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- Aldo Perris -
LA
RIVOLTA
DEI SOGNI
Questo racconto
è un'opera nata
dalla fantasia dell'autore
e ogni riferimento
a fatti e personaggi
realmente esistenti
è puramente casuale.
A.P.
Questo romanzo è dedicato
a tutti coloro che posso incontrare
al di là del mondo “Veglio” e,
in particolare, a chi viene
da me ogni notte a dissetarsi.
(… e lei lo sa)
Note di testa
La storia che sto per raccontarvi è una storia vera. Si è svolta, nel
giro di pochi mesi tra il 1954 e il 1955, in un paesino nel sud dell'Italia.
Il paesino è reale ma, per motivi che non ho la libertà di spiegarvi,
non posso rivelarne il vero nome. Ho dovuto inventare un nome fittizio per
questo paese e, tra i tanti nomi che la fantasia m'ha suggerito, la scelta è
caduta su “Policarno”.
Perché “Policarno”?
Perché il suono greco di questa parola mi serviva a collocare
geograficamente il paese.
Perché “Policarno” è una parola composta che non ha significati.
Perché, dopo molte ricerche, sono certo che un paese con questo
nome non esiste.
Quindi … Policarno sia!
Ho disegnato la cartina del paese così come era all'epoca degli
avvenimenti che sto per raccontare. Mi si presentava quasi identico a
com'era nel 1955 quando l'ho frequentato, vent'anni dopo. Ovviamente, ho
disegnato la mappa di Policarno cambiando i nomi delle strade per evitare
che qualcuno possa riconoscerlo ma ho preservato la morfologia
urbanistica del paese … un mio piccolo vezzo.
Non è vero!
Il fatto è che … vorrei tanto che qualcuno riconoscesse il vero paese
che si cela sotto il nome “Policarno”, qualcuno che andasse a cercare le
prove di quanto sto per raccontarvi.
Le prove sono ancora lì.
Sono ben nascoste ma ci sono!
Forse, un giorno, torneranno alla luce … certo! … ma bisognerà
ricostruire anche i supporti tecnici del 1955 perché si comprenda ciò che si
vedrà.
Sono filmati.
Qualcuno, guardandoli, potrebbe credere di trovarsi di fronte ad un
mago degli effetti speciali (speciali per il '55) … beh! Non ci sono effetti.
Non è un film ma un documentario scientifico.
Tutto ciò che è impresso su quelle pellicole è realmente accaduto.
… ma ora … partiamo dall'inizio e per “inizio” s'intende tutto ciò che
riguarda la storia di Policarno, la storia dell'Italia intorno alla seconda
guerra mondiale, la storia della famiglia Leofulla.
I
Policarno, 1933, casa Leofulla.
− Che cosa stai facendo, papà? - chiese Eleuterio al padre. Il papà si
stava preparando per andare al lavoro. Era impiegato all'ufficio
postale.
− Come sarebbe a dire, cosa sto facendo? Mi sto lavando, non lo
vedi? - rispose il padre.
− … e … perché usi quello spazzolino per le ciglia? Cos'è quella
roba che togli dagli occhi? - lo incalzò il bambino.
Il papà era in ritardo, come spesso accadeva, ma si fermò ugualmente
dalle sue abluzioni mattutine, si accovacciò di fronte al figlio, per poterlo
guardare negli occhi e gli disse:
− Sai, figliolo, tolgo i sogni dai miei occhi per lasciarli a casa,
accanto a tutto ciò che amo … -
Di fronte al visetto perplesso del bambino, continuò:
− … non posso portare al lavoro i miei sogni ancora attaccati agli
occhi. Lì, non vedrebbero l’ora di rubarmeli, allora li lascio
attaccati allo spazzolino per le ciglia e li nascondo nel mio
cassetto del mobile in bagno, ma, … mi raccomando, non dire a
nessuno che io nascondo i sogni, è un segreto tra noi due -. Il
bambino annuì con fare cospiratorio ed il papà andò a sedersi sul
letto per vestirsi. Dopo un po' Eleuterio, che evidentemente aveva
continuato a rimuginarci, gli chiese:
− … ma … come fai poi a rivederli? -
− Io … ehm! … su, preparati! … sennò fai tardi a scuola! -
Eleuterio era un bambino di otto anni, figlio di Donatello, unico
impiegato nell'ufficio postale di Policarno e di Bianca de Luca, casalinga.
I Leofulla abitavano vicino alla chiesa del paese e, il tratto di strada
che portava dalla loro abitazione alla scuola e all'ufficio postale (che era
adiacente alla scuola) era di un centinaio di metri.
Sia l'edificio scolastico che la sede dell'ufficio postale si trovavano in
piazza del Forno Vecchio.
Policarno era paese tranquillo, di una tranquillità insolita in
quell'Italia entrata da poco nel ventennio fascista. Il fatto che la morsa del
regime non si fosse fatta sentire a Policarno, dipendeva dalla scarsa
importanza del paese, poco collegato coi centri urbani più prossimi e
dotato di una peculiare indolenza e sonnolenza dei propri abitanti e delle
forze dell'ordine.
Vestire alla “Balilla” era considerata una moda delle grandi città.
Il paese non rappresentava certo uno di quei centri dove gli animi si
esaltavano facilmente. Pur trovandosi nell'avveniristico ed espansionistico
1933, chi passava per Policarno aveva l'impressione d'immergersi nella
metà dell'800.
Il paese era sovrastato dalle rovine di un castello medioevale, aveva
un'urbanistica che non era certo il risultato di un piano ben strutturato.
L'evidenza di questa mancanza d'organizzazione si evinceva dal fatto che
l'unica chiesa del paese non si trovava nella piazza principale.
Per Eleuterio era meraviglioso quando, uscendo da scuola, trovava la
mamma ad aspettarlo.
Quel giorno, la mamma era preoccupata. Lui se ne accorse perché,
anziché guardare nella direzione della marea di bambini che uscivano da
scuola, lei stava parlando in maniera concitata con le altre mamme.
Eleuterio salutò il suo compagno di banco, Franceschino, e si diresse
dalla mamma e, per farsi notare, fece la ruota fermandosi proprio al centro
di tutte le donne.
La mamma, accortasi del figlio, salutò in fretta e furia le altre
mamme, lo prese per mano e si diresse a casa.
Eleuterio, orgoglioso di camminare di fianco alla sua mamma, salutò
nuovamente Franceschino che andava via con la nonna, Nicolina.
− Buona giornata, signora Nicolina, ciao Francé ... -. disse il
bambino.
− Ciao, piccolo, buongiorno Bianca! – fece la signora Nicolina
Fiorenza, nonna di Francesco Carlesi.
La famiglia di Francesco era originaria di Policarno ma lui era nato a
Livorno perché il padre s'era trasferito lì per lavoro. Purtroppo, lì
Francesco aveva perso entrambi i genitori per una rapina, cosa rarissima
per quei tempi, trasformatasi in tragedia.
Lui, quindi, era andato a vivere a Policarno, dalla nonna. Il bambino
continuava ad asserire che, da grande, avrebbe fatto il carabiniere.
Probabilmente gli sembrava l'unico modo per vendicare i genitori.
Sebbene si fossero salutate, le due donne percorrevano lo stesso
tratto di strada per cui:
− Avete sentito? - attaccò Bianca.
− Cosa? - fece Nicolina.
− L'Italia si sta alleando con altre nazioni europee -
− Beh? Non è una cosa buona? -
− Mio marito dice di no! -
− … e perché? -
− Lui dice che le alleanze sono il modo migliore per far scoppiare le
guerre -.
− Non capisco -
− Nemmeno io ci capisco tanto ma, a quanto pare, se qualcuno
s'allea con qualcun altro, lo fa per fregare un terzo -.
− Cioè? - a quel punto, intervenne Franceschino.
− Ma è facile, nonna! È come fanno Aida e Caterina! -
− Aida e Caterina? E … chi sono? -
− Aida Costa e Caterina Chiocci -
− Le vostre compagne? … e cosa fanno?
− Sono diventate amiche del cuore solo per parlare male di Rosetta –
si aggiunse Eleuterio a sostegno del compagno.
− E ora chi è Rosetta? - Chiese Nicolina.
− Rosetta Riccio, la figlia della pasticciera -. disse Eleuterio.
Francesco s'aggiunse.
− Rosetta dice sempre le cose come stanno e, a quelle due streghe,
non piace chi le tratta per come meritano -.
− Francé! Non si parla così delle compagne -. La signora Nicolina
sgridò il nipote.
Sebbene fosse il 1933 e, a quei tempi, la “classe mista”, cioè quella
formata da maschi e femmine che dividevano promiscuamente lo stesso
ambiente, non era concepita dal sistema educativo, a Policarno c'era una
sola maestra, la signorina Carli, ed un numero troppo scarso di bambini per
poter pensare di dividere i corsi e applicare una direttiva ministeriale che
divideva le classi di studio in base al genere.
− Hai più sognato il Trorco? - I Leofulla erano a cena.
− Il Trorco? Papà, te lo ricordi ancora? -
− Si che me lo ricordo, la notte avevi molta paura -
− Ma ero un bambino -. disse Terio, con baldanza.
− Guarda che stiamo parlando di quattro anni fa -. Sorrise il padre.
− Beh? Metà della mia vita -
− Lascialo in pace, Donatello, fagli finire la cena senza tempestarlo
di stravaganti domande – intervenne mamma Bianca. Donatello
tacque e consumò lentamente la propria cena sincronizzandosi col
figlio. Finita la cena, Bianca prese i piatti ed andò in cucina e
Donatello, a bassa voce, riprese da dove s'era fermato.
− Eccoci di nuovo da soli … ma ti ricordi che ti feci disegnare il
mostro che popolava i tuoi incubi e lo andai a sotterrare? -
− Il Trorco? … mhm! … ora che ci penso, mi pare di ricordare … dì
la verità, buttasti il disegno, papà? -
− Nemmeno per sogno! Feci esattamente come t'avevo promesso.
Sotterrai la scatola di latta con il tuo disegno e … altre cose ... -.
− Davvero? … e … ora … dove … ? -
− Non te lo posso dire ma, ti prometto, un giorno te lo dirò -.
− E dai, papà! … -
− Non insistere, piuttosto, … vieni con me, devo farti sentire una
cosa molto interessante. Stasera scoprirai cos'è la perfezione -.
Passarono dal tavolo alle due poltrone poste ai lati del mobile radio,
sul quale era poggiato un grammofono.
Papà Donatello tirò fuori dalla sua grande borsa da lavoro un disco in
ceralacca 78 giri ancora nella confezione di cartone semi-rigido.
Eleuterio, mentre il padre metteva il disco sul grammofono, lesse il
titolo del brano sul cartoncino che fungeva da copertina: “J.S.Bach –
Canone Inverso per Clavicembalo”.
Prima di avviare il grammofono, il padre disse:
− Stasera ascolterai la perfezione -.
− Questo Bach? Che canzoni canta? -
− Non è un cantante, è un musicista che ha scritto questo brano circa
duecento anni fa! -
− Non è moderno! -
− La parola “moderno” indica una scadenza perché tutto ciò che è
moderno diventerà antico. Lui è “eterno!”... ascolta! -
Un bambino di otto anni, così come qualsiasi adulto ignorante ma
sensibile, proprio perché non ha gli strumenti per analizzare la musica, può
lasciarsi trasportare dalle emozioni che le note sanno creare.
Per Eleuterio Leofulla fu un'esperienza magica: il brano cominciava
con una melodia semplice che, man mano che proseguiva il brano,
s'arricchiva di altre melodie che s'incrociavano con quella principale.
Quando entrò la seconda melodia, Terio ebbe l'impressione di
guardare due farfalle che volteggiavano e, all'aggiungersi di ogni nuova
melodia, passò dal vento alla pioggia, dal giorno alla notte e viceversa.
Quando finì il brano, Terio, entusiasta, raccontò tutte le sue
esperienze sinestetiche al papà e chiese di riascoltare Bach.
− Aspetta, devo prima spiegarti una cosa riguardo questo pezzo e del
perché, a proposito del canone inverso, io ti abbia parlato della
perfezione -. Terio sapeva che il suo papà gli raccontava sempre
cose incredibili, per cui rispose:
− Sono in ascolto – e il padre proseguì:
− La melodia che hai sentito all'inizio, quella melodia solitaria, era
l'unica melodia che Bach ha usato in tutto il pezzo … -
− Ma io ho sentito altre … -
− Aspetta! Fammi spiegare. Quando è entrata la seconda melodia,
quella che hai chiamato “farfalla”, era la prima melodia che
partiva dall'ultima nota e tornava indietro sovrapponendosi alla
prima melodia … -
− No, incredibile … -
− … ma questo è solo l'inizio. Ogni melodia che s'aggiungeva, era
sempre la prima melodia ma trattata in altri modi: Capovolta,
tagliata in due parti e fatta partire da capo e da metà brano
contemporaneamente, capovolta e retrograda nel contempo e
ancora … -
− Basta, papà. Adesso che ho capito cos'è la perfezione, posso
riascoltarlo? -
− Ma … va bene, adesso si! … ma ricorda cosa si può inventare con
una semplice serie di note, … o di numeri -
Il canone inverso di Bach divenne un brano che Eleuterio ascoltava
almeno una volta al giorno.
II
Una sera, al ritorno da lavoro, il papà vide Eleuterio triste e affranto
seduto accanto alla mamma con la testa appoggiata sulla spalla, aveva
pianto. L'aria di casa era tesa, c'erano quaderni aperti sul tavolo di cucina
e, in bella mostra, un “Quattro” sul quaderno di matematica scritto con la
matita rossa.
− Beh? Cos'è quest'aria da cimitero? - chiese, con un mezzo sorriso.
La moglie, Bianca, inarcò le sopracciglia, alzò gli occhi al cielo e
rispose:
− Matematica, … è andato male! - Il signor Donatello, ci pensò su
per un po', poi disse:
− Ma tu, l'hai consolato, non è vero? - e strizzò l'occhio alla moglie.
− Ho fatto male? – Chiese la signora Bianca. Eleuterio alzò gli occhi
perché non capiva a cosa volessero arrivare i genitori. Il padre
rispose:
− No, anzi, hai fatto benissimo. Adesso io l'aiuterò a capire il mondo
dei numeri ma, se tu non l'avessi consolato, avrei dovuto farlo io -.
Eleuterio era basito. Gli altri genitori, di fronte a un brutto voto
avevano solo due probabili reazioni:
1) Indifferenza, dovuta al fatto di ritenere lo studio “una perdita di
tempo”.
2) Botte, spesso date anche solo per abitudine.
Lui sapeva che i suoi genitori erano tanto speciali da sembrare, come
li chiamavano in paese, “eccentrici” ma, pur essendo abituato alla loro
stranezza, rimaneva sempre stupito. La madre andò in cucina e il padre gli
spiegò i numeri in un modo che non avrebbe più dimenticato.
− Non voglio sapere in cosa sei andato male ma … -
− Papà, mi dispiace, le tabelline … è proprio che … i numeri non li
capisco -
− Non preoccuparti. Ora te li presento! Il mondo dei numeri è un
mondo magico e ogni numero ha la sua magia. Conosci la
tabellina dell'uno? -
− Papà, … ma quella è facile! -
− Bene ma … lo sapevi che, ogni tabellina è facile come una
tabellina dell'uno? -
− Non capisco -.
− Va bene, cominciamo dal due … dunque 2, 4, 6, 8, 10, 12, 14, 16,
18, 20 cioè prima i numeri pari e poi i dispari -.
− Cioè? Dove sono i dispari? -
− Ascolta bene, 2, 4, 6, 8, poi 10 che è 1+0 ossia 1 … poi 12 che è
1+2 cioè 3 … e così via -. Terio ci pensò, poi disse:
− 2, 4, 6, 8, 1, 3, 5, 7, 9 e … 2? E il 10 dov'è? -
− Il dieci non esiste … è 1+0 -
− Quindi 1! -
− Esatto. Passiamo al 3 … 3, 6, 9, 12, 15, 18, 21, 24, 27, 30. Allora
cominciamo con … -
− Aspetta, aspetta! 3, 6, 9, … 3, 6, 9, … 3, 6, 9, … 3? Solo 3
numeri? -
− Visto com'è facile? E il 4 è 4, 8, 12, 16, 20, 24, 28, 32, 36, 40 …
avanti! Fa tu il calcolo -.
− … allora … 4, 8, 3, 7, 2, 6, 1, 5, 9, 4 … ci sono tutti! -
− Bene! Ora continua da solo ma, prima che continui devo dirti il
significato di ogni numero:
Il numero “1” rappresenta la solitudine e solo è chi arriva primo, di chi ha
un segreto, di chi sogna ...
Il numero “2” rappresenta l'amore, la persona che amiamo, ... perché non
ci sarebbe l'amore senza una persona da amare.
Il numero “3” rappresenta la perfezione, il triangolo che punta al cielo.
Il numero “4” rappresenta il viaggio, perché sono le direzioni estreme che
si possono prendere.
Il numero “5” rappresenta l'aiuto, come le dita di una mano tesa.
Il numero “6” rappresenta la comodità, la tranquillità. La forma stessa del
numero sei sembra una poltrona.
Il numero “7” rappresenta la magia. C'è un universo enorme di cose
fantastiche nel 7.
Il numero “8” rappresenta la vita. Un circolo infinito su se stesso.
Il numero “9” rappresenta l'opportunità. Il nove è un numero che varia i
risultati senza variare la sostanza -.
− Cioè? -
− Le proprietà del numero 9 sono speciali in tutte le operazioni di
calcolo, pensa alla prova del 9, ad esempio … ma, ancora più
importante è che il 9, aggiunto o sottratto ad un altro numero, non
ne varia la somma delle cifre che lo compongono -
− Troppo complicato. Cosa vuol dire? Come fa il nove a non variare
la sostanza degli altri numeri? -
− Dimmi un numero! - Eleuterio sparò il primo numero che gli
venne in mente.
− 5768! -
− Accidenti, che velocità! … bene! 5768 … dunque 5 + 7 + 6 + 8 fa
… 26 e 26 è formato da 2 + 6, cioè 8. Ora aggiungici 9! -
− Dunque, 5768 + 9 fa … 5777! -
− Giusto! 5 + 7+ 7+ 7 quanto fa? -
− … 26, no! -
− Esatto! E ora, prova a togliere 9 da 5768 -
− Mhm! Allora, 5759 … no! Di nuovo 26? -
Da quel giorno Eleuterio prese confidenza con i numeri al punto tale
che, in tutti gli anni scolastici che seguirono, la matematica divenne la
materia dove aveva sempre i voti più alti.
Nell'estate del 1934, Donatello Leofulla portò un quadro a casa
contenente solo numeri in un ordine sempre crescente ma con una logica
che sfuggiva ad Eleuterio.
− Perché questi numeri a caso, papà? -
− Non sono a caso … - rispose il padre mentre sistemava meglio il
quadro sul chiodo.
− No? … e dov'è la logica? -
− È proprio quello che dovrai scoprire -
− Mhm! Aspetta, vediamo un po' … 1, 1, 2, 3, 5, 8, 13, 21, 34, 55,
89, 144, 233, … no, non capisco la logica -.
Ci mise tre giorni ma, alla fine, capì. Fu così che Eleuterio conobbe
la famigerata “Sequenza Fibonacci”.
Eleuterio era figlio unico in una famiglia stravagante.
La madre era una donna dolcissima ma con un temperamento molto
forte e, all'occorrenza, sapeva tirar fuori le unghie.
Il padre viveva di filastrocche (ne conosceva a bizzeffe e, talvolta, ne
inventava di proprio pugno) e indovinelli . La cosa che lo rendeva “unico”,
per un papà di quei tempi, era che dedicava molto tempo a giocare col
figlio.
Il loro gioco preferito era la guerra tra il cavaliere Dorato e il
divoratore di sogni che, a dirla tutta, era un semplice “nascondino”.
Un giorno, papà Donatello entrò in casa e prese Eleuterio per mano.
− Vieni con me! - Fu l'unica cosa che disse.
Quando uscirono di casa, Eleuterio vide un puledro bellissimo, tutto
nero. Era legato dietro ad un carretto trainato da due asinelli.
− Che bello, papà, di chi è? - Disse Terio, indicando l'equino.
− Nostro! Si chiama Incubo -
− Nostro? Perché l'hai chiamato Incubo? - A Terio, intanto, gli si
illuminavano gli occhi alla vista del bel puledro nero.
− Perché un incubo fa paura e se cavalcherai la paura non avrai nulla
da temere -. Intanto, il signor Leofulla aveva messo il figlio a
cassetta e gli si era seduto di fianco.
− Allora, lo posso cavalcare? - Il bambino si sentiva già in groppa al
suo destriero.
− No, è troppo giovane -. Il padre gli spense provvisoriamente
l'entusiasmo.
− La sua mamma? Non è che … - Chiese preoccupato, Eleuterio.
− Sta bene, tranquillo! Si fida di noi … ce l'ha affidato e noi, ce ne
prenderemo cura. Vero? -
− Verissimo! … allora, dove andiamo? - chiese il bambino.
− Vedrai? -.
Dopo meno di mezz'ora, padre e figlio si trovavano sulla collina che
sovrastava Policarno.
Lì, per la prima volta in vita sua, Eleuterio vide da vicino il
“Castello”, una costruzione medioevale che, quando non c'era ancora il
paese, era il baluardo in difesa di tutta la zona circostante.
Pare che Policarno fosse nata sotto il castello proprio per la
protezione che questo offriva.
− Papà, è bellissimo -
− Vieni, andiamo a visitarlo -.
Dopo un'ora di visita guidata tra le macerie di quell'antica fortezza,
Terio conosceva tutta l'architettura del maniero e la sua storia.
A quel punto, furono di nuovo a cassetta del loro carretto. Il padre
non accennava a partire. Eleuterio chiese:
− Cosa c'è, papà? -
− Voglio che tu mi faccia una promessa -
− ! -
− Se un giorno tu dovessi diventare molto ricco, mi prometti che
comprerai questo castello, lo rimetterai a nuovo e ci abiterai? -
− Perché? -
− Ehm! … non so, … cioè … non ti piacerebbe vivere in un
castello? -
− Si ma … non è che ci sono i fantasmi? -
− Non preoccuparti, non ce ne sono, … me lo prometti allora? -
− … si! Papà, te lo prometto … ma dovrei diventare ricchissimo per
comprare un castello -
− Lo so e … penso che, un giorno, ci riuscirai, … io te lo auguro! -
− E così sia! -
− Promesso? -
− Promesso! -
Solo ora che aveva ottenuto la promessa dal figlio, Donatello
Leofulla spronò le redini e fece ritorno in paese.
Negli anni trenta, non c'erano molte occasioni per divertirsi, se
guardiamo quell'epoca con gli occhi dei nostri tempi, qualunque essi siano
ma, se fossimo vissuti a quei tempi, tutto sembrava pensato allo scopo di
svagare le comunità.
Il calendario cominciava a capodanno e, a parte tutte le feste religiose
e la festa dei santi patroni, che erano tre, aveva la festa di primavera, la
festa del miele, la festa d'estate, la sagra del pomodoro e la festa del vino.
Quasi una festa al mese con relativo mese di preparazione per ognuna
di esse.
Il 1935 fu l'ultimo anno di scuole elementari da parte di Eleuterio e
Compagni.
La maestra, la signorina Carli, fece riunire tutti gli alunni nel cortile
della scuola per la foto ricordo. Il cortile era, in verità, un angolo della
piazza del Forno Vecchio. I parenti erano stati avvisati la settimana
precedente e, quel giorno, tutti i ragazzi s'erano presentati a scuola coi
capelli tagliati e in ordine, il grembiule stirato e apprettato, le scarpe lucide
e, tra le femminucce, luccicava qualche collana o orecchino.
Il fotografo era il papà di uno dei bambini. Era il più bravo di
Policarno, era l'unico.
Faceva caldo ed era una tortura stare fermi sotto il sole in attesa del
lungo tempo d'esposizione della vecchia apparecchiatura fotografica del
signor Abete.
L'abete si sa, è un albero e, vuoi il suo cognome, vuoi l'immobilità
forzata a guardare nell'obiettivo, i ragazzi e la maestra Carli si gustarono
tutta la scena.
Un cane randagio, attirato dalla scena insolita di tanti umani fermi,
s'avvicinò all'ignaro fotografo, gli girò intorno un paio di volte poi, gli si
accostò, alzò la gamba e …
Se esiste ancora l'archivio fotografico del 1935 della scuola
elementare di Policarno, si troverà l'unica foto ricordo collettiva dove si
vede un'intera scolaresca, compresa l'insegnante e la fiduciaria, che stanno
ridendo a crepapelle.
III
A settembre del 1936, Eleuterio cominciò il ginnasio. Policarno non
offriva che una scuola elementare per cui, a Terio toccava andare in città
per continuare gli studi.
La mamma, tramite il giovane parroco, don Fulgenzio, 38 anni,
aveva trovato un ginnasio della Curia Arcivescovile, con dormitorio
annesso, il tutto ad un prezzo molto ragionevole.
Certo, la lontananza dal ragazzo sarebbe stata dura per i Leofulla ma
l'istruzione era una cosa alla quale non volevano rinunciare.
Il giorno prima della partenza, Donatello Leofulla chiamò il figlio
dalla soffitta di casa.
Le case, a quei tempi, avevano ambienti alti più di cinque metri.
Nella stanza di Eleuterio, prima che questi nascesse, il padre aveva
costruito un soppalco a sparizione ossia un ambiente al quale s'accedeva da
una botola sotto il soffitto.
La botola era ben dissimulata perché seguiva perfettamente la linea
del sottotetto che, a sua volta, era stato dipinto a quadrati della dimensione
della botola stessa cosicché questa non fosse distinguibile.
− Vieni su, figliolo! – Gridò Donatello. Eleuterio rimase basito
perché, fino a quel momento, gli era stato sempre vietato l'accesso
alla soffitta. Non ci pensò due volte, si precipitò.
− Eccomi! -
Si trovò in una stanza con la stessa quadratura della sua ma col
soffitto più basso. La stanza era illuminata da una lampadina. Era molto
ordinata malgrado vi fossero accatastate parecchie cianfrusaglie.
Il padre era accovacciato davanti a un baule.
− Vieni a vedere, figliolo ... -
Nel baule aperto c'erano molte lettere, documenti e cartoline ma, ciò
che attirò la curiosità di Terio fu una custodia di pelle nera rigida con
bordini damascati rossi ed un coperchio recante un simbolo che raffigurava
una nuvola dentro la quale s'incrociavano due spade.
− Cos'è, papà? -
− Questa è la spada dei Leofulla. Me la diede mio padre e suo padre
la diede al lui e il padre di suo padre … insomma ce l'abbiamo da
sempre – Così dicendo, aprì la custodia.
La spada all'interno era meravigliosa, la lama era talmente lucida che
ci si poteva specchiare, aveva un filo d'azzurro che l'attraversava tutta.
L'elsa piatta era dorata e, all'impugnatura, recava lo stesso simbolo che
c'era sulla custodia.
− Bellissima, sembra nuova ... – disse Eleuterio, in una sorta di
estasi ammirativa.
− Vero? … invece, pensa che, è vecchia di secoli. È una spada molto
preziosa e, per nessuna ragione al mondo, la devi usare prima di
essere adulto -.
− Perché, allora, non hai aspettato che io fossi diventato adulto, per
farmela vedere? -
− Te l'ho fatta vedere perché tu ti ricordassi di essa qualora io, in
futuro, possa essere impedito a consegnartela -.
− Va bene, papà -.
− Ora scendiamo. Diamo una mano a mamma a preparare la valigia
per domani e la cena per stasera -.
Quando si chiuse la porta alle sue spalle, spezzando definitivamente
il cordone ombelicale con la propria infanzia, Eleuterio non abbandonava
soltanto papà Donatello e mamma Bianca ma anche Francesco, Rosa,
Angelo, Aida, Augusto, Caterina, nonna Nicolina, la signorina Carli e … la
spensieratezza.
Il primo impatto fu traumatico, avrebbe voluto scappare via subito
dopo che era entrato. Era intimorito dagli stanzoni e gli alti soffitti a volta,
l'odore d'incenso misto con sapone di Marsiglia, il silenzio che amplificava
il rumore dei suoi passi.
Mancavano due minuti a mezzogiorno quando suor Domenica aveva
finito di aiutarlo a sistemare le sue cose nel proprio armadietto in una
stanza da quattro letti.
Gli altri tre letti erano, sicuramente, occupati. Lo si evinceva dagli
effetti personali posti sui comodini ma gli occupanti non c'erano.
Dov'erano?
− Andiamo! - disse suor Domenica, con voce perentoria.
− Dove? - chiese, timidamente, Eleuterio.
− A mensa, è quasi mezzogiorno. Non hai fame? -
− Ora che ci penso … -
In quel momento suonò una campanella e un rumore assordante di
urla spazzò via il silenzio, poi una vibrazione, pari all'avvicinarsi di una
mandria di bisonti, fu avvertita dalle sue piante dei piedi.
Suor Domenica disse:
− Corri! - e cominciò a correre ella stessa.
Terio la seguì.
Mentre correva, non riusciva ad immaginare quale terribile cosa
inducesse una suora a scappare a gambe levate. C'erano dei tori impazziti
che correvano nei corridoi? Dei giganti tipo il Trorco? Un esercito di
mostri?
Entrarono in uno stanzone con sette tavoli paralleli abbastanza lunghi
da poter contenere cinquanta posti a sedere e furono investiti dal pungente
odore di minestra di verdure.
Arrivata a capotavola del più interno dei sette tavoli, suor Domenica
prese posto e fece sedere Eleuterio accanto a sé.
Solo allora, spiegò al ragazzino il motivo della corsa. Col viso
rubizzo e col fiatone riuscì a dire:
− I posti migliori -.
“Forse non starò tanto male qui” penso Eleuterio.
Non stette male, anzi, l'ambiente era sereno. Il fatto che il ginnasio
appartenesse alla chiesa, fosse servito dalle suore, diretto dalla curia
arcivescovile e, praticamente, di proprietà del Vaticano, lo tutelava dalle
ingerenze del fascismo.
Lo studio delle materie umanistiche era interessante perché, pur
essendo, di estrazione cattolica, l'istituto trattava solo gli scritti delle menti
più brillanti della letteratura e della filosofia, evitando gli scritti da parte di
menti ottuse da esaltazioni mistiche.
Terio, però, fin da piccolo aveva avuto sempre una gran passione per
la chimica. Studiava le formule, gli intrugli, gli elementi della natura.
Per sua fortuna, la scienza non era bandita dal ginnasio, purché non
mettesse in dubbio l'esistenza di Dio.
I suoi voti erano eccellenti, anche se, di tanto in tanto combinava dei
disastri in laboratorio; fuori dell’orario delle lezioni vi s’intrufolava e
tentava qualche esperimento piuttosto pericoloso, … come dire …
esplosivo … e l’esplosione avveniva puntualmente.
Se non fosse stato per i suoi voti eccellenti, avrebbe rischiato
l'espulsione ma, in un modo o nell’altro, i professori, intuendo le sue
potenzialità, intercedevano con il rettore ed il perdono era assicurato.
Gli era concesso di ritornare a casa solo per le vacanze di Natale,
Pasqua e dal 20 giugno al 20 agosto.
Ogni qual volta tornava a casa, gli sembrava di ritrovare i propri
genitori sempre un po’ più invecchiati.
Nell'agosto del 1938 che gli accadde una cosa a cui non volle dar
peso ma che lo sconvolse intimamente.
Aveva 13 anni e stava giocando a nascondino con Francesco Carlesi,
Angelo Abete, Augusto Morelli e Robertino Bieri nelle terre alle spalle
della chiesa di don Fulgenzio.
Gli alberi, in quella zona, si estendevano fino alle montagne a nord e
fino alla strada provinciale ad est ed offrivano parecchi nascondigli.
Quando si è adolescenti, si portano agli estremi i propri limiti, le
proprie forze, le proprie paure.
Terio decise di prendere la strada che andava ad ovest. Era la meno
probabile da prendere perché non portava a nulla, finiva su uno sterrato
che univa il monte alla zona del “Bar Collo” un bar malfamato. Sapeva
che, da lì, poteva fare un'ottima sortita e fiondarsi sull'albero del “Tana!
Libera tutti!” fregando Augusto che era alla conta.
Mentre aspettava che Augusto s'allontanasse abbastanza dall'albero
per consentirgli la sortita, una mano s'appoggiò sulla sua spalla. Gridò
dallo spavento ma Augusto non lo sentì. Una voce bassa e roca alle sue
spalle disse:
− Shhh! Non avere paura Eleuterio Leofulla – Lui si girò e vide un
signore che non aveva mai visto prima. Aveva un vestito giallo …
oro.
− Chi … siete? - Chiese intimorito, sebbene il sorriso dolce
dell'uomo, non gli incuteva paura.
− Non mi conosci ma io conosco te -.
− Perché? -
− Sono un amico del tuo papà -.
− Papà? -
− Si, … e ho solo da darti un messaggio per lui -.
− Perché non glie lo date voi? -
− Quante domande fai, ragazzino! … però … belle domande …
vabbé! … diciamo così … mi è più facile trovare te che lui e poi,
… tra un po' dovrò combattere -.
− Combattere? Contro chi? -
− Basta con le domande … piuttosto, dì a tuo padre che un uomo
vestito d'oro gli ha mandato la “Garanzia per il futuro” -
− Non capisco … -
− Non devi capire, devi solo portare il mio messaggio a tuo padre.
Lo farai? -
− Si! Gli dirò che un uomo vestito d'oro, che non mi ha detto il suo
nome, gli ha mandato la “Garanzia per il futuro”-
− Bravo! Non posso dirti il mio nome perché ora devo combattere -.
− Ma con chi? -
− Col Trorco -
− Il Trorco? Come fate a … -
In quel momento, con un urlo, comparve il Trorco, il suo incubo
infantile, da dietro un albero e afferrò l'uomo per le spalle. Terio si sentì
ondeggiare, come se si muovesse tutto il mondo, come un terremoto.
Sentiva una voce che gridava “Terio, svegliati!” e … si svegliò.
Francesco Carlesi gli disse.
− Ci hai fatto spaventare tutti. Ma ti pare il modo di addormentarti
durante un nascondino? -
Quella sera, a cena, mangiarono una minestrina. Papà Donatello
adorava la minestra e stava affrontando il proprio piatto con avidità.
Mamma Bianca vide che Eleuterio non aveva cominciato nemmeno a
mangiare, allora disse:
− Tutto bene, Terio? Ti vedo stranamente silenzioso … e non hai
ancora toccato la tua minestra -.
− Scusami mamma. Stavo pensando a una strana cosa che m'è
successa oggi -.
− Racconta – disse lei.
− Ancora non riesco a capire. Mentre stavamo giocando a
nascondino nel campo dietro la chiesa … ecco … devo essermi
addormentato -.
In quel momento, Donatello lasciò cadere il cucchiaio sul bordo del
piatto e, dimenticandosi totalmente della pietanza che aveva dinnanzi,
chiese:
− Dimmi tutto. Hai, per caso, sognato? - Eleuterio lesse ansia nella
voce del padre e non ne capiva la ragione. Rispose.
− Si, papà. È stato Francesco a svegliarmi. Non preoccuparti, non è
successo niente. Mi è sembrato strano il fatto di addormentarmi
durante un gioco -.
− Cos'hai sognato? - chiese la mamma. Terio era basito. Non
riusciva a capire le domande dei suoi genitori. Ad ogni modo, non
gli restava altro da fare che rispondere.
− Ho sognato un uomo tutto vestito di giallo che … ecco! Mi ha
lasciato un messaggio per te – I genitori si scambiarono uno
sguardo carico d'intesa.
− Dimmi il messaggio – disse Donatello.
− Ma era solo un so... e va bene! Questo signore mi ha detto di dirti
che l'uomo vestito d'oro ti ha mandato la garanzia per il futuro … -
Papà Leofulla s'alzò dal tavolo e andò nella stanza di Terio. Terio lo
sentì trafficare con uno sgabello … stava andando in soffitta? A quell'ora?
A fare cosa?
Dopo cinque minuti, il signor Donatello ridiscese dalla soffitta e
tornò a tavola a mangiare … non prima di aver sorriso alla moglie
strizzandole un occhio.
− Insomma, volete dirmi cosa succede? - sbottò Terio.
− Niente, perché? - chiese il padre.
− Tutto questo mistero, il sogno, tu che vai in soffitta -.
− Ah, ah, ah, non c'è nessun mistero. Tu hai fatto un sogno ed io
sono andato a … mettere una cosa in soffitta -
− Cosa? -
− Ragazzino! Basta con le domande -.
IV
Il quarto ginnasio, cominciò nell'ultima settimana di agosto del 1939.
Dopo una settimana … il 1 settembre … Eleuterio era a mensa con i suoi
compagni di studi. La qualità del cibo stava diventando sempre più
scadente. Dicevano che era perché la politica espansionistica di Benito
Mussolini chiedeva sacrifici alle tasche degli italiani.
Nessuno ci credeva alla storia delle ristrettezze. Quel giorno erano
tutti a mensa quando vi si presentò il rettore in persona.
Il rettore non era mai apparso in mensa prima d’allora, egli aveva una
saletta privata al piano superiore dove si faceva portare il cibo.
Pare che le pietanze del rettore non provenissero nemmeno dalla
stessa mensa degli studenti. In quella zona, di tanto in tanto, sparivano
intere famiglie di gatti randagi e, puntualmente, il giorno seguente … in
mensa si mangiava carne di coniglio alla cacciatora.
Quel giorno il preside suonò la campanella per attirare l'attenzione su
di sé e, quando ci fu il totale silenzio, disse:
− Cari ragazzi! Ho purtroppo una cattiva notizia per tutti voi. Da
questo momento, tutte le lezioni sono sospese -.
Vi fu qualche alunno che non riuscì a trattenersi dal gridare “Hurrà!”
salvo poi essere zittito da un’occhiataccia del rettore stesso che continuò:
− L’istituto è costretto ad interrompere il proprio compito educativo
fino a data incerta perché una terribile tragedia, da poche ore, sta
sconvolgendo tutto il mondo … -
Dopo una pausa teatrale concluse:
− Cinque minuti fa, la radio ha annunciato che … è scoppiata la
GUERRA! -.
Dopo un attimo di silenzio vi fu un fuggi fuggi di tutti gli studenti
verso le proprie stanze, sordi al “mantenete la calma!” del rettore e delle
suore.
Eleuterio corse più degli altri alla ricerca di un telefono per chiamare
casa e, quindi, fu uno dei primi a scoprire che tutte le linee telefoniche
erano interrotte.
Era scoppiata la guerra, era scoppiata quel 1 settembre del 1939 ma
se fosse scoppiata un altro giorno, non sarebbe stata diversa.
Dalla direzione scolastica, fu dato ordine che tutti gli studenti
facessero ritorno nella loro camera e preparassero le valigie per fare
ritorno alle rispettive case.
I loro genitori sarebbero stati contattati appena avessero ripristinato
le linee telefoniche.
Mentre era nel corridoio, suor Domenica lo chiamò.
− Teriuccio! vieni qua ... vieni, … che c'è una sorpresa per te -
− Sorpresa? Oggi? E chi … mamma! Papà! - Donatello e Bianca
Leofulla corsero ad abbracciare il loro ragazzo.
− Cosa ci fate qua? Avete saputo che … ? -
− È proprio per questo che siamo venuti – disse la mamma.
− Un momento! … - fece Terio - … ma, se la guerra è stata
annunciata meno di mezz'ora fa, … come fate ad essere già qui? -
− Tuo padre! - si lasciò scappare la madre. Si vedeva che, un'attimo
dopo aver parlato, Bianca s'era pentita d'essersi fatta scappare
questa frase ma, oramai era fatta, il padre continuò laddove sua
moglie s'era interrotta.
− Una premonizione. Stanotte mi è successo di fare un sogno che mi
ha sconvolto tantissimo. Non ricordo cos'ho sognato ma, al
risveglio, ero così preoccupato che ho detto a tua madre che mi
sarei sentito molto meglio se t'avessi potuto vedere oggi per cui,
visto che era venerdì, abbiamo chiuso tutto e siamo venuti a
trovarti -
− Ma … scusa … il venerdì, … l'ufficio postale … - la mamma lo
interruppe.
− Basta così, va a preparare le tue cose. Vorremmo essere a casa
prima che faccia buio -.
La sera del 1 di settembre del 1939 Eleuterio tornò a Policarno.
Nei successivi due anni Eleuterio visse un periodo felice malgrado la
guerra.
A Policarno, un paese che viveva dei propri raccolti e del proprio
allevamento, un paese fuori dalle rotte aeree, lontano dalla ferrovia e privo
di qualsiasi collegamento coi centri strategici, la guerra sembrava un affare
che riguardava altri mondi.
In fondo il cibo non mancava e, sebbene, si avvertisse che, fuori dai
confini del paesino, c'era l'inferno che dava il peggio di sé, le uniche cose a
cui i policarnesi rinunciarono furono le feste paesane.
Tutta la generazione del 1925, ora che eravamo arrivati al 1941, non
poteva immaginare di aver raggiunto un'età arruolabile in periodo di
conflitti.
Un giorno di ottobre, entrò in paese una Jeep dell'esercito italiano. La
Jeep era seguita da un camion militare, da un'automobile nera, da una
camionetta blindata e da quattro motociclette.
La signora Nicolina era su via XX settembre quando la Jeep le si
accostò e il passeggero di questa vettura la chiese:
− Buona donna, sapete dov'è la chiesa? - La signora Fiorenza lo
squadrò da capo a piedi. Capì che si trattava di un rappresentante
della milizia fascista in virtù del portamento altezzoso e del
vestiario monocromatico nero e decise che non era il caso di
prenderlo in giro ...
− Proprio alla vostra destra, generale! - … ma era più forte di lei.
Non resisteva all'allettante prospettiva di prendere in giro un
esaltato fascista.
− Non sono un generale! - disse l'uomo, mal celando il proprio
piacere nel sentirsi elevato di grado.
− Scusate signore! -.
− Scuse accettate, nonnina e … il municipio? Dov'è la sede
comunale? -
− Da quest'altra parte. In fondo a questa strada c'è una piazza e lì c'è
il municipio, signor capitano … -. L'aveva degradato.
− Non sono nemmeno capitano … -. Stavolta il balilla era arrabbiato
del degradamento.
− Ah no? Nemmeno? … e perché indossate questa divisa? -
− Pe … perché sono un Quadrumviro della Milizia del Duce -.
− Ah, … peccato! -
− Come vi permettete? È un grande onore, per ogni buon italiano,
poter fare parte di … - Nicolina Fiorenza lo interruppe.
− Scusatemi ancora, signor Quadrato della Malizia del Duce ma voi
siete un uomo importante e intelligente e, come avrete compreso,
io non le capisco queste cose, del resto, sono solo una nonnina
ignorante -.
Dopo mezz'ora, cominciarono a suonare le campane della chiesa di
don Fulgenzio.
Quando smisero di suonare, era stata adunata tutta la popolazione di
Policarno (circa ottocento persone) nella piazza del Forno Vecchio.
Dal balcone del municipio uscì il miliziano fascista. Accanto a lui
c'era il sindaco Antonino Zappulla, due impiegati dell'ufficio demografico
e sei militari dei quali, due reggevano una bandiera italiana a testa.
− Italiani, cittadini … -
Probabilmente, in vita sua, non avrebbe mai più potuto fare un
discorso dal balcone, così come poteva permetterselo solo il Duce e,
principiare con le parole “Italiani, cittadini … ” era la sua personale
realizzazione di un sogno. Tutta Policarno era radunata in piazza. Le
campane della chiesa avevano fatto da richiamo ma, arrivati sul sagrato, i
policarnesi venivano indirizzati alla piazza del Forno Vecchio.
Il quadrumviro proseguì:
− … il nostro grande paese è in guerra e noi tutti abbiamo il dovere
di fare sacrifici per la patria. La guerra comporta dei costi molto
alti ma il Duce ha fiducia nel patriottismo del popolo italico. Per
affrontare i costi della guerra, occorre che tutti voi portiate, entro
domani mattina, tutto l'oro che possedete. Servirà a rifornire i
nostri combattenti di terra, di mare e di cielo, ad avere munizioni
ed armi adeguate a vincere questa guerra -
− Anche le fedi? - urlò una donna in prima fila.
− Eh? … tutto! Tutto ciò che può aiutare i vostri uomini a vincere.
La donna in prima fila disse:
− Il mio uomo è morto d'infarto l'anno scorso. Di lui mi rimane solo
questa fede … e poi, non ci sono mica gli uomini di Policarno al
fronte -.
− Il regime protegge le vedove. Signora! Se non volete che vostro
marito sia morto invano, onorate la sua memoria dando il vostro
oro … per quanto riguarda il servizio militare, ecco la lista dei
nomi di coloro che sono stati arruolati:
Decio Costa, Biagio Fiorini, Francesco Riccio, Roberto Bieri, Pasquale
Grasso, … - La lista partì dai più grandi d'età fino ai più giovani.
Si può soltanto immaginare il senso di smarrimento, che assalì i
cittadini di Policarno, quando la lista degli arruolabili fu chiusa dai nomi di
Francesco Carlesi e Eleuterio Leofulla.
Angelo Abete non lo reclutarono per “ insufficienza polmonare”.
Soffriva d'asma ma, i miliziani sospettarono che si trattasse di Tubercolosi
e … questo bastò a non farlo partire.
Nicolina Fiorenza perse i sensi, vi fu un coro di “Nooo!” e, in pochi
minuti, la piazza fu vuota.
Nei tre giorni successivi, l'attività in paese divenne frenetica. Il paese
era blindato e non poterono esserci renitenti alla leva. Tanto l'oro quanto
gli uomini, furono prelevati a forza dalle loro abitazioni
In casa Leofulla, mamma Bianca non faceva altro che piangere.
Piangeva mentre cucinava, mentre lavava gli abiti, mentre stirava, mentre
lavava i piatti, mentre lavava i pavimenti e mentre dormiva.
Anche papà Donatello era cupo ma cercava di dare coraggio alla
moglie e a quel suo unico figlio che non riusciva ad immaginare
combattente in guerra perché ancora bambino.
La sera dell'ultimo giorno prima della partenza per il fronte,
Donatello Leofulla chiamò Eleuterio. Era in salotto, seduto nella sua
poltrona preferita.
− Siediti, amore -. Terio prese posto sulla sedia di fronte al papà e
chiese:
− Dimmi, papà … - Donatello attaccò subito, come se avesse
preparato (o temuto) da tempo, quella chiacchierata.
− Noi non sappiamo cosa ci riserva il futuro eppure, malgrado
questo, so che, quando questa atrocità della guerra sarà finita, tu
non sarai morto -. Terio lo guardò con sospetto. Non voleva
contraddirlo ma, la sicurezza del padre gli sembrava fuori luogo.
− Come puoi saperlo, papà? Io ho tanta paura … - fu interrotto.
− Non ne devi avere, fidati! - Quando il papà diceva “fidati”,
Eleuterio sapeva che non aveva nulla da temere ma, come poteva,
il padre, essere così certo che lui non sarebbe morto?
− Non capisco! - disse.
− Lo so! … e, per ora, non posso spiegartelo. Ciò che è importante è
che, quando sarà finita la guerra, dovrai tornare a Policarno e
venire in questa casa -.
− E dove vuoi ch'io vada? - La confusione, per la nebulosità delle
parole del padre, aumentava.
− Non so dove potresti o vorresti andare, non posso saperlo ma,
facciamo finta, ad esempio, che accada qualcosa a me e alla
mamma … - Stavolta fu Eleuterio ad interromperlo.
− Non dirlo neanche per scherzo, papà! -
− Non scherzo. Ciò che voglio dirti è che, seppure mamma ed io,
alla fine della guerra, non ci fossimo più, è importante che tu torni,
almeno per un breve periodo, in questa casa -.
− Perché dovrei tornare se tu e mamma … -
− Lo so io! … - il tono perentorio del padre non ammetteva repliche
e non dava spazio a domande - … e non posso dirtelo ora ma, al
momento buono, troverò il modo di fartelo sapere … ora, prometti
che tornerai a stare qui per un po', dopo la guerra? - Doveva essere
davvero importante per il padre che Terio promettesse.
− Va bene. Prometto! - Il papà si rilassò
− Bene! So che manterrai la promessa. Ora, prendi queste cose e
ricorda che andrai ad affrontare pericoli grandi quanto il Trorco di
quand'eri bambino -.
− Il Trorco? … ma te lo ricordi ancora? -
− Sempre! -
Con queste parole, il padre gli consegnò la copertina del disco di
ceralacca del canone inverso di Bach e il quadro numerico della sequenza
di Fibonacci.
V
Gli orrori della guerra sono la parte di questa storia che preferisco
non raccontare.
Ci sono libri, testimonianze, riprese e macerie che raccontano la
superficie di un corpo (il mondo) che era divorato da un cancro interno (la
guerra).
Ci sono stati film che hanno provato a descrivere, con maggiore e
minore successo, quel cancro.
Quel cancro è l'unica cosa di cui non vi parlerò.
Vi racconterò solo le cose strettamente legate alla famiglia Leofulla,
quindi ...
La VI brigata dell'esercito italiano era formata esclusivamente da
policarnesi, comandati dal diciottenne sergente Eleuterio Leofulla. Il
compito della VI brigata era quello di difendere una linea strategica di
confine a sud di Cassino.
Fino ad ottobre del 1943, il nemico degli italiani erano state le
Nazioni Unite e, fino ad allora, la guerra era stata solo una eco lontana per
la divisione Policarno. Improvvisamente, dopo quell'ottobre, colui ch'era
stato l'alleato divenne il nemico e i nemici divennero alleati. Il problema
consisteva nel fatto che, mentre i vecchi nemici abitavano lontano, i nuovi
nemici, i tedeschi, erano i nostri vicini di casa, vicini che abitavano, già da
un po', in casa nostra.
Così, fino all'arrivo degli alleati e alla fine delle ostilità, gli italiani
ebbero a che fare con reggimenti tedeschi che si ritiravano e che, non
creandosi alcuno scrupolo, facevano terra bruciata dietro di loro.
Poi c'era il fuoco amico (non per questo meno pericoloso) dei
partigiani che, non avendo bisogno di darsi alla macchia, uscivano allo
scoperto come un disorganizzato esercito che metteva a rischio anche le
operazioni militari dell'esercito italiano.
Infine c'erano gli alleati i quali non erano composti solo da militari
regolari ma anche da galeotti e truppe dalle direttive morali molto
discutibili.
La guerra era diventata davvero pericolosa.
Intanto, anche nel paese dove vivevano i genitori di Eleuterio, la
guerra aveva già fatto sentire il proprio peso.
Erano cominciati da subito i bombardamenti, poco dopo ottobre del
'43. Le autorità avevano consigliato a tutte le famiglie di raccogliere le
proprie cose, di abbandonare le case e di trovare asilo presso il più vicino
rifugio antiaereo.
In un primo momento, Donatello Leofulla sostenne che tutte queste
precauzioni erano eccessive e, per una settimana circa, rimase in casa
incurante delle bombe che cadevano non molto distante dalla loro
abitazione.
Un giorno, però, un'inequivocabile allarme, fece capire che le truppe
nemiche stavano per invadere Policarno.
Quel giorno, il 24 gennaio del 1944, Donatello disse a Bianca:
− Credo sia il segnale nostro, amore -.
− Come fai ad esserne certo? -.
− Non lo sono ma, fino ad ora, non c'era stata la necessità di
proteggere Eleuterio. Ora, la guerra è diventata molto più
pericolosa -.
− Donatello, ho paura! -
− Anch'io! Non penserai che io sia abituato a morire -.
− … sai in che modo accadrà? -
− No! … so solo che accadrà e che, quando sarà il momento, … oh,
cavolo! Avrei preferito essere da solo … se vuoi, puoi salvarti ... -
− Ne abbiamo già parlato. Terio ha bisogno di tutti e due. Amore
mio, io non ti abbandonerò mai -.
− Ti amo! -
− Ti amo! -
Lui e sua moglie fecero in fretta i bagagli raccogliendo, in una
valigia, pochi indumenti e, in una valigetta, pochi oggetti d'oro ed il
necessario per l’igiene base.
Tra le cose messe nella valigetta finirono una pietra di sapone,
schiuma da barba, un rasoio, un rossetto, una crema per il viso, una
scatolina di cipria ed il famoso spazzolino per le ciglia “acchiappa sogni”.
Avevano impiegato più tempo del previsto a fare i bagagli perché
quando uscirono dal portone del loro palazzo, in fondo alla strada si
vedevano già avanzare le automobili, le motociclette ed i carri armati
dell’esercito nemico.
− Corri! - gridò il marito alla moglie. Lei cominciò a correre al suo
fianco e disse:
− Credi sia … -
− Non … lo so ... ma, … corri! - rispose affannando.
Correvano quel 24 gennaio del 1944, correvano lungo la piazza del
Forno Vecchio. Cercavano di raggiungere la strada che portava giù, a
monte. Si tenevano per mano e, per mano rimasero anche quando una
raffica di mitragliatrice staccò le anime dai loro corpi perché continuassero
la propria corsa fino in cielo.
Un ufficiale nemico raccolse da terra la valigia e la valigetta e le
caricò sulla sua jeep proseguendo per la sua strada e, lasciando a terra i
corpi senza vita di Donatello Leofulla e Bianca De Luca.
25 gennaio 1944, linea di demarcazione in un luogo imprecisato del
nord dell'Italia, ore 02,00.
Eleuterio stava dormendo. Aveva fatto il primo turno di guardia.
Sebbene, in quanto sergente, poteva essere esonerato dai turni di guardia,
amava comandare il proprio reparto con l'esempio. Non si tirava mai
indietro per qualsiasi mansione, anche la più umile. Sapeva che l'esempio
vale più di un milione di parole.
Mentre dormiva, sentì l'odore delle Fresie, l'odore dell'acqua di
colonia che usava sua madre. Gli sembrò di trovarsi nel proprio letto, al
sicuro, a casa.
− Ciao, tesoro di mamma! - Mamma Bianca era accovacciata
accanto al giaciglio di fortuna di Eleuterio. Il suo reparto era
accampato nel bosco che si trovava sulla linea di confine tra le
forze in guerra, in una vallata poco distante dagli appennini.
− Mamma! Cosa ci fai qua? È pericoloso! - Terio saltò su, a sedere.
− Shhh! Vuoi che si sveglino i tuoi commilitoni? … No, scherzo!
Non si sveglieranno perché stai sognando -.
− Sognando? … ma sembra tutto così … vero … -
− Hai ragione, non è un sogno normale, mamma mia! Come sei
sciupato, … sono qui per metterti in guardia! - Mentre diceva
queste parole, l'accarezzava e gli aggiustava i capelli.
− In guardia? … e, da cosa? -
− Domani, quando attraverserete la bassa collina che taglia la
montagna spaccata … -
− Come fai a sapere cosa dobbiamo fare domani? … e poi, a quale
montagna ti riferisci? -
− Eh, quante domande! Non preoccuparti, riconoscerai la montagna
spaccata quando la vedrai … beh! Lì vi tenderanno un agguato!
C'è un reparto della retroguardia tedesca che deve raggiungere il
grosso delle truppe a nord. Vi vedranno da lontano e
s'apposteranno ai lati della montagna spaccata per tendervi un
agguato nel quale sareste morti tutti, … se non t'avessi avvisato -.
Terio afferrò le mani della madre e disse:
− Questo sogno è troppo reale. Sento le tue mani al tatto, l'aria
fredda sulla pelle, il tuo profumo alle fresie -
− Bello, vero? … comunque … te l'ho detto! Questo non è un sogno
normale -. Eleuterio guardava la mamma con un misto di fiducia e
perplessità, gli stessi sentimenti di quand'era bambino, poi chiese:
− Dov'è papà? -
− Eccomi! - Donatello uscì dal buio che era alle spalle di sua
moglie. Lei lo guardò e chiese:
− Fatto? - Lui guardò in direzione di un punto imprecisato alle
proprie spalle, poi rispose.
− Fatto! … almeno quanto basta … - poi, rivolgendosi a Terio - …
ciao, amore mio – Terio corse ad abbracciarlo. Anche il padre era
consistente. La madre li raggiunse nell'abbraccio e stettero così
fermi per qualche secondo. Eleuterio, infine, si staccò
dall'abbraccio e chiese:
− Papà! … ma, insomma! Mi spiegate cosa sta accadendo? Mamma
è cosi strana, … ermetica … -
− Cosa gli hai detto finora? - Chiese Donatello a sua moglie.
− Tutto ciò che riguarda l'agguato -. Lui rimase sovrappensiero per
qualche istante, infine ...
− Bene! … e … nient'altro? -
− No! -
− Tocca a me dirlo? -
− Io non ce la faccio. Se non lo dico, è un po' come se non fosse
accaduto -.
− La smettete! Volete dirmi cosa … - Il padre lo interruppe.
− Siamo morti! -
− COSA? - Urlò Terio.
− Donatello! … e che modi? - esclamò Bianca.
− Hai ragione Bianca ma, potevo dirlo solo così, tutto d'un fiato,
altrimenti non ne avrei avuto il coraggio manco io … – A quel
punto, l'interruppe il giovane.
− Come sarebbe a dire, “siamo morti”? -
− Ascolta, figliolo, … la guerra è diventata molto pericolosa. A
Policarno ci sono stati i tedeschi. Hanno ucciso, rubato, profanato
… noi siamo stati uccisi alle spalle da una mitragliatrice ma! …
non ti preoccupare, lo sapevamo da tempo … - Terio pensò “È
sicuramente un sogno!” … l'idea, che i genitori fossero realmente
morti, non la voleva prendere minimamente in considerazione.
− Cos'è che sapevate da tempo? - chiese Eleuterio.
− Che per poterti proteggere dal rischio di morire in guerra,
dovevamo entrarti nei tuoi sogni, attraverso il mondo dei sogni …
mi fai luce, ragazzo? -
− Cosa? … ah! - Il ragazzo accese una torcia.
− Puntala a terra, davanti ai tuoi piedi … ecco … -
Donatello disegnò una croce, poi disse:
− La linea orizzontale è il crinale della montagna spaccata, da ovest
ad est. Quella verticale è la strada che l'attraversa da nord a sud.
Tu, e la tua divisione, vi state dirigendo a nord e, quindi, taglierete
la montagna in questo punto. Per aggirare i tedeschi senza sparare
un solo colpo devi deviare ad est, verso gli appennini. Lì c'è un
ruscello, devi arrivare alla sorgente e scendere dall'altra parte. In
questo modo, non incontrerete un solo tedesco -
− Ma come fai a sapere tutte queste cose? -
− Beh! Facile, sono un sogno premonitore! Ah! Ah! Ah! … scherzi a
parte, … ad est hanno lasciato il grosso delle armi con soli quattro
soldati a guardia. Domani saranno troppo stanchi per opporre
resistenza. Se saprete essere sufficientemente silenziosi, riuscirete
a disarmarli e a fregargli un carro armato, un camion carico di
armi e munizioni e due Jeep -
− Adesso, però, mi devi spiegare come fai a sapere che i soldati di
guardia saranno troppo stanchi, domani? -
− Sono stato stanotte da loro e … ehm! … gli ho fatto credere di
essere un fantasma! -
− Stanotte? … ma, stanotte sei qui con me -.
− Non ti sfugge niente eh? Se appartieni al mondo dei sogni, puoi
fare l'inimmaginabile … Bianca, hai visto? -
− Si! - Una lacrima attraversò il viso della madre. Terio si preoccupò
e chiese:
− Cosa succede, perché piangi, mamma? -
− Ho visto il tuo futuro … -
− Mi accadrà qualcosa di brutto? -
− No … - disse il papà - … tutt'altro -. S'aggiunse Bianca.
− Ora sappiamo che uscirai vivo da questa guerra -.
− Se non t'avessimo avvisato … non mi ci far pensare -. Continuò il
padre. Terio chiese:
− Se sapete che mi salverò, perché piangete? -
− Perché non saremo lì quando tornerai … - disse la mamma.
− Sergente, sergente, sveglia! - Era giorno, solo in quel momento,
nel gesto di aprire gli occhi, Terio s'accorse che li aveva chiusi.
“Aveva sognato tutto?” … eppure, … sembrava così reale quel
sogno. Il sergente Leofulla s'alzò dal proprio giaciglio e cominciò ad
impartire ordini.
− Grasso, cancella le tracce dei fuochi! -
− Agli ordini, sergente! -
− Costa, carica i muli! - Decio Costa fece un cenno con la testa.
− Carlesi, tu … chi ha fatto questi segni sul terreno? -
− Quali segni, Terio … Ohps! Sergente? - chiese Carlesi.
Il sergente Eleuterio Leofulla indicò una croce segnata a terra e un
semicerchio che univa le due punte di una delle due linee perpendicolari.
Era il disegno che aveva fatto suo padre. Possibile? Questo significava che
per davvero dovevano evitare i tedeschi all'altezza della montagna
spaccata … ma … significava pure che … i suoi genitori erano morti?
VI
Dopo aver messo a soqquadro l’intera città e dopo aver fatto
prigionieri i pochi superstiti, l’esercito nemico prese possesso della sede
comunale in piazza del Forno Vecchio e v’installò lì il proprio quartier
generale.
Furono consegnati tutti i beni delle vittime nella stanza nominata
“bottini di guerra” che era, per mancanza di spazio, anche il luogo dove il
medico delle truppe aveva insediato il proprio ambulatorio.
I soldati tedeschi avevano battezzato, ironicamente, quel posto col
nome di “Ambulatorio dei bottini”.
Il medico, dott. Carl Hausenmazzof era laureato in medicina, in
biologia ed in chimica ma in giro si mormorava che lo stress da studio gli
avesse messo fuori posto qualche rotella.
In tempo di pace, s'era rivelato un personaggio scomodo, nessuno lo
voleva nel proprio ospedale e, se non fosse stato fratello di un importante
politico, già da tempo sarebbe stato radiato dall’albo dei medici.
La sua fortuna fu lo scoppio della guerra e in tempo di guerra, si sa,
non si può guardare troppo per il sottile.
Grazie a suo fratello che, intanto, era entrato a far parte del terzo
Reich, non fu rinchiuso in una clinica per matti, gli fu lasciata libertà di
azione con l’unica condizione che partisse con l’esercito per il fronte di
guerra.
Fu arruolato probabilmente con la speranza che, alla fine, si sarebbe
fatto ammazzare.
Malgrado la sua follia, lui odiava la guerra. Non la odiava per
l'enorme contributo di vittime che la guerra esigeva, no! … non lo
riguardava, ... ma perché considerava la guerra un’enorme perdita di
tempo, tempo tolto ai suoi esperimenti.
Quel 26 gennaio del 1944 si stava molto stretti nel “Ambulatorio dei
bottini”. La quantità di beni sequestrati aveva reso quella stanza del
comune come un'enorme discarica che ruotava intorno ad una grande
scrivania.
Hausenmazzof stava facendo esperimenti con alcune sostanze
chimiche che, aveva scoperto, erano capaci di dare energie ausiliari anche
ad un individuo particolarmente stanco. Si trattava di neurotrasmettitori
eccitanti sintetici.
Intanto, sbuffava perché costretto a dividere il proprio ambiente di
lavoro con tutti i soldati che, in giro per Policarno, avevano depredato i
pochi averi che il fascismo aveva risparmiato ai paesani.
Fu un soldato maldestro che, in quel momento, svuotò il contenuto di
una valigetta sul grosso tavolo dove il dottor Hausenmazzof aveva messo
una bacinella con la soluzione chimica di sua invenzione.
Tutto il contenuto della valigetta si riversò sul tavolo tranne lo
spazzolino per le ciglia di Donatello Leofulla che, dopo un paio di
rimbalzi, cadde nella bacinella.
− Fuori di qui! - gridò il dottore, furioso.
Il soldato gli rivolse un’occhiataccia. Non aveva rispetto per quel
dottore matto ma, in fondo, gli conveniva evitare attriti col comando per
cui, senza dire una parola, lasciò la valigetta sul tavolo e uscì dalla stanza.
Il dottore, imprecando, raccolse lo spazzolino da dentro la bacinella
con un paio di pinzette. Nel compiere questa azione, il dottor
Hausenmazzof chinò lo sguardo e quello che vide lo lasciò a bocca aperta.
Gli sembrava di guardare un film al cinematografo ma, a colori.
Vedeva un volto sorridente di donna, poi l’immagine svaniva e
compariva un bambino che volava, volava, volava e … precipitava, poi …
puff! Le immagini sparirono, allora il dottore agitò di nuovo lo spazzolino
sulla superficie del liquido nella bacinella e stavolta vide una spiaggia
enorme ed un bel mare blu, bellissimo! … finché non comparve un enorme
squalo che uscì dall’acqua, aprì la bocca e … puff! Tutto sparito!
Il dottore mise controluce lo spazzolino per ciglia con l'intento di
provare a capire cosa avesse di così particolare da generare quelle
immagini e vide una piccola sostanza gelatinosa sui peli posti all’estremità
dell’utensile.
Provò ad agitare la soluzione chimica, presente nella bacinella,
usando un cucchiaio d'argento che era sulla grande scrivania … niente.
Allora decise di utilizzare un pettine per smuovere quel liquido …
niente.
Riprovò con lo spazzolino per le ciglia e vide un cavaliere in
un'armatura d'oro e poi, una specie di Troll che veniva inseguito da un
bambino … puff! Tutto sparito!
Aprì la valigetta dalla quale era caduto lo spazzolino . All'interno
c'era scritto un nome “Leofulla”. Il professore cercò all'interno della
valigia. Trovò un rasoio. Provò con quello … niente.
Voleva provare ancora con lo spazzolino per le ciglia ma un rumore
alle sue spalle, altri soldati che entravano nel “Ambulatorio dei bottini”, lo
fece desistere.
Decise che quello non era il posto migliore per condurre i propri
esperimenti quindi, prese una bustina di plastica e vi mise dentro lo strano
spazzolino per le ciglia poi, prese il foglio dove aveva appuntato la
formula del liquido nella bacinella e lo infilò in una busta per lettere nella
quale mise anche la bustina con lo spazzolino magico, infine sigillò il tutto
con la ceralacca.
“Dove posso nascondere questa roba affinché nessuno la trovi?” si
chiese, poi notò che nella stanza, il caminetto di mattoni aveva un mattone
esterno che non poggiava bene vicino agli altri.
Policarno non era un paese molto freddo per cui era ovvio che quel
caminetto rappresentasse una rarità, … difficilmente l'avrebbero
smantellato, … o acceso, … ottimo nascondiglio.
Gli bastò forzare un poco quel mattone sbilenco per riuscire a
ricavare lo spazio sufficiente per nascondervi il suo segreto.
Decise che avrebbe aspettato la fine della guerra per tornare lì ed
approfondire il suo esperimento.
“Per fortuna, alla fine, tutte le guerre finiscono” diceva tra se e se il
dottor Hausenmazzof e, anche se questa guerra durò molto più del
previsto, un giorno scoppiò finalmente la pace.
Alla fine d'ogni guerra qualcuno, improvvisamente, si ritrova ad
essere ricco, qualcuno perde tutto ciò che possedeva, qualcuno è dato per
disperso e qualcuno si ritrova ad essere morto.
VII
1946.
La guerra era durata sei anni, in quei sei anni Eleuterio aveva perso i
genitori, molti compagni di scuola e d'armi (a volte erano la medesima
persona) e dieci chili del suo, già magro, corpo ma, alla fine, aveva fatto
ritorno al proprio paese. Era primavera.
La casa era ancora lì, … almeno le mura … ed erano l'unica cosa che
il vandalismo ma, più spesso, il bisogno non aveva potuto portar via.
Stanco di un viaggio fatto su mezzi di fortuna o, molto più spesso, a
piedi, Eleuterio spinse l'uscio di casa e lasciò cadere in un angolo lo zaino
militare con i suoi pochi averi poi uscì di casa alla ricerca di qualche volto
amico sopravvissuto alla guerra.
Per primo ritrovò il parroco, Don Fulgenzio, che gli fece dono di
quattro candele per la notte (visto che non aveva più la corrente elettrica in
casa), poi incontrò il droghiere che, non avendo molto da offrirgli, gli
regalò un pacchetto di sigarette (peccato che Eleuterio non fumava).
La levatrice, Caterina, quando seppe che il ragazzo era in paese sano
e salvo gli andò incontro e volle dividere con lui una magra cena fatta di
zuppa di bucce di patate, sedano e pane non lievitato. Dopo cena lo
indirizzò dal vecchio falegname.
Fu proprio quest'ultimo che gli disse d'aver salvato il suo letto (una
tavola di legno ed un logoro materasso di lana) dall'assalto degli sciacalli.
Egli l'aveva preso per se stesso pensando che non avrebbe più rivisto
nessuno della famiglia Leofulla ma, visto che, per fortuna, almeno
qualcuno s'era salvato, era lieto di restituire il letto ad Eleuterio e, da parte
sua, gli regalava due lenzuola, una coperta e gli dava una mano a
trasportarlo in casa.
Quella notte, la luna filtrava attraverso le persiane legate ai propri
cardini più per miracolo che per leggi della fisica. Per fortuna, malgrado
l'assenza di vetri, il tepore primaverile già si avvertiva.
C'erano tutti i presupposti perché Eleuterio cadesse in un sonno
ristoratore ma, quella notte, era la notte più difficile per prendere sonno.
La guerra l'aveva abituato a dormire con un occhio solo poi, per la
prima volta da quando era cominciata la guerra, Eleuterio si trovava di
nuovo nella casa della sua infanzia, nella casa dove aveva visto per l'ultima
volta i suoi genitori. Quanti ricordi!
Conosceva tutti i nascondigli perché si divertiva spesso a chiamare
suo padre, mentre era intento a ordinare i faldoni per l'ufficio postale,
imitando una voce cavernosa e dicendo “Vieni a trovarmi, sono lo spirito
Dorato!” e lì cominciava un gioco nel quale il padre s'aggirava per le
stanze dicendo “Sono il divoratore di spiriti, ah! Se ti trovo, ti
maaangioooo!”.
… adesso che ricordava, un triste sorriso increspava le sue labbra.
Gli venne in mente anche quell'unica volta che il padre lo convocò in
soffitta. Quella volta il padre gli mostrò la spada dei Leofulla, …
bellissima … a proposito! Come s'arrivava in soffitta? … per quanto si
sforzasse di ricordare, non riusciva a visualizzare alcun gradino che
portasse su … … … poi, ricordò.
La soffitta era proprio nella sua stanzetta. C'era una scala a sparizione
che scendeva dal soffitto eppure, se alzava gli occhi, non trovava nulla
sotto il soffitto che gli indicasse la botola da cui si tirava giù la scala.
Adesso che guardava meglio, notava che, sotto il soffitto, era stata
apposta una carta da parati bianca quindi, spostando la carta, avrebbe
ritrovato la botola.
Gli sembrava si trovasse nell'angolo a destra, quello più distante dalla
finestra.
Adesso si sarebbe alzato e avrebbe confutato immediatamente i
propri ricordi d'infanzia ma poi, le palpebre s'erano fatte, finalmente
pesanti e un refolo di vento primaverile aveva provveduto a spegnere la
candela che Eleuterio aveva acceso (più per compagnia che per bisogno di
luce).
In fondo, domani avrebbe avuto tutto il tempo per scostare la carta da
parati bianca dal soffitto e …
Un rumore forte lo costrinse a svegliarsi, nel dormiveglia pensava
fosse una bomba. Quando aprì gli occhi s'accorse che il sole era già alto
nel cielo quanto basta per rischiarare tutta casa.
Corse alla finestra e scoprì la ragione di tanto rumore. A meno di
cento metri di distanza da casa sua, una squadra di demolitori aveva fatto
crollare un palazzo che, molto probabilmente, doveva già essere
pericolante.
Capì che il crollo era stato indotto perché la zona era stata delimitata
da un nastro e perché le uniche persone presenti intorno al perimetro erano
in tuta blu con i caschi gialli.
Rilassatosi, tornò a sedersi sul suo letto per infilarsi la giubba
militare sulla camicia. Era l'unico vestiario di cui disponeva. Erano anni
che andava a dormire vestito. L'unica concessione che si era preso, visto
che la guerra era finita e che era a casa, era stata quella di togliersi la
giubba e usarla come cuscino.
Rispetto ai giacigli di fortuna, che erano stati il suo letto per tanto
tempo, la comodità di un materasso l'aveva fatto svegliare più rotto che
mai ma, molto più probabilmente, era il fisico che gli chiedeva,
finalmente, il conto.
Fece roteare il collo in tutte le direzioni provocando un assolo di
percussioni all'interno della scatola cranica e così, massaggiandosi la
cervicale, alzò gli occhi e guardò il soffitto ricordando i propositi della sera
precedente.
Anche stirandosi al massimo e tendendo le braccia non era
abbastanza alto da arrivare al soffitto per cui, spostò il letto nell'angolo
della stanza dove ricordava ci fosse la botola, spostò il materasso e salì
sulla tavola di legno che fungeva da rete.
Scrostare la carta da parati bianca che faceva da contro soffittatura fu
un gioco da ragazzi e, così, Eleuterio poté vedere i contorni di una botola
che, quando era bambino, era stata fonte di contrastanti emozioni che
variavano dalla curiosità e, attraverso il mistero, sfociavano anche in paure
infantili.
L'apertura della botola si rivelò molto più difficile del previsto perché
era stata inchiodata al soffitto ed era stata smontata la maniglia come ad
impedirne la scoperta da parte di estranei.
Aver conservato il coltellino militare si rivelò un affare perché
laddove si risparmia nel fornire sostentamento ai popoli, spesso si investe
su utensili utili ai militari, compreso le armi. Il coltellino era quasi
indistruttibile. Fece bene il proprio lavoro.
Impiegò meno di dieci minuti ad aprire la botola.
Fu investito da un forte odore di polvere. All'interno della botola, per
fortuna, c'era ancora la scala a scomparsa della quale Eleuterio approfittò
per entrare in soffitta.
Buio totale. La soffitta non aveva punti luce. Eleuterio scese in
camera e prese una delle candele che aveva ricevuto da Don Fulgenzio.
Ora c'era luce a sufficienza per guardarsi intorno.
Se la ricordava più grande.
C'erano scatoloni ammassati, sacchi di tela, vecchi telai di biciclette,
utensili di cui non immaginava l'utilizzo ed una cassapanca.
Impiegò tutto il giorno ad aprire e controllare i vari contenitori di
memorie.
Trovò quasi subito la spada. Bella come non ricordava.
Andò due volte in chiesa a chiedere candele al parroco il quale, la
seconda volta che lo vide, decise di dargli in prestito due candelabri da tre
elementi grandi cosicché avesse più luce e per un tempo maggiore.
Fu un viaggio nella memoria, a volte tenero, a volte doloroso. La foto
del matrimonio dei genitori (un unico scatto fuori dalla chiesa con tutti gli
invitati), gli elaborati scolastici comprensivi di letterine per Natale,
Pasqua, la festa della mamma e del papà, resoconti dell' amministrazione
familiare.
Nella cassapanca trovò gli abiti giovanili smessi di sua madre ed un
plico di lettere di corrispondenza amorosa tra i suoi genitori nel periodo
del loro fidanzamento.
Per pudore non avrebbe aperto quelle lettere ma qualcosa, di quella
corrispondenza, attirò la sua curiosità.
Alcune lettere (che, nel complesso, erano un centinaio) erano diverse
da quelle bianche a fiorellini tipiche della corrispondenza amorosa; erano
gialle, tipo raccomandata, ed erano affrancate ma senza timbro e davano,
come destinatario, la sigla E.L. … Eleuterio Leofulla?
Eleuterio provò ad aprire il nastrino che teneva insieme le lettere ma,
nel momento in cui riuscì ad aprirlo, le lettere caddero in ordine sparso
nella cassapanca.
Dopo un po' di ricerca riuscì a recuperare tutte le lettere gialle, erano
diciassette.
Le aprì tutte; ognuna aveva un foglio interno sul quale erano state
scritte, a caratteri grandi, una lettera ed un numero.
Raccolse le diciassette lettere e le portò giù in camera. Capiva che
dovevano significare qualcosa che a lui sfuggiva, allora, le dispose sul
letto per guardarle nel loro insieme.
L 8, A 2, R 1597, D 3, U 2584, I 13, R 89, G 1, N 5, L 233, O 55, A 21, S
144, A 987, T 34, E 610, P 377.
Non avevano un senso eppure, sapeva che il padre aveva in mente
qualcosa, forse, … era un messaggio cifrato! Già! … ma, su quale base?
Il primo tentativo fu di disporre i numeri in ordine numerico
crescente.
Il risultato fu questo: G, A, D, N, L, I, A, T, O, R, S, L, P, E, A, R, U.
Questa sequenza non produceva parole di senso compiuto.
Tantomeno ponendo le lettere in ordine inverso cioè ponendo i numeri in
ordine decrescente: U, R, A, E, P, L, S, R, O, T, A, I, L, N, D, A, G.
Intanto aveva scoperto che la sequenza numerica era la sequenza di
Fibonacci, quella che suo padre gli aveva spiegato quando era un bambino.
I diciassette numeri, in ordine crescente erano l'espressione di quella
sequenza numerica dove ogni numero è la somma dei due numeri
precedenti.
Anche in questo caso c'era qualcosa che non quadrava, come se
mancasse un numero alla sequenza infatti, per passare dal numero 1 al
numero 2 occorre un secondo numero 1, … un errore di distrazione da
parte di papà? No, impossibile!
Eleuterio sapeva che il padre non avrebbe mai commesso un errore di
sbadataggine, doveva significare qualcosa certamente, ma cosa?
Solo in quel momento Eleuterio s'accorse che era veramente tardi,
aveva fame, aveva sonno. Il secondo bisogno vinse sul primo.
Raccolse le lettere e le mise sotto le lenzuola e, senza svestirsi si
mise su un fianco e prese immediatamente sonno ma, mentre passava dalla
veglia alla fase onirica, cominciò a sentire un motivetto, che gli ronzava in
testa e che sembrava di ricordare ma, quando l'aveva sentito quel
motivetto? Quando? ...
VIII
Si svegliò di soprassalto quando capì cos'era la melodia che
aveva accompagnato i suoi sogni. Credeva d'aver appena chiuso gli occhi
ma, invece, doveva aver dormito a lungo perché il sole era già alto nel
cielo.
Il motivetto? Altro che motivetto! Si trattava della linea melodica del
“Canone Inverso” di Bach, la chiave era lì!
Se avesse letto la sequenza numerica di Fibonacci utilizzando uno dei
sistemi di quel canone, probabilmente, avrebbe trovato la soluzione.
Decise di partire dai numeri estremi convergendo verso il numero
centrale, ossia 1, 2584, 2, 1597, 3, 987, 5, 610, 8, 377, 13, 233, 21, 144,
34, 89, 55. … ecco la frase!
GUARDANELPILASTRO, guarda nel pilastro? Quale pilastro?
Nella struttura dell'abitazione c'erano mura portanti per ogni stanza
ma, se il padre aveva nascosto qualcosa in un pilastro, poteva essere solo
in soffitta.
Prese uno dei due candelabri in prestito e salì di nuovo in soffitta.
Col manico del coltellino batté tutte le mura dei quattro pilastri. Fu in
quello che era a fulcro tra la sua camera ed il soggiorno, dal lato esterno
della casa, che sentì il rumore tipico di pietra cava.
Direzionò la luce in quel punto e s'accorse d'una piccola scanalatura
nella pietra, infilò la lama del coltello e vide aprirsi un sportello
abbastanza ampio a far entrare la sua testa ma decise di infilare la mano.
All'interno toccò un involucro di metallo, lo estrasse.
Era un cofanetto di trenta centimetri d'altezza per trenta di profondità
per quaranta di larghezza, pesava, Eleuterio lo portò al centro della soffitta,
appoggiò il candelabro sulla cassapanca e armeggiò con l'apertura. Non era
chiuso a chiave, basto spingere sul meccanismo d'apertura e, … oro,
monili, diamanti, perle bianche e nere, sembrava una cassa del tesoro in
piccolo e, infilata in una rete fissata al coperchio, una lettera dello stesso
tipo di quelle gialle da raccomandata.
Anche questa lettera era indirizzata a lui. L'aprì. C'erano due fogli.
Sul primo che lesse c'erano scritte, con la grafia maniacale di suo padre,
queste parole.
“Se, ad aprire questo scrigno, non è Eleuterio Leofulla,
chiedo, a colui che ha avuto la fortuna di trovare questo piccolo
tesoro, di usare la metà del contenuto di questo cofanetto per se
stesso e per i propri cari. È sufficiente a vivere agiatamente per
almeno tre generazioni. Questo scritto vale come documento
testamentario e rispecchia le mie ultime volontà.
Ciò che chiedo al fortunato è di recapitare l'altra metà del
contenuto di questa cassetta a mio figlio Eleuterio Leofulla
nato a Policarno il 20 marzo 1925 , attualmente al fronte di
guerra per onorare il nostro paese.
Confido nell'onestà del fortunato erede di metà dei miei beni
terreni e nel fatto che è meglio ricevere una fortuna senza
inganni che depredare un eroe del nostro paese.
Il fortunato non mancherà di mezzi economici per trovare
mio figlio.
Qualora, sfortunatamente, la guerra avesse chiesto anche
la vita di mio figlio, in quel caso, tutta la fortuna sia a favore
dello scopritore di tesori che, auspico, sia per sempre
riconoscente alla fortuna e utilizzi una congrua parte di
questi beni per aiutare il prossimo.
addì 29 Agosto 1938
In fede
P.S.: Se l'avidità avesse il sopravvento sull'equità ed il
fortunato si dimostrasse ingordo al punto da depredare mio
figlio di ciò che gli spetta, avrò modo di donare sofferenze a lui
e a tutta la sua progenie per le prossime sei generazioni. Anche
dall'aldilà so come fare affinché non abbiano mai pace o bene.
“Classico anatema in stile papà” pensò Eleuterio con un mezzo
sorriso malgrado le lacrime di commozione mentre apriva il secondo
foglio.
Questo era rivolto proprio a lui …
Caro Eleuterio,
mi auguro tu abbia in mano questo foglio. Se così fosse, butta
via l'altro! È stata una sofferenza atroce scriverlo.
È vero! Se stai leggendo questo foglio, vuol dire che siamo
morti mamma ed io. Mi verrebbe da dire: ”non piangere” ma,
visto che non è possibile, ti dico: “piangi tanto e fallo in fretta”.
Più piangi e più in fretta ti passa.
Non c'é molto tempo per cui, vengo al dunque:
Come certamente avrai notato,manca un numero uno alla
sequenza di Fibonacci … manca “il” numero Uno.
Quando sei partito eri troppo giovane per sapere tutto e
non è detto che si renda necessario che tu legga la lettera
contrassegnata col numero uno.
Se, come temo, dovesse rendersi necessario, sappi che ho
preparato un mio sistema per raggiungerti ed informarti come
arrivare alla lettera numero uno. Un sistema infallibile che, il
fatto che io sia morto, non è d'ostacolo affinché io ti raggiunga.
Se, come mi auguro, non dovesse rendersi necessario, sappi
che quella lettera non contiene notizie importanti perché tu non
riesca a vivere il resto dei tuoi giorni serenamente.
Ti chiedo perdono del mio essere “criptico” ma, capirai, se
non fossi tu a tenere in mano questo foglio, correremmo tutti un
grosso pericolo.
Questo foglietto e l'arcano che lo circonda è il mio regalo
d'addio. Mamma, che è più pratica, ti lascia quanto occorre per
vivere tutta la vita senza problemi economici … ti abbraccia
forte.
Il pilastro, in tempo di guerra o di crisi, è la migliore
banca del mondo.
Con un amore che supera le barriere del tempo, dello spazio
e della vita ti abbracciano i tuoi genitori.
Le lacrime rigavano il volto di Eleuterio.
Non era il momento per dare un senso a tutto ciò che aveva letto, era
il momento per piangere, … pianse, … pianse tanto, pianse tutte le lacrime
che aveva tenuto dentro durante la guerra, quelle per i suoi cari ma anche
tutte le lacrime che non aveva potuto versare di fronte agli orrori della
guerra, pianse gli amici e compagni d'armi che non sarebbero tornati a
casa, i bambini morti, le bambine violentate, … pianse! Adesso ne aveva
tutto il diritto e tutto il tempo.
IX
2 settembre 1954.
Il professor Serramazzoni, luminare della scienza e della ricerca sub-
molecolare si presentò in piazza del Forno Vecchio a Policarno quella
assolata mattina di settembre del 1954.
Per fare rumore, si fece condurre alla sede comunale da un' auto blu
col conducente che, per cipiglio e per taglia, era il prototipo del “gorilla”.
Bastò il tempo che l'autista lo aiutasse a scendere dalla vettura e gli
consegnasse la valigetta, che il professore aveva lasciato sul sedile, mentre
prendeva due grosse valigie dal bagagliaio, perché un folla di curiosi
s'accalcasse intorno a loro.
Tra i curiosi, uno in particolare lo guardava a bocca aperta e, quando
i loro sguardi s'incrociarono, anche il professore sgranò gli occhi e poi li
chiuse a fessura avvicinando le sopracciglia. Fu solo un attimo poi,
l'illustre luminare alzò il mento e proseguì verso la propria meta e, con
quell'atteggiamento baldanzoso, percorse i pochi metri in salita che
separavano l'auto dall'ingresso del comune e aspettò che il gorilla gli
aprisse la porta principale della sede comunale.
L'autista aveva una valigia per mano e non avrebbe potuto favorirlo
ma, visto che il professore, pur avendo una mano libera, aspettava questo
gesto di cortesia, poggiò a terra le due valigie, con un'enfasi maggiore del
dovuto e, a denti stretti, aprì la porta aspettando l'ingresso del professor
Serramazzoni.
− Desidera? - fece l'usciere comunale aggirando la scrivania posta
all'ingresso del comune, in fondo alle scale che portavano agli
uffici, andando incontro al nuovo venuto.
− Sono il professor Serramazzoni, il sindaco mi sta aspettando -.
− Oh! Professore, scusatemi, non v'avevo riconosciuto -.
− Riconosciuto? Perché? Ci conoscevamo già? - chiese allarmato il
professore.
− No, professore, … il fatto è che il sindaco ci ha fatto leggere
l'articolo sulle vostre ricerche e nell'articolo c'era la fotografia -.
− Ah! Capisco! … … … Beh? -
− Beh cosa? -
− Lo facciamo venire questo sindaco? -
− Ah! Già, scusate. Lo chiamo subito -. L'usciere prese un tirante
per tende, lo avvicinò alle labbra e urlò con tutto il fiato che aveva
in gola – PRINCIPAAAÀ! … PRINCIPAAAÀ!-.
− CHE C'EEEEÉ? - Gridò un uomo affacciatosi dal ballatoio del
primo piano.
− È arrivato 'o professore! -
− Il professore? Un attimo, … sto scendendo, … vengo subito.
Il concetto di “subito” non fu mai espresso meglio. Appena il sindaco
poggiò il piede sul primo gradino, scivolò e, in men che non si dica, era ai
piedi delle scale e del professore.
Il sindaco Antonio Peluso era un uomo alto e magro, proprietario di
un imponente naso e affetto da un lieve strabismo, i pochi capelli che
aveva in testa erano sistemati con un riporto molto approssimativo. Tese la
mano al professore.
− Piacere! Sono Antonio Peluso, sindaco di Policarno. Posso offrirvi
qualcosa? - disse con le gambe ancora sulle scale e il busto sul
pavimento.
− Qualcosa? Certo! Potreste offrirmi l'ambiente ideale dove
installare il mio laboratorio, grazie! -
− Ah! già! Mi aveva avvisato il senatore Lo Quercio. Quindi, avete
deciso di creare un laboratorio proprio qui … - disse mentre, con
grande fatica, si rialzava – Nei sotterranei abbiamo degli amb....-
− Niente sotterranei! Andiamo al primo piano! -
− Ma … lì ci sono … gli uffici … -
− Primo piano, prego! -
− Ehm! … come volete voi – Salirono lentamente i gradini che, il
sindaco aveva percorso velocemente solo un minuto prima.
Al primo piano c'era un grande ballatoio sul quale affacciavano
sette porte. Il professor Serramazzoni si diresse, senza indugio, alla
porta centrale facendo tirare un sospiro di sollievo al sindaco che
aveva temuto per il proprio ufficio. A quel punto, risollevato dallo
scampato pericolo, il sindaco si sentì più bendisposto nei confronti
dello stravagante professore.
− Quella stanza è l'archivio ma, se lo desiderate, sposteremo tutti i
faldoni nei sotterranei -.
− Ecco, bene così, perfetto! -.
− Possiamo anche operare delle modifiche alla stanza ... – intanto
avevano varcato l'ingresso dell'archivio dove due impiegati
stavano chini su di una scrivania di legno a consultare alcuni
registri comunali - … possiamo portare via le librerie, la scrivania,
… - il professore aveva gli occhi fissi sul caminetto, in fondo alla
stanza al ché, avendo notato dove puntasse lo sguardo, il sindaco
aggiunse – e, … se vi da fastidio, possiamo smantellare il
caminetto … -
− IL CAMINETTO NO! - Il professore, come destatosi da un
sogno, guardò per la prima volta il sindaco negli occhi. La sua
espressione era un misto di paura e rabbia di fronte alla quale il
sindaco abbassò gli occhi. Resosi conto dell'enfasi con cui aveva
reagito, il Professore si riprese:
− Il caminetto mi piace molto, grazie per la vostra ospitalità -.
Il comando dei carabinieri di Policarno è al numero di via XX
Settembre. È al piano terra di un palazzo scampato alle bombe. È
composto di soli tre ambienti e un corridoio. La prima stanza è l'ufficio del
comandante, con una finestra che affaccia all'interno dell'area
condominiale. Lì è stato allestito lo spazio per i mezzi in dotazione alle
forze dell'ordine (quattro cavalli e sei biciclette) oltre un piccolo orto e
l'unica cella, ricavata da quella che poteva essere stata una rimessa. Il
secondo ambiente è la stanza degli interrogatori, senza finestre (a parte un
finestrone in alto) a forma di parallelepipedo nel cui angolo più ampio è
stata posta una latrina. La latrina è fonte di grosso imbarazzo nel caso in
cui è in atto un interrogatorio. Il terzo ambiente è lo spazio pubblico del
comando, un ambiente grande con una finestra che affaccia sullo spazio
“mezzi” e una porta che da' direttamente sul corso Policarno. Lì si
presentano le denunce.
L'arma al completo è così composta:
Il Tenente Alberto Buzzi, i capelli a spazzola, i basettoni, alto un
metro e sessanta e largo altrettanto, soprannominato in segreto
“Buzzicone”, un trafficone con le alte sfere, il classico comandante di
rappresentanza.
Il Maresciallo Francesco Carlesi, detto ironicamente (sempre in
segreto) “la scimmia” perché totalmente glabro dotato, però, di un fiuto
formidabile nelle indagini, il vero motore del comando.
Il Brigadiere Nicola Festicoli, soprannominato “Foglioni” e non sto a
spiegare il perché.
Gli Appuntati Loccardo, Pizzuti, Nicchi e Farelli.
I graduati non hanno l'obbligo dei turni di notte salvo, però la
reperibilità a qualsiasi ora, reperibilità nella quale si cerca di non includere
il Tenente.
04 ottobre 1954 ore 01,30.
Quella notte era toccato a Pizzuti il turno.
Policarno è un paese dove non accade nulla e quella sera, come al
solito, Pizzuti era addormentato con le gambe stese sulla scrivania
d'ingresso.
Al principio credeva di stare a sognare ma, poi, si accorse che
avvertiva dei suoni al di là della sfera onirica.
Tirò le gambe giù dalla scrivania e gridò:
− Chi è là!-
− Aiutatemi! Vi prego … -
La voce era nella stanza ma l'Appuntato Pizzuti non riusciva a capire
da dove arrivasse. Visto che l'unica fonte di luce era una lampada da 40
Watt posta sulla scrivania, Pizzuti si alzò e accese l'interruttore alle sue
spalle che illuminava tutta l'area con un lampadario centrale.
Solo allora si accorse di Biagio.
Biagio era un noto ubriacone, nessuno ricordava il suo cognome,
aveva una casa giù a “Monte”, Monte era una zona di Policarno dove
c'erano alcune cave di argilla. Spesso, il povero Biagio, lo si trovava a
dormire sulle panchine del paese. Altrettanto spesso lo arrestavano per
vagabondaggio. Il suo non era un vagabondaggio molesto ma, per le forze
dell'ordine, andava comodo arrestarlo, solo perché si faceva prima che a
riaccompagnarlo a casa.
Soltanto allora l'Appuntato Pizzuti s'accorse della scia di sangue a
impronta del passaggio di Biagio.
− Biagio! Accidenti! Cosa è successo? -
− Il tre di bastoni! - Biagio parlava a stento, aveva uno squarcio
lungo la schiena talmente ampio che si vedeva un polmone
gonfiarsi e sgonfiarsi velocemente. Aveva il respiro affannato.
− Cosa? Che cosa c'entrano le carte da gioco? Aspetta che chiamo
un'ambulanza -.
− No! Non serve, … sono spacciato! … siamo tutti in pericolo,
siamo tutti spacciati! … agh! - cominciava a respirare a fatica,
Pizzuti provò a raggiungere il telefono ma Biagio l'afferrò con
inaspettata forza e, con l'ultimo alito di vita che gli era rimasto
disse:
− Il tre di bastoni! - e, con un colpo di tosse, schizzò il sangue sul
viso e sulla divisa di Pizzuti e smise di vivere.
X
Lungo la strada provinciale S.Maria Anteseculae, c'era il cinema
“Felix”, l'unica sala proiezioni del paese. Il cinema funzionava tutti i giorni
della settimana con doppia e tripla proiezione.
Il proprietario nonché proiettore, venditore di pop-corn e uomo delle
pulizie, Gaetano Ciarla, che tutti chiamavano “Ciarla/Tano” prendeva in
prestito le pellicole dai cinema di città e, prima di “mandare” il film,
lanciava le “ultimissime” dell'unica testata giornalistica nonché unica
emittente radio-cinematografica di Policarno, la PIRC, Policarno
International Radio Cinema (International era stato messo in un accesso di
vanità visto che l'utenza riguardava i soli abitanti del paese), cosicché la
sala cinematografica risultasse anche notiziario di Policarno.
Alle quattro del mattino il comando dei carabinieri di Policarno era
affollato più di un autobus cittadino nell'ora di punta. Il Tenente Buzzi,
truccato di tutto punto, rispondeva alle domande del giornalista Angelo
Abete, unico reporter nonché redattore capo della PIRC, figlio dell'unico
fotografo di Policarno.
Il Maresciallo Carlesi era col dottor Morelli, il medico legale,
entrambi chini sul corpo esanime di Biagio e dialogavano sommessamente
quasi come a non voler disturbare il sonno eterno della vittima.
L'arma dei carabinieri era al completo, oltre Pizzuti c'erano anche gli
Appuntati Loccardo, Nicchi e Farelli. Avevano delimitato col nastro tutto
il percorso dal presunto luogo dell'aggressione al luogo del decesso.
Avevano dovuto chiedere l'intervento del Maresciallo Carlesi perché il
Brigadiere Festicoli s'era messo in testa di delimitare col nastro tutta la
strada da monte al comando (circa mezzo chilometro). Intanto s'era già
accumulata una discreta folla tra massaie, lavoratori mattinieri e malati
d'insonnia.
Il Tenente Buzzi sembrava una stella del cinema sul set, offriva alla
telecamera il suo miglior profilo e, ad ogni domanda di Angelo Abete,
rispondeva con gesti teatrali e movimenti scenici d'effetto, intanto, il
Brigadiere Festicoli, alla ricerca di qualche inquadratura si sbracciava
urlando: “Circolare! Circolare! Qua non c'è nulla da vedere!”.
Il cameraman, dopo una panoramica che diede lustro alla solerzia di
Festicoli, strinse l'inquadratura su Abete e Buzzi. A quel punto partì
l'intervista.
− Tenente, a che ora è avvenuto il delitto? -
− Caro Abete, intanto non sappiamo ancora se si tratta di delitto o di
semplice aggressione da parte di qualche animale selvatico, siamo
propensi per la prima ipotesi ma è presto per sbilanciarci … -.
− Cosa pensa di fare il comando adesso? -
− Beh! Caro Abete, deve sapere che il comando dei carabinieri
s'avvale di ottimi investigatori e della consulenza di anat, … ehm!
anapot, … a_na_to_mopatologi di tutto rispetto, … Abete? -
− Si? -.
− Rifacciamo questa scena?- poi, senza aspettare la risposta - Il
comando dei carabinieri s'avvale di bravissimi investigatori e della
consulenza di … medici legali di tutto rispetto -.
− Quindi, cosa si sente di poter dire ai cittadini di Policarno? -
− Mi segua … - prese la porta del comando che dava all'esterno. Lì,
il numero di spettatori contava almeno venticinque unità. Il
Tenente, aspettò che si posizionasse il cameraman, quindi rispose
con voce baritonale – Lei, giustamente, mi chiede a nome della
cittadinanza policarnese una risposta, … bene! Io, Tenente Alberto
Buzzi, comandante in capo all'arma dei carabinieri di Policarno
posso dichiarare, in tutta onestà, che mi prenderò cura, come ho
sempre fatto, dei miei concittadini, che risolverò come è mia
abitudine anche questo caso. I policarnesi possono dormire sonni
tranquilli e non temere alcunché finche ci sarà quest'eccellente
arma dei carabinieri a difenderli capitanati indegnamente, … no!
Lasciatemelo dire, capitanati indegnamente dal sottoscritto. Ho
detto -. A questo punto partì l'applauso.
− Bene! Con queste parole del Tenente Buzzi chiudiamo, per ora, il
collegamento. Da Angelo Abete per PIRC a voi studio! -
In via XX settembre era tornata la pace, la scia di sangue era stata
pulita, il cadavere portato all'ambulatorio medico e posto in una vasca
piena di ghiaccio, in mancanza di una vera camera mortuaria, per eventuali
analisi.
Buzzi aveva un pranzo col sindaco Peluso e con un luminare della
scienza che viveva a Policarno da poco più di un mese per cui lasciò a
Carlesi il compito di avviare le indagini con l'obbligo di informarlo su
eventuali progressi.
Carlesi diede ordine ai suoi sottoposti di rispettare i propri turni di
servizio poi, visto che Pizzuti aveva finito il proprio turno, decise di fare
quattro passi con lui, verso casa.
Pizzuti abitava su via Santa Maria Anteseculae, la strada provinciale
che univa tutti i paesi della zona, strada su cui sfociava il corso Policarno.
La sua abitazione non distava molto dallo studio del dottor Morelli.
All'angolo tra il corso Policarno e via Santa Maria Anteseculae c'è il
bar “Bieri” il bar più importante del paese.
Passandovi davanti Carlesi chiese a Pizzuti.
− Ti va un caffè? -
− Ecco, ... non vorrei essere di disturbo per voi, Maresciallo ... -.
− Non dire sciocchezze, nessun disturbo, entriamo! -.
− Sissignore, signor si, signore! -.
Presero posto a un tavolino appartato del bar, lontano dai tavoli di
“calciobalilla”, aspettarono l'arrivo dei 2 caffè e, mentre sorseggiavano,
Carlesi chiese a Pizzuti:
− Allora? -
− Allora cosa? Maresciallo -.
− Vorrei che mi raccontassi attentamente tutto ciò che t'ha detto
Biagio, prima di morire! -.
− L'ho scritto nel rapporto, signore -.
− Lo so ma vorrei sentirlo dire da te -.
− Come desiderate, Maresciallo ... allora, mentre ero seduto alla
scrivania ... -
− Cosa stavi facendo in quel momento? -
− Dor... ehm! Do... cumentavo gli aggiorn ...-
− Ho capito! Stavi dormendo, tranquillo, non stavi trasgredendo gli
ordini, il turno di notte è noioso, può succedere ...-.
− Maresciallo, se lo viene a sapere Foglio... ehm! Festicoli, rischio
che ...-
− Io non sono Foglio... ehm! Festicoli, stai tranquillo! Allora? -
− ... allora? ... ah! M'ero appisolato quando ho sentito, tra sonno e
veglia, un suono metallico ...-
− Metallico come? -
− Sembrava un “zak!” ... misto a un “stud!”, ... avete presente un
colpo di sciabola dato di taglio? -
− Ti sei spiegato perfettamente, Pizzuti, va avanti! -
− Ho sentito chiedere aiuto con una voce flebile, mi sono svegliato
del tutto, mi sono alzato dalla scrivania ed ho acceso la luce.
Biagio era a terra, dalla scia di sangue si vedeva che s'era
trascinato per un paio di metri dall'ingresso, la porta era aperta
ma, ... ecco ... credo che fosse stata lasciata aperta da Loccardo,
quando aveva finito il turno ieri sera -.
− Quindi è possibile che Biagio sia stato colpito un'attimo prima che
entrasse al comando – disse Carlesi più tra se e se che rivolto a
Pizzuti.
− Eh! ah! Certo, possibilissimo -.
− Biagio era sudato? -
− mmh! ... si, ora che ci penso, aveva la fronte imperlata di sudore -.
− Questo ci fa supporre che sia stato inseguito fino al comando, ...
continua! -
− A quel punto ho guardato la ferita e ho capito che ne aveva per
poco ma volevo chiamare lo stesso un'ambulanza. Biagio, però, mi
ha bloccato e ha cominciato a dire parole senza senso ... -
− Cosa t'ha detto di preciso? -
− Ha ripetuto più volte “Il tre di bastoni”, la voce era allarmata poi,
ha aggiunto che siamo tutti in pericolo ... no! Anzi si! ... in
pericolo e siamo tutti spacciati -.
− Nient'altro Pizzuti? -
− No Maresciallo, nient'altro -.
− Bene! - disse Carlesi alzandosi dal tavolino del bar e lasciando
poche monete in saldo dei due caffè – se ti venisse in mente
qualcos'altro, fammelo sapere. Ora và a casa, ti sei meritato un po'
di riposo, prenditi la giornata libera, a domani, Pizzuti -.
− A domani Maresciallo e grazie del caffè -.
Il Maresciallo Francesco Carlesi aveva una straordinaria capacità
deduttiva in grazia del fatto che era aperto ad ogni possibile spiegazione.
Non si faceva condizionare da nessuna forma di preconcetto e questo lo
tutelava dal rischio di conclusioni affrettate. Il perfetto contrario del
temperamento del Tenente Buzzi che, voleva risposte indipendentemente
dalle verifiche.
Erano le 11,45 quando il Maresciallo si trovò davanti al cancello di
servizio dello studio medico Morelli.
Il dottor Augusto Morelli viveva in una villa di due piani. Al piano
terra aveva l'ambulatorio che era composto da un'anticamera molto grande
(essendo l'unico medico condotto di Policarno aveva una numerosa
clientela) e da una sala per fare le “visite” sufficiente ampia da ospitare
due lettini, una scrivania e due mobili con vetrine colmi di medicinali. Al
primo piano c'era l'appartamento che divideva coi suoi cari (moglie e due
gemelli) e nel freddo scantinato c'era la sala mortuaria. Non era una vera
sala mortuaria ma, grazie al freddo, era l'ambiente migliore per conservare
il più al lungo possibile un cadavere, inoltre era la distanza maggiore che
era riuscito a porre tra la vita (rappresentata dalla sua famiglia) e la morte.
Tutta la villa era circondata da un giardinetto che era coltivato a fiori,
nella parte più prossima all'ingresso ospiti e nella zona posteriore alla villa
dove transitavano i pazienti o i parenti dei deceduti. Tutta la restante area
del giardino era coltivata a frutta e verdura.
Fu il dottore stesso che venne ad aprire il cancello al Maresciallo e lo
condusse allo scantinato.
− Hai scoperto qualcosa d'interessante in quest'ora e mezza? -
− Ho scoperto che il cadavere è effettivamente morto! - Il dottor
Morelli, in virtù del proprio mestiere, aveva un forte umorismo
macabro. Carlesi sapeva reggere.
− Questa è una cosa ottima altrimenti non si sarebbe spiegato perché
sono in piedi dalle due di stanotte. A parte questa geniale scoperta,
c'è qualche altra preziosa notizia per le indagini? -
− Ho potuto estrarre un po' di sangue per analizzarlo ma ci vorrà
qualche giorno per i risultati. Ho asportato qualche lembo di
tessuto nella zona della ferita mortale e … -.
− Possiamo dare un'occhiata alla vittima insieme? -
− … vabbè! … ma dovrai aiutarmi a rimetterlo sul lettino perché ora
è sotto ghiaccio -.
Si avviarono all'obitorio. Una volta entrati, il dottor Morelli aprì un
vano frigo posto orizzontalmente al pavimento, uno di quelli dove, di
solito, si tengono in fresco le bevande quando si organizzano feste.
C'era molto ghiaccio all'interno. Avvolti in buste trasparenti, c'erano
feti di animali parzialmente sezionati, alcuni organi vitali che Carlesi si
augurò non appartenessero a esseri umani, vari medicinali raggruppati in
spesse scatole di vetro e il buon Biagio.
Morelli accostò una barella con rotelle al frigorifero e chiese a
Carlesi di afferrare la vittima per le caviglie e tirarla su al suo “tre”, lui
aveva afferrato Biagio per le ascelle.
Una volta poggiato il corpo del delitto sulla barella, il dottor Morelli
si sporse nel frigo al punto che i suoi piedi non toccavano più il pavimento
e ne uscì con due bottigliette in mano.
− Gradite una gazzosa, Maresciallo? -. Gli diede del “Voi” a mo' di
scherno.
XI
Il professor Serramazzoni preferiva lavorare di notte. Diceva che il
volgare vociare diurno lo distraeva affatto dalla concentrazione che le sue
ricerche richiedevano.
Evitava le persone, il suo carattere schivo calzava perfettamente col
personaggio. Divenne ancora più schivo quando incontrò, nell'androne del
comune il tizio che, nel giorno del suo arrivo a Policarno, l'aveva
squadrato a bocca aperta. Anche stavolta, il tizio aprì la bocca ma, in
questo caso, fu per parlare:
− Io vi conosco! - Gli disse, afferrandolo per un braccio e
obbligandolo a fermarsi.
− Cosa volete? - Chiese, spaventato, il professore.
− Io vi conosco, vi ho già visto, … ma, … non ricordo dove m'è
capitato d'avervi incontrato -.
− Vi state sbagliando, io non vi conosco! … e poi, toglietemi le
mani di dosso! -
− Scusate! - disse l'uomo, mollando la presa – mi devo essere
sbagliato -.
− Sicuramente! Buongiorno!-
Serramazzoni s'avviò per le scale. L'usciere, che aveva visto la scena,
chiese:
− V'ha infastidito, professò? -
− No, niente di che! Fantasticava d'avermi già conosciuto … che
cosa assurda! -
− Non vi preoccupate, il Germanese è fuori di testa -.
− Germanese? -
− Si! È il suo soprannome. In tempo di guerra, spinto dalla miseria,
collaborò coi tedeschi. La gente di Policarno glie l'ha perdonato
perché lui è stato sempre un po' matto e, probabilmente, non
capiva la gravità di ciò che fecero la SS al paese -.
− Ah! Capisco, … poverino … ora, se permettete, vorrei andare nel
mio ufficio -
− Oh! Scusate professò! Prego -.
La scelta di quell'ufficio non era frutto di un immotivato capriccio.
La rivolta dei sogni
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  • 1. - Aldo Perris - LA RIVOLTA DEI SOGNI
  • 2.
  • 3. Questo racconto è un'opera nata dalla fantasia dell'autore e ogni riferimento a fatti e personaggi realmente esistenti è puramente casuale. A.P.
  • 4.
  • 5.
  • 6. Questo romanzo è dedicato a tutti coloro che posso incontrare al di là del mondo “Veglio” e, in particolare, a chi viene da me ogni notte a dissetarsi. (… e lei lo sa)
  • 7. Note di testa La storia che sto per raccontarvi è una storia vera. Si è svolta, nel giro di pochi mesi tra il 1954 e il 1955, in un paesino nel sud dell'Italia. Il paesino è reale ma, per motivi che non ho la libertà di spiegarvi, non posso rivelarne il vero nome. Ho dovuto inventare un nome fittizio per questo paese e, tra i tanti nomi che la fantasia m'ha suggerito, la scelta è caduta su “Policarno”. Perché “Policarno”? Perché il suono greco di questa parola mi serviva a collocare geograficamente il paese. Perché “Policarno” è una parola composta che non ha significati. Perché, dopo molte ricerche, sono certo che un paese con questo nome non esiste. Quindi … Policarno sia! Ho disegnato la cartina del paese così come era all'epoca degli avvenimenti che sto per raccontare. Mi si presentava quasi identico a com'era nel 1955 quando l'ho frequentato, vent'anni dopo. Ovviamente, ho disegnato la mappa di Policarno cambiando i nomi delle strade per evitare che qualcuno possa riconoscerlo ma ho preservato la morfologia urbanistica del paese … un mio piccolo vezzo. Non è vero! Il fatto è che … vorrei tanto che qualcuno riconoscesse il vero paese che si cela sotto il nome “Policarno”, qualcuno che andasse a cercare le prove di quanto sto per raccontarvi. Le prove sono ancora lì. Sono ben nascoste ma ci sono! Forse, un giorno, torneranno alla luce … certo! … ma bisognerà ricostruire anche i supporti tecnici del 1955 perché si comprenda ciò che si vedrà. Sono filmati. Qualcuno, guardandoli, potrebbe credere di trovarsi di fronte ad un mago degli effetti speciali (speciali per il '55) … beh! Non ci sono effetti. Non è un film ma un documentario scientifico. Tutto ciò che è impresso su quelle pellicole è realmente accaduto.
  • 8. … ma ora … partiamo dall'inizio e per “inizio” s'intende tutto ciò che riguarda la storia di Policarno, la storia dell'Italia intorno alla seconda guerra mondiale, la storia della famiglia Leofulla.
  • 9. I Policarno, 1933, casa Leofulla. − Che cosa stai facendo, papà? - chiese Eleuterio al padre. Il papà si stava preparando per andare al lavoro. Era impiegato all'ufficio postale. − Come sarebbe a dire, cosa sto facendo? Mi sto lavando, non lo vedi? - rispose il padre. − … e … perché usi quello spazzolino per le ciglia? Cos'è quella roba che togli dagli occhi? - lo incalzò il bambino. Il papà era in ritardo, come spesso accadeva, ma si fermò ugualmente dalle sue abluzioni mattutine, si accovacciò di fronte al figlio, per poterlo guardare negli occhi e gli disse: − Sai, figliolo, tolgo i sogni dai miei occhi per lasciarli a casa, accanto a tutto ciò che amo … - Di fronte al visetto perplesso del bambino, continuò: − … non posso portare al lavoro i miei sogni ancora attaccati agli occhi. Lì, non vedrebbero l’ora di rubarmeli, allora li lascio attaccati allo spazzolino per le ciglia e li nascondo nel mio cassetto del mobile in bagno, ma, … mi raccomando, non dire a nessuno che io nascondo i sogni, è un segreto tra noi due -. Il bambino annuì con fare cospiratorio ed il papà andò a sedersi sul letto per vestirsi. Dopo un po' Eleuterio, che evidentemente aveva continuato a rimuginarci, gli chiese: − … ma … come fai poi a rivederli? - − Io … ehm! … su, preparati! … sennò fai tardi a scuola! - Eleuterio era un bambino di otto anni, figlio di Donatello, unico impiegato nell'ufficio postale di Policarno e di Bianca de Luca, casalinga. I Leofulla abitavano vicino alla chiesa del paese e, il tratto di strada che portava dalla loro abitazione alla scuola e all'ufficio postale (che era adiacente alla scuola) era di un centinaio di metri. Sia l'edificio scolastico che la sede dell'ufficio postale si trovavano in piazza del Forno Vecchio. Policarno era paese tranquillo, di una tranquillità insolita in quell'Italia entrata da poco nel ventennio fascista. Il fatto che la morsa del regime non si fosse fatta sentire a Policarno, dipendeva dalla scarsa importanza del paese, poco collegato coi centri urbani più prossimi e
  • 10. dotato di una peculiare indolenza e sonnolenza dei propri abitanti e delle forze dell'ordine. Vestire alla “Balilla” era considerata una moda delle grandi città. Il paese non rappresentava certo uno di quei centri dove gli animi si esaltavano facilmente. Pur trovandosi nell'avveniristico ed espansionistico 1933, chi passava per Policarno aveva l'impressione d'immergersi nella metà dell'800. Il paese era sovrastato dalle rovine di un castello medioevale, aveva un'urbanistica che non era certo il risultato di un piano ben strutturato. L'evidenza di questa mancanza d'organizzazione si evinceva dal fatto che l'unica chiesa del paese non si trovava nella piazza principale. Per Eleuterio era meraviglioso quando, uscendo da scuola, trovava la mamma ad aspettarlo. Quel giorno, la mamma era preoccupata. Lui se ne accorse perché, anziché guardare nella direzione della marea di bambini che uscivano da scuola, lei stava parlando in maniera concitata con le altre mamme. Eleuterio salutò il suo compagno di banco, Franceschino, e si diresse dalla mamma e, per farsi notare, fece la ruota fermandosi proprio al centro di tutte le donne. La mamma, accortasi del figlio, salutò in fretta e furia le altre mamme, lo prese per mano e si diresse a casa. Eleuterio, orgoglioso di camminare di fianco alla sua mamma, salutò nuovamente Franceschino che andava via con la nonna, Nicolina. − Buona giornata, signora Nicolina, ciao Francé ... -. disse il bambino. − Ciao, piccolo, buongiorno Bianca! – fece la signora Nicolina Fiorenza, nonna di Francesco Carlesi. La famiglia di Francesco era originaria di Policarno ma lui era nato a Livorno perché il padre s'era trasferito lì per lavoro. Purtroppo, lì Francesco aveva perso entrambi i genitori per una rapina, cosa rarissima per quei tempi, trasformatasi in tragedia. Lui, quindi, era andato a vivere a Policarno, dalla nonna. Il bambino continuava ad asserire che, da grande, avrebbe fatto il carabiniere. Probabilmente gli sembrava l'unico modo per vendicare i genitori. Sebbene si fossero salutate, le due donne percorrevano lo stesso tratto di strada per cui: − Avete sentito? - attaccò Bianca. − Cosa? - fece Nicolina.
  • 11. − L'Italia si sta alleando con altre nazioni europee - − Beh? Non è una cosa buona? - − Mio marito dice di no! - − … e perché? - − Lui dice che le alleanze sono il modo migliore per far scoppiare le guerre -. − Non capisco - − Nemmeno io ci capisco tanto ma, a quanto pare, se qualcuno s'allea con qualcun altro, lo fa per fregare un terzo -. − Cioè? - a quel punto, intervenne Franceschino. − Ma è facile, nonna! È come fanno Aida e Caterina! - − Aida e Caterina? E … chi sono? - − Aida Costa e Caterina Chiocci - − Le vostre compagne? … e cosa fanno? − Sono diventate amiche del cuore solo per parlare male di Rosetta – si aggiunse Eleuterio a sostegno del compagno. − E ora chi è Rosetta? - Chiese Nicolina. − Rosetta Riccio, la figlia della pasticciera -. disse Eleuterio. Francesco s'aggiunse. − Rosetta dice sempre le cose come stanno e, a quelle due streghe, non piace chi le tratta per come meritano -. − Francé! Non si parla così delle compagne -. La signora Nicolina sgridò il nipote. Sebbene fosse il 1933 e, a quei tempi, la “classe mista”, cioè quella formata da maschi e femmine che dividevano promiscuamente lo stesso ambiente, non era concepita dal sistema educativo, a Policarno c'era una sola maestra, la signorina Carli, ed un numero troppo scarso di bambini per poter pensare di dividere i corsi e applicare una direttiva ministeriale che divideva le classi di studio in base al genere. − Hai più sognato il Trorco? - I Leofulla erano a cena. − Il Trorco? Papà, te lo ricordi ancora? - − Si che me lo ricordo, la notte avevi molta paura - − Ma ero un bambino -. disse Terio, con baldanza. − Guarda che stiamo parlando di quattro anni fa -. Sorrise il padre. − Beh? Metà della mia vita - − Lascialo in pace, Donatello, fagli finire la cena senza tempestarlo di stravaganti domande – intervenne mamma Bianca. Donatello
  • 12. tacque e consumò lentamente la propria cena sincronizzandosi col figlio. Finita la cena, Bianca prese i piatti ed andò in cucina e Donatello, a bassa voce, riprese da dove s'era fermato. − Eccoci di nuovo da soli … ma ti ricordi che ti feci disegnare il mostro che popolava i tuoi incubi e lo andai a sotterrare? - − Il Trorco? … mhm! … ora che ci penso, mi pare di ricordare … dì la verità, buttasti il disegno, papà? - − Nemmeno per sogno! Feci esattamente come t'avevo promesso. Sotterrai la scatola di latta con il tuo disegno e … altre cose ... -. − Davvero? … e … ora … dove … ? - − Non te lo posso dire ma, ti prometto, un giorno te lo dirò -. − E dai, papà! … - − Non insistere, piuttosto, … vieni con me, devo farti sentire una cosa molto interessante. Stasera scoprirai cos'è la perfezione -. Passarono dal tavolo alle due poltrone poste ai lati del mobile radio, sul quale era poggiato un grammofono. Papà Donatello tirò fuori dalla sua grande borsa da lavoro un disco in ceralacca 78 giri ancora nella confezione di cartone semi-rigido. Eleuterio, mentre il padre metteva il disco sul grammofono, lesse il titolo del brano sul cartoncino che fungeva da copertina: “J.S.Bach – Canone Inverso per Clavicembalo”. Prima di avviare il grammofono, il padre disse: − Stasera ascolterai la perfezione -. − Questo Bach? Che canzoni canta? - − Non è un cantante, è un musicista che ha scritto questo brano circa duecento anni fa! - − Non è moderno! - − La parola “moderno” indica una scadenza perché tutto ciò che è moderno diventerà antico. Lui è “eterno!”... ascolta! - Un bambino di otto anni, così come qualsiasi adulto ignorante ma sensibile, proprio perché non ha gli strumenti per analizzare la musica, può lasciarsi trasportare dalle emozioni che le note sanno creare. Per Eleuterio Leofulla fu un'esperienza magica: il brano cominciava con una melodia semplice che, man mano che proseguiva il brano, s'arricchiva di altre melodie che s'incrociavano con quella principale. Quando entrò la seconda melodia, Terio ebbe l'impressione di guardare due farfalle che volteggiavano e, all'aggiungersi di ogni nuova melodia, passò dal vento alla pioggia, dal giorno alla notte e viceversa.
  • 13. Quando finì il brano, Terio, entusiasta, raccontò tutte le sue esperienze sinestetiche al papà e chiese di riascoltare Bach. − Aspetta, devo prima spiegarti una cosa riguardo questo pezzo e del perché, a proposito del canone inverso, io ti abbia parlato della perfezione -. Terio sapeva che il suo papà gli raccontava sempre cose incredibili, per cui rispose: − Sono in ascolto – e il padre proseguì: − La melodia che hai sentito all'inizio, quella melodia solitaria, era l'unica melodia che Bach ha usato in tutto il pezzo … - − Ma io ho sentito altre … - − Aspetta! Fammi spiegare. Quando è entrata la seconda melodia, quella che hai chiamato “farfalla”, era la prima melodia che partiva dall'ultima nota e tornava indietro sovrapponendosi alla prima melodia … - − No, incredibile … - − … ma questo è solo l'inizio. Ogni melodia che s'aggiungeva, era sempre la prima melodia ma trattata in altri modi: Capovolta, tagliata in due parti e fatta partire da capo e da metà brano contemporaneamente, capovolta e retrograda nel contempo e ancora … - − Basta, papà. Adesso che ho capito cos'è la perfezione, posso riascoltarlo? - − Ma … va bene, adesso si! … ma ricorda cosa si può inventare con una semplice serie di note, … o di numeri - Il canone inverso di Bach divenne un brano che Eleuterio ascoltava almeno una volta al giorno.
  • 14. II Una sera, al ritorno da lavoro, il papà vide Eleuterio triste e affranto seduto accanto alla mamma con la testa appoggiata sulla spalla, aveva pianto. L'aria di casa era tesa, c'erano quaderni aperti sul tavolo di cucina e, in bella mostra, un “Quattro” sul quaderno di matematica scritto con la matita rossa. − Beh? Cos'è quest'aria da cimitero? - chiese, con un mezzo sorriso. La moglie, Bianca, inarcò le sopracciglia, alzò gli occhi al cielo e rispose: − Matematica, … è andato male! - Il signor Donatello, ci pensò su per un po', poi disse: − Ma tu, l'hai consolato, non è vero? - e strizzò l'occhio alla moglie. − Ho fatto male? – Chiese la signora Bianca. Eleuterio alzò gli occhi perché non capiva a cosa volessero arrivare i genitori. Il padre rispose: − No, anzi, hai fatto benissimo. Adesso io l'aiuterò a capire il mondo dei numeri ma, se tu non l'avessi consolato, avrei dovuto farlo io -. Eleuterio era basito. Gli altri genitori, di fronte a un brutto voto avevano solo due probabili reazioni: 1) Indifferenza, dovuta al fatto di ritenere lo studio “una perdita di tempo”. 2) Botte, spesso date anche solo per abitudine. Lui sapeva che i suoi genitori erano tanto speciali da sembrare, come li chiamavano in paese, “eccentrici” ma, pur essendo abituato alla loro stranezza, rimaneva sempre stupito. La madre andò in cucina e il padre gli spiegò i numeri in un modo che non avrebbe più dimenticato. − Non voglio sapere in cosa sei andato male ma … - − Papà, mi dispiace, le tabelline … è proprio che … i numeri non li capisco - − Non preoccuparti. Ora te li presento! Il mondo dei numeri è un mondo magico e ogni numero ha la sua magia. Conosci la tabellina dell'uno? - − Papà, … ma quella è facile! - − Bene ma … lo sapevi che, ogni tabellina è facile come una tabellina dell'uno? - − Non capisco -.
  • 15. − Va bene, cominciamo dal due … dunque 2, 4, 6, 8, 10, 12, 14, 16, 18, 20 cioè prima i numeri pari e poi i dispari -. − Cioè? Dove sono i dispari? - − Ascolta bene, 2, 4, 6, 8, poi 10 che è 1+0 ossia 1 … poi 12 che è 1+2 cioè 3 … e così via -. Terio ci pensò, poi disse: − 2, 4, 6, 8, 1, 3, 5, 7, 9 e … 2? E il 10 dov'è? - − Il dieci non esiste … è 1+0 - − Quindi 1! - − Esatto. Passiamo al 3 … 3, 6, 9, 12, 15, 18, 21, 24, 27, 30. Allora cominciamo con … - − Aspetta, aspetta! 3, 6, 9, … 3, 6, 9, … 3, 6, 9, … 3? Solo 3 numeri? - − Visto com'è facile? E il 4 è 4, 8, 12, 16, 20, 24, 28, 32, 36, 40 … avanti! Fa tu il calcolo -. − … allora … 4, 8, 3, 7, 2, 6, 1, 5, 9, 4 … ci sono tutti! - − Bene! Ora continua da solo ma, prima che continui devo dirti il significato di ogni numero: Il numero “1” rappresenta la solitudine e solo è chi arriva primo, di chi ha un segreto, di chi sogna ... Il numero “2” rappresenta l'amore, la persona che amiamo, ... perché non ci sarebbe l'amore senza una persona da amare. Il numero “3” rappresenta la perfezione, il triangolo che punta al cielo. Il numero “4” rappresenta il viaggio, perché sono le direzioni estreme che si possono prendere. Il numero “5” rappresenta l'aiuto, come le dita di una mano tesa. Il numero “6” rappresenta la comodità, la tranquillità. La forma stessa del numero sei sembra una poltrona. Il numero “7” rappresenta la magia. C'è un universo enorme di cose fantastiche nel 7. Il numero “8” rappresenta la vita. Un circolo infinito su se stesso. Il numero “9” rappresenta l'opportunità. Il nove è un numero che varia i risultati senza variare la sostanza -. − Cioè? - − Le proprietà del numero 9 sono speciali in tutte le operazioni di calcolo, pensa alla prova del 9, ad esempio … ma, ancora più importante è che il 9, aggiunto o sottratto ad un altro numero, non ne varia la somma delle cifre che lo compongono -
  • 16. − Troppo complicato. Cosa vuol dire? Come fa il nove a non variare la sostanza degli altri numeri? - − Dimmi un numero! - Eleuterio sparò il primo numero che gli venne in mente. − 5768! - − Accidenti, che velocità! … bene! 5768 … dunque 5 + 7 + 6 + 8 fa … 26 e 26 è formato da 2 + 6, cioè 8. Ora aggiungici 9! - − Dunque, 5768 + 9 fa … 5777! - − Giusto! 5 + 7+ 7+ 7 quanto fa? - − … 26, no! - − Esatto! E ora, prova a togliere 9 da 5768 - − Mhm! Allora, 5759 … no! Di nuovo 26? - Da quel giorno Eleuterio prese confidenza con i numeri al punto tale che, in tutti gli anni scolastici che seguirono, la matematica divenne la materia dove aveva sempre i voti più alti. Nell'estate del 1934, Donatello Leofulla portò un quadro a casa contenente solo numeri in un ordine sempre crescente ma con una logica che sfuggiva ad Eleuterio. − Perché questi numeri a caso, papà? - − Non sono a caso … - rispose il padre mentre sistemava meglio il quadro sul chiodo. − No? … e dov'è la logica? - − È proprio quello che dovrai scoprire - − Mhm! Aspetta, vediamo un po' … 1, 1, 2, 3, 5, 8, 13, 21, 34, 55, 89, 144, 233, … no, non capisco la logica -. Ci mise tre giorni ma, alla fine, capì. Fu così che Eleuterio conobbe la famigerata “Sequenza Fibonacci”. Eleuterio era figlio unico in una famiglia stravagante. La madre era una donna dolcissima ma con un temperamento molto forte e, all'occorrenza, sapeva tirar fuori le unghie. Il padre viveva di filastrocche (ne conosceva a bizzeffe e, talvolta, ne inventava di proprio pugno) e indovinelli . La cosa che lo rendeva “unico”, per un papà di quei tempi, era che dedicava molto tempo a giocare col figlio. Il loro gioco preferito era la guerra tra il cavaliere Dorato e il divoratore di sogni che, a dirla tutta, era un semplice “nascondino”. Un giorno, papà Donatello entrò in casa e prese Eleuterio per mano. − Vieni con me! - Fu l'unica cosa che disse.
  • 17. Quando uscirono di casa, Eleuterio vide un puledro bellissimo, tutto nero. Era legato dietro ad un carretto trainato da due asinelli. − Che bello, papà, di chi è? - Disse Terio, indicando l'equino. − Nostro! Si chiama Incubo - − Nostro? Perché l'hai chiamato Incubo? - A Terio, intanto, gli si illuminavano gli occhi alla vista del bel puledro nero. − Perché un incubo fa paura e se cavalcherai la paura non avrai nulla da temere -. Intanto, il signor Leofulla aveva messo il figlio a cassetta e gli si era seduto di fianco. − Allora, lo posso cavalcare? - Il bambino si sentiva già in groppa al suo destriero. − No, è troppo giovane -. Il padre gli spense provvisoriamente l'entusiasmo. − La sua mamma? Non è che … - Chiese preoccupato, Eleuterio. − Sta bene, tranquillo! Si fida di noi … ce l'ha affidato e noi, ce ne prenderemo cura. Vero? - − Verissimo! … allora, dove andiamo? - chiese il bambino. − Vedrai? -. Dopo meno di mezz'ora, padre e figlio si trovavano sulla collina che sovrastava Policarno. Lì, per la prima volta in vita sua, Eleuterio vide da vicino il “Castello”, una costruzione medioevale che, quando non c'era ancora il paese, era il baluardo in difesa di tutta la zona circostante. Pare che Policarno fosse nata sotto il castello proprio per la protezione che questo offriva. − Papà, è bellissimo - − Vieni, andiamo a visitarlo -. Dopo un'ora di visita guidata tra le macerie di quell'antica fortezza, Terio conosceva tutta l'architettura del maniero e la sua storia. A quel punto, furono di nuovo a cassetta del loro carretto. Il padre non accennava a partire. Eleuterio chiese: − Cosa c'è, papà? - − Voglio che tu mi faccia una promessa - − ! - − Se un giorno tu dovessi diventare molto ricco, mi prometti che comprerai questo castello, lo rimetterai a nuovo e ci abiterai? - − Perché? -
  • 18. − Ehm! … non so, … cioè … non ti piacerebbe vivere in un castello? - − Si ma … non è che ci sono i fantasmi? - − Non preoccuparti, non ce ne sono, … me lo prometti allora? - − … si! Papà, te lo prometto … ma dovrei diventare ricchissimo per comprare un castello - − Lo so e … penso che, un giorno, ci riuscirai, … io te lo auguro! - − E così sia! - − Promesso? - − Promesso! - Solo ora che aveva ottenuto la promessa dal figlio, Donatello Leofulla spronò le redini e fece ritorno in paese. Negli anni trenta, non c'erano molte occasioni per divertirsi, se guardiamo quell'epoca con gli occhi dei nostri tempi, qualunque essi siano ma, se fossimo vissuti a quei tempi, tutto sembrava pensato allo scopo di svagare le comunità. Il calendario cominciava a capodanno e, a parte tutte le feste religiose e la festa dei santi patroni, che erano tre, aveva la festa di primavera, la festa del miele, la festa d'estate, la sagra del pomodoro e la festa del vino. Quasi una festa al mese con relativo mese di preparazione per ognuna di esse. Il 1935 fu l'ultimo anno di scuole elementari da parte di Eleuterio e Compagni. La maestra, la signorina Carli, fece riunire tutti gli alunni nel cortile della scuola per la foto ricordo. Il cortile era, in verità, un angolo della piazza del Forno Vecchio. I parenti erano stati avvisati la settimana precedente e, quel giorno, tutti i ragazzi s'erano presentati a scuola coi capelli tagliati e in ordine, il grembiule stirato e apprettato, le scarpe lucide e, tra le femminucce, luccicava qualche collana o orecchino. Il fotografo era il papà di uno dei bambini. Era il più bravo di Policarno, era l'unico. Faceva caldo ed era una tortura stare fermi sotto il sole in attesa del lungo tempo d'esposizione della vecchia apparecchiatura fotografica del signor Abete. L'abete si sa, è un albero e, vuoi il suo cognome, vuoi l'immobilità forzata a guardare nell'obiettivo, i ragazzi e la maestra Carli si gustarono tutta la scena.
  • 19. Un cane randagio, attirato dalla scena insolita di tanti umani fermi, s'avvicinò all'ignaro fotografo, gli girò intorno un paio di volte poi, gli si accostò, alzò la gamba e … Se esiste ancora l'archivio fotografico del 1935 della scuola elementare di Policarno, si troverà l'unica foto ricordo collettiva dove si vede un'intera scolaresca, compresa l'insegnante e la fiduciaria, che stanno ridendo a crepapelle.
  • 20. III A settembre del 1936, Eleuterio cominciò il ginnasio. Policarno non offriva che una scuola elementare per cui, a Terio toccava andare in città per continuare gli studi. La mamma, tramite il giovane parroco, don Fulgenzio, 38 anni, aveva trovato un ginnasio della Curia Arcivescovile, con dormitorio annesso, il tutto ad un prezzo molto ragionevole. Certo, la lontananza dal ragazzo sarebbe stata dura per i Leofulla ma l'istruzione era una cosa alla quale non volevano rinunciare. Il giorno prima della partenza, Donatello Leofulla chiamò il figlio dalla soffitta di casa. Le case, a quei tempi, avevano ambienti alti più di cinque metri. Nella stanza di Eleuterio, prima che questi nascesse, il padre aveva costruito un soppalco a sparizione ossia un ambiente al quale s'accedeva da una botola sotto il soffitto. La botola era ben dissimulata perché seguiva perfettamente la linea del sottotetto che, a sua volta, era stato dipinto a quadrati della dimensione della botola stessa cosicché questa non fosse distinguibile. − Vieni su, figliolo! – Gridò Donatello. Eleuterio rimase basito perché, fino a quel momento, gli era stato sempre vietato l'accesso alla soffitta. Non ci pensò due volte, si precipitò. − Eccomi! - Si trovò in una stanza con la stessa quadratura della sua ma col soffitto più basso. La stanza era illuminata da una lampadina. Era molto ordinata malgrado vi fossero accatastate parecchie cianfrusaglie. Il padre era accovacciato davanti a un baule. − Vieni a vedere, figliolo ... - Nel baule aperto c'erano molte lettere, documenti e cartoline ma, ciò che attirò la curiosità di Terio fu una custodia di pelle nera rigida con bordini damascati rossi ed un coperchio recante un simbolo che raffigurava una nuvola dentro la quale s'incrociavano due spade. − Cos'è, papà? - − Questa è la spada dei Leofulla. Me la diede mio padre e suo padre la diede al lui e il padre di suo padre … insomma ce l'abbiamo da sempre – Così dicendo, aprì la custodia. La spada all'interno era meravigliosa, la lama era talmente lucida che ci si poteva specchiare, aveva un filo d'azzurro che l'attraversava tutta.
  • 21. L'elsa piatta era dorata e, all'impugnatura, recava lo stesso simbolo che c'era sulla custodia. − Bellissima, sembra nuova ... – disse Eleuterio, in una sorta di estasi ammirativa. − Vero? … invece, pensa che, è vecchia di secoli. È una spada molto preziosa e, per nessuna ragione al mondo, la devi usare prima di essere adulto -. − Perché, allora, non hai aspettato che io fossi diventato adulto, per farmela vedere? - − Te l'ho fatta vedere perché tu ti ricordassi di essa qualora io, in futuro, possa essere impedito a consegnartela -. − Va bene, papà -. − Ora scendiamo. Diamo una mano a mamma a preparare la valigia per domani e la cena per stasera -. Quando si chiuse la porta alle sue spalle, spezzando definitivamente il cordone ombelicale con la propria infanzia, Eleuterio non abbandonava soltanto papà Donatello e mamma Bianca ma anche Francesco, Rosa, Angelo, Aida, Augusto, Caterina, nonna Nicolina, la signorina Carli e … la spensieratezza. Il primo impatto fu traumatico, avrebbe voluto scappare via subito dopo che era entrato. Era intimorito dagli stanzoni e gli alti soffitti a volta, l'odore d'incenso misto con sapone di Marsiglia, il silenzio che amplificava il rumore dei suoi passi. Mancavano due minuti a mezzogiorno quando suor Domenica aveva finito di aiutarlo a sistemare le sue cose nel proprio armadietto in una stanza da quattro letti. Gli altri tre letti erano, sicuramente, occupati. Lo si evinceva dagli effetti personali posti sui comodini ma gli occupanti non c'erano. Dov'erano? − Andiamo! - disse suor Domenica, con voce perentoria. − Dove? - chiese, timidamente, Eleuterio. − A mensa, è quasi mezzogiorno. Non hai fame? - − Ora che ci penso … - In quel momento suonò una campanella e un rumore assordante di urla spazzò via il silenzio, poi una vibrazione, pari all'avvicinarsi di una mandria di bisonti, fu avvertita dalle sue piante dei piedi. Suor Domenica disse: − Corri! - e cominciò a correre ella stessa.
  • 22. Terio la seguì. Mentre correva, non riusciva ad immaginare quale terribile cosa inducesse una suora a scappare a gambe levate. C'erano dei tori impazziti che correvano nei corridoi? Dei giganti tipo il Trorco? Un esercito di mostri? Entrarono in uno stanzone con sette tavoli paralleli abbastanza lunghi da poter contenere cinquanta posti a sedere e furono investiti dal pungente odore di minestra di verdure. Arrivata a capotavola del più interno dei sette tavoli, suor Domenica prese posto e fece sedere Eleuterio accanto a sé. Solo allora, spiegò al ragazzino il motivo della corsa. Col viso rubizzo e col fiatone riuscì a dire: − I posti migliori -. “Forse non starò tanto male qui” penso Eleuterio. Non stette male, anzi, l'ambiente era sereno. Il fatto che il ginnasio appartenesse alla chiesa, fosse servito dalle suore, diretto dalla curia arcivescovile e, praticamente, di proprietà del Vaticano, lo tutelava dalle ingerenze del fascismo. Lo studio delle materie umanistiche era interessante perché, pur essendo, di estrazione cattolica, l'istituto trattava solo gli scritti delle menti più brillanti della letteratura e della filosofia, evitando gli scritti da parte di menti ottuse da esaltazioni mistiche. Terio, però, fin da piccolo aveva avuto sempre una gran passione per la chimica. Studiava le formule, gli intrugli, gli elementi della natura. Per sua fortuna, la scienza non era bandita dal ginnasio, purché non mettesse in dubbio l'esistenza di Dio. I suoi voti erano eccellenti, anche se, di tanto in tanto combinava dei disastri in laboratorio; fuori dell’orario delle lezioni vi s’intrufolava e tentava qualche esperimento piuttosto pericoloso, … come dire … esplosivo … e l’esplosione avveniva puntualmente. Se non fosse stato per i suoi voti eccellenti, avrebbe rischiato l'espulsione ma, in un modo o nell’altro, i professori, intuendo le sue potenzialità, intercedevano con il rettore ed il perdono era assicurato. Gli era concesso di ritornare a casa solo per le vacanze di Natale, Pasqua e dal 20 giugno al 20 agosto. Ogni qual volta tornava a casa, gli sembrava di ritrovare i propri genitori sempre un po’ più invecchiati.
  • 23. Nell'agosto del 1938 che gli accadde una cosa a cui non volle dar peso ma che lo sconvolse intimamente. Aveva 13 anni e stava giocando a nascondino con Francesco Carlesi, Angelo Abete, Augusto Morelli e Robertino Bieri nelle terre alle spalle della chiesa di don Fulgenzio. Gli alberi, in quella zona, si estendevano fino alle montagne a nord e fino alla strada provinciale ad est ed offrivano parecchi nascondigli. Quando si è adolescenti, si portano agli estremi i propri limiti, le proprie forze, le proprie paure. Terio decise di prendere la strada che andava ad ovest. Era la meno probabile da prendere perché non portava a nulla, finiva su uno sterrato che univa il monte alla zona del “Bar Collo” un bar malfamato. Sapeva che, da lì, poteva fare un'ottima sortita e fiondarsi sull'albero del “Tana! Libera tutti!” fregando Augusto che era alla conta. Mentre aspettava che Augusto s'allontanasse abbastanza dall'albero per consentirgli la sortita, una mano s'appoggiò sulla sua spalla. Gridò dallo spavento ma Augusto non lo sentì. Una voce bassa e roca alle sue spalle disse: − Shhh! Non avere paura Eleuterio Leofulla – Lui si girò e vide un signore che non aveva mai visto prima. Aveva un vestito giallo … oro. − Chi … siete? - Chiese intimorito, sebbene il sorriso dolce dell'uomo, non gli incuteva paura. − Non mi conosci ma io conosco te -. − Perché? - − Sono un amico del tuo papà -. − Papà? - − Si, … e ho solo da darti un messaggio per lui -. − Perché non glie lo date voi? - − Quante domande fai, ragazzino! … però … belle domande … vabbé! … diciamo così … mi è più facile trovare te che lui e poi, … tra un po' dovrò combattere -. − Combattere? Contro chi? - − Basta con le domande … piuttosto, dì a tuo padre che un uomo vestito d'oro gli ha mandato la “Garanzia per il futuro” - − Non capisco … - − Non devi capire, devi solo portare il mio messaggio a tuo padre. Lo farai? -
  • 24. − Si! Gli dirò che un uomo vestito d'oro, che non mi ha detto il suo nome, gli ha mandato la “Garanzia per il futuro”- − Bravo! Non posso dirti il mio nome perché ora devo combattere -. − Ma con chi? - − Col Trorco - − Il Trorco? Come fate a … - In quel momento, con un urlo, comparve il Trorco, il suo incubo infantile, da dietro un albero e afferrò l'uomo per le spalle. Terio si sentì ondeggiare, come se si muovesse tutto il mondo, come un terremoto. Sentiva una voce che gridava “Terio, svegliati!” e … si svegliò. Francesco Carlesi gli disse. − Ci hai fatto spaventare tutti. Ma ti pare il modo di addormentarti durante un nascondino? - Quella sera, a cena, mangiarono una minestrina. Papà Donatello adorava la minestra e stava affrontando il proprio piatto con avidità. Mamma Bianca vide che Eleuterio non aveva cominciato nemmeno a mangiare, allora disse: − Tutto bene, Terio? Ti vedo stranamente silenzioso … e non hai ancora toccato la tua minestra -. − Scusami mamma. Stavo pensando a una strana cosa che m'è successa oggi -. − Racconta – disse lei. − Ancora non riesco a capire. Mentre stavamo giocando a nascondino nel campo dietro la chiesa … ecco … devo essermi addormentato -. In quel momento, Donatello lasciò cadere il cucchiaio sul bordo del piatto e, dimenticandosi totalmente della pietanza che aveva dinnanzi, chiese: − Dimmi tutto. Hai, per caso, sognato? - Eleuterio lesse ansia nella voce del padre e non ne capiva la ragione. Rispose. − Si, papà. È stato Francesco a svegliarmi. Non preoccuparti, non è successo niente. Mi è sembrato strano il fatto di addormentarmi durante un gioco -. − Cos'hai sognato? - chiese la mamma. Terio era basito. Non riusciva a capire le domande dei suoi genitori. Ad ogni modo, non gli restava altro da fare che rispondere.
  • 25. − Ho sognato un uomo tutto vestito di giallo che … ecco! Mi ha lasciato un messaggio per te – I genitori si scambiarono uno sguardo carico d'intesa. − Dimmi il messaggio – disse Donatello. − Ma era solo un so... e va bene! Questo signore mi ha detto di dirti che l'uomo vestito d'oro ti ha mandato la garanzia per il futuro … - Papà Leofulla s'alzò dal tavolo e andò nella stanza di Terio. Terio lo sentì trafficare con uno sgabello … stava andando in soffitta? A quell'ora? A fare cosa? Dopo cinque minuti, il signor Donatello ridiscese dalla soffitta e tornò a tavola a mangiare … non prima di aver sorriso alla moglie strizzandole un occhio. − Insomma, volete dirmi cosa succede? - sbottò Terio. − Niente, perché? - chiese il padre. − Tutto questo mistero, il sogno, tu che vai in soffitta -. − Ah, ah, ah, non c'è nessun mistero. Tu hai fatto un sogno ed io sono andato a … mettere una cosa in soffitta - − Cosa? - − Ragazzino! Basta con le domande -.
  • 26. IV Il quarto ginnasio, cominciò nell'ultima settimana di agosto del 1939. Dopo una settimana … il 1 settembre … Eleuterio era a mensa con i suoi compagni di studi. La qualità del cibo stava diventando sempre più scadente. Dicevano che era perché la politica espansionistica di Benito Mussolini chiedeva sacrifici alle tasche degli italiani. Nessuno ci credeva alla storia delle ristrettezze. Quel giorno erano tutti a mensa quando vi si presentò il rettore in persona. Il rettore non era mai apparso in mensa prima d’allora, egli aveva una saletta privata al piano superiore dove si faceva portare il cibo. Pare che le pietanze del rettore non provenissero nemmeno dalla stessa mensa degli studenti. In quella zona, di tanto in tanto, sparivano intere famiglie di gatti randagi e, puntualmente, il giorno seguente … in mensa si mangiava carne di coniglio alla cacciatora. Quel giorno il preside suonò la campanella per attirare l'attenzione su di sé e, quando ci fu il totale silenzio, disse: − Cari ragazzi! Ho purtroppo una cattiva notizia per tutti voi. Da questo momento, tutte le lezioni sono sospese -. Vi fu qualche alunno che non riuscì a trattenersi dal gridare “Hurrà!” salvo poi essere zittito da un’occhiataccia del rettore stesso che continuò: − L’istituto è costretto ad interrompere il proprio compito educativo fino a data incerta perché una terribile tragedia, da poche ore, sta sconvolgendo tutto il mondo … - Dopo una pausa teatrale concluse: − Cinque minuti fa, la radio ha annunciato che … è scoppiata la GUERRA! -. Dopo un attimo di silenzio vi fu un fuggi fuggi di tutti gli studenti verso le proprie stanze, sordi al “mantenete la calma!” del rettore e delle suore. Eleuterio corse più degli altri alla ricerca di un telefono per chiamare casa e, quindi, fu uno dei primi a scoprire che tutte le linee telefoniche erano interrotte. Era scoppiata la guerra, era scoppiata quel 1 settembre del 1939 ma se fosse scoppiata un altro giorno, non sarebbe stata diversa. Dalla direzione scolastica, fu dato ordine che tutti gli studenti facessero ritorno nella loro camera e preparassero le valigie per fare ritorno alle rispettive case.
  • 27. I loro genitori sarebbero stati contattati appena avessero ripristinato le linee telefoniche. Mentre era nel corridoio, suor Domenica lo chiamò. − Teriuccio! vieni qua ... vieni, … che c'è una sorpresa per te - − Sorpresa? Oggi? E chi … mamma! Papà! - Donatello e Bianca Leofulla corsero ad abbracciare il loro ragazzo. − Cosa ci fate qua? Avete saputo che … ? - − È proprio per questo che siamo venuti – disse la mamma. − Un momento! … - fece Terio - … ma, se la guerra è stata annunciata meno di mezz'ora fa, … come fate ad essere già qui? - − Tuo padre! - si lasciò scappare la madre. Si vedeva che, un'attimo dopo aver parlato, Bianca s'era pentita d'essersi fatta scappare questa frase ma, oramai era fatta, il padre continuò laddove sua moglie s'era interrotta. − Una premonizione. Stanotte mi è successo di fare un sogno che mi ha sconvolto tantissimo. Non ricordo cos'ho sognato ma, al risveglio, ero così preoccupato che ho detto a tua madre che mi sarei sentito molto meglio se t'avessi potuto vedere oggi per cui, visto che era venerdì, abbiamo chiuso tutto e siamo venuti a trovarti - − Ma … scusa … il venerdì, … l'ufficio postale … - la mamma lo interruppe. − Basta così, va a preparare le tue cose. Vorremmo essere a casa prima che faccia buio -. La sera del 1 di settembre del 1939 Eleuterio tornò a Policarno. Nei successivi due anni Eleuterio visse un periodo felice malgrado la guerra. A Policarno, un paese che viveva dei propri raccolti e del proprio allevamento, un paese fuori dalle rotte aeree, lontano dalla ferrovia e privo di qualsiasi collegamento coi centri strategici, la guerra sembrava un affare che riguardava altri mondi. In fondo il cibo non mancava e, sebbene, si avvertisse che, fuori dai confini del paesino, c'era l'inferno che dava il peggio di sé, le uniche cose a cui i policarnesi rinunciarono furono le feste paesane. Tutta la generazione del 1925, ora che eravamo arrivati al 1941, non poteva immaginare di aver raggiunto un'età arruolabile in periodo di conflitti.
  • 28. Un giorno di ottobre, entrò in paese una Jeep dell'esercito italiano. La Jeep era seguita da un camion militare, da un'automobile nera, da una camionetta blindata e da quattro motociclette. La signora Nicolina era su via XX settembre quando la Jeep le si accostò e il passeggero di questa vettura la chiese: − Buona donna, sapete dov'è la chiesa? - La signora Fiorenza lo squadrò da capo a piedi. Capì che si trattava di un rappresentante della milizia fascista in virtù del portamento altezzoso e del vestiario monocromatico nero e decise che non era il caso di prenderlo in giro ... − Proprio alla vostra destra, generale! - … ma era più forte di lei. Non resisteva all'allettante prospettiva di prendere in giro un esaltato fascista. − Non sono un generale! - disse l'uomo, mal celando il proprio piacere nel sentirsi elevato di grado. − Scusate signore! -. − Scuse accettate, nonnina e … il municipio? Dov'è la sede comunale? - − Da quest'altra parte. In fondo a questa strada c'è una piazza e lì c'è il municipio, signor capitano … -. L'aveva degradato. − Non sono nemmeno capitano … -. Stavolta il balilla era arrabbiato del degradamento. − Ah no? Nemmeno? … e perché indossate questa divisa? - − Pe … perché sono un Quadrumviro della Milizia del Duce -. − Ah, … peccato! - − Come vi permettete? È un grande onore, per ogni buon italiano, poter fare parte di … - Nicolina Fiorenza lo interruppe. − Scusatemi ancora, signor Quadrato della Malizia del Duce ma voi siete un uomo importante e intelligente e, come avrete compreso, io non le capisco queste cose, del resto, sono solo una nonnina ignorante -. Dopo mezz'ora, cominciarono a suonare le campane della chiesa di don Fulgenzio. Quando smisero di suonare, era stata adunata tutta la popolazione di Policarno (circa ottocento persone) nella piazza del Forno Vecchio. Dal balcone del municipio uscì il miliziano fascista. Accanto a lui c'era il sindaco Antonino Zappulla, due impiegati dell'ufficio demografico e sei militari dei quali, due reggevano una bandiera italiana a testa.
  • 29. − Italiani, cittadini … - Probabilmente, in vita sua, non avrebbe mai più potuto fare un discorso dal balcone, così come poteva permetterselo solo il Duce e, principiare con le parole “Italiani, cittadini … ” era la sua personale realizzazione di un sogno. Tutta Policarno era radunata in piazza. Le campane della chiesa avevano fatto da richiamo ma, arrivati sul sagrato, i policarnesi venivano indirizzati alla piazza del Forno Vecchio. Il quadrumviro proseguì: − … il nostro grande paese è in guerra e noi tutti abbiamo il dovere di fare sacrifici per la patria. La guerra comporta dei costi molto alti ma il Duce ha fiducia nel patriottismo del popolo italico. Per affrontare i costi della guerra, occorre che tutti voi portiate, entro domani mattina, tutto l'oro che possedete. Servirà a rifornire i nostri combattenti di terra, di mare e di cielo, ad avere munizioni ed armi adeguate a vincere questa guerra - − Anche le fedi? - urlò una donna in prima fila. − Eh? … tutto! Tutto ciò che può aiutare i vostri uomini a vincere. La donna in prima fila disse: − Il mio uomo è morto d'infarto l'anno scorso. Di lui mi rimane solo questa fede … e poi, non ci sono mica gli uomini di Policarno al fronte -. − Il regime protegge le vedove. Signora! Se non volete che vostro marito sia morto invano, onorate la sua memoria dando il vostro oro … per quanto riguarda il servizio militare, ecco la lista dei nomi di coloro che sono stati arruolati: Decio Costa, Biagio Fiorini, Francesco Riccio, Roberto Bieri, Pasquale Grasso, … - La lista partì dai più grandi d'età fino ai più giovani. Si può soltanto immaginare il senso di smarrimento, che assalì i cittadini di Policarno, quando la lista degli arruolabili fu chiusa dai nomi di Francesco Carlesi e Eleuterio Leofulla. Angelo Abete non lo reclutarono per “ insufficienza polmonare”. Soffriva d'asma ma, i miliziani sospettarono che si trattasse di Tubercolosi e … questo bastò a non farlo partire. Nicolina Fiorenza perse i sensi, vi fu un coro di “Nooo!” e, in pochi minuti, la piazza fu vuota. Nei tre giorni successivi, l'attività in paese divenne frenetica. Il paese era blindato e non poterono esserci renitenti alla leva. Tanto l'oro quanto gli uomini, furono prelevati a forza dalle loro abitazioni
  • 30. In casa Leofulla, mamma Bianca non faceva altro che piangere. Piangeva mentre cucinava, mentre lavava gli abiti, mentre stirava, mentre lavava i piatti, mentre lavava i pavimenti e mentre dormiva. Anche papà Donatello era cupo ma cercava di dare coraggio alla moglie e a quel suo unico figlio che non riusciva ad immaginare combattente in guerra perché ancora bambino. La sera dell'ultimo giorno prima della partenza per il fronte, Donatello Leofulla chiamò Eleuterio. Era in salotto, seduto nella sua poltrona preferita. − Siediti, amore -. Terio prese posto sulla sedia di fronte al papà e chiese: − Dimmi, papà … - Donatello attaccò subito, come se avesse preparato (o temuto) da tempo, quella chiacchierata. − Noi non sappiamo cosa ci riserva il futuro eppure, malgrado questo, so che, quando questa atrocità della guerra sarà finita, tu non sarai morto -. Terio lo guardò con sospetto. Non voleva contraddirlo ma, la sicurezza del padre gli sembrava fuori luogo. − Come puoi saperlo, papà? Io ho tanta paura … - fu interrotto. − Non ne devi avere, fidati! - Quando il papà diceva “fidati”, Eleuterio sapeva che non aveva nulla da temere ma, come poteva, il padre, essere così certo che lui non sarebbe morto? − Non capisco! - disse. − Lo so! … e, per ora, non posso spiegartelo. Ciò che è importante è che, quando sarà finita la guerra, dovrai tornare a Policarno e venire in questa casa -. − E dove vuoi ch'io vada? - La confusione, per la nebulosità delle parole del padre, aumentava. − Non so dove potresti o vorresti andare, non posso saperlo ma, facciamo finta, ad esempio, che accada qualcosa a me e alla mamma … - Stavolta fu Eleuterio ad interromperlo. − Non dirlo neanche per scherzo, papà! - − Non scherzo. Ciò che voglio dirti è che, seppure mamma ed io, alla fine della guerra, non ci fossimo più, è importante che tu torni, almeno per un breve periodo, in questa casa -. − Perché dovrei tornare se tu e mamma … - − Lo so io! … - il tono perentorio del padre non ammetteva repliche e non dava spazio a domande - … e non posso dirtelo ora ma, al momento buono, troverò il modo di fartelo sapere … ora, prometti
  • 31. che tornerai a stare qui per un po', dopo la guerra? - Doveva essere davvero importante per il padre che Terio promettesse. − Va bene. Prometto! - Il papà si rilassò − Bene! So che manterrai la promessa. Ora, prendi queste cose e ricorda che andrai ad affrontare pericoli grandi quanto il Trorco di quand'eri bambino -. − Il Trorco? … ma te lo ricordi ancora? - − Sempre! - Con queste parole, il padre gli consegnò la copertina del disco di ceralacca del canone inverso di Bach e il quadro numerico della sequenza di Fibonacci.
  • 32. V Gli orrori della guerra sono la parte di questa storia che preferisco non raccontare. Ci sono libri, testimonianze, riprese e macerie che raccontano la superficie di un corpo (il mondo) che era divorato da un cancro interno (la guerra). Ci sono stati film che hanno provato a descrivere, con maggiore e minore successo, quel cancro. Quel cancro è l'unica cosa di cui non vi parlerò. Vi racconterò solo le cose strettamente legate alla famiglia Leofulla, quindi ... La VI brigata dell'esercito italiano era formata esclusivamente da policarnesi, comandati dal diciottenne sergente Eleuterio Leofulla. Il compito della VI brigata era quello di difendere una linea strategica di confine a sud di Cassino. Fino ad ottobre del 1943, il nemico degli italiani erano state le Nazioni Unite e, fino ad allora, la guerra era stata solo una eco lontana per la divisione Policarno. Improvvisamente, dopo quell'ottobre, colui ch'era stato l'alleato divenne il nemico e i nemici divennero alleati. Il problema consisteva nel fatto che, mentre i vecchi nemici abitavano lontano, i nuovi nemici, i tedeschi, erano i nostri vicini di casa, vicini che abitavano, già da un po', in casa nostra. Così, fino all'arrivo degli alleati e alla fine delle ostilità, gli italiani ebbero a che fare con reggimenti tedeschi che si ritiravano e che, non creandosi alcuno scrupolo, facevano terra bruciata dietro di loro. Poi c'era il fuoco amico (non per questo meno pericoloso) dei partigiani che, non avendo bisogno di darsi alla macchia, uscivano allo scoperto come un disorganizzato esercito che metteva a rischio anche le operazioni militari dell'esercito italiano. Infine c'erano gli alleati i quali non erano composti solo da militari regolari ma anche da galeotti e truppe dalle direttive morali molto discutibili. La guerra era diventata davvero pericolosa. Intanto, anche nel paese dove vivevano i genitori di Eleuterio, la guerra aveva già fatto sentire il proprio peso. Erano cominciati da subito i bombardamenti, poco dopo ottobre del '43. Le autorità avevano consigliato a tutte le famiglie di raccogliere le
  • 33. proprie cose, di abbandonare le case e di trovare asilo presso il più vicino rifugio antiaereo. In un primo momento, Donatello Leofulla sostenne che tutte queste precauzioni erano eccessive e, per una settimana circa, rimase in casa incurante delle bombe che cadevano non molto distante dalla loro abitazione. Un giorno, però, un'inequivocabile allarme, fece capire che le truppe nemiche stavano per invadere Policarno. Quel giorno, il 24 gennaio del 1944, Donatello disse a Bianca: − Credo sia il segnale nostro, amore -. − Come fai ad esserne certo? -. − Non lo sono ma, fino ad ora, non c'era stata la necessità di proteggere Eleuterio. Ora, la guerra è diventata molto più pericolosa -. − Donatello, ho paura! - − Anch'io! Non penserai che io sia abituato a morire -. − … sai in che modo accadrà? - − No! … so solo che accadrà e che, quando sarà il momento, … oh, cavolo! Avrei preferito essere da solo … se vuoi, puoi salvarti ... - − Ne abbiamo già parlato. Terio ha bisogno di tutti e due. Amore mio, io non ti abbandonerò mai -. − Ti amo! - − Ti amo! - Lui e sua moglie fecero in fretta i bagagli raccogliendo, in una valigia, pochi indumenti e, in una valigetta, pochi oggetti d'oro ed il necessario per l’igiene base. Tra le cose messe nella valigetta finirono una pietra di sapone, schiuma da barba, un rasoio, un rossetto, una crema per il viso, una scatolina di cipria ed il famoso spazzolino per le ciglia “acchiappa sogni”. Avevano impiegato più tempo del previsto a fare i bagagli perché quando uscirono dal portone del loro palazzo, in fondo alla strada si vedevano già avanzare le automobili, le motociclette ed i carri armati dell’esercito nemico. − Corri! - gridò il marito alla moglie. Lei cominciò a correre al suo fianco e disse: − Credi sia … - − Non … lo so ... ma, … corri! - rispose affannando.
  • 34. Correvano quel 24 gennaio del 1944, correvano lungo la piazza del Forno Vecchio. Cercavano di raggiungere la strada che portava giù, a monte. Si tenevano per mano e, per mano rimasero anche quando una raffica di mitragliatrice staccò le anime dai loro corpi perché continuassero la propria corsa fino in cielo. Un ufficiale nemico raccolse da terra la valigia e la valigetta e le caricò sulla sua jeep proseguendo per la sua strada e, lasciando a terra i corpi senza vita di Donatello Leofulla e Bianca De Luca. 25 gennaio 1944, linea di demarcazione in un luogo imprecisato del nord dell'Italia, ore 02,00. Eleuterio stava dormendo. Aveva fatto il primo turno di guardia. Sebbene, in quanto sergente, poteva essere esonerato dai turni di guardia, amava comandare il proprio reparto con l'esempio. Non si tirava mai indietro per qualsiasi mansione, anche la più umile. Sapeva che l'esempio vale più di un milione di parole. Mentre dormiva, sentì l'odore delle Fresie, l'odore dell'acqua di colonia che usava sua madre. Gli sembrò di trovarsi nel proprio letto, al sicuro, a casa. − Ciao, tesoro di mamma! - Mamma Bianca era accovacciata accanto al giaciglio di fortuna di Eleuterio. Il suo reparto era accampato nel bosco che si trovava sulla linea di confine tra le forze in guerra, in una vallata poco distante dagli appennini. − Mamma! Cosa ci fai qua? È pericoloso! - Terio saltò su, a sedere. − Shhh! Vuoi che si sveglino i tuoi commilitoni? … No, scherzo! Non si sveglieranno perché stai sognando -. − Sognando? … ma sembra tutto così … vero … - − Hai ragione, non è un sogno normale, mamma mia! Come sei sciupato, … sono qui per metterti in guardia! - Mentre diceva queste parole, l'accarezzava e gli aggiustava i capelli. − In guardia? … e, da cosa? - − Domani, quando attraverserete la bassa collina che taglia la montagna spaccata … - − Come fai a sapere cosa dobbiamo fare domani? … e poi, a quale montagna ti riferisci? - − Eh, quante domande! Non preoccuparti, riconoscerai la montagna spaccata quando la vedrai … beh! Lì vi tenderanno un agguato! C'è un reparto della retroguardia tedesca che deve raggiungere il grosso delle truppe a nord. Vi vedranno da lontano e
  • 35. s'apposteranno ai lati della montagna spaccata per tendervi un agguato nel quale sareste morti tutti, … se non t'avessi avvisato -. Terio afferrò le mani della madre e disse: − Questo sogno è troppo reale. Sento le tue mani al tatto, l'aria fredda sulla pelle, il tuo profumo alle fresie - − Bello, vero? … comunque … te l'ho detto! Questo non è un sogno normale -. Eleuterio guardava la mamma con un misto di fiducia e perplessità, gli stessi sentimenti di quand'era bambino, poi chiese: − Dov'è papà? - − Eccomi! - Donatello uscì dal buio che era alle spalle di sua moglie. Lei lo guardò e chiese: − Fatto? - Lui guardò in direzione di un punto imprecisato alle proprie spalle, poi rispose. − Fatto! … almeno quanto basta … - poi, rivolgendosi a Terio - … ciao, amore mio – Terio corse ad abbracciarlo. Anche il padre era consistente. La madre li raggiunse nell'abbraccio e stettero così fermi per qualche secondo. Eleuterio, infine, si staccò dall'abbraccio e chiese: − Papà! … ma, insomma! Mi spiegate cosa sta accadendo? Mamma è cosi strana, … ermetica … - − Cosa gli hai detto finora? - Chiese Donatello a sua moglie. − Tutto ciò che riguarda l'agguato -. Lui rimase sovrappensiero per qualche istante, infine ... − Bene! … e … nient'altro? - − No! - − Tocca a me dirlo? - − Io non ce la faccio. Se non lo dico, è un po' come se non fosse accaduto -. − La smettete! Volete dirmi cosa … - Il padre lo interruppe. − Siamo morti! - − COSA? - Urlò Terio. − Donatello! … e che modi? - esclamò Bianca. − Hai ragione Bianca ma, potevo dirlo solo così, tutto d'un fiato, altrimenti non ne avrei avuto il coraggio manco io … – A quel punto, l'interruppe il giovane. − Come sarebbe a dire, “siamo morti”? - − Ascolta, figliolo, … la guerra è diventata molto pericolosa. A Policarno ci sono stati i tedeschi. Hanno ucciso, rubato, profanato
  • 36. … noi siamo stati uccisi alle spalle da una mitragliatrice ma! … non ti preoccupare, lo sapevamo da tempo … - Terio pensò “È sicuramente un sogno!” … l'idea, che i genitori fossero realmente morti, non la voleva prendere minimamente in considerazione. − Cos'è che sapevate da tempo? - chiese Eleuterio. − Che per poterti proteggere dal rischio di morire in guerra, dovevamo entrarti nei tuoi sogni, attraverso il mondo dei sogni … mi fai luce, ragazzo? - − Cosa? … ah! - Il ragazzo accese una torcia. − Puntala a terra, davanti ai tuoi piedi … ecco … - Donatello disegnò una croce, poi disse: − La linea orizzontale è il crinale della montagna spaccata, da ovest ad est. Quella verticale è la strada che l'attraversa da nord a sud. Tu, e la tua divisione, vi state dirigendo a nord e, quindi, taglierete la montagna in questo punto. Per aggirare i tedeschi senza sparare un solo colpo devi deviare ad est, verso gli appennini. Lì c'è un ruscello, devi arrivare alla sorgente e scendere dall'altra parte. In questo modo, non incontrerete un solo tedesco - − Ma come fai a sapere tutte queste cose? - − Beh! Facile, sono un sogno premonitore! Ah! Ah! Ah! … scherzi a parte, … ad est hanno lasciato il grosso delle armi con soli quattro soldati a guardia. Domani saranno troppo stanchi per opporre resistenza. Se saprete essere sufficientemente silenziosi, riuscirete a disarmarli e a fregargli un carro armato, un camion carico di armi e munizioni e due Jeep - − Adesso, però, mi devi spiegare come fai a sapere che i soldati di guardia saranno troppo stanchi, domani? - − Sono stato stanotte da loro e … ehm! … gli ho fatto credere di essere un fantasma! - − Stanotte? … ma, stanotte sei qui con me -. − Non ti sfugge niente eh? Se appartieni al mondo dei sogni, puoi fare l'inimmaginabile … Bianca, hai visto? - − Si! - Una lacrima attraversò il viso della madre. Terio si preoccupò e chiese: − Cosa succede, perché piangi, mamma? - − Ho visto il tuo futuro … - − Mi accadrà qualcosa di brutto? - − No … - disse il papà - … tutt'altro -. S'aggiunse Bianca.
  • 37. − Ora sappiamo che uscirai vivo da questa guerra -. − Se non t'avessimo avvisato … non mi ci far pensare -. Continuò il padre. Terio chiese: − Se sapete che mi salverò, perché piangete? - − Perché non saremo lì quando tornerai … - disse la mamma. − Sergente, sergente, sveglia! - Era giorno, solo in quel momento, nel gesto di aprire gli occhi, Terio s'accorse che li aveva chiusi. “Aveva sognato tutto?” … eppure, … sembrava così reale quel sogno. Il sergente Leofulla s'alzò dal proprio giaciglio e cominciò ad impartire ordini. − Grasso, cancella le tracce dei fuochi! - − Agli ordini, sergente! - − Costa, carica i muli! - Decio Costa fece un cenno con la testa. − Carlesi, tu … chi ha fatto questi segni sul terreno? - − Quali segni, Terio … Ohps! Sergente? - chiese Carlesi. Il sergente Eleuterio Leofulla indicò una croce segnata a terra e un semicerchio che univa le due punte di una delle due linee perpendicolari. Era il disegno che aveva fatto suo padre. Possibile? Questo significava che per davvero dovevano evitare i tedeschi all'altezza della montagna spaccata … ma … significava pure che … i suoi genitori erano morti?
  • 38. VI Dopo aver messo a soqquadro l’intera città e dopo aver fatto prigionieri i pochi superstiti, l’esercito nemico prese possesso della sede comunale in piazza del Forno Vecchio e v’installò lì il proprio quartier generale. Furono consegnati tutti i beni delle vittime nella stanza nominata “bottini di guerra” che era, per mancanza di spazio, anche il luogo dove il medico delle truppe aveva insediato il proprio ambulatorio. I soldati tedeschi avevano battezzato, ironicamente, quel posto col nome di “Ambulatorio dei bottini”. Il medico, dott. Carl Hausenmazzof era laureato in medicina, in biologia ed in chimica ma in giro si mormorava che lo stress da studio gli avesse messo fuori posto qualche rotella. In tempo di pace, s'era rivelato un personaggio scomodo, nessuno lo voleva nel proprio ospedale e, se non fosse stato fratello di un importante politico, già da tempo sarebbe stato radiato dall’albo dei medici. La sua fortuna fu lo scoppio della guerra e in tempo di guerra, si sa, non si può guardare troppo per il sottile. Grazie a suo fratello che, intanto, era entrato a far parte del terzo Reich, non fu rinchiuso in una clinica per matti, gli fu lasciata libertà di azione con l’unica condizione che partisse con l’esercito per il fronte di guerra. Fu arruolato probabilmente con la speranza che, alla fine, si sarebbe fatto ammazzare. Malgrado la sua follia, lui odiava la guerra. Non la odiava per l'enorme contributo di vittime che la guerra esigeva, no! … non lo riguardava, ... ma perché considerava la guerra un’enorme perdita di tempo, tempo tolto ai suoi esperimenti. Quel 26 gennaio del 1944 si stava molto stretti nel “Ambulatorio dei bottini”. La quantità di beni sequestrati aveva reso quella stanza del comune come un'enorme discarica che ruotava intorno ad una grande scrivania. Hausenmazzof stava facendo esperimenti con alcune sostanze chimiche che, aveva scoperto, erano capaci di dare energie ausiliari anche ad un individuo particolarmente stanco. Si trattava di neurotrasmettitori eccitanti sintetici.
  • 39. Intanto, sbuffava perché costretto a dividere il proprio ambiente di lavoro con tutti i soldati che, in giro per Policarno, avevano depredato i pochi averi che il fascismo aveva risparmiato ai paesani. Fu un soldato maldestro che, in quel momento, svuotò il contenuto di una valigetta sul grosso tavolo dove il dottor Hausenmazzof aveva messo una bacinella con la soluzione chimica di sua invenzione. Tutto il contenuto della valigetta si riversò sul tavolo tranne lo spazzolino per le ciglia di Donatello Leofulla che, dopo un paio di rimbalzi, cadde nella bacinella. − Fuori di qui! - gridò il dottore, furioso. Il soldato gli rivolse un’occhiataccia. Non aveva rispetto per quel dottore matto ma, in fondo, gli conveniva evitare attriti col comando per cui, senza dire una parola, lasciò la valigetta sul tavolo e uscì dalla stanza. Il dottore, imprecando, raccolse lo spazzolino da dentro la bacinella con un paio di pinzette. Nel compiere questa azione, il dottor Hausenmazzof chinò lo sguardo e quello che vide lo lasciò a bocca aperta. Gli sembrava di guardare un film al cinematografo ma, a colori. Vedeva un volto sorridente di donna, poi l’immagine svaniva e compariva un bambino che volava, volava, volava e … precipitava, poi … puff! Le immagini sparirono, allora il dottore agitò di nuovo lo spazzolino sulla superficie del liquido nella bacinella e stavolta vide una spiaggia enorme ed un bel mare blu, bellissimo! … finché non comparve un enorme squalo che uscì dall’acqua, aprì la bocca e … puff! Tutto sparito! Il dottore mise controluce lo spazzolino per ciglia con l'intento di provare a capire cosa avesse di così particolare da generare quelle immagini e vide una piccola sostanza gelatinosa sui peli posti all’estremità dell’utensile. Provò ad agitare la soluzione chimica, presente nella bacinella, usando un cucchiaio d'argento che era sulla grande scrivania … niente. Allora decise di utilizzare un pettine per smuovere quel liquido … niente. Riprovò con lo spazzolino per le ciglia e vide un cavaliere in un'armatura d'oro e poi, una specie di Troll che veniva inseguito da un bambino … puff! Tutto sparito! Aprì la valigetta dalla quale era caduto lo spazzolino . All'interno c'era scritto un nome “Leofulla”. Il professore cercò all'interno della valigia. Trovò un rasoio. Provò con quello … niente.
  • 40. Voleva provare ancora con lo spazzolino per le ciglia ma un rumore alle sue spalle, altri soldati che entravano nel “Ambulatorio dei bottini”, lo fece desistere. Decise che quello non era il posto migliore per condurre i propri esperimenti quindi, prese una bustina di plastica e vi mise dentro lo strano spazzolino per le ciglia poi, prese il foglio dove aveva appuntato la formula del liquido nella bacinella e lo infilò in una busta per lettere nella quale mise anche la bustina con lo spazzolino magico, infine sigillò il tutto con la ceralacca. “Dove posso nascondere questa roba affinché nessuno la trovi?” si chiese, poi notò che nella stanza, il caminetto di mattoni aveva un mattone esterno che non poggiava bene vicino agli altri. Policarno non era un paese molto freddo per cui era ovvio che quel caminetto rappresentasse una rarità, … difficilmente l'avrebbero smantellato, … o acceso, … ottimo nascondiglio. Gli bastò forzare un poco quel mattone sbilenco per riuscire a ricavare lo spazio sufficiente per nascondervi il suo segreto. Decise che avrebbe aspettato la fine della guerra per tornare lì ed approfondire il suo esperimento. “Per fortuna, alla fine, tutte le guerre finiscono” diceva tra se e se il dottor Hausenmazzof e, anche se questa guerra durò molto più del previsto, un giorno scoppiò finalmente la pace. Alla fine d'ogni guerra qualcuno, improvvisamente, si ritrova ad essere ricco, qualcuno perde tutto ciò che possedeva, qualcuno è dato per disperso e qualcuno si ritrova ad essere morto.
  • 41. VII 1946. La guerra era durata sei anni, in quei sei anni Eleuterio aveva perso i genitori, molti compagni di scuola e d'armi (a volte erano la medesima persona) e dieci chili del suo, già magro, corpo ma, alla fine, aveva fatto ritorno al proprio paese. Era primavera. La casa era ancora lì, … almeno le mura … ed erano l'unica cosa che il vandalismo ma, più spesso, il bisogno non aveva potuto portar via. Stanco di un viaggio fatto su mezzi di fortuna o, molto più spesso, a piedi, Eleuterio spinse l'uscio di casa e lasciò cadere in un angolo lo zaino militare con i suoi pochi averi poi uscì di casa alla ricerca di qualche volto amico sopravvissuto alla guerra. Per primo ritrovò il parroco, Don Fulgenzio, che gli fece dono di quattro candele per la notte (visto che non aveva più la corrente elettrica in casa), poi incontrò il droghiere che, non avendo molto da offrirgli, gli regalò un pacchetto di sigarette (peccato che Eleuterio non fumava). La levatrice, Caterina, quando seppe che il ragazzo era in paese sano e salvo gli andò incontro e volle dividere con lui una magra cena fatta di zuppa di bucce di patate, sedano e pane non lievitato. Dopo cena lo indirizzò dal vecchio falegname. Fu proprio quest'ultimo che gli disse d'aver salvato il suo letto (una tavola di legno ed un logoro materasso di lana) dall'assalto degli sciacalli. Egli l'aveva preso per se stesso pensando che non avrebbe più rivisto nessuno della famiglia Leofulla ma, visto che, per fortuna, almeno qualcuno s'era salvato, era lieto di restituire il letto ad Eleuterio e, da parte sua, gli regalava due lenzuola, una coperta e gli dava una mano a trasportarlo in casa. Quella notte, la luna filtrava attraverso le persiane legate ai propri cardini più per miracolo che per leggi della fisica. Per fortuna, malgrado l'assenza di vetri, il tepore primaverile già si avvertiva. C'erano tutti i presupposti perché Eleuterio cadesse in un sonno ristoratore ma, quella notte, era la notte più difficile per prendere sonno. La guerra l'aveva abituato a dormire con un occhio solo poi, per la prima volta da quando era cominciata la guerra, Eleuterio si trovava di nuovo nella casa della sua infanzia, nella casa dove aveva visto per l'ultima volta i suoi genitori. Quanti ricordi!
  • 42. Conosceva tutti i nascondigli perché si divertiva spesso a chiamare suo padre, mentre era intento a ordinare i faldoni per l'ufficio postale, imitando una voce cavernosa e dicendo “Vieni a trovarmi, sono lo spirito Dorato!” e lì cominciava un gioco nel quale il padre s'aggirava per le stanze dicendo “Sono il divoratore di spiriti, ah! Se ti trovo, ti maaangioooo!”. … adesso che ricordava, un triste sorriso increspava le sue labbra. Gli venne in mente anche quell'unica volta che il padre lo convocò in soffitta. Quella volta il padre gli mostrò la spada dei Leofulla, … bellissima … a proposito! Come s'arrivava in soffitta? … per quanto si sforzasse di ricordare, non riusciva a visualizzare alcun gradino che portasse su … … … poi, ricordò. La soffitta era proprio nella sua stanzetta. C'era una scala a sparizione che scendeva dal soffitto eppure, se alzava gli occhi, non trovava nulla sotto il soffitto che gli indicasse la botola da cui si tirava giù la scala. Adesso che guardava meglio, notava che, sotto il soffitto, era stata apposta una carta da parati bianca quindi, spostando la carta, avrebbe ritrovato la botola. Gli sembrava si trovasse nell'angolo a destra, quello più distante dalla finestra. Adesso si sarebbe alzato e avrebbe confutato immediatamente i propri ricordi d'infanzia ma poi, le palpebre s'erano fatte, finalmente pesanti e un refolo di vento primaverile aveva provveduto a spegnere la candela che Eleuterio aveva acceso (più per compagnia che per bisogno di luce). In fondo, domani avrebbe avuto tutto il tempo per scostare la carta da parati bianca dal soffitto e … Un rumore forte lo costrinse a svegliarsi, nel dormiveglia pensava fosse una bomba. Quando aprì gli occhi s'accorse che il sole era già alto nel cielo quanto basta per rischiarare tutta casa. Corse alla finestra e scoprì la ragione di tanto rumore. A meno di cento metri di distanza da casa sua, una squadra di demolitori aveva fatto crollare un palazzo che, molto probabilmente, doveva già essere pericolante. Capì che il crollo era stato indotto perché la zona era stata delimitata da un nastro e perché le uniche persone presenti intorno al perimetro erano in tuta blu con i caschi gialli.
  • 43. Rilassatosi, tornò a sedersi sul suo letto per infilarsi la giubba militare sulla camicia. Era l'unico vestiario di cui disponeva. Erano anni che andava a dormire vestito. L'unica concessione che si era preso, visto che la guerra era finita e che era a casa, era stata quella di togliersi la giubba e usarla come cuscino. Rispetto ai giacigli di fortuna, che erano stati il suo letto per tanto tempo, la comodità di un materasso l'aveva fatto svegliare più rotto che mai ma, molto più probabilmente, era il fisico che gli chiedeva, finalmente, il conto. Fece roteare il collo in tutte le direzioni provocando un assolo di percussioni all'interno della scatola cranica e così, massaggiandosi la cervicale, alzò gli occhi e guardò il soffitto ricordando i propositi della sera precedente. Anche stirandosi al massimo e tendendo le braccia non era abbastanza alto da arrivare al soffitto per cui, spostò il letto nell'angolo della stanza dove ricordava ci fosse la botola, spostò il materasso e salì sulla tavola di legno che fungeva da rete. Scrostare la carta da parati bianca che faceva da contro soffittatura fu un gioco da ragazzi e, così, Eleuterio poté vedere i contorni di una botola che, quando era bambino, era stata fonte di contrastanti emozioni che variavano dalla curiosità e, attraverso il mistero, sfociavano anche in paure infantili. L'apertura della botola si rivelò molto più difficile del previsto perché era stata inchiodata al soffitto ed era stata smontata la maniglia come ad impedirne la scoperta da parte di estranei. Aver conservato il coltellino militare si rivelò un affare perché laddove si risparmia nel fornire sostentamento ai popoli, spesso si investe su utensili utili ai militari, compreso le armi. Il coltellino era quasi indistruttibile. Fece bene il proprio lavoro. Impiegò meno di dieci minuti ad aprire la botola. Fu investito da un forte odore di polvere. All'interno della botola, per fortuna, c'era ancora la scala a scomparsa della quale Eleuterio approfittò per entrare in soffitta. Buio totale. La soffitta non aveva punti luce. Eleuterio scese in camera e prese una delle candele che aveva ricevuto da Don Fulgenzio. Ora c'era luce a sufficienza per guardarsi intorno. Se la ricordava più grande.
  • 44. C'erano scatoloni ammassati, sacchi di tela, vecchi telai di biciclette, utensili di cui non immaginava l'utilizzo ed una cassapanca. Impiegò tutto il giorno ad aprire e controllare i vari contenitori di memorie. Trovò quasi subito la spada. Bella come non ricordava. Andò due volte in chiesa a chiedere candele al parroco il quale, la seconda volta che lo vide, decise di dargli in prestito due candelabri da tre elementi grandi cosicché avesse più luce e per un tempo maggiore. Fu un viaggio nella memoria, a volte tenero, a volte doloroso. La foto del matrimonio dei genitori (un unico scatto fuori dalla chiesa con tutti gli invitati), gli elaborati scolastici comprensivi di letterine per Natale, Pasqua, la festa della mamma e del papà, resoconti dell' amministrazione familiare. Nella cassapanca trovò gli abiti giovanili smessi di sua madre ed un plico di lettere di corrispondenza amorosa tra i suoi genitori nel periodo del loro fidanzamento. Per pudore non avrebbe aperto quelle lettere ma qualcosa, di quella corrispondenza, attirò la sua curiosità. Alcune lettere (che, nel complesso, erano un centinaio) erano diverse da quelle bianche a fiorellini tipiche della corrispondenza amorosa; erano gialle, tipo raccomandata, ed erano affrancate ma senza timbro e davano, come destinatario, la sigla E.L. … Eleuterio Leofulla? Eleuterio provò ad aprire il nastrino che teneva insieme le lettere ma, nel momento in cui riuscì ad aprirlo, le lettere caddero in ordine sparso nella cassapanca. Dopo un po' di ricerca riuscì a recuperare tutte le lettere gialle, erano diciassette. Le aprì tutte; ognuna aveva un foglio interno sul quale erano state scritte, a caratteri grandi, una lettera ed un numero. Raccolse le diciassette lettere e le portò giù in camera. Capiva che dovevano significare qualcosa che a lui sfuggiva, allora, le dispose sul letto per guardarle nel loro insieme. L 8, A 2, R 1597, D 3, U 2584, I 13, R 89, G 1, N 5, L 233, O 55, A 21, S 144, A 987, T 34, E 610, P 377. Non avevano un senso eppure, sapeva che il padre aveva in mente qualcosa, forse, … era un messaggio cifrato! Già! … ma, su quale base? Il primo tentativo fu di disporre i numeri in ordine numerico crescente.
  • 45. Il risultato fu questo: G, A, D, N, L, I, A, T, O, R, S, L, P, E, A, R, U. Questa sequenza non produceva parole di senso compiuto. Tantomeno ponendo le lettere in ordine inverso cioè ponendo i numeri in ordine decrescente: U, R, A, E, P, L, S, R, O, T, A, I, L, N, D, A, G. Intanto aveva scoperto che la sequenza numerica era la sequenza di Fibonacci, quella che suo padre gli aveva spiegato quando era un bambino. I diciassette numeri, in ordine crescente erano l'espressione di quella sequenza numerica dove ogni numero è la somma dei due numeri precedenti. Anche in questo caso c'era qualcosa che non quadrava, come se mancasse un numero alla sequenza infatti, per passare dal numero 1 al numero 2 occorre un secondo numero 1, … un errore di distrazione da parte di papà? No, impossibile! Eleuterio sapeva che il padre non avrebbe mai commesso un errore di sbadataggine, doveva significare qualcosa certamente, ma cosa? Solo in quel momento Eleuterio s'accorse che era veramente tardi, aveva fame, aveva sonno. Il secondo bisogno vinse sul primo. Raccolse le lettere e le mise sotto le lenzuola e, senza svestirsi si mise su un fianco e prese immediatamente sonno ma, mentre passava dalla veglia alla fase onirica, cominciò a sentire un motivetto, che gli ronzava in testa e che sembrava di ricordare ma, quando l'aveva sentito quel motivetto? Quando? ...
  • 46. VIII Si svegliò di soprassalto quando capì cos'era la melodia che aveva accompagnato i suoi sogni. Credeva d'aver appena chiuso gli occhi ma, invece, doveva aver dormito a lungo perché il sole era già alto nel cielo. Il motivetto? Altro che motivetto! Si trattava della linea melodica del “Canone Inverso” di Bach, la chiave era lì! Se avesse letto la sequenza numerica di Fibonacci utilizzando uno dei sistemi di quel canone, probabilmente, avrebbe trovato la soluzione. Decise di partire dai numeri estremi convergendo verso il numero centrale, ossia 1, 2584, 2, 1597, 3, 987, 5, 610, 8, 377, 13, 233, 21, 144, 34, 89, 55. … ecco la frase! GUARDANELPILASTRO, guarda nel pilastro? Quale pilastro? Nella struttura dell'abitazione c'erano mura portanti per ogni stanza ma, se il padre aveva nascosto qualcosa in un pilastro, poteva essere solo in soffitta. Prese uno dei due candelabri in prestito e salì di nuovo in soffitta. Col manico del coltellino batté tutte le mura dei quattro pilastri. Fu in quello che era a fulcro tra la sua camera ed il soggiorno, dal lato esterno della casa, che sentì il rumore tipico di pietra cava. Direzionò la luce in quel punto e s'accorse d'una piccola scanalatura nella pietra, infilò la lama del coltello e vide aprirsi un sportello abbastanza ampio a far entrare la sua testa ma decise di infilare la mano. All'interno toccò un involucro di metallo, lo estrasse. Era un cofanetto di trenta centimetri d'altezza per trenta di profondità per quaranta di larghezza, pesava, Eleuterio lo portò al centro della soffitta, appoggiò il candelabro sulla cassapanca e armeggiò con l'apertura. Non era chiuso a chiave, basto spingere sul meccanismo d'apertura e, … oro, monili, diamanti, perle bianche e nere, sembrava una cassa del tesoro in piccolo e, infilata in una rete fissata al coperchio, una lettera dello stesso tipo di quelle gialle da raccomandata. Anche questa lettera era indirizzata a lui. L'aprì. C'erano due fogli. Sul primo che lesse c'erano scritte, con la grafia maniacale di suo padre, queste parole. “Se, ad aprire questo scrigno, non è Eleuterio Leofulla, chiedo, a colui che ha avuto la fortuna di trovare questo piccolo tesoro, di usare la metà del contenuto di questo cofanetto per se
  • 47. stesso e per i propri cari. È sufficiente a vivere agiatamente per almeno tre generazioni. Questo scritto vale come documento testamentario e rispecchia le mie ultime volontà. Ciò che chiedo al fortunato è di recapitare l'altra metà del contenuto di questa cassetta a mio figlio Eleuterio Leofulla nato a Policarno il 20 marzo 1925 , attualmente al fronte di guerra per onorare il nostro paese. Confido nell'onestà del fortunato erede di metà dei miei beni terreni e nel fatto che è meglio ricevere una fortuna senza inganni che depredare un eroe del nostro paese. Il fortunato non mancherà di mezzi economici per trovare mio figlio. Qualora, sfortunatamente, la guerra avesse chiesto anche la vita di mio figlio, in quel caso, tutta la fortuna sia a favore dello scopritore di tesori che, auspico, sia per sempre riconoscente alla fortuna e utilizzi una congrua parte di questi beni per aiutare il prossimo. addì 29 Agosto 1938 In fede P.S.: Se l'avidità avesse il sopravvento sull'equità ed il fortunato si dimostrasse ingordo al punto da depredare mio figlio di ciò che gli spetta, avrò modo di donare sofferenze a lui e a tutta la sua progenie per le prossime sei generazioni. Anche dall'aldilà so come fare affinché non abbiano mai pace o bene. “Classico anatema in stile papà” pensò Eleuterio con un mezzo sorriso malgrado le lacrime di commozione mentre apriva il secondo foglio. Questo era rivolto proprio a lui … Caro Eleuterio,
  • 48. mi auguro tu abbia in mano questo foglio. Se così fosse, butta via l'altro! È stata una sofferenza atroce scriverlo. È vero! Se stai leggendo questo foglio, vuol dire che siamo morti mamma ed io. Mi verrebbe da dire: ”non piangere” ma, visto che non è possibile, ti dico: “piangi tanto e fallo in fretta”. Più piangi e più in fretta ti passa. Non c'é molto tempo per cui, vengo al dunque: Come certamente avrai notato,manca un numero uno alla sequenza di Fibonacci … manca “il” numero Uno. Quando sei partito eri troppo giovane per sapere tutto e non è detto che si renda necessario che tu legga la lettera contrassegnata col numero uno. Se, come temo, dovesse rendersi necessario, sappi che ho preparato un mio sistema per raggiungerti ed informarti come arrivare alla lettera numero uno. Un sistema infallibile che, il fatto che io sia morto, non è d'ostacolo affinché io ti raggiunga. Se, come mi auguro, non dovesse rendersi necessario, sappi che quella lettera non contiene notizie importanti perché tu non riesca a vivere il resto dei tuoi giorni serenamente. Ti chiedo perdono del mio essere “criptico” ma, capirai, se non fossi tu a tenere in mano questo foglio, correremmo tutti un grosso pericolo. Questo foglietto e l'arcano che lo circonda è il mio regalo d'addio. Mamma, che è più pratica, ti lascia quanto occorre per vivere tutta la vita senza problemi economici … ti abbraccia forte. Il pilastro, in tempo di guerra o di crisi, è la migliore banca del mondo. Con un amore che supera le barriere del tempo, dello spazio e della vita ti abbracciano i tuoi genitori.
  • 49. Le lacrime rigavano il volto di Eleuterio. Non era il momento per dare un senso a tutto ciò che aveva letto, era il momento per piangere, … pianse, … pianse tanto, pianse tutte le lacrime che aveva tenuto dentro durante la guerra, quelle per i suoi cari ma anche tutte le lacrime che non aveva potuto versare di fronte agli orrori della guerra, pianse gli amici e compagni d'armi che non sarebbero tornati a casa, i bambini morti, le bambine violentate, … pianse! Adesso ne aveva tutto il diritto e tutto il tempo.
  • 50. IX 2 settembre 1954. Il professor Serramazzoni, luminare della scienza e della ricerca sub- molecolare si presentò in piazza del Forno Vecchio a Policarno quella assolata mattina di settembre del 1954. Per fare rumore, si fece condurre alla sede comunale da un' auto blu col conducente che, per cipiglio e per taglia, era il prototipo del “gorilla”. Bastò il tempo che l'autista lo aiutasse a scendere dalla vettura e gli consegnasse la valigetta, che il professore aveva lasciato sul sedile, mentre prendeva due grosse valigie dal bagagliaio, perché un folla di curiosi s'accalcasse intorno a loro. Tra i curiosi, uno in particolare lo guardava a bocca aperta e, quando i loro sguardi s'incrociarono, anche il professore sgranò gli occhi e poi li chiuse a fessura avvicinando le sopracciglia. Fu solo un attimo poi, l'illustre luminare alzò il mento e proseguì verso la propria meta e, con quell'atteggiamento baldanzoso, percorse i pochi metri in salita che separavano l'auto dall'ingresso del comune e aspettò che il gorilla gli aprisse la porta principale della sede comunale. L'autista aveva una valigia per mano e non avrebbe potuto favorirlo ma, visto che il professore, pur avendo una mano libera, aspettava questo gesto di cortesia, poggiò a terra le due valigie, con un'enfasi maggiore del dovuto e, a denti stretti, aprì la porta aspettando l'ingresso del professor Serramazzoni. − Desidera? - fece l'usciere comunale aggirando la scrivania posta all'ingresso del comune, in fondo alle scale che portavano agli uffici, andando incontro al nuovo venuto. − Sono il professor Serramazzoni, il sindaco mi sta aspettando -. − Oh! Professore, scusatemi, non v'avevo riconosciuto -. − Riconosciuto? Perché? Ci conoscevamo già? - chiese allarmato il professore. − No, professore, … il fatto è che il sindaco ci ha fatto leggere l'articolo sulle vostre ricerche e nell'articolo c'era la fotografia -. − Ah! Capisco! … … … Beh? - − Beh cosa? - − Lo facciamo venire questo sindaco? -
  • 51. − Ah! Già, scusate. Lo chiamo subito -. L'usciere prese un tirante per tende, lo avvicinò alle labbra e urlò con tutto il fiato che aveva in gola – PRINCIPAAAÀ! … PRINCIPAAAÀ!-. − CHE C'EEEEÉ? - Gridò un uomo affacciatosi dal ballatoio del primo piano. − È arrivato 'o professore! - − Il professore? Un attimo, … sto scendendo, … vengo subito. Il concetto di “subito” non fu mai espresso meglio. Appena il sindaco poggiò il piede sul primo gradino, scivolò e, in men che non si dica, era ai piedi delle scale e del professore. Il sindaco Antonio Peluso era un uomo alto e magro, proprietario di un imponente naso e affetto da un lieve strabismo, i pochi capelli che aveva in testa erano sistemati con un riporto molto approssimativo. Tese la mano al professore. − Piacere! Sono Antonio Peluso, sindaco di Policarno. Posso offrirvi qualcosa? - disse con le gambe ancora sulle scale e il busto sul pavimento. − Qualcosa? Certo! Potreste offrirmi l'ambiente ideale dove installare il mio laboratorio, grazie! - − Ah! già! Mi aveva avvisato il senatore Lo Quercio. Quindi, avete deciso di creare un laboratorio proprio qui … - disse mentre, con grande fatica, si rialzava – Nei sotterranei abbiamo degli amb....- − Niente sotterranei! Andiamo al primo piano! - − Ma … lì ci sono … gli uffici … - − Primo piano, prego! - − Ehm! … come volete voi – Salirono lentamente i gradini che, il sindaco aveva percorso velocemente solo un minuto prima. Al primo piano c'era un grande ballatoio sul quale affacciavano sette porte. Il professor Serramazzoni si diresse, senza indugio, alla porta centrale facendo tirare un sospiro di sollievo al sindaco che aveva temuto per il proprio ufficio. A quel punto, risollevato dallo scampato pericolo, il sindaco si sentì più bendisposto nei confronti dello stravagante professore. − Quella stanza è l'archivio ma, se lo desiderate, sposteremo tutti i faldoni nei sotterranei -. − Ecco, bene così, perfetto! -. − Possiamo anche operare delle modifiche alla stanza ... – intanto avevano varcato l'ingresso dell'archivio dove due impiegati
  • 52. stavano chini su di una scrivania di legno a consultare alcuni registri comunali - … possiamo portare via le librerie, la scrivania, … - il professore aveva gli occhi fissi sul caminetto, in fondo alla stanza al ché, avendo notato dove puntasse lo sguardo, il sindaco aggiunse – e, … se vi da fastidio, possiamo smantellare il caminetto … - − IL CAMINETTO NO! - Il professore, come destatosi da un sogno, guardò per la prima volta il sindaco negli occhi. La sua espressione era un misto di paura e rabbia di fronte alla quale il sindaco abbassò gli occhi. Resosi conto dell'enfasi con cui aveva reagito, il Professore si riprese: − Il caminetto mi piace molto, grazie per la vostra ospitalità -. Il comando dei carabinieri di Policarno è al numero di via XX Settembre. È al piano terra di un palazzo scampato alle bombe. È composto di soli tre ambienti e un corridoio. La prima stanza è l'ufficio del comandante, con una finestra che affaccia all'interno dell'area condominiale. Lì è stato allestito lo spazio per i mezzi in dotazione alle forze dell'ordine (quattro cavalli e sei biciclette) oltre un piccolo orto e l'unica cella, ricavata da quella che poteva essere stata una rimessa. Il secondo ambiente è la stanza degli interrogatori, senza finestre (a parte un finestrone in alto) a forma di parallelepipedo nel cui angolo più ampio è stata posta una latrina. La latrina è fonte di grosso imbarazzo nel caso in cui è in atto un interrogatorio. Il terzo ambiente è lo spazio pubblico del comando, un ambiente grande con una finestra che affaccia sullo spazio “mezzi” e una porta che da' direttamente sul corso Policarno. Lì si presentano le denunce. L'arma al completo è così composta: Il Tenente Alberto Buzzi, i capelli a spazzola, i basettoni, alto un metro e sessanta e largo altrettanto, soprannominato in segreto “Buzzicone”, un trafficone con le alte sfere, il classico comandante di rappresentanza. Il Maresciallo Francesco Carlesi, detto ironicamente (sempre in segreto) “la scimmia” perché totalmente glabro dotato, però, di un fiuto formidabile nelle indagini, il vero motore del comando. Il Brigadiere Nicola Festicoli, soprannominato “Foglioni” e non sto a spiegare il perché. Gli Appuntati Loccardo, Pizzuti, Nicchi e Farelli.
  • 53. I graduati non hanno l'obbligo dei turni di notte salvo, però la reperibilità a qualsiasi ora, reperibilità nella quale si cerca di non includere il Tenente. 04 ottobre 1954 ore 01,30. Quella notte era toccato a Pizzuti il turno. Policarno è un paese dove non accade nulla e quella sera, come al solito, Pizzuti era addormentato con le gambe stese sulla scrivania d'ingresso. Al principio credeva di stare a sognare ma, poi, si accorse che avvertiva dei suoni al di là della sfera onirica. Tirò le gambe giù dalla scrivania e gridò: − Chi è là!- − Aiutatemi! Vi prego … - La voce era nella stanza ma l'Appuntato Pizzuti non riusciva a capire da dove arrivasse. Visto che l'unica fonte di luce era una lampada da 40 Watt posta sulla scrivania, Pizzuti si alzò e accese l'interruttore alle sue spalle che illuminava tutta l'area con un lampadario centrale. Solo allora si accorse di Biagio. Biagio era un noto ubriacone, nessuno ricordava il suo cognome, aveva una casa giù a “Monte”, Monte era una zona di Policarno dove c'erano alcune cave di argilla. Spesso, il povero Biagio, lo si trovava a dormire sulle panchine del paese. Altrettanto spesso lo arrestavano per vagabondaggio. Il suo non era un vagabondaggio molesto ma, per le forze dell'ordine, andava comodo arrestarlo, solo perché si faceva prima che a riaccompagnarlo a casa. Soltanto allora l'Appuntato Pizzuti s'accorse della scia di sangue a impronta del passaggio di Biagio. − Biagio! Accidenti! Cosa è successo? - − Il tre di bastoni! - Biagio parlava a stento, aveva uno squarcio lungo la schiena talmente ampio che si vedeva un polmone gonfiarsi e sgonfiarsi velocemente. Aveva il respiro affannato. − Cosa? Che cosa c'entrano le carte da gioco? Aspetta che chiamo un'ambulanza -. − No! Non serve, … sono spacciato! … siamo tutti in pericolo, siamo tutti spacciati! … agh! - cominciava a respirare a fatica, Pizzuti provò a raggiungere il telefono ma Biagio l'afferrò con inaspettata forza e, con l'ultimo alito di vita che gli era rimasto disse:
  • 54. − Il tre di bastoni! - e, con un colpo di tosse, schizzò il sangue sul viso e sulla divisa di Pizzuti e smise di vivere.
  • 55. X Lungo la strada provinciale S.Maria Anteseculae, c'era il cinema “Felix”, l'unica sala proiezioni del paese. Il cinema funzionava tutti i giorni della settimana con doppia e tripla proiezione. Il proprietario nonché proiettore, venditore di pop-corn e uomo delle pulizie, Gaetano Ciarla, che tutti chiamavano “Ciarla/Tano” prendeva in prestito le pellicole dai cinema di città e, prima di “mandare” il film, lanciava le “ultimissime” dell'unica testata giornalistica nonché unica emittente radio-cinematografica di Policarno, la PIRC, Policarno International Radio Cinema (International era stato messo in un accesso di vanità visto che l'utenza riguardava i soli abitanti del paese), cosicché la sala cinematografica risultasse anche notiziario di Policarno. Alle quattro del mattino il comando dei carabinieri di Policarno era affollato più di un autobus cittadino nell'ora di punta. Il Tenente Buzzi, truccato di tutto punto, rispondeva alle domande del giornalista Angelo Abete, unico reporter nonché redattore capo della PIRC, figlio dell'unico fotografo di Policarno. Il Maresciallo Carlesi era col dottor Morelli, il medico legale, entrambi chini sul corpo esanime di Biagio e dialogavano sommessamente quasi come a non voler disturbare il sonno eterno della vittima. L'arma dei carabinieri era al completo, oltre Pizzuti c'erano anche gli Appuntati Loccardo, Nicchi e Farelli. Avevano delimitato col nastro tutto il percorso dal presunto luogo dell'aggressione al luogo del decesso. Avevano dovuto chiedere l'intervento del Maresciallo Carlesi perché il Brigadiere Festicoli s'era messo in testa di delimitare col nastro tutta la strada da monte al comando (circa mezzo chilometro). Intanto s'era già accumulata una discreta folla tra massaie, lavoratori mattinieri e malati d'insonnia. Il Tenente Buzzi sembrava una stella del cinema sul set, offriva alla telecamera il suo miglior profilo e, ad ogni domanda di Angelo Abete, rispondeva con gesti teatrali e movimenti scenici d'effetto, intanto, il Brigadiere Festicoli, alla ricerca di qualche inquadratura si sbracciava urlando: “Circolare! Circolare! Qua non c'è nulla da vedere!”. Il cameraman, dopo una panoramica che diede lustro alla solerzia di Festicoli, strinse l'inquadratura su Abete e Buzzi. A quel punto partì l'intervista. − Tenente, a che ora è avvenuto il delitto? -
  • 56. − Caro Abete, intanto non sappiamo ancora se si tratta di delitto o di semplice aggressione da parte di qualche animale selvatico, siamo propensi per la prima ipotesi ma è presto per sbilanciarci … -. − Cosa pensa di fare il comando adesso? - − Beh! Caro Abete, deve sapere che il comando dei carabinieri s'avvale di ottimi investigatori e della consulenza di anat, … ehm! anapot, … a_na_to_mopatologi di tutto rispetto, … Abete? - − Si? -. − Rifacciamo questa scena?- poi, senza aspettare la risposta - Il comando dei carabinieri s'avvale di bravissimi investigatori e della consulenza di … medici legali di tutto rispetto -. − Quindi, cosa si sente di poter dire ai cittadini di Policarno? - − Mi segua … - prese la porta del comando che dava all'esterno. Lì, il numero di spettatori contava almeno venticinque unità. Il Tenente, aspettò che si posizionasse il cameraman, quindi rispose con voce baritonale – Lei, giustamente, mi chiede a nome della cittadinanza policarnese una risposta, … bene! Io, Tenente Alberto Buzzi, comandante in capo all'arma dei carabinieri di Policarno posso dichiarare, in tutta onestà, che mi prenderò cura, come ho sempre fatto, dei miei concittadini, che risolverò come è mia abitudine anche questo caso. I policarnesi possono dormire sonni tranquilli e non temere alcunché finche ci sarà quest'eccellente arma dei carabinieri a difenderli capitanati indegnamente, … no! Lasciatemelo dire, capitanati indegnamente dal sottoscritto. Ho detto -. A questo punto partì l'applauso. − Bene! Con queste parole del Tenente Buzzi chiudiamo, per ora, il collegamento. Da Angelo Abete per PIRC a voi studio! - In via XX settembre era tornata la pace, la scia di sangue era stata pulita, il cadavere portato all'ambulatorio medico e posto in una vasca piena di ghiaccio, in mancanza di una vera camera mortuaria, per eventuali analisi. Buzzi aveva un pranzo col sindaco Peluso e con un luminare della scienza che viveva a Policarno da poco più di un mese per cui lasciò a Carlesi il compito di avviare le indagini con l'obbligo di informarlo su eventuali progressi. Carlesi diede ordine ai suoi sottoposti di rispettare i propri turni di servizio poi, visto che Pizzuti aveva finito il proprio turno, decise di fare quattro passi con lui, verso casa.
  • 57. Pizzuti abitava su via Santa Maria Anteseculae, la strada provinciale che univa tutti i paesi della zona, strada su cui sfociava il corso Policarno. La sua abitazione non distava molto dallo studio del dottor Morelli. All'angolo tra il corso Policarno e via Santa Maria Anteseculae c'è il bar “Bieri” il bar più importante del paese. Passandovi davanti Carlesi chiese a Pizzuti. − Ti va un caffè? - − Ecco, ... non vorrei essere di disturbo per voi, Maresciallo ... -. − Non dire sciocchezze, nessun disturbo, entriamo! -. − Sissignore, signor si, signore! -. Presero posto a un tavolino appartato del bar, lontano dai tavoli di “calciobalilla”, aspettarono l'arrivo dei 2 caffè e, mentre sorseggiavano, Carlesi chiese a Pizzuti: − Allora? - − Allora cosa? Maresciallo -. − Vorrei che mi raccontassi attentamente tutto ciò che t'ha detto Biagio, prima di morire! -. − L'ho scritto nel rapporto, signore -. − Lo so ma vorrei sentirlo dire da te -. − Come desiderate, Maresciallo ... allora, mentre ero seduto alla scrivania ... - − Cosa stavi facendo in quel momento? - − Dor... ehm! Do... cumentavo gli aggiorn ...- − Ho capito! Stavi dormendo, tranquillo, non stavi trasgredendo gli ordini, il turno di notte è noioso, può succedere ...-. − Maresciallo, se lo viene a sapere Foglio... ehm! Festicoli, rischio che ...- − Io non sono Foglio... ehm! Festicoli, stai tranquillo! Allora? - − ... allora? ... ah! M'ero appisolato quando ho sentito, tra sonno e veglia, un suono metallico ...- − Metallico come? - − Sembrava un “zak!” ... misto a un “stud!”, ... avete presente un colpo di sciabola dato di taglio? - − Ti sei spiegato perfettamente, Pizzuti, va avanti! - − Ho sentito chiedere aiuto con una voce flebile, mi sono svegliato del tutto, mi sono alzato dalla scrivania ed ho acceso la luce. Biagio era a terra, dalla scia di sangue si vedeva che s'era trascinato per un paio di metri dall'ingresso, la porta era aperta
  • 58. ma, ... ecco ... credo che fosse stata lasciata aperta da Loccardo, quando aveva finito il turno ieri sera -. − Quindi è possibile che Biagio sia stato colpito un'attimo prima che entrasse al comando – disse Carlesi più tra se e se che rivolto a Pizzuti. − Eh! ah! Certo, possibilissimo -. − Biagio era sudato? - − mmh! ... si, ora che ci penso, aveva la fronte imperlata di sudore -. − Questo ci fa supporre che sia stato inseguito fino al comando, ... continua! - − A quel punto ho guardato la ferita e ho capito che ne aveva per poco ma volevo chiamare lo stesso un'ambulanza. Biagio, però, mi ha bloccato e ha cominciato a dire parole senza senso ... - − Cosa t'ha detto di preciso? - − Ha ripetuto più volte “Il tre di bastoni”, la voce era allarmata poi, ha aggiunto che siamo tutti in pericolo ... no! Anzi si! ... in pericolo e siamo tutti spacciati -. − Nient'altro Pizzuti? - − No Maresciallo, nient'altro -. − Bene! - disse Carlesi alzandosi dal tavolino del bar e lasciando poche monete in saldo dei due caffè – se ti venisse in mente qualcos'altro, fammelo sapere. Ora và a casa, ti sei meritato un po' di riposo, prenditi la giornata libera, a domani, Pizzuti -. − A domani Maresciallo e grazie del caffè -. Il Maresciallo Francesco Carlesi aveva una straordinaria capacità deduttiva in grazia del fatto che era aperto ad ogni possibile spiegazione. Non si faceva condizionare da nessuna forma di preconcetto e questo lo tutelava dal rischio di conclusioni affrettate. Il perfetto contrario del temperamento del Tenente Buzzi che, voleva risposte indipendentemente dalle verifiche. Erano le 11,45 quando il Maresciallo si trovò davanti al cancello di servizio dello studio medico Morelli. Il dottor Augusto Morelli viveva in una villa di due piani. Al piano terra aveva l'ambulatorio che era composto da un'anticamera molto grande (essendo l'unico medico condotto di Policarno aveva una numerosa clientela) e da una sala per fare le “visite” sufficiente ampia da ospitare due lettini, una scrivania e due mobili con vetrine colmi di medicinali. Al primo piano c'era l'appartamento che divideva coi suoi cari (moglie e due
  • 59. gemelli) e nel freddo scantinato c'era la sala mortuaria. Non era una vera sala mortuaria ma, grazie al freddo, era l'ambiente migliore per conservare il più al lungo possibile un cadavere, inoltre era la distanza maggiore che era riuscito a porre tra la vita (rappresentata dalla sua famiglia) e la morte. Tutta la villa era circondata da un giardinetto che era coltivato a fiori, nella parte più prossima all'ingresso ospiti e nella zona posteriore alla villa dove transitavano i pazienti o i parenti dei deceduti. Tutta la restante area del giardino era coltivata a frutta e verdura. Fu il dottore stesso che venne ad aprire il cancello al Maresciallo e lo condusse allo scantinato. − Hai scoperto qualcosa d'interessante in quest'ora e mezza? - − Ho scoperto che il cadavere è effettivamente morto! - Il dottor Morelli, in virtù del proprio mestiere, aveva un forte umorismo macabro. Carlesi sapeva reggere. − Questa è una cosa ottima altrimenti non si sarebbe spiegato perché sono in piedi dalle due di stanotte. A parte questa geniale scoperta, c'è qualche altra preziosa notizia per le indagini? - − Ho potuto estrarre un po' di sangue per analizzarlo ma ci vorrà qualche giorno per i risultati. Ho asportato qualche lembo di tessuto nella zona della ferita mortale e … -. − Possiamo dare un'occhiata alla vittima insieme? - − … vabbè! … ma dovrai aiutarmi a rimetterlo sul lettino perché ora è sotto ghiaccio -. Si avviarono all'obitorio. Una volta entrati, il dottor Morelli aprì un vano frigo posto orizzontalmente al pavimento, uno di quelli dove, di solito, si tengono in fresco le bevande quando si organizzano feste. C'era molto ghiaccio all'interno. Avvolti in buste trasparenti, c'erano feti di animali parzialmente sezionati, alcuni organi vitali che Carlesi si augurò non appartenessero a esseri umani, vari medicinali raggruppati in spesse scatole di vetro e il buon Biagio. Morelli accostò una barella con rotelle al frigorifero e chiese a Carlesi di afferrare la vittima per le caviglie e tirarla su al suo “tre”, lui aveva afferrato Biagio per le ascelle. Una volta poggiato il corpo del delitto sulla barella, il dottor Morelli si sporse nel frigo al punto che i suoi piedi non toccavano più il pavimento e ne uscì con due bottigliette in mano. − Gradite una gazzosa, Maresciallo? -. Gli diede del “Voi” a mo' di scherno.
  • 60. XI Il professor Serramazzoni preferiva lavorare di notte. Diceva che il volgare vociare diurno lo distraeva affatto dalla concentrazione che le sue ricerche richiedevano. Evitava le persone, il suo carattere schivo calzava perfettamente col personaggio. Divenne ancora più schivo quando incontrò, nell'androne del comune il tizio che, nel giorno del suo arrivo a Policarno, l'aveva squadrato a bocca aperta. Anche stavolta, il tizio aprì la bocca ma, in questo caso, fu per parlare: − Io vi conosco! - Gli disse, afferrandolo per un braccio e obbligandolo a fermarsi. − Cosa volete? - Chiese, spaventato, il professore. − Io vi conosco, vi ho già visto, … ma, … non ricordo dove m'è capitato d'avervi incontrato -. − Vi state sbagliando, io non vi conosco! … e poi, toglietemi le mani di dosso! - − Scusate! - disse l'uomo, mollando la presa – mi devo essere sbagliato -. − Sicuramente! Buongiorno!- Serramazzoni s'avviò per le scale. L'usciere, che aveva visto la scena, chiese: − V'ha infastidito, professò? - − No, niente di che! Fantasticava d'avermi già conosciuto … che cosa assurda! - − Non vi preoccupate, il Germanese è fuori di testa -. − Germanese? - − Si! È il suo soprannome. In tempo di guerra, spinto dalla miseria, collaborò coi tedeschi. La gente di Policarno glie l'ha perdonato perché lui è stato sempre un po' matto e, probabilmente, non capiva la gravità di ciò che fecero la SS al paese -. − Ah! Capisco, … poverino … ora, se permettete, vorrei andare nel mio ufficio - − Oh! Scusate professò! Prego -. La scelta di quell'ufficio non era frutto di un immotivato capriccio.