2. Il culto è letteralmente la “cura” dovuta alla
divinità e al suo tempio. Il termine “culto”
deriva direttamente dal latino cultus, che a
sua volta significa "cura, coltivazione,
adorazione", participio passato di colere,
"coltivare".
Tra le osservanze nel culto di una divinità ci
sono i rituali, che possono comprendere
preghiere ed inni recitati o cantati, danze e
spesso sacrifici, o gesti sostitutivi del
sacrificio.
3. Anche il termine “Cultura” è di derivazione latina e utilizza
la stessa radice “Cult” che rimanda allo stesso significato di
tipo agricolo. Il senso del coltivare la terra si estende ad
ogni tipo di attività e situazioni che richiedono un’assidua
cura, dalla “cura” verso gli dei, quello che tuttora
chiamiamo culto, alla coltivazione degli esseri umani
ovvero la loro educazione.
Da quest’ultima accezione deriva il valore di cultura nel suo
senso moderno: il complesso di conoscenze (tradizioni e
saperi) che ogni popolo considera fondamentali e degni di
essere trasmessi alle generazioni successive.
Nella nostra civiltà occidentale il concetto di cultura è
divenuto erroneamente sinonimo di “conoscenza di quanto
depositato nei libri” vi è quindi la tendenza a considerare
persone colte o addirittura uomini di cultura coloro che
hanno letto tanti libri.
4. Il Concilio Vaticano II fa una significativa affermazione
a proposito del ruolo della cultura nella vita e nella
missione della Chiesa. Al numero 58 della Gaudium et
Spes, dichiara: “Parimenti la Chiesa, che ha conosciuto
nel corso dei secoli condizioni di esistenze diverse, si è
servita delle differenti culture per diffondere e spiegare
nella sua predicazione il messaggio di Cristo a tutte le
genti, per studiarlo ed approfondirlo, per meglio
esprimerlo nella vita liturgica e nella vita della
multiforme comunità di fedeli.”
Si può dire che in 2000 anni la Chiesa ha integrato le
risorse culturali dei popoli e delle regioni del mondo
che sono state evangelizzate, per insegnare e celebrare
il mistero pasquale di Cristo nella liturgia.
5. Prima del XXº secolo, e quindi dell’affermarsi degli studi
antropologici, quando si faceva riferimento alla cultura si pensava
ai grandi maestri, artisti e letterati, che influenzavano con la loro
opera i modelli culturali del proprio tempo. Così si poteva parlare
di cultura come un termine usato spesso per definire una élite,
come sinonimo di istruiti in opposizione ai non acculturati,
incapaci di apprezzare la bellezza dell’arte, dell’architettura, della
letteratura e della musica.
Ma attraverso gli studi dell’antropologia culturale abbiamo
cominciato a capire che la realtà di una cultura è molto più
complessa di quanto si creda. Anziché un modello monoculturale
oggi riconosciamo una molteplicità delle culture, ognuna con le
sue caratteristiche uniche. Il modello monoculturale ci può aiutare
a capire l’occasionale incapacità della Chiesa incarnare il Vangelo
in particolari culture lungo i secoli, precisamente perché l’unico
modello culturale presentato come valido era quello
dell’Occidente europeo (si veda l’esempio già evocato a proposito
di Matteo Ricci in Cina e la questione dei “riti cinesi”).
6. Ora, benché il Concilio Vaticano II non abbia mai usato il
termine inculturazione, esso incoraggiò sempre un
adattamento del rito romano nei contesti culturali
particolari in cui veniva celebrato, affermando con vigore
che la pluralità culturale è intrinsecamente “cattolica”. Molti
hanno definito a ragione i numeri 37-40 della Sacrosantum
concilium come la Magna Charta dell’inculturazione.
Al numero 37 infatti si afferma che la Chiesa non vuole
imporre una rigida uniformità in materia liturgica ma invece
rispetta incoraggia le qualità e le doti di animo dei vari
popoli posto che queste componenti culturali non siano
collegate con superstizioni o errori e posto che possano
armonizzarsi con il vero ed autentico spirito liturgico. Il
documento poi prevede che si lasci posto alle legittime
diversità e ai legittimi adattamenti dei vari gruppi, regioni,
popoli salvo la sostanziale unità del rito romano.
7. La prospettiva più avanzata è al numero 40, dove si
afferma che in alcuni luoghi e in particolari
circostanze si rende urgente un più profondo
adattamento della liturgia: un buon esempio di
questo adattamento lo troviamo nell’approvazione,
nel 1988, per i vescovi della Repubblica
Democratica del Congo (allora Zaire) da parte della
Santa sede della pubblicazione della Messa
Romana per le diocesi del Congo, popolarmente
chiamata “rito zairese”, che contiene caratteristici
elementi africani e specifici congolesi.
8. Senza dubbio una delle realizzazioni più
significative della riforma liturgica del
Concilio Vaticano II è stata proprio una nuova
consapevolezza dell'importante relazione fra
liturgia e cultura, tramite quella che sarebbe
stata chiamata “inculturazione liturgica”.
Ciò fu dovuto in gran parte all’opera svolta da
antropologi culturali, sociologi, teologi e
anche artisti, già prima del Concilio Vaticano
II.
9. «Come la geologia, la linguistica e la biologia
traggono le loro conclusioni dalle
stratificazioni riscontrabili rispettivamente a
livello della crosta terrestre, del linguaggio e
dei viventi, così le forme liturgiche di una
determinata epoca, in ragione della loro
struttura e della loro concatenazione, ci
permettono di scoprire la loro propria genesi
storica»
10. 1ª LEGGE: I testi liturgici evolvono dalla diversità
all’uniformità.
2ª LEGGE: I testi liturgici evolvono dalla sobrietà
a un progressivo arricchimento.
3ª LEGGE: I testi liturgici evolvono da una minore
a una maggiore dipendenza dalla Bibbia.
4ª LEGGE: I testi liturgici evolvono da una minore
a una maggiore tendenza alla simmetria.
5ª LEGGE: I testi liturgici evolvono da una minore
a una maggiore pregnanza di contenuti teologici.
11. Gli studi di liturgia precedenti il concilio Vaticano II e la
riflessione del movimento liturgico, avevano spostato l’attenzione
sui diversi contesti storico-culturali in cui il culto si era sviluppato
e veniva quindi abbondantemente chiarito che la liturgia cristiana
non può essere studiata, e ancora meno celebrata, se non in uno
specifico contesto culturale. Questa coscienza nel campo dello
studio della liturgia contribuì significativamente ad un risveglio
culturale del Concilio Vaticano II in relazione al culto e alla
conseguente necessità di adattare la liturgia ai vari contesti
particolari.
Contrariamente al termine cultura, il vocabolo “inculturazione” è
relativamente nuovo nei documenti della Chiesa cattolica, e non
appare neppure una volta all’interno dei documenti del Concilio
Vaticano II, anche se nei suoi testi fondamentali il Concilio parla
dell’importanza della cultura e della necessità di adattare il
Vangelo e il culto della Chiesa alle singole tradizioni.
12. Il termine “Inculturazione” venne usato per la prima volta
solo nel 1962 in un articolo pubblicato nella “Nouvelle
Revue Theologique” dal gesuita Joseph Masson, della
Università Gregoriana, dal titolo significativo “L’Eglise
ouverte sur le monde”.
Il termine venne ripreso poi nel 1973 da un missionario
protestante Georges Barney di New York che suggeriva
prudenza nella prassi dell'inculturazione per paura che
l'essenziale del messaggio evangelico andasse perduto in
una troppo affrettata commistione tra elementi indigeni e
tradizione cristiana.
Due anni dopo, nel 1975, i gesuiti lo usarono durante la
loro 32ª congregazione generale tenutasi a Roma con una
lettera sul tema scritta dal loro padre generale, P. Pedro
Arrupe.
13. Nel 1979 Giovanni Paolo II utilizzò il termine nel suo
discorso alla Pontificia Commissione Biblica e fu la
prima volta in cui la parola “inculturazione” apparve
in un documento pontificio.
Il Papa sviluppò ulteriormente concetto al numero 53
dell’esortazione apostolica Catechesi Tradendae,
sulla relazione fra catechesi e cultura, promulgata lo
stesso anno.
Il sinodo straordinario dei vescovi del 1985 offrì un
proprio contributo, suggerendo che l’inculturazione è
differente da un semplice adattamento esteriore:
significa invece una trasformazione interiore di
valori culturali autentici, tramite la loro integrazione
nel cristianesimo e il radicamento del cristianesimo
nelle differenti culture.
14. Nel 1994 la Congregazione per il Culto Divino e Disciplina
dei Sacramenti pubblicò un documento su “La liturgia
romana e l’inculturazione” sottolineando la propria
preferenza per il termine “inculturazione” rispetto a
“adattamento”.
Il testo descriveva l’inculturazione come uno sviluppo più
organico nel quale la Chiesa cerca di incarnare il Vangelo
nelle culture particolari ma venendo al contempo arricchito
dei contributi culturali di popoli differenti. Questo duplice
movimento è significativo in quanto suggerisce che
un’entità ha qualcosa da imparare dall’altra, ed implica una
certa reciprocità. Detto ciò però è essenziale sempre un
discernimento per un giudizio equilibrato su quali elementi
culturali debbano o non devono essere accolti negli ambiti
liturgici e nella disciplina del discorso teologico.
15. In realtà la Liturgia ha nel suo stesso sviluppo
storico i tratti proprio dell’inculturazione. In
particolare la liturgia “romana” ha sviluppato
una sensibilità particolare proprio alla
dimensione culturale, e questo è dovuto in
parte alla caratteristica universale (e quindi
“cattolica”) della stessa cultura “romana.
16. La liturgia cristiana nasce e si sviluppa all'interno della
tradizione giudaica. Dalla tradizione sinagogale si sviluppa
la liturgia della Parola; dalla berakah si sviluppa
l'eucharistìa; il calendario è quello biblico-giudaico: la
settimana, il ciclo lunare, la durata del giorno da sera a
sera; le feste: Pasqua-Pentecoste, dal sabato alla
domenica; l'uso dei Salmi; le dossologie e le acclamazioni
liturgiche [alleluia, Hosanna, Amen].
Non si aboliscono i vecchi riti (Mt 5,17), ma si
perfezionano dando loro i contenuti della nuova economia
pasquale cristiana: si veda la reinterpretazione della cena
pasquale giudaica (1 Cor 11,18ss) o della liturgia-teologia
battesimale (Rm 6,4).
17. La liturgia cristiana non nasce dunque ex novo ma, sotto la
guida dello Spirito Santo, si sviluppa su matrici
preesistenti mediante un discernimento:
di accoglienza per tutto ciò che è in armonia con la
tradizione apostolica e fedele alla storia della salvezza,
di esclusione (o di purificazione) per ciò che è contrario al
Vangelo e alla pratica cristiana; e soprattutto mediante un
processo di re-interpretazione: dando ai segni-riti-
modelli nuovi contenuti e nuovi significati.
Nonostante la risoluzione del Concilio di Gerusalemme (At
15,7-11: Dio non fa discriminazione; non porre pesi inutili
sui pagani), per il momento l'unico adattamento della
liturgia protocristiana è alla sola tradizione giudaica
sinagogale: battesimo, cena, Scritture, calendario. I riti
pagani sono visti come diabolici.
Si prospettano tre possibili soluzioni:1.«cristianizzare» le
tradizioni giudaiche restando legati ad esse; 2.fare
adattamenti alle nuove culture ellenistiche [concilio di
Gerusalemme e il caso di Cornelio in At 10]; 3.forte ostilità
verso i culti pagani ritenuti demoniaci.
18. Un esempio classico di inculturazione liturgica lo
possiamo infine trovare nell'origine cristiana del
Natale. Secondo studi ormai consolidati, noi
sappiamo che la festa del Natale di Cristo ebbe
origine nella Chiesa di Roma in sostituzione della
festa pagana del «Sol invictus». Alle tradizioni dei
pagani che nel solstizio di inverno celebravano la
nascita del dio sole, i cristiani opposero una
nuova festa: quella di Cristo che «come Sole di
giustizia» (cfr. Malachia 4,2; Gv 8,12), nasce per
diradare le tenebre dell'errore e del peccato.
Non mancano tuttavia «contaminazioni» da culti-
tradizioni ellenistiche: i riti di iniziazione. Di
tipica provenienza ellenistica è l'uso di vesti,
insegne e onori liturgici che vengono tuttavia
reinterpretati in senso spirituale-ecclesiastico.
19. Carlo Magno verso l'800 vuol unificare l'impero e fa ricorso
all'unità della fede-liturgia del papa di Roma; chiede i libri
della liturgia romana: li accoglie adattandoli alla cultura
germanica [dà questo incarico al monaco Alcuino che
inserisce numerosi formulari non romani].
Verso il X secolo accade qualcosa di simile con gli
imperatori di Germania. In questo periodo Roma è in forte
decadenza culturale. Proprio questi gli imperatori, facendo
visita a Roma, impongono l'uso di quei libri liturgici un
tempo romani, ma ora romano-germanici. Così il Pontificale
romano-germanico del X secolo che rimarrà fino a Trento.
20. La spiritualità liturgica di questo periodo subisce
una interpretazione allegorica [Amalario: 850] e il
Cristo sofferente-crocifisso [non più
regale] monopolizza la visione della iconografia
e della concezione della Messa [prevalenza
dell'aspetto sacrificale: sec XII-XIII]. I riti, non più
compresi, vengono interpretati in maniera
«allegorica» [ogni segno-gesto rappresenta una
scena della passione].
Si hanno questi passaggi:
nella catechesi: dalla mistagogìa all'allegorismo;
nell'architettura: dal romanico al gotico;
nell'assemblea: dalla comunità orante, alla
devozione privata.
21. La decadenza liturgica e certi abusi furono tra
le cause della reazione protestante [Lutero]. Il
Concilio di Trento affidò al papa l'esecuzione
pratica di una riforma liturgica [i vescovi
vennero in qualche modo a perdere una loro
prerogativa di legislatori liturgici nella loro
diocesi].
Nel 1570 fu pubblicato il Messale romano ad
opera di S.Pio V. I criteri: centralismo liturgico
e uniformità.
22. A seguito della scoperta delle nuove terre Gregorio XV nel 1622
fondò per le missioni una apposita congregazione cardinalizia
cui diede il nome di Congregatio de Propaganda Fide. Ad appena
40 anni dalla sua istituzione, la Sacra Congregazione di
Propaganda Fide emanò un documento di notevole interesse
circa il problema dell'incontro tra Vangelo e culture. E divenuta
ormai famosa l'Istruzione che la Congregazione di Propaganda
Fide indirizzò ai Vicari Apostolici della Società delle Missioni
Estere nel 1659 nella quale è detto:
«Non cercate in nessun modo di persuadere i popoli che
evangelizzate a cambiare i loro riti, consuetudini e costumi
purché non siano in maniera chiarissima contrari alla religione e
ai buoni costumi. Che cosa c'è di più assurdo di portare in Cina
la Francia, la Spagna, l'Italia o un'altra parte dell'Europa? Non
introducete queste nazioni, ma la fede la quale non respinge, né
lede riti e consuetudini di nessun popolo, purché non siano
cattivi, ma al contrario, vuole conservarli in tutto il suo
vigore...Perciò non paragonate mai gli usi di quei popoli con gli
usi europei, ma piuttosto abituatevi voi ad essi con il massimo
impegno»
23. Tende a considerare i propri valori-modelli come
superiori e cerca di imporli agli altri. Un tale
attaccamento e orgoglio di gruppo può
trasformarsi in xenofobia (persino
in nazismo), in imperialismo culturale,
in paternalismo (ritarda l’autodeterminazione e
tiene gli altri sotto tutela),
in trionfalismo (trasmettere non solo la propria
fede, ma anche le proprie forme culturali;
cristianizzare equivale a civilizzare-
europeizzare). Un tale modello ha impedito il
formarsi di un clero locale.
24. Prende atto che anche nelle altre culture vi sono
elementi positivi; possono costituire una buona
base per l’evangelizzazione. Il Vangelo però non
è fatto entrare «dentro» l’anima di queste culture:
resta come un abito esterno, una vernice
superficiale.
L’evangelizzazione è vista più come un trapianto
che una semina, una concessione delle Chiese
«antiche» piuttosto che un diritto e una necessità
delle Chiese «giovani» (ritenute infantili e
immature, sotto «tutela»). L’adattamento segue
un’ottica prevalentemente «ecclesiocentrica».
25. E’ il processo mediante il quale una Chiesa locale
integra il messaggio evangelico (il «testo») nella
propria cultura locale («contesto») secondo il
modello della «incarnazione» (AG 10), in maniera
vitale, in profondità, fino alle radici della propria
mentalità e dei propri valori (EN 53).
In questo processo di reciproco dare-ricevere, la
Chiesa locale deve assumere un atteggiamento
autoevangelizzante restando in dialogo con la
Chiesa universale. L’ottica è quella del «Regno» e
l’evangelizzazione è la prima preoccupazione
(non quindi la civilizzazione o l’umanizzazione).
26. La formula di Calcedonia riguardo all’unità della
persona di Cristo nelle sue due «nature», quella
umana e quella divina, “una persona in due
nature senza confusione e senza divisione”, esprime
bene in realtà anche il processo di inculturazione. La
fede si incultura in una società “senza confusione”,
cioè senza confondersi con essa, ma anche “senza
divisione”, cioè una vera inculturazione del Vangelo
non può pensarsi al di fuori di una società.
Analogo concetto lo esprimerà secoli dopo
Tommaso d’Aquino con queste parole: «gratia non
destruit, sed supponit et perficit naturam» [la grazia
non distrugge la natura, ma la presuppone e la
perfeziona].
27. Per ben intendere la nozione di inculturazione nella liturgia
bisogna tener conto che essa si compone di parti “immutabili” e
di parti “mutabili” (SC 21):
A) le parti immutabili sono quelle che provengono alla Chiesa da
Cristo, per istituzione divina, toccano l'unità della fede e il bene
dell'intera comunità; intaccare il legame che i sacramenti hanno
con Cristo che li ha istituiti, e con gli atti fondanti della Chiesa,
non sarebbe più inculturarli, ma svuotarli della loro sostanza;
B) le parti mutabili sono invece tutte le altre parti, i “segni
sensibili” (SC 7c) che significano-attuano la glorificazione di Dio
e la santificazione degli uomini (è questo il duplice movimento
della Liturgia, sempre trinitario). Questi mutamenti sono
possibili, alcune volte anche necessari, soprattutto quando si
tratta di rimuovere elementi antiquati che si fossero infiltrati
nella Liturgia (SC 21), in modo che questa sia sempre semplice,
lineare, chiara, di facile comprensione (cfr SC 34).
28. L'inculturazione risponde pertanto alle esigenze di
praticità e di pastoralità dei riti al fine di ottenere una
piena, attiva, cosciente, fruttuosa, comunitaria
partecipazione dei fedeli alla «liturgia» (cfr SC
11.14.21). L'inculturazione non ha niente a che fare
con l'“archeologia” liturgica né con l'improvvisazione.
In questo modo la Liturgia, pur essendo nella sua
intima natura sempre la stessa (è infatti
partecipazione del sacerdozio eterno di Cristo [SC 7c]
e attuazione dell'unica e irrepetibile opera della
nostra redenzione [cfr SC 2]), è anche soggetta a
mutamenti possibili e, a volte, doverosi. Non si
confonda dunque “unità” (necessaria) con
“uniformità” (da evitare).
29. Non può essere oggetto di adattamento ciò che di per sé è
legato a superstizioni o a errori (cfr SC 37). Nel rispetto del
contenuto della fede, si segua la dinamica
dell'incarnazione che prevede fedeltà a Dio e fedeltà
all’uomo.
Una liturgia inculturata dovrà:
* celebrare la presenza pasquale del Signore in mezzo al
suo popolo;
* proiettare quest'uomo verso il Regno futuro nell'attesa
del Signore che viene;
* rispettare il ruolo della Parola che interpreta i segni dei
tempi;
* rispettare le persone e i popoli che giustamente
desiderano assumersi la responsabilità della realizzazione
del proprio destino.
30. Secondo SC 37, tutto ciò che nei costumi dei popoli non è
legato a superstizione o a errore e si armonizza con il vero e
autentico spirito liturgico: * la Chiesa lo prende in
considerazione; * lo conserva; * a volte lo ammette nella liturgia
stessa.
Si dovrà tener conto che nella liturgia ci sono elementi
immutabili ed altri che possono e debbono variare nel tempo
(SC 21); inoltre non si deve dimenticare che la liturgia per sua
natura è: * manifestazione del mistero; * dialogo di Dio con il
suo popolo; * incontro con il Signore risorto; * manifestazione
della fede ed espressione della vita di un popolo credente.
Si dovrà evitare, nella liturgia, sia una riduzione di tipo
“didascalico” (semplice insegnamento) sia di tipo “ludico” (una
festa che diverte, espressione del folklore). Vi dovrà essere
sempre integrazione fra fede e vita.
Dovrà anche essere rispettata “l'unità sostanziale del rito
romano” (SC 38) e procedere solo se lo richiede una utilità vera
e sicura della Chiesa particolare (SC 23).
31. “La natura della liturgia è intimamente legata alla natura della Chiesa, al punto che è
soprattutto nella liturgia che si manifesta la natura della Chiesa”.
La natura di questa «ekklesìa» sta in questo:
* teandrica: «ha la caratteristica di essere nello stesso tempo umana e divina, visibile ma
dotata di realtà invisibili, fervente nell’azione e dedita alla contemplazione, presente nel
mondo e tuttavia pellegrina; tutto questo in modo che ciò che in lei è umano sia ordinato e
subordinato al divino, il visibile all’invisibile, l’azione alla contemplazione, la realtà presente
alla futura città verso la quale siamo incamminati (cf Eb 13,14)» (SC 2)
* è la santa convocazione di Dio nello Spirito, che si nutre alla duplice mensa della parola e
dell'Eucaristia, unico Corpo del Signore Risorto;
* è cattolica perché oltrepassa le barriere che separano gli uomini;
* è pellegrina perché nei suoi sacramenti porta l'impronta del tempo presente pur essendo
tesa verso la manifestazione del Signore Gesù (cf Tt 2,13; LG 48; SC 2 e 8) su questa terra.
Pertanto, ogni forma di adattamento:
* deve avvenire nel rispetto dell'unità e della continuità tra Chiesa universale e Chiesa
particolare; non si può procedere a innovazioni che possano danneggiare l'unità e il bene
della Chiesa (SC 37); l'accordo tra Chiesa universale e Chiesa particolare deve avvenire non
solo sulla dottrina della fede e sui segni sacramentali, ma anche sugli usi ricevuti
universalmente dall'ininterrotta tradizione apostolica;
* deve rinnovare e rafforzare la natura missionaria del popolo di Dio nella sua azione di
salvezza nel mondo.
* deve lasciare aperta la partecipazione alla liturgia della Chiesa universale (la “particolarità”
di una comunità non può avvenire in discapito della sua “universalità”).
32. L'inculturazione deve avvenire nel massimo
rispetto delle culture che caratterizzano i gruppi
umani, ed in particolare:
* promuovere un progresso di mutua
integrazione tra liturgia e religiosità popolare;
* rispettare il senso della festa presente nei vari
gruppi umani;
* utilizzare pienamente le possibilità di
linguaggio e di comunicazione (segni, simboli,
immagini, ecc.) avendo tuttavia l’accortezza di far
precedere ogni adattamento, oltre che da una
indagine teologica, anche da una seria
investigazione antropologica, storica, pastorale
(SC 23.37).
33. Oggi, a 60 dall’inizio del Concilio Vaticano II, la nostra
comprensione dell’inculturazione liturgica e di come essa
funzioni, continua a svilupparsi. E la situazione è ulteriormente
complicata dalla crescente realtà multiculturale nelle parrocchie
urbane e nelle diocesi del mondo, nonché dallo sviluppo dei
fenomeni connessi alla globalizzazione. che tende a fare della
diversità delle culture un’unica cultura globale.
In realtà il discorso dell’inculturazione non riguarda più solo
l’Europa ma diventa una proposta di un rapporto fra le tutte
culture e rende i cristiani capaci di diventare gli interlocutori più
competenti nel dialogo della chiesa con il mondo
contemporaneo.
La nuova prospettiva non è più quella dell’inculturazione, ma
dell’intercultura: cioè un dialogo vivo che all’interno stesso della
Liturgia mette insieme diverse culture che dialogano tra loro e
favoriscono una sintesi nuova tra fede e cultura che si esprime
attraverso la creatività liturgica.