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GIACOMO LEOPARDI: LA
GINESTRA
Eolini Matteo 5G
INTRODUZIONE
La ginestra o Il fiore del deserto
è la penultima lirica di Giacomo
Leopardi, scritta nella primavera
del 1836 a Torre del Greco nella
Villa Ferrigni e pubblicata
postuma nell'edizione dei Canti
nel 1845.
La lirica è ritenuta un testamento
lirico-filosofico a causa delle
tematiche, delle dimensioni
straordinarie, della forma e della
collocazione cronologica nella
produzione letteraria
leopardiana.
LA GINESTRA
La Ginestra è il testo più lungo dei Canti,
è composto da sette strofe di dimensioni
eccezionali, con periodi che si estendono
per decine di versi. A causa della
lunghezza, è possibile notare una
somiglianza con i Sepolcri di Ugo Foscolo,
nonostante nella lirica di Leopardi vi sia
un superiore grado di innovazione, di
radicalità intellettuale e di audacia
formale.
Lo stile infatti è vario ed intreccia
argomenti differenti: dalla politica al
ragionamento al dialogo lirico.
Ogni strofa costituisce un’unità tematica.
Ogni strofa si chiude con rima ed
endecasillabo.
Le figure retoriche presenti sono:
•Allegorie (è una figura retorica per cui
un concetto astratto viene espresso
attraverso un'immagine concreta)
•Anacoluti (è una figura retorica in cui
non è rispettata la coesione tra le varie
parti della frase)
•Iperbati (è una figura retorica che
prevede un allontanamento di una
parola da un'altra alla quale dovrebbe
essere vicina)
•Allitterazioni
•Metafore
•Similitudini
•Enjambement
RIASSUNTO
I strofa: opposizione
deserto/ginestra +
valore simbolico del
fiore
II strofa: polemica
antireligiosa
III strofa: la svolta del
vero progresso
IV strofa: il
paesaggio anti-
idillico, l'infinità
cosmica e la pietà
V strofa: la potenza
distruttiva della
natura
VI strofa: tempo
umano e tempo della
natura
VII strofa: la ginestra
e la dignità umana
EPIGRAFE
Leopardi pone a epigrafe del componimento una citazione al
Vangelo di Giovanni.
Tale citazione è ironica, perché Leopardi attraverso un’ottica
fortemente anticristiana ribalta il significato di luce. L’autore
utilizza la citazione per evidenziare la difficoltà con la quale
la verità riesce a rivelarsi tra gli esseri umani, che
rifugiandosi in concezioni spiritualistiche, fiduciose ed ottuse
, preferiscono affidarsi ad opinione false piuttosto che
accettare la verità.
«Καὶ ἠγάπησαν οἱ ἄνθρωποι / µᾶλλον τὸ σκότος ἢ τὸ φῶς»
«E gli uomini vollero / piuttosto le tenebre che la
luce»
PRIMA STROFA (VV.
1-51)
Nella prima strofa del poema, la
protagonista, una ginestra, appare con il
suo ambiente, le pendici del Vesuvio: una
terra arida priva di qualsiasi altra pianta. Il
poeta ricorda che un tempo c'erano città
meravigliose (come Pompei) che furono
distrutte da un vulcano. Questo gli dà lo
spunto per una polemica verso chi esalta
l'uomo e la sua condizione (A queste
piagge/venga colui che d’esaltar con
lode/il nostro stato ha in uso): in questo
ambiente desolato e devastato, è prova
che l'esistenza umana è inutile, e la natura
non si cura dell'uomo, non si preoccupa
di cancellare lui e le sue creazioni in un
istante.
VERSI 1-7
1. Qui su l'arida schiena
2. del formidabil monte
3. sterminator Vesevo,
4. la qual null'altro allegra arbor
né fiore,
5. tuoi cespi solitari intorno
spargi,
6. odorata ginestra,
7. contenta dei deserti.
Qui sulle brulle pendici del
terribile vulcano Vesuvio, il
distruttore delle genti, che non
sono rallegrate da nessun altro
albero né fiore, spargi i tuoi rami
solitari, o profumata ginestra,
felice di trovarti nei deserti.
VERSI 8-16
8. Anco ti vidi de' tuoi steli abbellir
l'erme contrade
9. che cingon la cittade
10. la qual fu donna de' mortali un
tempo,
11. e del perduto impero
12. par che col grave e taciturno
aspetto
13. faccian fede e ricordo al
passeggero.
14. Or ti riveggo in questo suol, di
tristi
15. lochi e dal mondo abbandonati
Ti vidi anche
abbellire con i tuoi cespi le
campagne
disabitate
che circondano Roma
la quale fu dominatrice di popoli,
e con il loro aspetto severo e
silenzioso
sembrano rendere al viandante una
testimonianza della potenza ormai
perduta.
Ti rivedo ora su questo suolo,
amante di luoghi tristi e
abbandonati dalla
gente, tu che sei compagna di sorti
sventurate.
VERSI 17-26
17. Questi campi cosparsi
18. di ceneri infeconde, e ricoperti
19. dell'impietrata lava,
20. che sotto i passi al peregrin
risona;
21. dove s'annida e si contorce al
sole
22. la serpe, e dove al noto
23. cavernoso covil torna il coniglio;
24. fur liete ville e colti,
25. e biondeggiàr di spiche, e
risonaro
26. di muggito d'armenti;
Queste distese, cosparse
di ceneri non produttive, e ricoperte
di lava solidificata,
che risuona sotto i passi del
viandante;
dove il serpente si annida e si
contorce
sotto il sole,
e dove il coniglio torna all'abituale
tana tra le caverne;
queste distese furono villaggi
prosperi e
campagne coltivate, e
biondeggiarono di
spighe e risuonarono di muggiti di
mandrie.
VERSI 27-36
27. fur giardini e palagi,
28. agli ozi de' potenti
29. gradito ospizio; e fur città famose
30. che coi torrenti suoi l'altero monte
31. dall'ignea bocca fulminando oppresse
32. con gli abitanti insieme.
33. Or tutto intorno
34. una ruina involve,
35. ove tu siedi, o fior gentile, e quasi
36. i danni altrui commiserando, al cielo
37. di dolcissimo odor mandi un profumo,
38. che il deserto consola.
giardini e regge furono
un gradito rifugio
per gli ozi dei potenti; e ci furono città
famose
che il vulcano superbo con i suoi torrenti di
lava eruttati dalla sua bocca di fuoco seppelli,
insieme ai suoi abitanti. Ora qui intorno
la desolazione avvolge tutto,
là dove tu hai radici, o fiore gentile, e come
per commiserare i danni prodotti da altri,
spandi verso il cielo
un profumo assai dolce,
che allieta il paesaggio desertico.
VERSI 37-49
37.A queste piagge
38.venga colui che d'esaltar con lode
39.il nostro stato ha in uso, e vegga quanto
40.è il gener nostro in cura
41.all'amante natura.
42.E la possanza
43.qui con giusta misura
44.anco estimar potrá dell'uman seme,
45.cui la dura nutrice, ov'ei men teme,
46.con lieve moto in un momento annulla
47.in parte, e può con moti
48.poco men lievi ancor subitamente
49.annichilare in tutto.
In questi luoghi deserti si rechi chi è solito lodare in maniera esaltatala
condizione umana, e si renda conto di quanto la natura ci ama. E qui potrà anche
giudicare la potenza del genere umano, che la natura crudele, quando l'uomo
meno se l'aspetta, con una scossa impercettibile in parte distrugge in un
momento e può con scosse un poco più forti annientare del tutto.
VERSI 49-51
49.dipinte in queste rive
50.son dell’umana gente
51.le magnifiche sorti e
progressive.
Qui sono rappresentate le sorti
magnifiche e progressive delle
stirpi umane.
SECONDA STROFA (VV. 52-86)
La seconda strofa continua
l'obiezione: l'Ottocento è stato
dominato da una cultura che ha
abbandonato i principi del
Rinascimento e dell'Illuminismo e
quindi ha fatto passi indietro
piuttosto che in avanti nello sviluppo
del pensiero. Preferiva i dogmi e le
illusioni alla ragione. Tuttavia, le
persone moderne credono di vivere
nel progresso. Leopardi vuole
prendere le distanze, sapendo di
essere disprezzato dall'intero
mondo intellettuale per le sue idee
contrastanti.
VERSI 52-58
52.Qui mira e qui ti specchia,
53.secol superbo e sciocco,
54.che il calle insino allora
55.dal risorto pensier segnato
innanti
56.abbandonasti, e volti addietro
i passi,
57.del ritornar ti vanti,
58.e procedere il chiami.
Guarda qui e qui specchiati,
secolo stupido e arrogante,
che hai abbandonato la strada
percorsa prima di te dal
Rinascimento,
e torni suoi tuoi passi,
ti vanti della tua svolta
all'indietro,
la chiami addirittura progresso.
VERSI 59-69
59. Al tuo pargoleggiar gl'ingegni tutti,
60. di cui lor sorte rea padre ti fece
61. vanno adulando, ancora
62. ch'a ludibrio talora
63. t'abbian fra se. Non io
64. con tal vergogna scenderò sotterra;
65. ma il disprezzo piuttosto che si serra
66. di te nel petto mio,
67. mostrato avrò quanto si possa aperto:
68. ben ch'io sappia che obblio
69. preme chi troppo all'età propria
increbbe.
Tutti gli intellettuali, di cui una sorte
sciagurata
ti ha fatto padre,
esaltano il tuo ragionar infantile, benché
a volte, tra di loro, si facciano
beffe di te. Io non
.
andrò sotto terra con tal vergogna;
ma (prima di morire) avrò rivelato il
disprezzo
che nutro nei tuoi confronti:
anche se so che chi non piacque ai propri
contemporanei è destinato all'oblio.
VERSI 70-77
70. Di questo mal, che teco
71. mi fia comune, assai finor mi rido.
72. Libertà vai sognando, e servo a un tempo
73. vuoi di nuovo il pensiero,
74. sol per cui risorgemmo
75. della barbarie in parte, e per cui solo
76. si cresce in civiltà, che sola in meglio
77. guida i pubblici fati.
Di questo male, che sarà in
comune tra me e te (secolo),
finora me ne rido molto. Vai
sognando la libertà politica e
civile, e tuttavia vuoi che il
pensiero sia di nuovo servo, quel
pensiero del razionalismo
settecentesco per cui, solo,
risorgemmo dalla barbarie, e per
cui solo si può crescere in
civilizzazione, che unica tra tutte
guida il destino comune al meglio
VERSI 78-88
78. Così ti spiacque il vero
79. dell'aspra sorte e del depresso
loco
80. che natura ci diè. Per questo il
tergo
81. vigliaccamente rivolgesti al lume
82. che il fe palese: e, fuggitivo,
appelli
83. vil chi lui segue, e solo
84. magnanimo colui
85. che se schernendo o gli altri,
astuto o folle,
86. fin sopra gli astri il mortal grado
Perciò ti ha dato fastidio la verità
sulla sorte amara e sul mondo
infelice che la natura ci ha assegnato.
Per questo motivo, da vigliacco, hai
voltato le spalle alla luce che ci ha
mostrato queste cose (Illuminismo):
e, mentre fuggi, chiami vile chi segue
quella via, e definisci magnanimo
solo chi, astuto o stolto, illudendo gli
altri o se stesso, eleva il genere
umano fin sopra le stelle.
TERZA STROFA (VV. 87-157)
Nella terza strofa Leopardi continua a
descrivere l'uomo del suo tempo. Lo
accusa di vigliaccheria perché non può
ammettere la propria debolezza e
insignificanza nei confronti della natura: al
contrario, è orgoglioso della grandezza
umana, e nutre se stesso e gli altri di
illusioni. Il nobile, invece, è un uomo che è
consapevole della propria condizione
infelice, ma la vive a testa alta; inoltre, più
che incolpare gli altri per la sua sofferenza,
riconosce che la Natura stessa è l'unica
responsabile. Per questo motivo, l'unico
modo in cui gli esseri umani possono
vivere con dignità è allearsi con altri umani
contro il comune nemico della Natura, non
fare la guerra l'uno contro l'altro (tutti fra
sé confederati estima/gli uomini).
VERSI 87-93
87.Uom di povero stato e
membra inferme
88.che sia dell'alma generoso ed
alto,
89.non chiama se nè stima
90.ricco d'or nè gagliardo,
91.e di splendida vita o di valente
92.persona infra la gente
93.non fa risibil mostra,
Un uomo di condizioni modeste e
salute cagionevole, nobile ed
elevato d'animo, non si vanta di
essere ricco di beni o forte, e non
si mette ridicolmente in mostra
tra la gente per la vita lussuosa o
per il suo bell'aspetto;
VERSI 94-97
94.ma se di forza e di tesor
mendico
95.lascia parer senza vergogna, e
noma
96.parlando, apertamente, e di
sue cose
97.fa stima al vero uguale.
ma senza vergogna si mostra
privo
di forza fisica e di beni materiali,
e
chiama apertamente le cose col
loro nome, e stima le sue cose in
modo aderente alla verità.
VERSI 98-104
98.Magnanimo animale
99.non credo io già, ma stolto,
100.quel che nato a perir, nutrito
in pene,
101.dice, a goder son fatto,
102.e di fetido orgoglio
103.empie le carte, eccelsi fati e
nove
104.felicità, quali il ciel tutto
ignora,
Non penso che sia un essere
magnanimo, ma sciocco chi,
destinato a morire, educato
attraverso le sofferenze, afferma:
“Sono nato per essere felice” e
riempie con il suo nauseante
orgoglio fogli su fogli,
promettendo esaltanti destini
estraordinarie felicità – che il cielo
ignora,
VERSI 105-110
105. non pur quest'orbe,
promettendo in terra
106. a popoli che un'onda
107. di mar commosso, un fiato
108. d'aura maligna, un
sotterraneo crollo
109. distrugge sì che avanza
110. a gran pena di lor la
rimembranza.
così come questa terra –
promettendo a popoli che un
maremoto, una pestilenza, un
terremoto. Distruggono in modo
tale che a stento rimane il ricordo
di essi.
VERSI 111-117
111.Nobil natura è quella
112.che a sollevar s'ardisce
113. gli occhi mortali incontra
114. al comun fato, e che con
franca lingua,
115.nulla al ver detraendo,
116.confessa il mal che ci fu dato
in sorte,
117.e il basso stato e frale;
Uno spirito nobile è quello che ha
il coraggio di sollevare i propri
occhi mortali contro il destino
comune, e che con parole oneste
e sincere e senza nulla togliere
alla verità, e confessa il male che
ci è stato assegnato, e la nostra
condizione meschina e fragile;
«gli occhi mortali incontra
al comun fato»
Espressione modellata sul celebre passo
del De Rerum Natura di Lucrezio in cui si
descrive Epicuro e la sua lotta contro la
superstizione umana: «mortales tollere
contra |est oculos ausus» (De Rerum
Natura, I, 66-67).
VERSI 118-125
118.quella che grande e forte
119.mostra se nel soffrir, nè gli odii
e l'ire
120.fraterne, ancor più gravi
121.d'ogni altro danno accresce
122.alle miserie sue, l'uomo
incolpando
123.del suo dolor, ma dà la colpa a
quella
124.Che veramente è rea, che de'
mortali
125. Madre è di parto e di voler
una natura nobile è quella che si
mostra coraggiosa e forte nella
sofferenza, e che non aggiunge alle
sue sciagure né gli odi né le violenze
tra simili, che sono ancora più gravi
del resto, dando la responsabilità
all'uomo del suo dolore, ma dà la
colpa alla natura che è davvero
colpevole, e che per gli uomini è
madre per il parto e matrigna per
come ci tratta.
VERSI 126-135
126.Costei chiama inimica; e incontro a
questa
127.congiunta esser pensando,
128.siccome è il vero, ed ordinata in
pria
129.l'umana compagnia
130.tutti fra se confederati estima
gli uomini,
131.e tutti abbraccia con vero amor,
porgendo
132.valida e pronta ed aspettando aita
133.negli alterni perigli e nelle angosce
134.della guerra comune.
L'umanità chiama questa come nemica;
e pensando di essere, com'è vero, unita
e schierata contro di lei, ritiene tutti gli
uomini alleati tra loro e tutti li stringe
in un abbraccio con vera
partecipazione, offrendo ed aspettando
un valido e rapido aiuto nelle alterne
difficoltà e nelle sofferenze della
comune lotta.
VERSI 135-144
135.Ed alle offese
136.dell'uomo armar la destra, e
laccio porre
137.al vicino ed inciampo,
138.stolto crede così, qual fora in
campo
139.cinto d'oste contraria, in sul più
vivo
140.incalzar degli assalti,
141.gl'inimici obbliando, acerbe gare
142.imprender con gli amici,
143.e sparger fuga e fulminar col
brando
144.infra i propri guerrieri.
E crede che sia stolto armare la
propria mano per le offese dell'uomo,
e gettare un tranello e tramare un
danno contro il proprio vicino, così
come sarebbe stupido, in un campo
di battaglia circondato da un esercito
nemico, nel momento più feroce
dell'assalto, dimenticando i nemici,
intraprendere con i commilitoni duri
battibecchi e disseminare la fuga o
tirare colpi di spada tra i propri
guerrieri.
VERSI 145-152
145.Così fatti pensieri
146.quando fien, come fur, palesi
al volgo,
147.e quell'orror che primo
148.contro l'empia natura
149.strinse i mortali in social
catena,
150.fia ricondotto in parte
151.da verace saper, l'onesto e il
retto
152.conversar cittadino,
Quando considerazioni di questo
tipo saranno, come lo sono state
in passato, evidenti a tutti; e
quando il terrore che per primo
unì gli uomini contro la natura
malvagia in una catena di
solidarietà, quando il discorso
pubblico onesto e retto sarà in
parte recuperato dal vero sapere,
«social catena»
Invece di combattersi a vicenda, gli uomini
dovrebbero unirsi e lottare contro la natura.
Da questa unione potrebbe nascere «vero amor» tra
gli uomini, ma anche «giustizia» e «pietà», rapporti
civili onesti e retti.
VERSI 153-157
153.e giustizia e pietade, altra
radice
154.avranno allor che non
superbe fole,
155.ove fondata probità del volgo
156.così star suole in piede
157.quale star può quel ch'ha in
error la sede.
allora la giustizia e il senso di
pietà avranno un'altra radice che
non le fantasie piene di
presunzione, sulle cui
fondamenta la mentalità del
popolo è solita star in equilibrio
come può stare chi ha il proprio
appiglio nell'errore.
QUARTA STROFA (VV. 158-201)
Nella quarta strofa il poeta
descrive l’infinità dell’universo
che gli si apre davanti quando di
notte guarda l’immenso cielo
stellato: rispetto alle stelle e alle
galassie la Terra e l’uomo non
sono niente, eppure gli uomini si
credono tanto importanti da
essere il centro e lo scopo del
mondo. Leopardi deride i suoi
contemporanei che credono che
la Terra sia stata creata per loro,
ma prova anche pietà.
VERSI 158-166
158.Sovente in queste rive,
159.che, desolate, a bruno
160. veste il flutto indurato, e par
che ondeggi,
161.seggo la notte; e sulla mesta
landa
162.in purissimo azzurro
163.veggo dall'alto fiammeggiar le
stelle,
164.cui di lontan fa specchio
165.il mare, e tutto di scintille in giro
166.per lo vòto seren brillare il
mondo.
Spesso la notte siedo su queste
pendici del vulcano, che la lava
solidificata ricopre di un manto scuro
rendendole desolate; e sulla
campagna triste, sotto un cielo terso
vedo risplendere le stelle nel cielo,
alle quali il mare, da lontano, fa da
specchio, e tutto il mondo brilla di
scintille per l'universo sereno.
VERSI 167-174
167.E poi che gli occhi a quelle
luci appunto,
168.ch'a lor sembrano un punto,
169.e sono immense, in guisa
170.che un punto a petto a lor
son terra e mare
171.veracemente; a cui
172.l'uomo non pur, ma questo
173.globo ove l'uomo è nulla,
174.sconosciuto è del tutto;
E quando fisso lo sguardo a
quegli astri, che ai miei occhi
paiono solo dei puntini, e invece
sono immensi, così che in realtà
terra e mare sono un punto al
loro cospetto; e per queste stelle
non solo l'uomo, ma la stessa
Terra, dove l'uomo vale nulla, è
completamente ignota;
VERSI 175-184
175.e quando miro quegli ancor più senza
alcun fin remoti
176. nodi quasi di stelle,
177.ch'a noi paion qual nebbia, a cui non
l'uomo
178.e non la terra sol, ma tutte in uno,
179.del numero infinite e della mole,
180.con l'aureo sole insiem, le nostre stelle
181.o sono ignote, o così paion come
182.essi alla terra, un punto
183.di luce nebulosa; al pensier mio
184.che sembri allora, o prole dell'uomo?
e quando contemplo quelle nebulose
lontanissime e senza fine, che ci
sembrano come una nebbia, alle quali
non l'uomo, non la terra soltanto ,ma
tutte insieme le nostre stelle, insieme
con il sole dorato, infinite per numero e
per mole, o sono ignote o appaiono
come loro sembrano a noi, e cioè un
punto di luce fioca; allora che puoi
sembrare al mio pensiero, o stirpe
umana?
VERSI 185-194
185.E rimembrando
186.il tuo stato quaggiù, di cui fa
segno
187.il suol ch'io premo; e poi dall'altra
parte,
188.che te signora e fine
189.credi tu data al Tutto, e quante
volte
190.favoleggiar ti piacque, in questo
oscuro
191.granel di sabbia, il qual di terra ha
nome,
192.per tua cagion, dell'universe cose
E ricordando il tuo stato sulla terra, di
cui è testimonianza il suolo vulcanico
che io calpesto; e d'altra parte
considerando che tu (prole dell'uomo)
ti reputi padrona e fine dell'universo; e
pensando a quante volteti è piaciuto
fantasticare su come i creatori del
mondo siano scesi su questo dimentico
granello di sabbia che ha nome di
Terra, per prendersi cura di te, e su
come abbiano spesso conversato
piacevolmente con i tuoi simili;
VERSI 195-201
195.e che i derisi sogni
rinnovellando, ai saggi insulta
196.fin la presente età, che in
conoscenza
197.ed in civil costume
198.sembra tutte avanzar; qual
moto allora,
199.mortal prole infelice, o qual
pensiero
200.verso te finalmente il cor
m'assale?
201.Non so se il riso o la pietà
prevale.
e ricordando che, raccontando
nuovamente illusioni già derise a
suo tempo, il nostro secolo, che
pretende di superare le ere
precedenti in sapere e in civiltà, si
burla dei saggi; che sentimento
d'animo, o umanità infelice, che
pensiero nei tuoi confronti mi
prende il cuore?
QUINTA STROFA (VV. 202-236)
La forza distruttrice della natura nei
confronti degli uomini è al centro della
quinta strofa: Leopardi la paragona a
una mela che cadendo dall’albero
distrugge un formicaio.
La dimostrazione dell’indifferente
capacità distruttiva della natura
continua nella sesta strofa: l’eruzione
del Vesuvio del 70 d.C. è la prova del
fatto che in un attimo la natura senza
neanche accorgersene può spazzare
via tutto quello che l’uomo ha
costruito con fatica. Pompei rimane a
testimoniare questo fatto
VERSI 202-212
202.Come d'arbor cadendo un picciol
pomo,
203.cui là nel tardo autunno
204.maturità senz'altra forza atterra,
205.d'un popol di formiche i dolci alberghi,
206.cavati in molle gleba
207.con gran lavoro, e l'opre
208.e le ricchezze che adunate a prova
209.con lungo affaticar l'assidua gente
210.avea provvidamente al tempo estivo,
211.schiaccia, diserta e copre
212.in un punto;
Come un piccolo frutto cadendo
dall'albero,
che nell'autunno inoltrato la maturazione
fa precipitare a terra senza altra forza,
e schiaccia, annienta e cancella
in un attimo gli accoglienti nidi
di un popolo di formiche, scavati nella
terra
molle con gran fatica, e le gallerie
e le riserve di cibo che con fatica indefessa
le infaticabili formiche in gara tra loro
hanno
raccolto con previdenza
nella stagione estiva;
VERSI 213-218
213.così d'alto piombando,
214.dall'utero tonante
215.scagliata al ciel profondo,
216.di ceneri e di pomici e di
sassi
217. notte e ruina, infusa
218.di bollenti ruscelli,
così, piombando dall'alto,
dalla bocca del vulcano
e dopo essere stata scagliata in alto
verso il cielo,
un turbine che copre il sole,
fatto di cenere, pomice e sasso,
mescolato a rivoli di lava,
VERSI 219-225
219.o pel montano fianco furiosa
220.tra l'erba di liquefatti massi
221.e di metalli e d'infocata arena
222.scendendo immensa piena,
223.le citta di che il mar là
sull'estremo
224.lido aspergea, confuse
225.e infranse e ricoperse
in pochi istanti:
di colate laviche,
o un'immensa piena
che scende furiosa tra l'erba,
fatta di massi liquefatti e di
metalli fusi
e di terra infuocata,
sconvolse e distrusse e ricoprì
in pochi attimi le città che il
mare bagnava.
«NOTTE E RUINA»
Unione di due soggetti:
Le tenebre calate
improvvisamente e la distruzione
causata dalla colata lavica.
Riferimento all'Eneide (III, 571-
577) di Virgilio.
VERSI 226-230
226.onde su quelle or pasce
227.la capra, e città nove
228.sorgon dall'altra banda, a cui
sgabello
229.son le sepolte, e le prostrate
mura
230.l'arduo monte al suo piè
quasi calpesta.
per cui (su quelle rovine) ora
pascolano le capre mentre città
nuove sorgono sopra, città che
poggiano su quelle sepolte come
su uno sgabello, e l'aspra
montagna sembra calpestare alle
sue pendici le mura abbattute
delle antiche città.
VERSI 231-236
231. Non ha natura al seme
232. dell'uom più stima o cura
233. che alla formica: e se più
rara in quello
234.che nell'altra è la strage,
235.non avvien ciò d'altronde
236.fuor che l'uom sue prosapie
ha men feconde.
La natura non ha per il genere
umano
più stima o cura
che per le formiche: e se la
strage
è più rara tra quelli che tra
queste,
ciò avviene d'altra parte solo
perché
le sue generazioni sono meno
feconde.
SESTA STROFA (VV.
237-296)
Nella penultima strofa Leopardi torna a
rivolgersi alla ginestra: anche lei è
destinata prima o poi a soccombere alla
devastazione del vulcano, ma è più saggia
degli uomini perché non ha mai creduto
di essere immortale. Né ha mai supplicato
il suo oppressore. La ginestra accetta il
proprio destino
VERSI 237-248
237. Ben mille ed ottocento
238. anni varcàr poi che spariro, oppressi
239. dall'ignea forza, i popolati seggi,
240. e il villanello intento
241. ai vigneti, che a stento in questi campi
242. nutre la morta zolla e incenerita,
243. ancor leva lo sguardo
244. sospettoso alla vetta
245. fatal, che nulla mai fatta più mite
246. ancor siede tremenda, ancor minaccia
247. a lui strage ed ai figli ed agli averi
248. lor poverelli.
Sono passati ben mille e
ottocento anni da quando
scomparirono, schiacciati dalla
forza della lava, le affollate città e
il contadino al lavoro nei vigneti,
che la zolla morta ed incenerita,
nutre a fatica in questi campi,
leva tuttora lo sguardo sospettoso
al vulcano portatore di morte, che
per nulla resa più mite, ancor si
siede orrendo, ancora minaccia
una strage al contadino, ai suoi
figlie ai loro miseri averi.
VERSI 249-255
249.E spesso il meschino in sul
tetto
250.dell'ostel villereccio, alla
vagante aura
giacendo tutta notte insonne,
251.e balzando più volte, esplora
il corso
252.del temuto bollor, che si
riversa
253.dall'inesausto grembo
254.sull'arenoso dorso, a cui
riluce di Capri
E spesso il poverello sul tetto
della sua casa campestre,
restando sveglio insonne tutta la
notte all'aperto, e sobbalzando
molte volte, osserva ansioso il
procedere della temuta lava, che
cola dall'inesausta fornace sul
pendio sabbioso, a cui splende la
marina di Caprie il porto di Napoli
e il quartiere Mergellina.
VERSI 256-266
256. E se appressar lo vede, o se nel cupo
257. del domestico pozzo ode mai l'acqua
258. fervendo gorgogliar, desta i figliuoli,
259. desta la moglie in fretta, e via, con quanto
260. di lor cose rapir posson, fuggendo,
261. vede lontan l'usato
262. suo nido, e il picciol campo,
263. che gli fu dalla fame unico schermo,
264. preda al flutto rovente,
265. che crepitando giunge, e inesorato
266. durabilmente sovra quei si spiega.
E se lo vede avvicinarsi, o se sente
per caso gorgogliar in fermento
nel profondo del pozzo di casa, sveglia i figli
e la moglie in fretta, e subito via,
con quanto delle loro cose possono raccattare,
e, in fuga, vede da lontano la cara
e quotidiana abitazione, e il modesto campo,
che fu per lui unica difesa alla fame,
preda della colata incandescente
che giunge con mille crepitii, e inesorabile
si stende per sempre sopra quelli (campo e
casa).
VERSI 267-271
267.Torna al celeste raggio
268.dopo l'antica obblivion
l'estinta
269.Pompei, come sepolto
270.scheletro, cui di terra
271.avarizia o pietà rende
all'aperto;
Ai raggi del sole torna
dopo un oblio secolare, l’estinta
Pompei, come uno scheletro
sepolto, che dalla terra viene
all'aperto
per desiderio di ricchezza o pietà
umana;
VERSI 272-277
272.e dal deserto foro
273.diritto infra le file
274.dei mozzi colonnati il
peregrino
275.lunge contempla il bipartito
giogo
276.e la cresta fumante,
277.che alla sparsa ruina ancor
minaccia.
e dalla piazza deserta
dritto in mezzo alle fila
dei colonnati diroccati il
pellegrino
contempla da lontano il Vesuvio
e il monte Somma, e la cresta che
fuma,
che ancora minaccia la città
distrutta.
VERSI 278-286
278.E nell'orror della secreta notte
279.per li vacui teatri,
280.per li templi deformi e per le
rotte
281.case, ove i parti il pipistrello
asconde,
282.come sinistra face
283.che per voti palagi atra s'aggiri,
284.corre il baglior della funerea
lava,
285.che di lontan per l'ombre
286. rosseggia e i lochi intorno
intorno tinge.
E nello scenario orrorifico della notte
più
oscura, per teatri abbandonati
e templi crollati e le case devastate,
dove è solito partorire il pipistrello,
come una fiaccola misteriosa
che vaghi cupa per palazzi vuoti,
corre la colata della lava assassina,
che da lontano in mezzo all'ombra
manda rossi bagliori, e si riflette
all'intorno.
VERSI 287-296
287.Così, dell'uomo ignara e dell'etadi
288.ch'ei chiama antiche,
289.e del seguir che fanno
290.dopo gli avi i nepoti,
291.sta natura ognor verde, anzi
procede
292.per sì lungo cammino
293.che sembra star.
294.Caggiono i regni intanto,
295.passan genti e linguaggi: ella nol
vede:
296.e l'uom d'eternità s'arroga il vanto.
Così, la natura, del tutto indifferente
dell'uomo
e del corso delle generazioni umane,
rimane
sempre giovane e vitale, ed anzi
scorre
per un cammino
così lungo da parer immobile. Nel
frattempo, crollano i governi,
scompaiono
i popoli e le culture: la natura assiste
impassibile: e l'uomo pretende il
diritto
SETTIMA
STROFA
(297-317)
La ginestra accetta il proprio destino.
Il fiore è un modello di comportamento nobile per
l’uomo, e anche se la ginestra deve piegare il capo
dinanzi alla forza della natura, questa sconfitta
non ne cancella la dignità.
VERSI 297-304
297.E tu, lenta ginestra,
298.che di selve odorate
299.queste campagne dispogliate
adorni,
300.anche tu presto alla crudel
possanza
301.soccomberai del sotterraneo
foco,
302.che ritornando al loco
303.già noto, stenderà l'avaro
lembo
304.su tue molli foreste.
E tu, flessibile ginestra,
che adorni con i tuoi cespi
profumati
queste campagne desertificate,
anche tu presto soccomberai alla
potenza
crudele della lava,
che ritornando ai luoghi
già colpiti, stenderà sui tuoi molli
rami
il suo duro e acre lembo di rocce.
VERSI 304-313
304.E piegherai
305.sotto il fascio mortal non
renitente
306.il tuo capo innocente:
307.ma non piegato insino allora
indarno
308.codardamente supplicando
innanzi
309.al futuro oppressor; ma non
eretto
310.con forsennato orgoglio inver le
stelle,
311.nè sul deserto, dove
312.e la sede e i natali
E piegherai
sotto la colata mortale il tuo fusto
innocente
senza opporre resistenza:
ma il tuo capo non è stato piegato
fino a quel momento, con suppliche
inutili
e codarde al futuro oppressore; e il
tuo capo
non si è eretto con orgoglio folle
contro
le stelle, né sul deserto, dove hai
avuto
il luogo di nascita e di residenza
VERSI 314-317
317.ma più saggia, ma tanto
318.meno inferma dell'uom,
quanto le frali
319. tue stirpi non credesti
320.o dal fato o da te fatte
immortali.
ma più saggia, e tanto meno
debole ed insensata dell'uomo,
poiché non
hai mai creduto che la tue fragili
stirpi
fossero state rese immortali
o dal destino o da te stessa.
IL MESSAGGIO
Il messaggio di Leopardi in quello che è
considerato il suo testamento poetico è
chiaro: solo chi è in grado di accusare
apertamente la natura (madre di parto e
di voler matrigna) e decide di combatterla
insieme ai propri simili è degno di essere
chiamato uomo. La presenza della
ginestra, invocata nei versi iniziali, rivela
alla fine il suo valore metaforico: il fiore
umile che cresce sulle pendici del vulcano
e aspetta senza piangere codardamente i
suoi steli all'inesorabile sopraggiungere
della lava che la inghiottirà, è un modello,
un esempio di coraggio e umiltà che
l'uomo dovrebbe imitare.

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  • 2. INTRODUZIONE La ginestra o Il fiore del deserto è la penultima lirica di Giacomo Leopardi, scritta nella primavera del 1836 a Torre del Greco nella Villa Ferrigni e pubblicata postuma nell'edizione dei Canti nel 1845. La lirica è ritenuta un testamento lirico-filosofico a causa delle tematiche, delle dimensioni straordinarie, della forma e della collocazione cronologica nella produzione letteraria leopardiana.
  • 3. LA GINESTRA La Ginestra è il testo più lungo dei Canti, è composto da sette strofe di dimensioni eccezionali, con periodi che si estendono per decine di versi. A causa della lunghezza, è possibile notare una somiglianza con i Sepolcri di Ugo Foscolo, nonostante nella lirica di Leopardi vi sia un superiore grado di innovazione, di radicalità intellettuale e di audacia formale. Lo stile infatti è vario ed intreccia argomenti differenti: dalla politica al ragionamento al dialogo lirico. Ogni strofa costituisce un’unità tematica.
  • 4. Ogni strofa si chiude con rima ed endecasillabo. Le figure retoriche presenti sono: •Allegorie (è una figura retorica per cui un concetto astratto viene espresso attraverso un'immagine concreta) •Anacoluti (è una figura retorica in cui non è rispettata la coesione tra le varie parti della frase) •Iperbati (è una figura retorica che prevede un allontanamento di una parola da un'altra alla quale dovrebbe essere vicina) •Allitterazioni •Metafore •Similitudini •Enjambement
  • 5. RIASSUNTO I strofa: opposizione deserto/ginestra + valore simbolico del fiore II strofa: polemica antireligiosa III strofa: la svolta del vero progresso IV strofa: il paesaggio anti- idillico, l'infinità cosmica e la pietà V strofa: la potenza distruttiva della natura VI strofa: tempo umano e tempo della natura VII strofa: la ginestra e la dignità umana
  • 6. EPIGRAFE Leopardi pone a epigrafe del componimento una citazione al Vangelo di Giovanni. Tale citazione è ironica, perché Leopardi attraverso un’ottica fortemente anticristiana ribalta il significato di luce. L’autore utilizza la citazione per evidenziare la difficoltà con la quale la verità riesce a rivelarsi tra gli esseri umani, che rifugiandosi in concezioni spiritualistiche, fiduciose ed ottuse , preferiscono affidarsi ad opinione false piuttosto che accettare la verità. «Καὶ ἠγάπησαν οἱ ἄνθρωποι / µᾶλλον τὸ σκότος ἢ τὸ φῶς» «E gli uomini vollero / piuttosto le tenebre che la luce»
  • 7. PRIMA STROFA (VV. 1-51) Nella prima strofa del poema, la protagonista, una ginestra, appare con il suo ambiente, le pendici del Vesuvio: una terra arida priva di qualsiasi altra pianta. Il poeta ricorda che un tempo c'erano città meravigliose (come Pompei) che furono distrutte da un vulcano. Questo gli dà lo spunto per una polemica verso chi esalta l'uomo e la sua condizione (A queste piagge/venga colui che d’esaltar con lode/il nostro stato ha in uso): in questo ambiente desolato e devastato, è prova che l'esistenza umana è inutile, e la natura non si cura dell'uomo, non si preoccupa di cancellare lui e le sue creazioni in un istante.
  • 8. VERSI 1-7 1. Qui su l'arida schiena 2. del formidabil monte 3. sterminator Vesevo, 4. la qual null'altro allegra arbor né fiore, 5. tuoi cespi solitari intorno spargi, 6. odorata ginestra, 7. contenta dei deserti. Qui sulle brulle pendici del terribile vulcano Vesuvio, il distruttore delle genti, che non sono rallegrate da nessun altro albero né fiore, spargi i tuoi rami solitari, o profumata ginestra, felice di trovarti nei deserti.
  • 9. VERSI 8-16 8. Anco ti vidi de' tuoi steli abbellir l'erme contrade 9. che cingon la cittade 10. la qual fu donna de' mortali un tempo, 11. e del perduto impero 12. par che col grave e taciturno aspetto 13. faccian fede e ricordo al passeggero. 14. Or ti riveggo in questo suol, di tristi 15. lochi e dal mondo abbandonati Ti vidi anche abbellire con i tuoi cespi le campagne disabitate che circondano Roma la quale fu dominatrice di popoli, e con il loro aspetto severo e silenzioso sembrano rendere al viandante una testimonianza della potenza ormai perduta. Ti rivedo ora su questo suolo, amante di luoghi tristi e abbandonati dalla gente, tu che sei compagna di sorti sventurate.
  • 10. VERSI 17-26 17. Questi campi cosparsi 18. di ceneri infeconde, e ricoperti 19. dell'impietrata lava, 20. che sotto i passi al peregrin risona; 21. dove s'annida e si contorce al sole 22. la serpe, e dove al noto 23. cavernoso covil torna il coniglio; 24. fur liete ville e colti, 25. e biondeggiàr di spiche, e risonaro 26. di muggito d'armenti; Queste distese, cosparse di ceneri non produttive, e ricoperte di lava solidificata, che risuona sotto i passi del viandante; dove il serpente si annida e si contorce sotto il sole, e dove il coniglio torna all'abituale tana tra le caverne; queste distese furono villaggi prosperi e campagne coltivate, e biondeggiarono di spighe e risuonarono di muggiti di mandrie.
  • 11. VERSI 27-36 27. fur giardini e palagi, 28. agli ozi de' potenti 29. gradito ospizio; e fur città famose 30. che coi torrenti suoi l'altero monte 31. dall'ignea bocca fulminando oppresse 32. con gli abitanti insieme. 33. Or tutto intorno 34. una ruina involve, 35. ove tu siedi, o fior gentile, e quasi 36. i danni altrui commiserando, al cielo 37. di dolcissimo odor mandi un profumo, 38. che il deserto consola. giardini e regge furono un gradito rifugio per gli ozi dei potenti; e ci furono città famose che il vulcano superbo con i suoi torrenti di lava eruttati dalla sua bocca di fuoco seppelli, insieme ai suoi abitanti. Ora qui intorno la desolazione avvolge tutto, là dove tu hai radici, o fiore gentile, e come per commiserare i danni prodotti da altri, spandi verso il cielo un profumo assai dolce, che allieta il paesaggio desertico.
  • 12. VERSI 37-49 37.A queste piagge 38.venga colui che d'esaltar con lode 39.il nostro stato ha in uso, e vegga quanto 40.è il gener nostro in cura 41.all'amante natura. 42.E la possanza 43.qui con giusta misura 44.anco estimar potrá dell'uman seme, 45.cui la dura nutrice, ov'ei men teme, 46.con lieve moto in un momento annulla 47.in parte, e può con moti 48.poco men lievi ancor subitamente 49.annichilare in tutto. In questi luoghi deserti si rechi chi è solito lodare in maniera esaltatala condizione umana, e si renda conto di quanto la natura ci ama. E qui potrà anche giudicare la potenza del genere umano, che la natura crudele, quando l'uomo meno se l'aspetta, con una scossa impercettibile in parte distrugge in un momento e può con scosse un poco più forti annientare del tutto.
  • 13. VERSI 49-51 49.dipinte in queste rive 50.son dell’umana gente 51.le magnifiche sorti e progressive. Qui sono rappresentate le sorti magnifiche e progressive delle stirpi umane.
  • 14. SECONDA STROFA (VV. 52-86) La seconda strofa continua l'obiezione: l'Ottocento è stato dominato da una cultura che ha abbandonato i principi del Rinascimento e dell'Illuminismo e quindi ha fatto passi indietro piuttosto che in avanti nello sviluppo del pensiero. Preferiva i dogmi e le illusioni alla ragione. Tuttavia, le persone moderne credono di vivere nel progresso. Leopardi vuole prendere le distanze, sapendo di essere disprezzato dall'intero mondo intellettuale per le sue idee contrastanti.
  • 15. VERSI 52-58 52.Qui mira e qui ti specchia, 53.secol superbo e sciocco, 54.che il calle insino allora 55.dal risorto pensier segnato innanti 56.abbandonasti, e volti addietro i passi, 57.del ritornar ti vanti, 58.e procedere il chiami. Guarda qui e qui specchiati, secolo stupido e arrogante, che hai abbandonato la strada percorsa prima di te dal Rinascimento, e torni suoi tuoi passi, ti vanti della tua svolta all'indietro, la chiami addirittura progresso.
  • 16. VERSI 59-69 59. Al tuo pargoleggiar gl'ingegni tutti, 60. di cui lor sorte rea padre ti fece 61. vanno adulando, ancora 62. ch'a ludibrio talora 63. t'abbian fra se. Non io 64. con tal vergogna scenderò sotterra; 65. ma il disprezzo piuttosto che si serra 66. di te nel petto mio, 67. mostrato avrò quanto si possa aperto: 68. ben ch'io sappia che obblio 69. preme chi troppo all'età propria increbbe. Tutti gli intellettuali, di cui una sorte sciagurata ti ha fatto padre, esaltano il tuo ragionar infantile, benché a volte, tra di loro, si facciano beffe di te. Io non . andrò sotto terra con tal vergogna; ma (prima di morire) avrò rivelato il disprezzo che nutro nei tuoi confronti: anche se so che chi non piacque ai propri contemporanei è destinato all'oblio.
  • 17. VERSI 70-77 70. Di questo mal, che teco 71. mi fia comune, assai finor mi rido. 72. Libertà vai sognando, e servo a un tempo 73. vuoi di nuovo il pensiero, 74. sol per cui risorgemmo 75. della barbarie in parte, e per cui solo 76. si cresce in civiltà, che sola in meglio 77. guida i pubblici fati. Di questo male, che sarà in comune tra me e te (secolo), finora me ne rido molto. Vai sognando la libertà politica e civile, e tuttavia vuoi che il pensiero sia di nuovo servo, quel pensiero del razionalismo settecentesco per cui, solo, risorgemmo dalla barbarie, e per cui solo si può crescere in civilizzazione, che unica tra tutte guida il destino comune al meglio
  • 18. VERSI 78-88 78. Così ti spiacque il vero 79. dell'aspra sorte e del depresso loco 80. che natura ci diè. Per questo il tergo 81. vigliaccamente rivolgesti al lume 82. che il fe palese: e, fuggitivo, appelli 83. vil chi lui segue, e solo 84. magnanimo colui 85. che se schernendo o gli altri, astuto o folle, 86. fin sopra gli astri il mortal grado Perciò ti ha dato fastidio la verità sulla sorte amara e sul mondo infelice che la natura ci ha assegnato. Per questo motivo, da vigliacco, hai voltato le spalle alla luce che ci ha mostrato queste cose (Illuminismo): e, mentre fuggi, chiami vile chi segue quella via, e definisci magnanimo solo chi, astuto o stolto, illudendo gli altri o se stesso, eleva il genere umano fin sopra le stelle.
  • 19. TERZA STROFA (VV. 87-157) Nella terza strofa Leopardi continua a descrivere l'uomo del suo tempo. Lo accusa di vigliaccheria perché non può ammettere la propria debolezza e insignificanza nei confronti della natura: al contrario, è orgoglioso della grandezza umana, e nutre se stesso e gli altri di illusioni. Il nobile, invece, è un uomo che è consapevole della propria condizione infelice, ma la vive a testa alta; inoltre, più che incolpare gli altri per la sua sofferenza, riconosce che la Natura stessa è l'unica responsabile. Per questo motivo, l'unico modo in cui gli esseri umani possono vivere con dignità è allearsi con altri umani contro il comune nemico della Natura, non fare la guerra l'uno contro l'altro (tutti fra sé confederati estima/gli uomini).
  • 20. VERSI 87-93 87.Uom di povero stato e membra inferme 88.che sia dell'alma generoso ed alto, 89.non chiama se nè stima 90.ricco d'or nè gagliardo, 91.e di splendida vita o di valente 92.persona infra la gente 93.non fa risibil mostra, Un uomo di condizioni modeste e salute cagionevole, nobile ed elevato d'animo, non si vanta di essere ricco di beni o forte, e non si mette ridicolmente in mostra tra la gente per la vita lussuosa o per il suo bell'aspetto;
  • 21. VERSI 94-97 94.ma se di forza e di tesor mendico 95.lascia parer senza vergogna, e noma 96.parlando, apertamente, e di sue cose 97.fa stima al vero uguale. ma senza vergogna si mostra privo di forza fisica e di beni materiali, e chiama apertamente le cose col loro nome, e stima le sue cose in modo aderente alla verità.
  • 22. VERSI 98-104 98.Magnanimo animale 99.non credo io già, ma stolto, 100.quel che nato a perir, nutrito in pene, 101.dice, a goder son fatto, 102.e di fetido orgoglio 103.empie le carte, eccelsi fati e nove 104.felicità, quali il ciel tutto ignora, Non penso che sia un essere magnanimo, ma sciocco chi, destinato a morire, educato attraverso le sofferenze, afferma: “Sono nato per essere felice” e riempie con il suo nauseante orgoglio fogli su fogli, promettendo esaltanti destini estraordinarie felicità – che il cielo ignora,
  • 23. VERSI 105-110 105. non pur quest'orbe, promettendo in terra 106. a popoli che un'onda 107. di mar commosso, un fiato 108. d'aura maligna, un sotterraneo crollo 109. distrugge sì che avanza 110. a gran pena di lor la rimembranza. così come questa terra – promettendo a popoli che un maremoto, una pestilenza, un terremoto. Distruggono in modo tale che a stento rimane il ricordo di essi.
  • 24. VERSI 111-117 111.Nobil natura è quella 112.che a sollevar s'ardisce 113. gli occhi mortali incontra 114. al comun fato, e che con franca lingua, 115.nulla al ver detraendo, 116.confessa il mal che ci fu dato in sorte, 117.e il basso stato e frale; Uno spirito nobile è quello che ha il coraggio di sollevare i propri occhi mortali contro il destino comune, e che con parole oneste e sincere e senza nulla togliere alla verità, e confessa il male che ci è stato assegnato, e la nostra condizione meschina e fragile;
  • 25. «gli occhi mortali incontra al comun fato» Espressione modellata sul celebre passo del De Rerum Natura di Lucrezio in cui si descrive Epicuro e la sua lotta contro la superstizione umana: «mortales tollere contra |est oculos ausus» (De Rerum Natura, I, 66-67).
  • 26. VERSI 118-125 118.quella che grande e forte 119.mostra se nel soffrir, nè gli odii e l'ire 120.fraterne, ancor più gravi 121.d'ogni altro danno accresce 122.alle miserie sue, l'uomo incolpando 123.del suo dolor, ma dà la colpa a quella 124.Che veramente è rea, che de' mortali 125. Madre è di parto e di voler una natura nobile è quella che si mostra coraggiosa e forte nella sofferenza, e che non aggiunge alle sue sciagure né gli odi né le violenze tra simili, che sono ancora più gravi del resto, dando la responsabilità all'uomo del suo dolore, ma dà la colpa alla natura che è davvero colpevole, e che per gli uomini è madre per il parto e matrigna per come ci tratta.
  • 27. VERSI 126-135 126.Costei chiama inimica; e incontro a questa 127.congiunta esser pensando, 128.siccome è il vero, ed ordinata in pria 129.l'umana compagnia 130.tutti fra se confederati estima gli uomini, 131.e tutti abbraccia con vero amor, porgendo 132.valida e pronta ed aspettando aita 133.negli alterni perigli e nelle angosce 134.della guerra comune. L'umanità chiama questa come nemica; e pensando di essere, com'è vero, unita e schierata contro di lei, ritiene tutti gli uomini alleati tra loro e tutti li stringe in un abbraccio con vera partecipazione, offrendo ed aspettando un valido e rapido aiuto nelle alterne difficoltà e nelle sofferenze della comune lotta.
  • 28. VERSI 135-144 135.Ed alle offese 136.dell'uomo armar la destra, e laccio porre 137.al vicino ed inciampo, 138.stolto crede così, qual fora in campo 139.cinto d'oste contraria, in sul più vivo 140.incalzar degli assalti, 141.gl'inimici obbliando, acerbe gare 142.imprender con gli amici, 143.e sparger fuga e fulminar col brando 144.infra i propri guerrieri. E crede che sia stolto armare la propria mano per le offese dell'uomo, e gettare un tranello e tramare un danno contro il proprio vicino, così come sarebbe stupido, in un campo di battaglia circondato da un esercito nemico, nel momento più feroce dell'assalto, dimenticando i nemici, intraprendere con i commilitoni duri battibecchi e disseminare la fuga o tirare colpi di spada tra i propri guerrieri.
  • 29. VERSI 145-152 145.Così fatti pensieri 146.quando fien, come fur, palesi al volgo, 147.e quell'orror che primo 148.contro l'empia natura 149.strinse i mortali in social catena, 150.fia ricondotto in parte 151.da verace saper, l'onesto e il retto 152.conversar cittadino, Quando considerazioni di questo tipo saranno, come lo sono state in passato, evidenti a tutti; e quando il terrore che per primo unì gli uomini contro la natura malvagia in una catena di solidarietà, quando il discorso pubblico onesto e retto sarà in parte recuperato dal vero sapere,
  • 30. «social catena» Invece di combattersi a vicenda, gli uomini dovrebbero unirsi e lottare contro la natura. Da questa unione potrebbe nascere «vero amor» tra gli uomini, ma anche «giustizia» e «pietà», rapporti civili onesti e retti.
  • 31. VERSI 153-157 153.e giustizia e pietade, altra radice 154.avranno allor che non superbe fole, 155.ove fondata probità del volgo 156.così star suole in piede 157.quale star può quel ch'ha in error la sede. allora la giustizia e il senso di pietà avranno un'altra radice che non le fantasie piene di presunzione, sulle cui fondamenta la mentalità del popolo è solita star in equilibrio come può stare chi ha il proprio appiglio nell'errore.
  • 32. QUARTA STROFA (VV. 158-201) Nella quarta strofa il poeta descrive l’infinità dell’universo che gli si apre davanti quando di notte guarda l’immenso cielo stellato: rispetto alle stelle e alle galassie la Terra e l’uomo non sono niente, eppure gli uomini si credono tanto importanti da essere il centro e lo scopo del mondo. Leopardi deride i suoi contemporanei che credono che la Terra sia stata creata per loro, ma prova anche pietà.
  • 33. VERSI 158-166 158.Sovente in queste rive, 159.che, desolate, a bruno 160. veste il flutto indurato, e par che ondeggi, 161.seggo la notte; e sulla mesta landa 162.in purissimo azzurro 163.veggo dall'alto fiammeggiar le stelle, 164.cui di lontan fa specchio 165.il mare, e tutto di scintille in giro 166.per lo vòto seren brillare il mondo. Spesso la notte siedo su queste pendici del vulcano, che la lava solidificata ricopre di un manto scuro rendendole desolate; e sulla campagna triste, sotto un cielo terso vedo risplendere le stelle nel cielo, alle quali il mare, da lontano, fa da specchio, e tutto il mondo brilla di scintille per l'universo sereno.
  • 34. VERSI 167-174 167.E poi che gli occhi a quelle luci appunto, 168.ch'a lor sembrano un punto, 169.e sono immense, in guisa 170.che un punto a petto a lor son terra e mare 171.veracemente; a cui 172.l'uomo non pur, ma questo 173.globo ove l'uomo è nulla, 174.sconosciuto è del tutto; E quando fisso lo sguardo a quegli astri, che ai miei occhi paiono solo dei puntini, e invece sono immensi, così che in realtà terra e mare sono un punto al loro cospetto; e per queste stelle non solo l'uomo, ma la stessa Terra, dove l'uomo vale nulla, è completamente ignota;
  • 35. VERSI 175-184 175.e quando miro quegli ancor più senza alcun fin remoti 176. nodi quasi di stelle, 177.ch'a noi paion qual nebbia, a cui non l'uomo 178.e non la terra sol, ma tutte in uno, 179.del numero infinite e della mole, 180.con l'aureo sole insiem, le nostre stelle 181.o sono ignote, o così paion come 182.essi alla terra, un punto 183.di luce nebulosa; al pensier mio 184.che sembri allora, o prole dell'uomo? e quando contemplo quelle nebulose lontanissime e senza fine, che ci sembrano come una nebbia, alle quali non l'uomo, non la terra soltanto ,ma tutte insieme le nostre stelle, insieme con il sole dorato, infinite per numero e per mole, o sono ignote o appaiono come loro sembrano a noi, e cioè un punto di luce fioca; allora che puoi sembrare al mio pensiero, o stirpe umana?
  • 36. VERSI 185-194 185.E rimembrando 186.il tuo stato quaggiù, di cui fa segno 187.il suol ch'io premo; e poi dall'altra parte, 188.che te signora e fine 189.credi tu data al Tutto, e quante volte 190.favoleggiar ti piacque, in questo oscuro 191.granel di sabbia, il qual di terra ha nome, 192.per tua cagion, dell'universe cose E ricordando il tuo stato sulla terra, di cui è testimonianza il suolo vulcanico che io calpesto; e d'altra parte considerando che tu (prole dell'uomo) ti reputi padrona e fine dell'universo; e pensando a quante volteti è piaciuto fantasticare su come i creatori del mondo siano scesi su questo dimentico granello di sabbia che ha nome di Terra, per prendersi cura di te, e su come abbiano spesso conversato piacevolmente con i tuoi simili;
  • 37. VERSI 195-201 195.e che i derisi sogni rinnovellando, ai saggi insulta 196.fin la presente età, che in conoscenza 197.ed in civil costume 198.sembra tutte avanzar; qual moto allora, 199.mortal prole infelice, o qual pensiero 200.verso te finalmente il cor m'assale? 201.Non so se il riso o la pietà prevale. e ricordando che, raccontando nuovamente illusioni già derise a suo tempo, il nostro secolo, che pretende di superare le ere precedenti in sapere e in civiltà, si burla dei saggi; che sentimento d'animo, o umanità infelice, che pensiero nei tuoi confronti mi prende il cuore?
  • 38. QUINTA STROFA (VV. 202-236) La forza distruttrice della natura nei confronti degli uomini è al centro della quinta strofa: Leopardi la paragona a una mela che cadendo dall’albero distrugge un formicaio. La dimostrazione dell’indifferente capacità distruttiva della natura continua nella sesta strofa: l’eruzione del Vesuvio del 70 d.C. è la prova del fatto che in un attimo la natura senza neanche accorgersene può spazzare via tutto quello che l’uomo ha costruito con fatica. Pompei rimane a testimoniare questo fatto
  • 39. VERSI 202-212 202.Come d'arbor cadendo un picciol pomo, 203.cui là nel tardo autunno 204.maturità senz'altra forza atterra, 205.d'un popol di formiche i dolci alberghi, 206.cavati in molle gleba 207.con gran lavoro, e l'opre 208.e le ricchezze che adunate a prova 209.con lungo affaticar l'assidua gente 210.avea provvidamente al tempo estivo, 211.schiaccia, diserta e copre 212.in un punto; Come un piccolo frutto cadendo dall'albero, che nell'autunno inoltrato la maturazione fa precipitare a terra senza altra forza, e schiaccia, annienta e cancella in un attimo gli accoglienti nidi di un popolo di formiche, scavati nella terra molle con gran fatica, e le gallerie e le riserve di cibo che con fatica indefessa le infaticabili formiche in gara tra loro hanno raccolto con previdenza nella stagione estiva;
  • 40. VERSI 213-218 213.così d'alto piombando, 214.dall'utero tonante 215.scagliata al ciel profondo, 216.di ceneri e di pomici e di sassi 217. notte e ruina, infusa 218.di bollenti ruscelli, così, piombando dall'alto, dalla bocca del vulcano e dopo essere stata scagliata in alto verso il cielo, un turbine che copre il sole, fatto di cenere, pomice e sasso, mescolato a rivoli di lava,
  • 41. VERSI 219-225 219.o pel montano fianco furiosa 220.tra l'erba di liquefatti massi 221.e di metalli e d'infocata arena 222.scendendo immensa piena, 223.le citta di che il mar là sull'estremo 224.lido aspergea, confuse 225.e infranse e ricoperse in pochi istanti: di colate laviche, o un'immensa piena che scende furiosa tra l'erba, fatta di massi liquefatti e di metalli fusi e di terra infuocata, sconvolse e distrusse e ricoprì in pochi attimi le città che il mare bagnava.
  • 42. «NOTTE E RUINA» Unione di due soggetti: Le tenebre calate improvvisamente e la distruzione causata dalla colata lavica. Riferimento all'Eneide (III, 571- 577) di Virgilio.
  • 43. VERSI 226-230 226.onde su quelle or pasce 227.la capra, e città nove 228.sorgon dall'altra banda, a cui sgabello 229.son le sepolte, e le prostrate mura 230.l'arduo monte al suo piè quasi calpesta. per cui (su quelle rovine) ora pascolano le capre mentre città nuove sorgono sopra, città che poggiano su quelle sepolte come su uno sgabello, e l'aspra montagna sembra calpestare alle sue pendici le mura abbattute delle antiche città.
  • 44. VERSI 231-236 231. Non ha natura al seme 232. dell'uom più stima o cura 233. che alla formica: e se più rara in quello 234.che nell'altra è la strage, 235.non avvien ciò d'altronde 236.fuor che l'uom sue prosapie ha men feconde. La natura non ha per il genere umano più stima o cura che per le formiche: e se la strage è più rara tra quelli che tra queste, ciò avviene d'altra parte solo perché le sue generazioni sono meno feconde.
  • 45. SESTA STROFA (VV. 237-296) Nella penultima strofa Leopardi torna a rivolgersi alla ginestra: anche lei è destinata prima o poi a soccombere alla devastazione del vulcano, ma è più saggia degli uomini perché non ha mai creduto di essere immortale. Né ha mai supplicato il suo oppressore. La ginestra accetta il proprio destino
  • 46. VERSI 237-248 237. Ben mille ed ottocento 238. anni varcàr poi che spariro, oppressi 239. dall'ignea forza, i popolati seggi, 240. e il villanello intento 241. ai vigneti, che a stento in questi campi 242. nutre la morta zolla e incenerita, 243. ancor leva lo sguardo 244. sospettoso alla vetta 245. fatal, che nulla mai fatta più mite 246. ancor siede tremenda, ancor minaccia 247. a lui strage ed ai figli ed agli averi 248. lor poverelli. Sono passati ben mille e ottocento anni da quando scomparirono, schiacciati dalla forza della lava, le affollate città e il contadino al lavoro nei vigneti, che la zolla morta ed incenerita, nutre a fatica in questi campi, leva tuttora lo sguardo sospettoso al vulcano portatore di morte, che per nulla resa più mite, ancor si siede orrendo, ancora minaccia una strage al contadino, ai suoi figlie ai loro miseri averi.
  • 47. VERSI 249-255 249.E spesso il meschino in sul tetto 250.dell'ostel villereccio, alla vagante aura giacendo tutta notte insonne, 251.e balzando più volte, esplora il corso 252.del temuto bollor, che si riversa 253.dall'inesausto grembo 254.sull'arenoso dorso, a cui riluce di Capri E spesso il poverello sul tetto della sua casa campestre, restando sveglio insonne tutta la notte all'aperto, e sobbalzando molte volte, osserva ansioso il procedere della temuta lava, che cola dall'inesausta fornace sul pendio sabbioso, a cui splende la marina di Caprie il porto di Napoli e il quartiere Mergellina.
  • 48. VERSI 256-266 256. E se appressar lo vede, o se nel cupo 257. del domestico pozzo ode mai l'acqua 258. fervendo gorgogliar, desta i figliuoli, 259. desta la moglie in fretta, e via, con quanto 260. di lor cose rapir posson, fuggendo, 261. vede lontan l'usato 262. suo nido, e il picciol campo, 263. che gli fu dalla fame unico schermo, 264. preda al flutto rovente, 265. che crepitando giunge, e inesorato 266. durabilmente sovra quei si spiega. E se lo vede avvicinarsi, o se sente per caso gorgogliar in fermento nel profondo del pozzo di casa, sveglia i figli e la moglie in fretta, e subito via, con quanto delle loro cose possono raccattare, e, in fuga, vede da lontano la cara e quotidiana abitazione, e il modesto campo, che fu per lui unica difesa alla fame, preda della colata incandescente che giunge con mille crepitii, e inesorabile si stende per sempre sopra quelli (campo e casa).
  • 49. VERSI 267-271 267.Torna al celeste raggio 268.dopo l'antica obblivion l'estinta 269.Pompei, come sepolto 270.scheletro, cui di terra 271.avarizia o pietà rende all'aperto; Ai raggi del sole torna dopo un oblio secolare, l’estinta Pompei, come uno scheletro sepolto, che dalla terra viene all'aperto per desiderio di ricchezza o pietà umana;
  • 50. VERSI 272-277 272.e dal deserto foro 273.diritto infra le file 274.dei mozzi colonnati il peregrino 275.lunge contempla il bipartito giogo 276.e la cresta fumante, 277.che alla sparsa ruina ancor minaccia. e dalla piazza deserta dritto in mezzo alle fila dei colonnati diroccati il pellegrino contempla da lontano il Vesuvio e il monte Somma, e la cresta che fuma, che ancora minaccia la città distrutta.
  • 51. VERSI 278-286 278.E nell'orror della secreta notte 279.per li vacui teatri, 280.per li templi deformi e per le rotte 281.case, ove i parti il pipistrello asconde, 282.come sinistra face 283.che per voti palagi atra s'aggiri, 284.corre il baglior della funerea lava, 285.che di lontan per l'ombre 286. rosseggia e i lochi intorno intorno tinge. E nello scenario orrorifico della notte più oscura, per teatri abbandonati e templi crollati e le case devastate, dove è solito partorire il pipistrello, come una fiaccola misteriosa che vaghi cupa per palazzi vuoti, corre la colata della lava assassina, che da lontano in mezzo all'ombra manda rossi bagliori, e si riflette all'intorno.
  • 52. VERSI 287-296 287.Così, dell'uomo ignara e dell'etadi 288.ch'ei chiama antiche, 289.e del seguir che fanno 290.dopo gli avi i nepoti, 291.sta natura ognor verde, anzi procede 292.per sì lungo cammino 293.che sembra star. 294.Caggiono i regni intanto, 295.passan genti e linguaggi: ella nol vede: 296.e l'uom d'eternità s'arroga il vanto. Così, la natura, del tutto indifferente dell'uomo e del corso delle generazioni umane, rimane sempre giovane e vitale, ed anzi scorre per un cammino così lungo da parer immobile. Nel frattempo, crollano i governi, scompaiono i popoli e le culture: la natura assiste impassibile: e l'uomo pretende il diritto
  • 53. SETTIMA STROFA (297-317) La ginestra accetta il proprio destino. Il fiore è un modello di comportamento nobile per l’uomo, e anche se la ginestra deve piegare il capo dinanzi alla forza della natura, questa sconfitta non ne cancella la dignità.
  • 54. VERSI 297-304 297.E tu, lenta ginestra, 298.che di selve odorate 299.queste campagne dispogliate adorni, 300.anche tu presto alla crudel possanza 301.soccomberai del sotterraneo foco, 302.che ritornando al loco 303.già noto, stenderà l'avaro lembo 304.su tue molli foreste. E tu, flessibile ginestra, che adorni con i tuoi cespi profumati queste campagne desertificate, anche tu presto soccomberai alla potenza crudele della lava, che ritornando ai luoghi già colpiti, stenderà sui tuoi molli rami il suo duro e acre lembo di rocce.
  • 55. VERSI 304-313 304.E piegherai 305.sotto il fascio mortal non renitente 306.il tuo capo innocente: 307.ma non piegato insino allora indarno 308.codardamente supplicando innanzi 309.al futuro oppressor; ma non eretto 310.con forsennato orgoglio inver le stelle, 311.nè sul deserto, dove 312.e la sede e i natali E piegherai sotto la colata mortale il tuo fusto innocente senza opporre resistenza: ma il tuo capo non è stato piegato fino a quel momento, con suppliche inutili e codarde al futuro oppressore; e il tuo capo non si è eretto con orgoglio folle contro le stelle, né sul deserto, dove hai avuto il luogo di nascita e di residenza
  • 56. VERSI 314-317 317.ma più saggia, ma tanto 318.meno inferma dell'uom, quanto le frali 319. tue stirpi non credesti 320.o dal fato o da te fatte immortali. ma più saggia, e tanto meno debole ed insensata dell'uomo, poiché non hai mai creduto che la tue fragili stirpi fossero state rese immortali o dal destino o da te stessa.
  • 57. IL MESSAGGIO Il messaggio di Leopardi in quello che è considerato il suo testamento poetico è chiaro: solo chi è in grado di accusare apertamente la natura (madre di parto e di voler matrigna) e decide di combatterla insieme ai propri simili è degno di essere chiamato uomo. La presenza della ginestra, invocata nei versi iniziali, rivela alla fine il suo valore metaforico: il fiore umile che cresce sulle pendici del vulcano e aspetta senza piangere codardamente i suoi steli all'inesorabile sopraggiungere della lava che la inghiottirà, è un modello, un esempio di coraggio e umiltà che l'uomo dovrebbe imitare.