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FilibertoMariaDi Carlo5F
LA STORIA DEI QUANTI DI LUCE:
DALL’INTERPRETAZIONE QUANTISTICA DELL’EFFETTO FOTOLETTRICO
ALLE APPLICAZIONI MODERNE
LA TEORIA CORPUSCOLARE DELLA LUCE E LE IPOTESI DI ALBERT EINSTEIN
Nel 1905 Albert Einstein estese l’ipotesi dei quanti elaborata nel 1900 da Max Planck proponendo una
nuova teoria quantistica per la luce. Nella sua ipotesi Planck aveva suggerito che l’energia vibrazionale
delle molecole in un corpo radiante fosse quantizzata con energia E=nhf, dove n è un numero intero ed f la
frequenza della vibrazione molecolare. Einstein allora pensò che quando un oscillatore molecolare emette
luce la sua energia, data da nhf, deve diminuire di una quantità hf (oppure 2 hf ecc.) per diventare un altro
multiplo intero di hf, come per esempio (n-1)hf. Al fine di conservare l’energia, la luce dovrebbe quindi
essere emessa per quanti ciascuno dei quali avente energia E=hf, dove f è la frequenza della luce emessa
ed h la costante di Planck. Considerato che qualsiasi propagazione luminosa proviene da una sorgente
radiativa, si arrivò all’idea che la luce veniva probabilmente trasmessa in forma di minuscole particelle
dette oggi fotoni; questa teoria si aggiungeva alla teoria della luce trasmessa come onde, derivata dalla
teoria elettromagnetica di Maxwell. Questa teoria della luce composta di fotoni era un distacco netto dalle
idee della fisica classica. Per verificare la teoria quantistica della luce Einstein analizzò delle misure
quantitative sull’effetto fotoelettrico.
Nel 1887 Heinrich Hertz espose a radiazione ultravioletta una placca in metallo, osservando che
quest’ultima acquistava un eccesso di carica elettrica. Per giustificare questo eccesso di carica elettrica si
ipotizzò che la luce incidente doveva provocare l’emissione di elettroni sulla superficie stessa: questo
fenomeno fu definito effetto fotoelettrico. Questo fenomeno era osservabile con l’utilizzo di uno specifico
apparato.
L’EFFETTO FOTOELETTRICO E LA SUA INTERPRETAZIONE QUANTISTICA
In un tubo a vuoto di vetro, detto cellula fotoelettrica, si dispongono una
piastra metallica (L nella figura a destra) e un elettrodo (M nella figura a
destra). I due elettrodi sono collegati a un amperometro e a un generatore
di f.e.m. . Quando la fotocellula è al buio nell’amperometro non passa
corrente, quando invece una luce con frequenza sufficientemente alta
investe la piastra, osserviamo dall’amperometro che scorre una corrente
nel circuito. Per capire come avviene la chiusura del circuito bisogna
immaginare che gli elettroni espulsi dalla radiazione incidente viaggino
dalla piastra L al collettore M. In figura a destra è rappresentato lo schema
del dispositivo per lo studio dell’effetto fotoelettrico.
Affinché un elettrone sfugga dalla superficie deve essere però fornito di un’energia minima, detta lavoro
di estrazione. Ogni materiale fotosensibile utilizzato come piastra metallica nell’apparato ha una frequenza
caratteristica fmin chiamata soglia fotoelettrica, al di sotto della quale nessun elettrone era emesso. Inoltre
ogni materiale per una frequenza f ≥ fmin emette elettroni la cui energia cinetica massima aumenta
linearmente, con una pendenza indipendente dal materiale, all’aumentare di f;
Occupiamoci ora di analizzare come varia l’intensità i della corrente prodotta per effetto fotoelettrico in
funzione della d.d.p. ΔV fra gli elettrodi. Se il collettore M viene collegato con il polo positivo del
generatore, all’aumentare di ΔV aumenta anche la corrente, fino ad arrivare ad un’intensità massima, detta
corrente di saturazione.
Si osserva inoltre che invertendo i terminali in modo che l’elettrodo M sia negativo ed L positivo (ΔV < 0),
si giunge gradualmente ad una situazione in cui la corrente si annulla, ovvero dove nessun elettrone ha
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FilibertoMariaDi Carlo5F
energia cinetica sufficiente per raggiungere l’elettrodo M. Questo valor ΔV0 prende il nome di potenziale
di arresto.
Dalla misura del potenziale di arresto si può determinare l’energia cinetica massima degli elettroni espulsi
Kmax ricorrendo al principio di conservazione dell’energia per cui la perdita di energia cinetica è uguale al
guadagno di energia potenziale:
Kmax=e ΔV0
Analizzando i dettagli dell’effetto fotoelettrico dal punto di vista della teoria ondulatoria si giungeva ad
alcune importanti incongruenze che potevano essere giustificate dall’assunzione della teoria corpuscolare
della luce. Secondo la teoria ondulatoria della luce, se una radiazione elettromagnetica di intensità I colpiva
perpendicolarmente una superficie di area S, l’energia trasportata sulla superficie in un intervallo temporale
Δt era:
U=ISΔt
per cui l’energia degli elettroni dovrebbe dipendere solo dall’intensità I e dal tempo di esposizione Δt.
Tuttavia si era osservato che non era influenzata da nessuna di queste variabili, dimostrazione possibile
grazie al fatto che il potenziale di arresto era indipendente dall’intensità I e l’istantaneità dell’emissione.
Inoltre il modello teorico di Maxwell che assumeva che l’intensità I era determinata solo dall’ampiezza del
campo elettrico oscillante, non riusciva neanche a spiegare la dipendenza dell’effetto foto elettrico dalla
frequenza della radiazione. Alla luce di queste incongruenze Einstein suppose che ogni fotone, colpendo la
superficie di un metallo, trasferisse la propria energia a un solo elettrone.
Per vincere la forza che lo trattiene, un singolo elettrone ha bisogno del lavoro di estrazione Lmin. Sapendo
che se la radiazione ha frequenza minore di fmin= Lmin/h e che quindi sapendo che se i fotoni hanno energia
minore di Lmin nessun elettrone può essere estratto, sappiamo che l’effetto fotoelettrico si osserva solo se la
radiazione ha frequenza maggiore di fmin in modo che ogni fotone cedendo un’energia maggiore di Lmin
liberi un elettrone, si dimostra che la soglia fotoelettrica è appunto fmin= Lmin/h ed è diversa da metallo a
metallo.
Supponiamo ora che una superficie metallica sia colpita da una radiazione f ≥ fmin e quindi da una corrente
di fotoni ciascuno avente energia hf> Lmin . Poiché Lmin è l’energia minima che viene spesa per liberare un
singolo elettrone, la differenza hf - hfmin è uguale all’energia cinetica massima Kmax con cui l’elettrone può
abbandonare la superficie.
Combinando questa equazione con l’equazione con cui abbiamo precedentemente calcolato l’energia
cinetica massima (Kmax= e ΔV0), possiamo trovare la relazione che lega il potenziale di arresto alla
frequenza della radiazione. Si osserva che il potenziale di arresto ΔV0 è direttamente proporzionale alla
differenza fra la frequenza f della radiazione e la soglia fotoelettrica fmin secondo la legge:
e ΔV0 = h (f - f min) (Equazione di Einstein dell’effetto fotoelettrico)
Questa equazione mostra che il potenziale di arresto varia linearmente al variare di f con pendenza h/e che
non dipende dal materiale irraggiato e dalle proprietà della radiazione. A questo punto, considerando la
radiazione elettromagnetica come una corrente di fotoni, la sua intensità è direttamente proporzionale al
numero di fotoni che colpiscono perpendicolarmente una superficie per unità di area e per unità di tempo.
In questo modo si spiega perché il numero di elettroni emessi per unità di tempo è direttamente
proporzionale all’intensità della radiazione in quanto gli elettroni emessi sono tanti di più quanto maggiore
è il numero dei fotoni che colpiscono la superficie.
APPLICAZIONI DELL’EFFETTO FOTOELETTRICO
L’effetto fotoelettrico oltre a fornire un’importante conferma del modello corpuscolare della luce, presenta
anche diverse applicazioni pratiche. Gli allarmi antifurto o le porte ad apertura automatica spesso fanno usa
di circuiti a fotocellule costituiti da una struttura analoga a quella dell’apparato utilizzato per rilevare
l’effetto fotoelettrico: quando una persona intercetta il fascio di luce dell’apparato, il calo di corrente
improvviso nel circuito attiva un interruttore che consiste spesso in un solenoide che fa suonare la sirena o
3
FilibertoMariaDi Carlo5F
attivare la porta in questione. Nel caso specifico degli allarmi antifurto si usano radiazioni UV
(Ultraviolette) o IR(Infrarosse) poiché sono invisibili. Anche gli allarmi antifumo impiegano le stesse
funzionalità dell’effetto fotoelettrico al fine di rivelare piccole quantità di fumo; quest’ultime infatti
ostacolano la propagazione della luce e ciò provoca variazioni della corrente elettrica.
Viene proposto qui di seguito un esercizio sull’argomento trattato:
Consideriamo un elettrodo fotosensibile di una fotocellula con soglia fotoelettrica di 4,41 · 1014 Hz. Se la
cella viene illuminata da una radiazione di lunghezza d’onda pari a 4,00 · 10−7m, quale tensione deve essere
applicata ai suoi elettrodi per impedire il passaggio di corrente?
Il testo dell’esercizio ci fornisce due dati ed un’incognita. Dal testo sappiamo infatti che:
fmin= 4,41∙ Hz
λ= 4,00∙ m
mentre l‘ incognita che dobbiamo ricavare è il potenziale di arresto ΔV0. Sapendo che la frequenza di una
radiazione è definita come il rapporto fra la velocità della luce e la lunghezza d’onda della radiazione,
ovvero definita dall’equazione f= c / λ, ricaviamo che la frequenza della radiazione che illumina la
fotocellula è
f = c / λ = (3,00∙ m/s) / (4,00∙ m) = 7,50 ∙ Hz
Poiché la frequenza calcolata f è maggiore della soglia fmin, l’elettrodo fotosensibile emette elettroni. Per
impedire il passaggio di corrente, questo elettrodo deve essere mantenuto a potenziale maggiore rispetto
all’elettrodo opposto. In valore assoluto, la d.d.p. da applicare è uguale al potenziale di arresto ΔV0.
Dall’equazione di Einstein dell’effetto fotoelettrico precedentemente dimostrata ricaviamo il potenziale di
arresto come:
ΔV0 = (h/e) ∙ (f- fmin) = (6,62∙ J∙s / 1,602∙ C) ∙ (7,50 ∙ Hz - 4,41∙ Hz) =1,28 V
STRUMENTO MATEMATICO CORRELATO ALL’EFFETTO FOTOELETTRICO
Osservando tratto per tratto la curva che mostra l’intensità della corrente degli elettroni in funzioni della
d.d.p. fra i due elettrodi di una cella a vuoto per due valori I1 e I2 dell’intensità di radiazione con I2 > I1
osserviamo che in un primo tratto l’intensità di corrente che circola nel circuito aumenta fino al
raggiungimento di un tratto in cui la corrente rimane costante anche all’aumentare della d.d.p.; questa
intensità massima, come dimostrato precedentemente è detta corrente di saturazione. Osservando il tratto
di grafico in cui si arriva alla corrente di saturazione si evince che l’andamento della curva in prossimità
della corrente di saturazione è di carattere asintotico.
Nello specifico la corrente di saturazione è per la curva che rappresenta l’intensità della radiazione un
asintoto orizzontale.
Consideriamo il grafico di una funzione G(f) e una qualsiasi retta y=f (x) nel piano cartesiano che
approssima il grafico in una porzione del suo dominio. La retta in questione è detta asintoto della funzione.
È indispensabile fornire una classificazione dei possibili asintoti di una funzione, che si dividono in asintoti
orizzontali, asintoti verticali e asintoti obliqui.
4
FilibertoMariaDi Carlo5F
Definizione e metodo di ricerca di asintoti verticali
Se, al tendere di x a x0, con x0 ∈ R, una funzione tende -∞ o a + ∞ o a ∞, si dice che la retta di equazione x=
x0 è un asintoto verticale per la funzione. Da questa definizione si evince che una specifica retta x= x0, con
X0 ∈ R, è asintoto verticale per una funzione se il limite della funzione per x→x0 è -∞ o + ∞ o ∞.
Se il limite della funzione è infinito solo per x che tende a x0 da sinistra o per x che tende a x0 da destra si
parla rispettivamente di asintoto verticale sinistro o di asintoto verticale destro.
Prendiamo ora in considerazione la funzione 𝑦 =
𝑥2×1
𝑥2−1
La funzione è definita per x≠±1, quindi il suo dominio è (-∞, -1) U (-1, 1) U (1, +∞)
Per cercare gli eventuali asintoti verticali dobbiamo quindi calcolare i limiti della funzione agli estremi
finiti degli intervalli che costituiscono il dominio. Dovremo quindi calcolare i limiti:
lim
𝑥→−1
𝑥2+1
𝑥2−1
=∞, quindi x =-1 è un asintoto verticale
lim
𝑥→1
𝑥2+1
𝑥2−1
=∞, quindi x= 1 è un asintoto verticale
Definizione e metodo di ricerca di asintoti orizzontali
Se, al tendere di x a -∞ o a + ∞ o a ∞, una funzione tende a un numero reale l, si dice che la retta di equazione
y = l è un asintoto orizzontale per la funzione. Da questa definizione si trae che se una specifica retta di
equazione y = l, con l ∈ R, è un asintoto orizzontale per una funzione se il limite della funzione per x→+∞,
o per x→-∞ o per x →∞ è l. Nello specifico se il limite è l solo per x→+∞ si parla più precisamente di
asintoto orizzontale destro; se il limite è l solo per x →-∞ si parla più precisamente di asintoto
orizzontale sinistro.
Riprendiamo in considerazione la funzione 𝑦 =
𝑥2+1
𝑥2−1
e cerchiamo gli eventuali asintoti orizzonta li.
Dobbiamo calcolare i limiti della funzione agli estremi infiniti degli intervalli che costituiscono il dominio.
In questo quindi calcoleremo i limiti per x→-∞ e per x→+∞
lim
𝑥→±∞
𝑥2+1
𝑥2−1
=1, quindi y = 1 è un asintoto orizzontale (bilatero)
(Rappresentazione grafica della funzione presa in esame)
Definizione e metodo di ricerca di asintoti obliqui
Una retta di equazione y=mx +q, con m≠0, si dice asintoto obliquo per una funzione y = f (x) per x→∞
quando:
lim
𝑥→∞
| 𝑓( 𝑥) − ( 𝑚𝑥 + 𝑞)|=0
Se questa condizione è verificata per x →-∞ o per x →+∞, si dice, rispettivamente, che y=mx+q, è un
asintoto obliquo sinistro o un asintoto obliquo destro. Questa definizione non è però operativa, quindi data
una funzione non ci permette di stabilire se esistono asintoti obliqui, e in caso affermativo di determinarli;
per risolvere questi problemi è utile il seguente teorema di esistenza e calcolo dell’asintoto obliquo:
Questo teorema afferma che la retta di equazione y=mx+q è un asintoto obliquo per la funzione y = f(x) se
e solo se:
lim
𝑥→∞
𝑓( 𝑥)
𝑥
= m
5
FilibertoMariaDi Carlo5F
lim
𝑥→∞
[ 𝑓( 𝑥) − 𝑚𝑥]= q
Essendo m, q ∈ R, con m ≠0. Prendiamo in considerazione ora la funzione 𝑦 =
𝑥3+1
𝑥2+2
per studiarne gli
eventuali asintoti obliqui.
Osserviamo che il dominio della funzione è R - {-2,0}, quindi, essendo inferiormente e superiormente
illimitato, ha senso indagare sul comportamento della funzione sia per x →-∞ sia per x →+∞:
lim
𝑥→±∞
𝑥3+1
𝑥2+2𝑥
= lim
𝑥→±∞
𝑥= ±∞
Per cui non ci sono asintoti orizzontali; potrebbero esistere quindi asintoti obliqui. Abbiamo:
lim
𝑥→±∞
𝑓( 𝑥)
𝑥
=1 (m=1)
Essendo questo limite finito, continuiamo cercando il valore q:
lim
𝑥→±∞
( 𝑓( 𝑥) − 1 · 𝑥)=
lim
𝑥→±∞
(
𝑥3+1
+𝑥2+2𝑥
− 𝑥) = (forma indeterminata + ∞ - ∞)
lim
𝑥→±∞
𝑥3+1−𝑥( 𝑥2+2𝑥)
𝑥2+2𝑥
=
lim
𝑥→±∞
1−2𝑥2
𝑥2+2𝑥
= -2 (q=-2)
Si conclude quindi che l’asintoto obliquo esiste ed ha equazione y = x - 2
(Rappresentazione grafica della funzione presa in esame)
BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA :
 FISICA! Pensare l’Universo Edizione LAB (Antonio Caforio Aldo Ferilli)
 FISICA CON FISICA MODERNA (Douglas C. Giancoli)
 LA matematica a colori EDIZIONE BLU per il quinto anno (Leonardo Sasso)
 Tesi di laurea triennale Maria Serena Malagoli Università degli studi di Bari Aldo Moro,
“DETERMINAZIONE DELLA COSTANTE DI PLANCK CON IL METODO DI MILLIKAN”.
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FilibertoMariaDi Carlo5F

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Elaborato di Matematica e Fisica

  • 1. 1 FilibertoMariaDi Carlo5F LA STORIA DEI QUANTI DI LUCE: DALL’INTERPRETAZIONE QUANTISTICA DELL’EFFETTO FOTOLETTRICO ALLE APPLICAZIONI MODERNE LA TEORIA CORPUSCOLARE DELLA LUCE E LE IPOTESI DI ALBERT EINSTEIN Nel 1905 Albert Einstein estese l’ipotesi dei quanti elaborata nel 1900 da Max Planck proponendo una nuova teoria quantistica per la luce. Nella sua ipotesi Planck aveva suggerito che l’energia vibrazionale delle molecole in un corpo radiante fosse quantizzata con energia E=nhf, dove n è un numero intero ed f la frequenza della vibrazione molecolare. Einstein allora pensò che quando un oscillatore molecolare emette luce la sua energia, data da nhf, deve diminuire di una quantità hf (oppure 2 hf ecc.) per diventare un altro multiplo intero di hf, come per esempio (n-1)hf. Al fine di conservare l’energia, la luce dovrebbe quindi essere emessa per quanti ciascuno dei quali avente energia E=hf, dove f è la frequenza della luce emessa ed h la costante di Planck. Considerato che qualsiasi propagazione luminosa proviene da una sorgente radiativa, si arrivò all’idea che la luce veniva probabilmente trasmessa in forma di minuscole particelle dette oggi fotoni; questa teoria si aggiungeva alla teoria della luce trasmessa come onde, derivata dalla teoria elettromagnetica di Maxwell. Questa teoria della luce composta di fotoni era un distacco netto dalle idee della fisica classica. Per verificare la teoria quantistica della luce Einstein analizzò delle misure quantitative sull’effetto fotoelettrico. Nel 1887 Heinrich Hertz espose a radiazione ultravioletta una placca in metallo, osservando che quest’ultima acquistava un eccesso di carica elettrica. Per giustificare questo eccesso di carica elettrica si ipotizzò che la luce incidente doveva provocare l’emissione di elettroni sulla superficie stessa: questo fenomeno fu definito effetto fotoelettrico. Questo fenomeno era osservabile con l’utilizzo di uno specifico apparato. L’EFFETTO FOTOELETTRICO E LA SUA INTERPRETAZIONE QUANTISTICA In un tubo a vuoto di vetro, detto cellula fotoelettrica, si dispongono una piastra metallica (L nella figura a destra) e un elettrodo (M nella figura a destra). I due elettrodi sono collegati a un amperometro e a un generatore di f.e.m. . Quando la fotocellula è al buio nell’amperometro non passa corrente, quando invece una luce con frequenza sufficientemente alta investe la piastra, osserviamo dall’amperometro che scorre una corrente nel circuito. Per capire come avviene la chiusura del circuito bisogna immaginare che gli elettroni espulsi dalla radiazione incidente viaggino dalla piastra L al collettore M. In figura a destra è rappresentato lo schema del dispositivo per lo studio dell’effetto fotoelettrico. Affinché un elettrone sfugga dalla superficie deve essere però fornito di un’energia minima, detta lavoro di estrazione. Ogni materiale fotosensibile utilizzato come piastra metallica nell’apparato ha una frequenza caratteristica fmin chiamata soglia fotoelettrica, al di sotto della quale nessun elettrone era emesso. Inoltre ogni materiale per una frequenza f ≥ fmin emette elettroni la cui energia cinetica massima aumenta linearmente, con una pendenza indipendente dal materiale, all’aumentare di f; Occupiamoci ora di analizzare come varia l’intensità i della corrente prodotta per effetto fotoelettrico in funzione della d.d.p. ΔV fra gli elettrodi. Se il collettore M viene collegato con il polo positivo del generatore, all’aumentare di ΔV aumenta anche la corrente, fino ad arrivare ad un’intensità massima, detta corrente di saturazione. Si osserva inoltre che invertendo i terminali in modo che l’elettrodo M sia negativo ed L positivo (ΔV < 0), si giunge gradualmente ad una situazione in cui la corrente si annulla, ovvero dove nessun elettrone ha
  • 2. 2 FilibertoMariaDi Carlo5F energia cinetica sufficiente per raggiungere l’elettrodo M. Questo valor ΔV0 prende il nome di potenziale di arresto. Dalla misura del potenziale di arresto si può determinare l’energia cinetica massima degli elettroni espulsi Kmax ricorrendo al principio di conservazione dell’energia per cui la perdita di energia cinetica è uguale al guadagno di energia potenziale: Kmax=e ΔV0 Analizzando i dettagli dell’effetto fotoelettrico dal punto di vista della teoria ondulatoria si giungeva ad alcune importanti incongruenze che potevano essere giustificate dall’assunzione della teoria corpuscolare della luce. Secondo la teoria ondulatoria della luce, se una radiazione elettromagnetica di intensità I colpiva perpendicolarmente una superficie di area S, l’energia trasportata sulla superficie in un intervallo temporale Δt era: U=ISΔt per cui l’energia degli elettroni dovrebbe dipendere solo dall’intensità I e dal tempo di esposizione Δt. Tuttavia si era osservato che non era influenzata da nessuna di queste variabili, dimostrazione possibile grazie al fatto che il potenziale di arresto era indipendente dall’intensità I e l’istantaneità dell’emissione. Inoltre il modello teorico di Maxwell che assumeva che l’intensità I era determinata solo dall’ampiezza del campo elettrico oscillante, non riusciva neanche a spiegare la dipendenza dell’effetto foto elettrico dalla frequenza della radiazione. Alla luce di queste incongruenze Einstein suppose che ogni fotone, colpendo la superficie di un metallo, trasferisse la propria energia a un solo elettrone. Per vincere la forza che lo trattiene, un singolo elettrone ha bisogno del lavoro di estrazione Lmin. Sapendo che se la radiazione ha frequenza minore di fmin= Lmin/h e che quindi sapendo che se i fotoni hanno energia minore di Lmin nessun elettrone può essere estratto, sappiamo che l’effetto fotoelettrico si osserva solo se la radiazione ha frequenza maggiore di fmin in modo che ogni fotone cedendo un’energia maggiore di Lmin liberi un elettrone, si dimostra che la soglia fotoelettrica è appunto fmin= Lmin/h ed è diversa da metallo a metallo. Supponiamo ora che una superficie metallica sia colpita da una radiazione f ≥ fmin e quindi da una corrente di fotoni ciascuno avente energia hf> Lmin . Poiché Lmin è l’energia minima che viene spesa per liberare un singolo elettrone, la differenza hf - hfmin è uguale all’energia cinetica massima Kmax con cui l’elettrone può abbandonare la superficie. Combinando questa equazione con l’equazione con cui abbiamo precedentemente calcolato l’energia cinetica massima (Kmax= e ΔV0), possiamo trovare la relazione che lega il potenziale di arresto alla frequenza della radiazione. Si osserva che il potenziale di arresto ΔV0 è direttamente proporzionale alla differenza fra la frequenza f della radiazione e la soglia fotoelettrica fmin secondo la legge: e ΔV0 = h (f - f min) (Equazione di Einstein dell’effetto fotoelettrico) Questa equazione mostra che il potenziale di arresto varia linearmente al variare di f con pendenza h/e che non dipende dal materiale irraggiato e dalle proprietà della radiazione. A questo punto, considerando la radiazione elettromagnetica come una corrente di fotoni, la sua intensità è direttamente proporzionale al numero di fotoni che colpiscono perpendicolarmente una superficie per unità di area e per unità di tempo. In questo modo si spiega perché il numero di elettroni emessi per unità di tempo è direttamente proporzionale all’intensità della radiazione in quanto gli elettroni emessi sono tanti di più quanto maggiore è il numero dei fotoni che colpiscono la superficie. APPLICAZIONI DELL’EFFETTO FOTOELETTRICO L’effetto fotoelettrico oltre a fornire un’importante conferma del modello corpuscolare della luce, presenta anche diverse applicazioni pratiche. Gli allarmi antifurto o le porte ad apertura automatica spesso fanno usa di circuiti a fotocellule costituiti da una struttura analoga a quella dell’apparato utilizzato per rilevare l’effetto fotoelettrico: quando una persona intercetta il fascio di luce dell’apparato, il calo di corrente improvviso nel circuito attiva un interruttore che consiste spesso in un solenoide che fa suonare la sirena o
  • 3. 3 FilibertoMariaDi Carlo5F attivare la porta in questione. Nel caso specifico degli allarmi antifurto si usano radiazioni UV (Ultraviolette) o IR(Infrarosse) poiché sono invisibili. Anche gli allarmi antifumo impiegano le stesse funzionalità dell’effetto fotoelettrico al fine di rivelare piccole quantità di fumo; quest’ultime infatti ostacolano la propagazione della luce e ciò provoca variazioni della corrente elettrica. Viene proposto qui di seguito un esercizio sull’argomento trattato: Consideriamo un elettrodo fotosensibile di una fotocellula con soglia fotoelettrica di 4,41 · 1014 Hz. Se la cella viene illuminata da una radiazione di lunghezza d’onda pari a 4,00 · 10−7m, quale tensione deve essere applicata ai suoi elettrodi per impedire il passaggio di corrente? Il testo dell’esercizio ci fornisce due dati ed un’incognita. Dal testo sappiamo infatti che: fmin= 4,41∙ Hz λ= 4,00∙ m mentre l‘ incognita che dobbiamo ricavare è il potenziale di arresto ΔV0. Sapendo che la frequenza di una radiazione è definita come il rapporto fra la velocità della luce e la lunghezza d’onda della radiazione, ovvero definita dall’equazione f= c / λ, ricaviamo che la frequenza della radiazione che illumina la fotocellula è f = c / λ = (3,00∙ m/s) / (4,00∙ m) = 7,50 ∙ Hz Poiché la frequenza calcolata f è maggiore della soglia fmin, l’elettrodo fotosensibile emette elettroni. Per impedire il passaggio di corrente, questo elettrodo deve essere mantenuto a potenziale maggiore rispetto all’elettrodo opposto. In valore assoluto, la d.d.p. da applicare è uguale al potenziale di arresto ΔV0. Dall’equazione di Einstein dell’effetto fotoelettrico precedentemente dimostrata ricaviamo il potenziale di arresto come: ΔV0 = (h/e) ∙ (f- fmin) = (6,62∙ J∙s / 1,602∙ C) ∙ (7,50 ∙ Hz - 4,41∙ Hz) =1,28 V STRUMENTO MATEMATICO CORRELATO ALL’EFFETTO FOTOELETTRICO Osservando tratto per tratto la curva che mostra l’intensità della corrente degli elettroni in funzioni della d.d.p. fra i due elettrodi di una cella a vuoto per due valori I1 e I2 dell’intensità di radiazione con I2 > I1 osserviamo che in un primo tratto l’intensità di corrente che circola nel circuito aumenta fino al raggiungimento di un tratto in cui la corrente rimane costante anche all’aumentare della d.d.p.; questa intensità massima, come dimostrato precedentemente è detta corrente di saturazione. Osservando il tratto di grafico in cui si arriva alla corrente di saturazione si evince che l’andamento della curva in prossimità della corrente di saturazione è di carattere asintotico. Nello specifico la corrente di saturazione è per la curva che rappresenta l’intensità della radiazione un asintoto orizzontale. Consideriamo il grafico di una funzione G(f) e una qualsiasi retta y=f (x) nel piano cartesiano che approssima il grafico in una porzione del suo dominio. La retta in questione è detta asintoto della funzione. È indispensabile fornire una classificazione dei possibili asintoti di una funzione, che si dividono in asintoti orizzontali, asintoti verticali e asintoti obliqui.
  • 4. 4 FilibertoMariaDi Carlo5F Definizione e metodo di ricerca di asintoti verticali Se, al tendere di x a x0, con x0 ∈ R, una funzione tende -∞ o a + ∞ o a ∞, si dice che la retta di equazione x= x0 è un asintoto verticale per la funzione. Da questa definizione si evince che una specifica retta x= x0, con X0 ∈ R, è asintoto verticale per una funzione se il limite della funzione per x→x0 è -∞ o + ∞ o ∞. Se il limite della funzione è infinito solo per x che tende a x0 da sinistra o per x che tende a x0 da destra si parla rispettivamente di asintoto verticale sinistro o di asintoto verticale destro. Prendiamo ora in considerazione la funzione 𝑦 = 𝑥2×1 𝑥2−1 La funzione è definita per x≠±1, quindi il suo dominio è (-∞, -1) U (-1, 1) U (1, +∞) Per cercare gli eventuali asintoti verticali dobbiamo quindi calcolare i limiti della funzione agli estremi finiti degli intervalli che costituiscono il dominio. Dovremo quindi calcolare i limiti: lim 𝑥→−1 𝑥2+1 𝑥2−1 =∞, quindi x =-1 è un asintoto verticale lim 𝑥→1 𝑥2+1 𝑥2−1 =∞, quindi x= 1 è un asintoto verticale Definizione e metodo di ricerca di asintoti orizzontali Se, al tendere di x a -∞ o a + ∞ o a ∞, una funzione tende a un numero reale l, si dice che la retta di equazione y = l è un asintoto orizzontale per la funzione. Da questa definizione si trae che se una specifica retta di equazione y = l, con l ∈ R, è un asintoto orizzontale per una funzione se il limite della funzione per x→+∞, o per x→-∞ o per x →∞ è l. Nello specifico se il limite è l solo per x→+∞ si parla più precisamente di asintoto orizzontale destro; se il limite è l solo per x →-∞ si parla più precisamente di asintoto orizzontale sinistro. Riprendiamo in considerazione la funzione 𝑦 = 𝑥2+1 𝑥2−1 e cerchiamo gli eventuali asintoti orizzonta li. Dobbiamo calcolare i limiti della funzione agli estremi infiniti degli intervalli che costituiscono il dominio. In questo quindi calcoleremo i limiti per x→-∞ e per x→+∞ lim 𝑥→±∞ 𝑥2+1 𝑥2−1 =1, quindi y = 1 è un asintoto orizzontale (bilatero) (Rappresentazione grafica della funzione presa in esame) Definizione e metodo di ricerca di asintoti obliqui Una retta di equazione y=mx +q, con m≠0, si dice asintoto obliquo per una funzione y = f (x) per x→∞ quando: lim 𝑥→∞ | 𝑓( 𝑥) − ( 𝑚𝑥 + 𝑞)|=0 Se questa condizione è verificata per x →-∞ o per x →+∞, si dice, rispettivamente, che y=mx+q, è un asintoto obliquo sinistro o un asintoto obliquo destro. Questa definizione non è però operativa, quindi data una funzione non ci permette di stabilire se esistono asintoti obliqui, e in caso affermativo di determinarli; per risolvere questi problemi è utile il seguente teorema di esistenza e calcolo dell’asintoto obliquo: Questo teorema afferma che la retta di equazione y=mx+q è un asintoto obliquo per la funzione y = f(x) se e solo se: lim 𝑥→∞ 𝑓( 𝑥) 𝑥 = m
  • 5. 5 FilibertoMariaDi Carlo5F lim 𝑥→∞ [ 𝑓( 𝑥) − 𝑚𝑥]= q Essendo m, q ∈ R, con m ≠0. Prendiamo in considerazione ora la funzione 𝑦 = 𝑥3+1 𝑥2+2 per studiarne gli eventuali asintoti obliqui. Osserviamo che il dominio della funzione è R - {-2,0}, quindi, essendo inferiormente e superiormente illimitato, ha senso indagare sul comportamento della funzione sia per x →-∞ sia per x →+∞: lim 𝑥→±∞ 𝑥3+1 𝑥2+2𝑥 = lim 𝑥→±∞ 𝑥= ±∞ Per cui non ci sono asintoti orizzontali; potrebbero esistere quindi asintoti obliqui. Abbiamo: lim 𝑥→±∞ 𝑓( 𝑥) 𝑥 =1 (m=1) Essendo questo limite finito, continuiamo cercando il valore q: lim 𝑥→±∞ ( 𝑓( 𝑥) − 1 · 𝑥)= lim 𝑥→±∞ ( 𝑥3+1 +𝑥2+2𝑥 − 𝑥) = (forma indeterminata + ∞ - ∞) lim 𝑥→±∞ 𝑥3+1−𝑥( 𝑥2+2𝑥) 𝑥2+2𝑥 = lim 𝑥→±∞ 1−2𝑥2 𝑥2+2𝑥 = -2 (q=-2) Si conclude quindi che l’asintoto obliquo esiste ed ha equazione y = x - 2 (Rappresentazione grafica della funzione presa in esame) BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA :  FISICA! Pensare l’Universo Edizione LAB (Antonio Caforio Aldo Ferilli)  FISICA CON FISICA MODERNA (Douglas C. Giancoli)  LA matematica a colori EDIZIONE BLU per il quinto anno (Leonardo Sasso)  Tesi di laurea triennale Maria Serena Malagoli Università degli studi di Bari Aldo Moro, “DETERMINAZIONE DELLA COSTANTE DI PLANCK CON IL METODO DI MILLIKAN”.