1. I Romani e gli altri: come si è correlata l’identità latina con le identità altrui? R. Scarcia,” I romani e gli altri,” in Scolia, (Roma, n°3-anno 7-2005), pagg. 12-24 Le vicende delle popolazioni greche e italiche si iscrivono tutte nell’arco lungo di secoli che cominciano dalla preistoria e si concludono con l’età tardo antica, in un quadro di vasti movimenti migratori ( invasioni barbariche cosiddette). Peregrinazioni oltremarine, fondazioni di città in paesi inesplorati, commistione di sangue tra gruppi umani preesistenti e nuovi sopravvenuti, scambi e mescolanze di culture sono tutti elementi che appartengono alla memoria collettiva dei popoli antichi e ne nutrono solidamente i referenti; l’elemento costante di tale memoria è l’identificazione di un gruppo umano come discendente da un capo fondatore messosi a guida di genti profughe, a cui abbia saputo dare coesione grazie alle sue doti eroiche. Per la città di Roma, in modo particolare, il tratto distintivo di città asilo , in area di influenza etrusca per statuto romuleo, cioè, l’essere stata progettata quasi come un porto franco in quanto primario centro di scambio anche per via d’acqua, e come punto di libera accoglienza (si veda l’immediato sinecismo con i Sabini), si accompagna alla convinzione dei suoi abitanti di essere figli della diaspora troiana.
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3. Il carattere di società aperta risulta dunque appartenere al codice genetico di Roma e resta anche nella fase della decisa conversione economica in senso agrario conseguente al declino etrusco: essa porterà gradualmente all’espansione territoriale nella penisola, quindi, alla estensione dell’aggressività fuori dai confini dell’Italia stessa, alla costruzione insomma di un apparato statuale dalla fisionomia militarista. Alla forte capacità di integrazione etnica e di assimilazione dell’elemento forestiero, inclusa la ratio dell’acquisizione degli dei altrui in una con l’acquisizione del relativo ager, si accompagna una mobilità sociale individuale, palese nelle ascese e cadute di singoli personaggi. Si tratta di una evoluzione veloce di più o meno quattrocento anni nell’ambito della quale l’adattamento ancora più rapido alla lingua latina, divenuta da lingua di minoranza lingua egemone, degli elementi di base della coeva letteratura greca, fornì una insigne copertura ideologica, specie ai conflitti interni e spunti di riflessione alle élite dirigenti.
4. Per Cicerone il progresso si attua attraverso l’assimilazione, e questa si verifica là dove stranieri vengono integrati nel proprio sistema civico: “ …quod multa intelleges etiam aliunde sumpta meliora apud nos multo esse facta”. (Rep. 2,30) Per Sallustio accogliere quanto è di straniero è un’antica costumanza, rientra nel mos maiorum: “…neque illis (maiores) superbia obstabat quominus aliena istituta, si modo proba erant, imitarentur…” (Cat.51,37) Per Livio i mutamenti che avvengono nel momento in cui genti straniere si integrano nel sistema politico romano sono possibili perché Roma ha preso coscienza del suo destino universale: “…conubium petimus, quod finitimis externis dari solet; nos quidam civitatem, quae plus quam connubium est, hostibus etiam victis dedimus…. (Ab urbe condita, 4,3-4) Anche Virgilio, nel concludere l ’Eneide in una visione di concordia dopo la guerra latina, riprende – nella forma del colloquio tra Giove e Giunone - l’argomento basilare che una migrazione di massa ha esito felice solo quando si concreti in una convinta integrazione tra diversi, con mescolanza completa di idiomi e di usanze e creazione di una comunità nuova: “… cum iam conubiis pacem felicibus (esto) / component, cum iam leges et foedera iungent,/ ne vetus indigenas nomen mutare latinos/ neu troas fieri iubeas teucrosque vocari/ aut vocem mutare viros aut vertere vestem…..” (Eneide, 12,821 sgg.) E’ allora chiaro come la scelta imperialistica di Roma approdi gradatamente alla creazione di uno stato multietnico senza precedenti nella storia europea e mediterranea per ampiezza di confini e per saldezza di macchina amministrativa, che pure annulla nel tempo la riconoscibilità effettiva dei founderfathern Etruschi sia dei “diversi” Punici e assume manu militari le altrui sostanze (non le altrui coscienze né illusioni), per il suo mantenimento perpetuo, l’“ Imperium sine fine ” di Virgilio.
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6. Fedele agli ideali virgiliani di parcere victis et debellare superbos , Tacito ci presenta un Agricola volto anche a uccidere ed a debellare superbos nella fase di conquista, ma Agricola sa anche che la fama di invincibilità non basta ad assicurare stabilità di dominio, ma che deve essere accompagna e legittimata dalla serietà e dal rigore nell’amministrazione. Per questo sovrintende di persona ad ogni operazione amministrativa assegnando le funzioni in base al merito e troncando sul nascere gli abusi di funzionari corrotti. Questi infatti, fin dai tempi di Verre, costringevano i provinciali a compare dai granai romani il frumento che dovevano consegnare per imposizione fiscale, ricavandone lauti profitti personali. La repressione degli abusi è la prima garanzia di stabilità per il dominio romano, rende apprezzabile la pax romana e giova a contrastare la fama di raptores orbis che non senza ragione era uno dei cardini della propaganda antiromana.
7. Agricola approfitta della stagione invernale per attuare saluberrima consilia , aiutando a costruire edifici ed istruendo la popolazione nelle arti liberali ed i feroci britanni si adeguano al costume romano dapprima nella foggia del vestire, e poi anche nelle abitudini. MA a questo punto Tacito aggiunge una amara riflessione autocritica: la civiltà (humanitas) altro non è che una forma di servitù ai vizi ed agli allettamenti della vita raffinata; riprende Sallustio e le parole attribuite nelle Historiae (IV64,3) a Giulio Civile che al suo popolo in rivolta dice: “ Riprendete le tradizioni e le abitudini di vita dei vostri padri, lasciati da parte quei piaceri con i quali più che con le armi i Romani tengono la supremazia sui loro sudditi .”
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9. Agricola, 30-32: i Romani penetrano in Scozia oltrepassando la linea dove poi sorgerà il Vallum Antonini, i Caledoni, abitanti della zona, prendono le armi e il loro capo Calcago, con un discorso riportato da Tacito in forma diretta, li esorta alla guerra, definendo i Romani raptores orbis….. Auferre, trucidare, rapere, falsis nominibus imperium atque ubi solitudinem faciun pacem appellant… TACITO ALLORA È UN OPPOSITORE DELL’IMPERO? No, Tacito, senatore, romano è lealista verso l’impero ed è convinto che la funzione dell’impero romano sia quella di civilizzare le popolazioni anche a costo di asservirle (21,3), che i popoli sottomessi non obbediscono per il terrore delle armi romane, ma per il loro effettivo interesse, incapaci di sedare le discordie interne,TUTTAVIA, la loro situazione è spesso quella di oppressi, di afflitti dalla corruzione e dal malcostume amministrativo, un male che coinvolge ormai tutti dall’estrema periferia dell’impero al cuore della stessa Roma. Agricola portando le armi contro Calcago si fa strumento di oppressione, ma non per questo Tacito lo condanna. I due avversari hanno entrambi ragione: Agricola porterà civiltà in quel territorio, ma Tacito sa anche che quel mondo di barbari incorrotto nella sua primigenia purezza, ha molte virtù da insegnare ai Romani.