei processi di gestione del personale, incremento delle modalità di lavoro flessibile accompagnate da interventi di change management sui capi, supporto al periodo di post maternità (es. asili nido convenzionati), ed alcune iniziative sono effettivamente partite. In particolare, il monitoraggio del processo di nomina alla dirigenza. Questo processo prevedeva la raccolta delle candidature presentate dai capi, soddisfacenti alcuni requisiti oggettivi (es.: età massima non superiore ai 40 anni, livello di performance eccellente negli ultimi due anni ecc.), la loro valutazione secondo una metrica costituita da una decina di parametri (livello di scolarità, esperienza internazionale, lingue conosciute, etc.) di peso relativo differenziato. Fra i parametri era compreso anche il risultato di un assessment di due giorni, effettuato da un soggetto terzo indipendente dall’azienda. Sulla base di questa metrica, ogni candidatura aveva un punteggio complessivo di valutazione, che serviva per stilare una graduatoria. La graduatoria era presentata al Gruppo Manageriale Ristretto (3 dirigenti di vertice), con compiti fondamentalmente di garanzia, il quale accertava quali candidature non potevano procedere a causa del mancato superamento di una soglia minima per il punteggio complessivo. La graduatoria era presentata al Consiglio di Amministrazione della società che la vagliava considerando il vincolo del numero massimo di nomine fissato per l’anno. Il processo di screening delle nomine era effettuato di concerto fra HR ed i responsabili delle funzioni proponenti le candidature. La valutazione formale, utilizzando la metrica, era effettuata dalla funzione HR ed era sempre HR che presentava la graduatoria delle candidature al Gruppo Manageriale Ristretto. HR, quindi, era un attore fondamentale e governava buona parte del processo. Per la questione che qui ci interessa, la fase critica è risultata essere quella di screening delle candidature, prima dell’avvio della loro valutazione formale. In questo momento, oltre ai parametri pertinenti (es la performance), si faceva un gran parlare anche di aspetti collaterali legati alle persone dei candidati: comportamenti, stili, eventi della loro vita privata che loro stessi/e avevano portato a conoscenza dei responsabili. Due di questi aspetti collaterali sono risultati particolarmente frequenti: il grado di visibilità, in particolare in termini di face time (disponibilità indefinita a restare sul luogo di lavoro) e vicende personali legati alla maternità. Il primo aspetto, in modo del tutto generale risultava favorevole alle candidature maschili. Il secondo tendeva a svantaggiare quelle femminili. Nessuna di queste considerazioni trovava spazio nelle fasi successive del processo di nomina. Ma in fase di screening, quando un responsabile di linea tendeva a presentare più candidature di quante avesse senso far entrare nel processo formale, quasi inevitabilmente intorno alle candidature femminili si veniva a creare un’aura di dubbio. Le candidate risultavano essere molto meno propense al face time. Inoltre, in un modo o nell’altro, erano spesso in una qualche fase della maternità: dopo il terzo mese, prossime al periodo di assenza obbligatorio, in assenza obbligatoria, in permesso di maternità, con due figli da gestire, etc. Anche in considerazione che la soglia di 40 anni portava il range di età utile per la candidatura proprio nella fascia d’età fertile effettiva, di fatto, per donne laureate (30-40 anni). Di fronte alla scelta di limitare da cinque a due le candidature da mandare oltre, quelle maschili predominavano nettamente (se non esclusivamente). Inoltre, non era trascurabile il caso che la stessa funzione HR, considerando il peso dell’assessment e per mettere nelle migliori condizioni la candidata, magari preferiva rimandare ad una sessione di valutazione successiva l’impiegata notoriamente incinta. Il che si traduceva, in caso di fruizione di permessi di maternità in ritardi anche di due anni, spesso nello scivolamento (se non nella fuoriuscita) dalle liste di priorità delle funzioni di appartenenza (anche a causa di non infrequenti cambi di ruolo al rientro della maternità e quindi di parziale riavvio della carriera). Talvolta non c’erano rientri, causa l’assenza di supporti alla prole (cui fra l’altro uno stipendio da dirigente almeno in parte avrebbero potuto supplire) e soprattutto i mancati stimoli di carriera. A questo punto, l’anno successivo, la funzione HR si è imposta un codice di comportamento in maniera tale da evitare, scoraggiare, sminuire, non dare seguito ad ogni tipo di discussione non 23
  • 24. pertinente coi parametri di valutazione, soprattutto in fase screening. Al termine del processo di quell’anno, su dieci nomine effettuate 5 erano di genere femminile, tutte in funzioni di business o R&D, ed una delle neodirigenti era rientrata dalla maternità da appena tre mesi, peraltro avendo sostenuto l’assessment poco prima di entrare nel periodo di assenza previsto per legge. 3.2 Differenze di età: opportunità dai più giovani 3.2.1 Descrizione dell’azienda. Il secondo caso che consideriamo è relativo ad un’azienda di dimensioni medio/grandi, questa volta di proprietà italiana. La società opera nel settore degli apparati elettronici. Emerge con un portafoglio prodotti completamente rinnovato da un impegnativo processo di riconversione tecnologica (da tecnologie elettromeccaniche ad elettronica digitale), che l’ha impegnata per tutta la prima metà degli anni ‘80. L’evoluzione delle sue tecnologie ha avuto un pesante impatto sui suoi organici. Da un lato si sono ridotti della metà. D’altro canto, un processo di cambio mix ancora più lungo, durato sino alle soglie degli anni ’90, le ha permesso di acquisire collaboratori dal mercato, principalmente neolaureati, con le professionalità adeguate alle nuove esigenze. Al termine di questo processo, semplificando si potrebbe dire che nel suo corpo devono convivere due anime. Quella rappresentata dalle vecchie generazioni, che devono portare a termine il processo di cambiamento principalmente nella dimensione culturale, e quella della nuova generazione, dotata delle nuove competenze tecniche, aperta a forme più moderne di organizzazione e collaborazione ma ancora di limitata esperienza. L’azienda è integrata verticalmente: dallo sviluppo dei prodotti, alla loro fabbricazione, alla vendita, installazione e servizio post vendita. La trasformazione dell’azienda è stato un processo sostanzialmente interno: non hanno avuto luogo acquisizioni o partnership (alcuni progetti significativi non hanno avuto seguito). Il mercato di riferimento è per il 95% quello italiano. La società ed i suoi clienti provengono dall’area delle partecipazioni statali. 3.2.2 L’esposizione alle differenze L’esposizione alle differenze di questa azienda è concentrata principalmente sull’età. E’ rilevante anche una differenza di genere. Tuttavia, data la predominanza numerica di personale femminile nelle aree operaie e l’ancora ridotta presenza nelle aree tecniche e commerciali, le tematiche sensibili a riguardo sono ancora principalmente quelle della turnazione e della segregazione salariale. E’ anche vero che, per scelta dei vertici aziendali, alla tematica delle pari opportunità è data una grande enfasi, sia interna che esterna. Così, sebbene il metodo con cui le istanze di genere sono affrontate sia quello tradizionale delle Relazioni Industriali, mediante accordi integrativi aziendali, alcuni accordi sono ispirati da approcci per l’epoca particolarmente innovativi. 3.2.3 Il caso Il processo di evoluzione culturale ed integrazione generazionale non si è ancora concluso. A cavallo della metà degli anni ’90, si ha un'altra evoluzione tecnologica con potenziale impatto rilevante per le modalità di lavoro e di collaborazione. Rapidamente, in un biennio, le postazioni di lavoro si popolano di personal computer. La logica precedente era quella delle postazioni client, con quasi nulla potenza di calcolo locale, rapporto fra postazioni e utenti pari a 1:5 anche nelle aree più tecniche, utilizzo del terminale praticamente confinato ai tecnici o agli operativi (es. amministrazione, acquisti, logistica…), controllo delle attività di gestione e dei progetti basato su 24