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SCENEGGIATURA CONCORSO “VITE SPEZZATE”
Classe 4A LSU dell’I.I.S. DA VINCI-AGHERBINO, Noci (BA)
A.S. 2022/2023
“VOGLIO VEDERE IL MARE”
PERSONAGGI:
- MAYA (bambina che parla dal grembo materno)
- EMMA (infermiera incinta, mamma di Maya)
- MEDICO DEL PRONTO SOCCORSO (voce fuori campo)
- LUCA (rider di un ristorante)
- FARA (bracciante agricola)
- CLAUDIA (bracciante agricola)
- ENZO (operaio)
- GIUSEPPE (figlio di Enzo)
TRAMA: La storia si svolge all’interno del pronto soccorso di un ospedale. la protagonista è
una bambina che parla dal grembo materno. La mamma lavora come infermiera nel pronto
soccorso ed è ancora in servizio nonostante sia al settimo mese di gravidanza. Per amore
della sua professione e, considerata la scarsità del personale sanitario a disposizione, sceglie
di continuare a recarsi a lavoro. La bambina ascolta le voci e le testimonianze di alcuni
pazienti giunti al pronto soccorso che interagiscono con la mamma infermiera, cui confidano
di avere avuto degli incidenti sul posto di lavoro. La protagonista riflette sul senso della vita e
sui pericoli che la attendono. Si interroga sulla paura dei pazienti e sulla loro rabbia per
quanto poco venga tutelata la loro salute e la loro vita sul posto di lavoro.
La bambina si rivolge ai degenti con parole di speranza. Nonostante la sofferenza e
l’ingiustizia cui la protagonista assiste, la sceneggiatura si conclude con un monologo finale
sull’importanza della vita e sulla speranza di una tutela maggiore della sicurezza sul posto di
lavoro.
ATTO I
Il palco è privo di scenografia. Nel buio della scena, al centro compare una bambina che viene
illuminata da un fascio di luce. Lei è Maya, che dal grembo materno ascolta le conversazioni
tra la mamma Emma, infermiera al settimo mese di gravidanza che, per la passione nel suo
lavoro e anche per la mancanza di personale sanitario, decide di continuare a prestare
servizio nel pronto soccorso dell’ospedale in cui è assunta, e tre pazienti che vengono
trasferiti al pronto soccorso dopo aver subito degli incidenti durante l’orario di servizio.
MAYA: (Parla con tono entusiastico seduta al centro del palco. Una luce calda e tonda la
illumina).
La mia mamma mi dice sempre che la vita è meravigliosa! Che quando uscirò da qui potrò
vedere cose di straordinaria bellezza, che potrò crescere, avere un lavoro e magari diventare
una musicista. Perchè la mia mamma ascolta sempre la musica. Si, credo si chiami così quel
suono strano che mi fa scalciare sempre. Mi piace! Poi c’è un motivetto che canta sempre
che dice “sei un essere speciale, ed io avrò cura di te”. Ogni sera prima di addormentarsi,
accarezza la pancia e dice “Maya, ti amo tanto. Ti proteggerò sempre”. Ma proteggermi da
cosa? La vita qui è fantastica! Chiusa, al calduccio, sto così comoda. Certo, ci sono momenti
che la mamma è davvero agitata, e io continuo a rotolare e fare capriole. Sento tante voci
confuse, grida, i passi frettolosi della mamma. Capisco che c’è qualcosa lì fuori che non la
rende serena eppure la sua voce è sempre così dolce, tranquilla.
(Inizia ad agitarsi come se qualcosa la stesse scuotendo).
Ecco, inizia di nuovo a correre. Il papà si sta arrabbiando e le sta dicendo che non è
necessario che continui ad andare in ospedale. Ma che cosa è? So solo che quando mamma
arriva in questo “ospedale”, è proprio li che inizio a fare le capriole.
Che bella la mia mamma. Anche se si agita, sento che lei è felice lì.
Parla a quelle voci con lo stesso amore con cui si rivolge a me. Chi sono? Da dove
provengono? Inizio ad essere gelosa!
Si sente il suono di un’ambulanza avvicinarsi. Rumore di passi frettolosi e voci in sottofondo.
A parlare è il medico dell’ambulanza che si rivolge all’infermiera Emma. Le luci rimangono
puntate su Maya al centro del palco.
Voci fuori campo.
MEDICO: Il ragazzo è caduto dalla bici. Lussazione della spalla destra, sospetta frattura della
caviglia destra e trauma cranico non commotivo. Sembra ricordare cosa sia successo.
Teniamolo in osservazione ma ho bisogno che mi prepari subito del ghiaccio e che blocchi
l’arto con un bendaggio.
EMMA: Va bene, dottore.
MEDICO: Emma, è sicura di poterlo fare?
EMMA: Certo, dottore! Non devo mica scalare una montagna! E poi la piccola qui deve
abituarsi ai ritmi della vita. Mi sento molto fortunata. La gravidanza procede magnificamente
e senza troppa fatica, così posso continuare a lavorare. È come se la bimba percepisse il mio
desiderio di accudire i pazienti e capisse che il mio posto è ancora qui.
MEDICO: Porterai alla luce una vera guerriera, cara!
MAYA: Mmmh, sentito quanto la mia mamma sia orgogliosa di me? Sento il suo cuoricino
battere forte e il respiro gonfiarle il petto. (Agitandosi) Però, mamma, ho capito che sono
brava a seguire i tuoi ritmi, ma vacci piano, eh!
Si spegne la luce su Maya. Si illumina il lato destro del palco. In scena compare un ragazzo
disteso sulla barella. Il suo nome è Luca, ha 19 anni e per potersi pagare gli studi, di sera,
lavora come rider di un ristorante.
Con voce sofferente inizia a parlare ad Emma raccontandole cosa gli sia successo.
EMMA: Ciao Luca. In attesa che arrivi il dottore ti metto del ghiaccio sul piede. Speriamo non
ci sia nessuna frattura (Emma poggia un sacchetto contenente del finto ghiaccio sul piede di
Luca).
LUCA: (Immobile sulla barella con un collare al collo) Speriamo, altrimenti chi lo sente il mio
datore di lavoro. Sono prezioso per lui. Ho fatto ciclismo per tanti anni e riesco a fare delle
consegne in tempi che nemmeno il Tuor de France ha mai visto.
EMMA: (Con tono di rimprovero) Non portavi il caschetto perchè pensi di essere un
professionista? Avresti potuto evitare di sbattere la testa così forte.
LUCA: Con tutta onestà, sono due mesi dall’assunzione che sto chiedendo di fornirmi il
caschetto e continuano a dirmi che non sono ancora pronti perchè ci stanno stampando il
logo del ristorante. Si rende conto?! Per uno stupido logo sono finito su una barella.
EMMA: Per una stupida pigrizia potevi tranquillamente metterne uno di riserva nell’attesa di
quello ufficiale. Ma come siete voi ragazzi? Vedrai non appena nasce la mia come deve filare
dritto.
LUCA: Non avevo visto che fosse in attesa. Ma chi glielo fa fare?
EMMA: (Continuando a mantenere la busta del ghiaccio sul piede di Luca) Me lo fa fare il
fatto che al tuo posto poteva starci questo fagottino che ho nella pancia. Sono un’infermiera.
È questo il mio posto. Ma dimmi, come hai fatto a fare quella caduta pazzesca dalla bicicletta?
Pedalavi veloce, vero?
LUCA: Sono un amante del rischio (sarcastico) e poi più consegne riusciamo a fare più sale la
paga. E di soldi, in questo periodo, ne ho veramente bisogno. Ho perso la borsa di studio e le
tasse universitarie sono aumentate a dismisura.
EMMA: Ti fa onore che tu provveda a contribuire alle spese della famiglia.
LUCA: Dopo il lockdown del 2020 i miei hanno perso la loro attività. Erano titolari di un
ristorante. Come le faceva mia mamma le bombette di carne, non le fa nessuno! Purtroppo
già avevamo avuto altre uscite per alcune migliorie nell’attività e poi con la chiusura non
siamo più riusciti a rimetterci in sesto. Io quell’anno mi ero iscritto all’università di economia
e marketing, perchè volevo far crescere l’attività di famiglia.
EMMA: Mi sembri un ragazzo ambizioso e volenteroso. Magari un giorno riuscirai a restituire
ai tuoi genitori il sogno che avevano realizzato insieme.
LUCA: Ambizioso e volenteroso ma anche un pò sfigato. Quella buca non l’avevo proprio vista.
Avevo dimenticato che in quella zona la strada è veramente pietosa. Le buche sembrano
crateri lunari. Non potevo immaginare che fosse così profonda. È stato un attimo ma è come
se il tempo si fosse fermato. Ricordo che ho spalancato gli occhi e il mondo mi girava intorno.
In quel momento ho pensato ai miei genitori, e cosa sarebbe successo se io non ci fossi stato
più. Se non mi fossi più riscattato del loro fallimento, se non li avessi più resi orgogliosi dei
mie traguardi, se non mi fossi più seduto ad assaporare le bombette della mia mamma e non
le avessi più detto quanto fossero magiche le sue mani in cucina e così mantenerle accesa la
speranza di poter tornare a cucinare per i suoi clienti. È il suo volto che ho visto quando sono
caduto. Ho sentito la testa in fiamme, come se della lava bollente mi scendesse giù fino al
collo. Poi il buio e il silenzio. (Spaventato, prende la mano di Emma e piange). Ho paura!
EMMA: Stai tranquillo. Hai fatto una brutta caduta ma vedrai che starai meglio (Emma
sorride ma la sua espressione è preoccupata).
Si spengono le luci al lato della scena e viene illuminata Maya.
MAYA: Ma allora anche io un giorno dovrò prendermi cura della mia mamma e del mio papà?
È così che funziona? Sono un pò confusa. Prima ti fanno nascere, ti nutrono, si occupano di
te e poi dobbiamo fare lo stesso con loro? Che presa in giro è mai questa?! (Guarda in alto,
arrabbiata) Questo cordone ombellicale ve lo sognate di tagliarlo! Non l’ho mica chiesto io di
essere concepita! E come Luca, anche io ho tutto il diritto di essere sempre accudita dai miei
genitori. Poverino! Loro falliscono e lui deve lavorare e provvedere a tutti. E guarda cosa gli è
successo per aiutare gli altri! (Cambia tono, più riflessivo) Però, anche la mia mamma mi
chiede tante volte di aiutarla. Ogni volta che mi prega di stare tranquilla, di nascere sana, di
non farle salire la nausea, di farla riposare . Ed io lo faccio, senza nemmeno pensarci. È come
se una forza incontrollabile mi spingesse a fare ciò che la rende felice. Un istinto naturale che
nasce qui, dal profondo del mio petto e attraversa tutto il mio corpicino. Non sarà forse
questa la sensazione che chiamano “amore”? Esiste davvero qualcosa di così grande e
incondizionato? Sarà anche questo il senso della vita che mi aspetta lì fuori? Prendersi cura
dell’altro. L’amore chiama sempre amore.
ATTO II
Si sente il suono del citofono del pronto soccorso e una voce femminile fuori campo. Lei è
Fara, una bracciante agricola che ha accompagnato al pronto soccorso la sua amica e collega
Claudia perchè ha avuto un malore mentre era a lavoro nei campi. Nonostante avessero
chiamato l’ambulanza, questa tardava ad arrivare così Fara ha deciso di accompagnare
personalmente Claudia per farla visitare. Emma apre la porta. Viene illuminato il lato sinistro
della scena.
FARA: Mi aiuti presto, la mia collega sta male!
EMMA: Che cos’ha?
CLAUDIA: (Moribonda e respirando a fatica) Mi gira la testa, mi sento svenire e ho sete!
EMMA: Sembra completamente disidradata! Le porto subito dell’acqua e facciamo
un’elettrolitica. Ma prima si sieda qui così facciamo un prelievo (avvicina una carrozzella e
insieme a Fara aiuta Claudia a sedersi).
Come ti chiami? (Claudia cerca di parlare ma blatera qualcosa che non si capisce).
FARA: Si chiama Claudia Perotti, lavoriamo insieme.
EMMA: (rivolgendosi a Claudia) Ti ricordi quanti anni hai o che giorno è oggi?
CLAUDIA: (Claudia guarda prima Emma e poi Fara ma sembra essere smarrita e confusa)
EMMA: (Verso Fara) Mi sa dire lei cosa è successo?
FARA: (Spaventata) Si è sentita male mentre stavamo lavorando. Abbiamo chiamato
l’ambulanza ma non arrivava. Così l’ho accompagnata io anche se forse mi costerà il
licenziamento per aver disubbidito al titolare.
EMMA: Ma dove lavorate?
FARA: In campagna. Stamattina faceva un caldo infernale. Claudia avrà sicuramente preso un
colpo di sole ma sono giorni che non sta bene. I ritmi di lavoro sono stati molto estenuanti in
questo periodo. Con questo caldo poi, è disumano lavorare tutte quelle ore, sotto il sole,
senza fare nemmeno una pausa. Abbiamo delle consegne da rispettare con la raccolta e il
confezionamento dei prodotti e il nostro titolare non transige pause e chiede di fare gli
straordinari. Quando io e Claudia ci siamo incontrate sul pullman, questa mattina, l’ho vista
pallida e non ha detto una parola durante le prime ore di lavoro. Oltre ad essere stanca
sembrava arrabbiata. Pur sapendo di non stare bene, non poteva assentarsi e perdere la
giornata perchè già è dura andare avanti con questa misera paga. Erano forse le undici
quando improvvisamente è svenuta. Noi abbiamo detto al titolare “e dalle un pò d’acqua che
si riprende” ma lui non ne ha voluto sapere. Dice che lo facciamo apposta a perdere tempo
perchè non ci va di lavorare.
EMMA: Mi sta dicendo che non credeva che la signora si stesse sentendo male? E non ha
fatto nulla per aiutarla?
FARA: Siamo trattate come macchine! Come se non avessimo un corpo che può ferirsi, come
se non avessimo emozioni, come se non avessimo le nostre vite e le nostre preoccupazioni
oltre il lavoro. Per loro siamo delle braccia che svuotano i loro campi e riempiono le loro
tasche.
CLAUDIA: (Scattando improvvisamente) Il bambino!! Devo andare a prenderlo da scuola. Il
bambino mio, dove sta?
FARA: Non preoccuparti, ci penso io. Vado a prenderlo io e lo porto qui da te, va bene? Stai
tranquilla. (Rivolgendosi ad Emma) Lei è sola. Il compagno l’ha lasciata qualche mese fa ed è
l’unica ad occupurasi dei suoi figli. Capisce perchè non abbiamo diritto a contestare?
EMMA: Ma avete diritto alla dignità!
FARA: Che significato ha questa parola per chi vive di interesse e profitto? Che significato ha
la dignità quando sei costretta a non vedere o a dimenticare gli abusi dei più forti? “Questo è
il lavoro, se ti sta bene. Altrimenti una se ne va, dieci ne trovo”. Siamo solo numeri, con la
terra incrostata nelle unghia, con il viso bruciato dal sole, con dei figli a casa che aspettano di
giocare con noi e invece al rientro da scuola trovano un piatto tiepido in tavola e il silenzio di
una mamma troppo stanca per sedersi accanto a loro e sorridergli. Spero che un giorno ci
perdonino per la nostra assenza. Avremmo potuto amarli di più.
EMMA: Il sacrificio di un genitore è già un atto di amore.
Si spengono le luci sulle tre donne e viene illuminata Maya al centro del palco.
MAYA: Il sacrificio di un genitore è un atto di amore come la comprensione di un figlio. Com’è
contorta la vita lì fuori. È tutto un casino! Quanta sofferenza, quanta ingiustizia! (Si stende sul
palco con la braccia spalancate) Io da qui non mi muovo! Ve lo potete scordare! (Torna a
sedersi) E se un giorno anche il mio amore mi lascerà da sola a crescere i nostri figli? Chi si
prenderà cura di noi? Può l’essere umano essere così meschino ed egoista? Come può
l’amore essere un sentimento talmente forte e potente ma anche così volubile e passeggero?
“La compassione e il rispetto muovono la macchina del mondo” sento dire dalla mamma. Per
Claudia non c’è stata alcuna compassione. Eppure lei non si è arresa. Perchè seguire delle
regole ingiuste non ti rende uno sconfitto, ma è un atto di coraggio continuare a subirle per
proteggere qualcosa di più importante. Allora, forse, ne vale la pena.
ATTO III
Entrano in scena un uomo, Enzo ex operaio sessantenne e suo figlio Giuseppe.
L’uomo entra tutto tremante con un giubbotto sulle spalle mentre suo figlio lo aiuta a
camminare. Gli viene incontro Emma.
EMMA: Signori, posso aiutarvi?
ENZO: (Agitato e tremolante) Non mi sento bene, non riesco a smettere in tremare e a
sudare e penso di avere la febbre. Mi gira la testa e ho un forte senso di nausea.
EMMA: Ha preso qualche farmaco?
ENZO: Veramente ho ripreso a fare la chemioterapia, ma sembra che il mio corpo questa
volta si stia ribellando.
EMMA: La faccio subito accomodare e le chiamo il dottore.
GIUSEPPE: Papà stai tranquillo. Non devi agitarti così.
ENZO: Eh lo so, figlio mio, ma questa condanna a vita mi sta prosciugando. E in questa vita ho
ho lottato fin troppo.
EMMA: (Rientra con una sedia e un termometro) Le misuro subito la febbre e poi facciamo la
valutazione dei parametri vitali, prelievo e l’elettrocardiogramma. Da quanto tempo è in
terapia?
ENZO: (Si siede) Ormai l’ho dimenticato. Sono così tanti anni che la malattia sta cercando di
spegnermi. Il lavoro dovrebbe garantire la qualità della vita, il mio invece ha contribuito a
spezzarla. E la cosa peggiore è che in questo calvario sto trascinando tutta la mia famiglia.
GIUSEPPE: Smettila di dire così. Tu ci hai sempre insegnato ad essere forti e a lottare, non
puoi mollare proprio adesso. Non puoi lasciarti andare.
EMMA: Se posso permettermi. Suo figlio ha ragione, signor Enzo. Ne vale sempre la pena
continuare a godere di ogni singolo momento.
ENZO: (Guarda il ventre dell’infermiera) Ha ragione.
EMMA: Prima ha parlato del suo lavoro che gli sta portando via la vita, posso chiederle cosa
intendeva?
ENZO: Faccio l’operaio da quando avevo 20 anni. Il “sidellurgico” lo chiamava mio nonno. È
stato lui che mi ha aiutato ad entrare in fabbrica. A quell’età avevo tanti sogni e progetti. E ce
l’ho fatta. Mi sono sposato, sono riuscito a comprare casa e dare una stabilità alla mia
famiglia. A quarantacinque anni ho iniziato ad avere i primi malori. Pensavamo fosse
affaticamento per tutti i fumi che si respirano lì. Poi un giorno ebbi una crisi respiratoria e
una prospettiva di vita di altri due anni al massimo. Ogni volta che vedo quella nube
grigiastra salire dagli altiforni, vedo disperdersi nel cielo ogni secondo di vita che mi resta.
Sono stato fortunato perchè i due anni sono diventati cinque, poi dieci e poi quindici.
Fortunato ma anche condannato. Le terapie hanno prolungato il tempo ma lo hanno reso
sempre più doloroso. E non sa quante volte mi sento in colpa quando i figli dei miei stessi
amici si sono spenti ancora bambini per questo maledetto cancro. Quante bare bianche ho
dovuto salutare mentre io mi trascino ancora in questa vita. La finestra della mia stanza si
affaccia su uno scenario rossastro di morte. Poi, però, giro lo sguardo e sa cosa vedo?
EMMA: Cosa?
ENZO: Il mare! Mi perdo in quello spettacolo e desidero poterlo vedere per sempre. Quando
seppi della malattia, portavo i miei figli giù al porto e gli dicevo di guardare la linea che
separa il mare dal cielo perchè è lì che custodiamo i nostri sogni. E quando siamo tristi
dobbiamo volgere lo sguardo a quell’orizzonte per ricordarci che abbiamo ancora dei sogni
da realizzare. Ogni giorno all’alba e al tramonto piango per quanta bellezza ci sia in questo
mondo e per quanto noi uomini lo stiamo distruggendo. Mettere al mondo un figlio oggi è
un atto di coraggio. Spero che suo figlio abbia il coraggio di lottare per la propria vita perchè
niente e nessuno possa portagliela via.
Si spengono le luci. Dopo qualche secondo di silenzio, si accende la luce su Maya che questa
volta parla in piedi.
MAYA: Anche io voglio vedere il mare! Voglio emozionarmi come Enzo e ad ogni tramonto
attendere che ci sia una nuova alba. Come queste persone, voglio trovare la forza di
proteggere la mia vita e quella degli altri. Voglio sperare che ci siano uomini capaci di
mettere da parte il proprio interesse per rispettare la dignità dell’altro. Adesso capisco
quando la mamma dice che “il lavoro è ciò che sostiene la vita e la nostra identità. Definisce
quello che siamo, le nostre attitudini, talenti, conoscenze, progetti”. Nel lavoro si concretizza
il nostro più profondo essere, i nostri desideri e sentimenti. Ma tanto il lavoro contribuisce a
costruire una vita, tanto può spezzarla. Luca, Claudia ed Enzo sono stati feriti dalla
superficialità, dall’indifferenza, dal gioco del profitto. Vi prometto che troverò un domani la
forza e il coraggio di lottare per un mondo più giusto. Perchè tutti possano continuare a
sognare d’avanti il mare.
Si spengono le luci. Fuori campo si sentono voci concitate, passi frettolosi, rumori di barella.
VOCI FUORI CAMPO:
Dobbiamo fare presto il paziente sta avendo un’emorragia.
Cosa sta succedendo?
Come è possibile?
Veloci prendete un defribrillatore, la paziente sta avendo un infarto!
Forza, andiamo!
Scarica! Ancora, non mollare!
Si sente il suono prolungato della linea isoelettrica dell’Ecg.
Nel buio della scena, entra Maya, ormai grande, con tre candele accese.
MAYA: La mia mamma mi ha sempre detto che la vita è meravigliosa. Non ha mai smesso di
insegnarmi a difenderla e a rispettarla. Da quando sono nata, ad ogni mio compleanno mi fa
accendere tre candele. Una è per Luca, una per Claudia e l’altra per Enzo. Io non so chi siano,
non li ho mai visti, ma posso ricordarli nell’amore e nella compassione della mia mamma
quando parla di loro, come se li avessi già conosciuti. “Si sono spenti tra le mie braccia”,
racconta la mamma, “e abbiamo il dovere di mantenere accesa la fiamma del loro ricordo
per commemorare quella dignità che gli è stata strappata insieme alla vita”. Sento di aver
conosciuto l’egoismo umano, l’indifferenza, la rabbia e la paura ancora prima di nascere. Ho
sentito vite spezzarsi mentre la mia stava ancora iniziando e mi porto nel cuore le storie di
uomini e donne che non hanno rinunciato ai loro sogni, che hanno protetto la loro famiglia,
che hanno insegnato a mantenere accesa la speranza laddove il buio li circondava.
Non c’è diritto più grande della vita. E se tutti insieme saremo vicini, non ci sarà vento
talmente forte a spegnere questa luce!
FINE

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Voglio vedere il mare

  • 1. SCENEGGIATURA CONCORSO “VITE SPEZZATE” Classe 4A LSU dell’I.I.S. DA VINCI-AGHERBINO, Noci (BA) A.S. 2022/2023 “VOGLIO VEDERE IL MARE” PERSONAGGI: - MAYA (bambina che parla dal grembo materno) - EMMA (infermiera incinta, mamma di Maya) - MEDICO DEL PRONTO SOCCORSO (voce fuori campo) - LUCA (rider di un ristorante) - FARA (bracciante agricola) - CLAUDIA (bracciante agricola) - ENZO (operaio) - GIUSEPPE (figlio di Enzo) TRAMA: La storia si svolge all’interno del pronto soccorso di un ospedale. la protagonista è una bambina che parla dal grembo materno. La mamma lavora come infermiera nel pronto soccorso ed è ancora in servizio nonostante sia al settimo mese di gravidanza. Per amore della sua professione e, considerata la scarsità del personale sanitario a disposizione, sceglie di continuare a recarsi a lavoro. La bambina ascolta le voci e le testimonianze di alcuni pazienti giunti al pronto soccorso che interagiscono con la mamma infermiera, cui confidano di avere avuto degli incidenti sul posto di lavoro. La protagonista riflette sul senso della vita e sui pericoli che la attendono. Si interroga sulla paura dei pazienti e sulla loro rabbia per quanto poco venga tutelata la loro salute e la loro vita sul posto di lavoro. La bambina si rivolge ai degenti con parole di speranza. Nonostante la sofferenza e l’ingiustizia cui la protagonista assiste, la sceneggiatura si conclude con un monologo finale sull’importanza della vita e sulla speranza di una tutela maggiore della sicurezza sul posto di lavoro. ATTO I Il palco è privo di scenografia. Nel buio della scena, al centro compare una bambina che viene illuminata da un fascio di luce. Lei è Maya, che dal grembo materno ascolta le conversazioni tra la mamma Emma, infermiera al settimo mese di gravidanza che, per la passione nel suo lavoro e anche per la mancanza di personale sanitario, decide di continuare a prestare servizio nel pronto soccorso dell’ospedale in cui è assunta, e tre pazienti che vengono trasferiti al pronto soccorso dopo aver subito degli incidenti durante l’orario di servizio. MAYA: (Parla con tono entusiastico seduta al centro del palco. Una luce calda e tonda la illumina). La mia mamma mi dice sempre che la vita è meravigliosa! Che quando uscirò da qui potrò
  • 2. vedere cose di straordinaria bellezza, che potrò crescere, avere un lavoro e magari diventare una musicista. Perchè la mia mamma ascolta sempre la musica. Si, credo si chiami così quel suono strano che mi fa scalciare sempre. Mi piace! Poi c’è un motivetto che canta sempre che dice “sei un essere speciale, ed io avrò cura di te”. Ogni sera prima di addormentarsi, accarezza la pancia e dice “Maya, ti amo tanto. Ti proteggerò sempre”. Ma proteggermi da cosa? La vita qui è fantastica! Chiusa, al calduccio, sto così comoda. Certo, ci sono momenti che la mamma è davvero agitata, e io continuo a rotolare e fare capriole. Sento tante voci confuse, grida, i passi frettolosi della mamma. Capisco che c’è qualcosa lì fuori che non la rende serena eppure la sua voce è sempre così dolce, tranquilla. (Inizia ad agitarsi come se qualcosa la stesse scuotendo). Ecco, inizia di nuovo a correre. Il papà si sta arrabbiando e le sta dicendo che non è necessario che continui ad andare in ospedale. Ma che cosa è? So solo che quando mamma arriva in questo “ospedale”, è proprio li che inizio a fare le capriole. Che bella la mia mamma. Anche se si agita, sento che lei è felice lì. Parla a quelle voci con lo stesso amore con cui si rivolge a me. Chi sono? Da dove provengono? Inizio ad essere gelosa! Si sente il suono di un’ambulanza avvicinarsi. Rumore di passi frettolosi e voci in sottofondo. A parlare è il medico dell’ambulanza che si rivolge all’infermiera Emma. Le luci rimangono puntate su Maya al centro del palco. Voci fuori campo. MEDICO: Il ragazzo è caduto dalla bici. Lussazione della spalla destra, sospetta frattura della caviglia destra e trauma cranico non commotivo. Sembra ricordare cosa sia successo. Teniamolo in osservazione ma ho bisogno che mi prepari subito del ghiaccio e che blocchi l’arto con un bendaggio. EMMA: Va bene, dottore. MEDICO: Emma, è sicura di poterlo fare? EMMA: Certo, dottore! Non devo mica scalare una montagna! E poi la piccola qui deve abituarsi ai ritmi della vita. Mi sento molto fortunata. La gravidanza procede magnificamente e senza troppa fatica, così posso continuare a lavorare. È come se la bimba percepisse il mio desiderio di accudire i pazienti e capisse che il mio posto è ancora qui. MEDICO: Porterai alla luce una vera guerriera, cara! MAYA: Mmmh, sentito quanto la mia mamma sia orgogliosa di me? Sento il suo cuoricino battere forte e il respiro gonfiarle il petto. (Agitandosi) Però, mamma, ho capito che sono brava a seguire i tuoi ritmi, ma vacci piano, eh!
  • 3. Si spegne la luce su Maya. Si illumina il lato destro del palco. In scena compare un ragazzo disteso sulla barella. Il suo nome è Luca, ha 19 anni e per potersi pagare gli studi, di sera, lavora come rider di un ristorante. Con voce sofferente inizia a parlare ad Emma raccontandole cosa gli sia successo. EMMA: Ciao Luca. In attesa che arrivi il dottore ti metto del ghiaccio sul piede. Speriamo non ci sia nessuna frattura (Emma poggia un sacchetto contenente del finto ghiaccio sul piede di Luca). LUCA: (Immobile sulla barella con un collare al collo) Speriamo, altrimenti chi lo sente il mio datore di lavoro. Sono prezioso per lui. Ho fatto ciclismo per tanti anni e riesco a fare delle consegne in tempi che nemmeno il Tuor de France ha mai visto. EMMA: (Con tono di rimprovero) Non portavi il caschetto perchè pensi di essere un professionista? Avresti potuto evitare di sbattere la testa così forte. LUCA: Con tutta onestà, sono due mesi dall’assunzione che sto chiedendo di fornirmi il caschetto e continuano a dirmi che non sono ancora pronti perchè ci stanno stampando il logo del ristorante. Si rende conto?! Per uno stupido logo sono finito su una barella. EMMA: Per una stupida pigrizia potevi tranquillamente metterne uno di riserva nell’attesa di quello ufficiale. Ma come siete voi ragazzi? Vedrai non appena nasce la mia come deve filare dritto. LUCA: Non avevo visto che fosse in attesa. Ma chi glielo fa fare? EMMA: (Continuando a mantenere la busta del ghiaccio sul piede di Luca) Me lo fa fare il fatto che al tuo posto poteva starci questo fagottino che ho nella pancia. Sono un’infermiera. È questo il mio posto. Ma dimmi, come hai fatto a fare quella caduta pazzesca dalla bicicletta? Pedalavi veloce, vero? LUCA: Sono un amante del rischio (sarcastico) e poi più consegne riusciamo a fare più sale la paga. E di soldi, in questo periodo, ne ho veramente bisogno. Ho perso la borsa di studio e le tasse universitarie sono aumentate a dismisura. EMMA: Ti fa onore che tu provveda a contribuire alle spese della famiglia. LUCA: Dopo il lockdown del 2020 i miei hanno perso la loro attività. Erano titolari di un ristorante. Come le faceva mia mamma le bombette di carne, non le fa nessuno! Purtroppo già avevamo avuto altre uscite per alcune migliorie nell’attività e poi con la chiusura non siamo più riusciti a rimetterci in sesto. Io quell’anno mi ero iscritto all’università di economia e marketing, perchè volevo far crescere l’attività di famiglia. EMMA: Mi sembri un ragazzo ambizioso e volenteroso. Magari un giorno riuscirai a restituire
  • 4. ai tuoi genitori il sogno che avevano realizzato insieme. LUCA: Ambizioso e volenteroso ma anche un pò sfigato. Quella buca non l’avevo proprio vista. Avevo dimenticato che in quella zona la strada è veramente pietosa. Le buche sembrano crateri lunari. Non potevo immaginare che fosse così profonda. È stato un attimo ma è come se il tempo si fosse fermato. Ricordo che ho spalancato gli occhi e il mondo mi girava intorno. In quel momento ho pensato ai miei genitori, e cosa sarebbe successo se io non ci fossi stato più. Se non mi fossi più riscattato del loro fallimento, se non li avessi più resi orgogliosi dei mie traguardi, se non mi fossi più seduto ad assaporare le bombette della mia mamma e non le avessi più detto quanto fossero magiche le sue mani in cucina e così mantenerle accesa la speranza di poter tornare a cucinare per i suoi clienti. È il suo volto che ho visto quando sono caduto. Ho sentito la testa in fiamme, come se della lava bollente mi scendesse giù fino al collo. Poi il buio e il silenzio. (Spaventato, prende la mano di Emma e piange). Ho paura! EMMA: Stai tranquillo. Hai fatto una brutta caduta ma vedrai che starai meglio (Emma sorride ma la sua espressione è preoccupata). Si spengono le luci al lato della scena e viene illuminata Maya. MAYA: Ma allora anche io un giorno dovrò prendermi cura della mia mamma e del mio papà? È così che funziona? Sono un pò confusa. Prima ti fanno nascere, ti nutrono, si occupano di te e poi dobbiamo fare lo stesso con loro? Che presa in giro è mai questa?! (Guarda in alto, arrabbiata) Questo cordone ombellicale ve lo sognate di tagliarlo! Non l’ho mica chiesto io di essere concepita! E come Luca, anche io ho tutto il diritto di essere sempre accudita dai miei genitori. Poverino! Loro falliscono e lui deve lavorare e provvedere a tutti. E guarda cosa gli è successo per aiutare gli altri! (Cambia tono, più riflessivo) Però, anche la mia mamma mi chiede tante volte di aiutarla. Ogni volta che mi prega di stare tranquilla, di nascere sana, di non farle salire la nausea, di farla riposare . Ed io lo faccio, senza nemmeno pensarci. È come se una forza incontrollabile mi spingesse a fare ciò che la rende felice. Un istinto naturale che nasce qui, dal profondo del mio petto e attraversa tutto il mio corpicino. Non sarà forse questa la sensazione che chiamano “amore”? Esiste davvero qualcosa di così grande e incondizionato? Sarà anche questo il senso della vita che mi aspetta lì fuori? Prendersi cura dell’altro. L’amore chiama sempre amore. ATTO II Si sente il suono del citofono del pronto soccorso e una voce femminile fuori campo. Lei è Fara, una bracciante agricola che ha accompagnato al pronto soccorso la sua amica e collega Claudia perchè ha avuto un malore mentre era a lavoro nei campi. Nonostante avessero chiamato l’ambulanza, questa tardava ad arrivare così Fara ha deciso di accompagnare personalmente Claudia per farla visitare. Emma apre la porta. Viene illuminato il lato sinistro della scena. FARA: Mi aiuti presto, la mia collega sta male!
  • 5. EMMA: Che cos’ha? CLAUDIA: (Moribonda e respirando a fatica) Mi gira la testa, mi sento svenire e ho sete! EMMA: Sembra completamente disidradata! Le porto subito dell’acqua e facciamo un’elettrolitica. Ma prima si sieda qui così facciamo un prelievo (avvicina una carrozzella e insieme a Fara aiuta Claudia a sedersi). Come ti chiami? (Claudia cerca di parlare ma blatera qualcosa che non si capisce). FARA: Si chiama Claudia Perotti, lavoriamo insieme. EMMA: (rivolgendosi a Claudia) Ti ricordi quanti anni hai o che giorno è oggi? CLAUDIA: (Claudia guarda prima Emma e poi Fara ma sembra essere smarrita e confusa) EMMA: (Verso Fara) Mi sa dire lei cosa è successo? FARA: (Spaventata) Si è sentita male mentre stavamo lavorando. Abbiamo chiamato l’ambulanza ma non arrivava. Così l’ho accompagnata io anche se forse mi costerà il licenziamento per aver disubbidito al titolare. EMMA: Ma dove lavorate? FARA: In campagna. Stamattina faceva un caldo infernale. Claudia avrà sicuramente preso un colpo di sole ma sono giorni che non sta bene. I ritmi di lavoro sono stati molto estenuanti in questo periodo. Con questo caldo poi, è disumano lavorare tutte quelle ore, sotto il sole, senza fare nemmeno una pausa. Abbiamo delle consegne da rispettare con la raccolta e il confezionamento dei prodotti e il nostro titolare non transige pause e chiede di fare gli straordinari. Quando io e Claudia ci siamo incontrate sul pullman, questa mattina, l’ho vista pallida e non ha detto una parola durante le prime ore di lavoro. Oltre ad essere stanca sembrava arrabbiata. Pur sapendo di non stare bene, non poteva assentarsi e perdere la giornata perchè già è dura andare avanti con questa misera paga. Erano forse le undici quando improvvisamente è svenuta. Noi abbiamo detto al titolare “e dalle un pò d’acqua che si riprende” ma lui non ne ha voluto sapere. Dice che lo facciamo apposta a perdere tempo perchè non ci va di lavorare. EMMA: Mi sta dicendo che non credeva che la signora si stesse sentendo male? E non ha fatto nulla per aiutarla? FARA: Siamo trattate come macchine! Come se non avessimo un corpo che può ferirsi, come se non avessimo emozioni, come se non avessimo le nostre vite e le nostre preoccupazioni oltre il lavoro. Per loro siamo delle braccia che svuotano i loro campi e riempiono le loro tasche.
  • 6. CLAUDIA: (Scattando improvvisamente) Il bambino!! Devo andare a prenderlo da scuola. Il bambino mio, dove sta? FARA: Non preoccuparti, ci penso io. Vado a prenderlo io e lo porto qui da te, va bene? Stai tranquilla. (Rivolgendosi ad Emma) Lei è sola. Il compagno l’ha lasciata qualche mese fa ed è l’unica ad occupurasi dei suoi figli. Capisce perchè non abbiamo diritto a contestare? EMMA: Ma avete diritto alla dignità! FARA: Che significato ha questa parola per chi vive di interesse e profitto? Che significato ha la dignità quando sei costretta a non vedere o a dimenticare gli abusi dei più forti? “Questo è il lavoro, se ti sta bene. Altrimenti una se ne va, dieci ne trovo”. Siamo solo numeri, con la terra incrostata nelle unghia, con il viso bruciato dal sole, con dei figli a casa che aspettano di giocare con noi e invece al rientro da scuola trovano un piatto tiepido in tavola e il silenzio di una mamma troppo stanca per sedersi accanto a loro e sorridergli. Spero che un giorno ci perdonino per la nostra assenza. Avremmo potuto amarli di più. EMMA: Il sacrificio di un genitore è già un atto di amore. Si spengono le luci sulle tre donne e viene illuminata Maya al centro del palco. MAYA: Il sacrificio di un genitore è un atto di amore come la comprensione di un figlio. Com’è contorta la vita lì fuori. È tutto un casino! Quanta sofferenza, quanta ingiustizia! (Si stende sul palco con la braccia spalancate) Io da qui non mi muovo! Ve lo potete scordare! (Torna a sedersi) E se un giorno anche il mio amore mi lascerà da sola a crescere i nostri figli? Chi si prenderà cura di noi? Può l’essere umano essere così meschino ed egoista? Come può l’amore essere un sentimento talmente forte e potente ma anche così volubile e passeggero? “La compassione e il rispetto muovono la macchina del mondo” sento dire dalla mamma. Per Claudia non c’è stata alcuna compassione. Eppure lei non si è arresa. Perchè seguire delle regole ingiuste non ti rende uno sconfitto, ma è un atto di coraggio continuare a subirle per proteggere qualcosa di più importante. Allora, forse, ne vale la pena. ATTO III Entrano in scena un uomo, Enzo ex operaio sessantenne e suo figlio Giuseppe. L’uomo entra tutto tremante con un giubbotto sulle spalle mentre suo figlio lo aiuta a camminare. Gli viene incontro Emma. EMMA: Signori, posso aiutarvi? ENZO: (Agitato e tremolante) Non mi sento bene, non riesco a smettere in tremare e a sudare e penso di avere la febbre. Mi gira la testa e ho un forte senso di nausea. EMMA: Ha preso qualche farmaco?
  • 7. ENZO: Veramente ho ripreso a fare la chemioterapia, ma sembra che il mio corpo questa volta si stia ribellando. EMMA: La faccio subito accomodare e le chiamo il dottore. GIUSEPPE: Papà stai tranquillo. Non devi agitarti così. ENZO: Eh lo so, figlio mio, ma questa condanna a vita mi sta prosciugando. E in questa vita ho ho lottato fin troppo. EMMA: (Rientra con una sedia e un termometro) Le misuro subito la febbre e poi facciamo la valutazione dei parametri vitali, prelievo e l’elettrocardiogramma. Da quanto tempo è in terapia? ENZO: (Si siede) Ormai l’ho dimenticato. Sono così tanti anni che la malattia sta cercando di spegnermi. Il lavoro dovrebbe garantire la qualità della vita, il mio invece ha contribuito a spezzarla. E la cosa peggiore è che in questo calvario sto trascinando tutta la mia famiglia. GIUSEPPE: Smettila di dire così. Tu ci hai sempre insegnato ad essere forti e a lottare, non puoi mollare proprio adesso. Non puoi lasciarti andare. EMMA: Se posso permettermi. Suo figlio ha ragione, signor Enzo. Ne vale sempre la pena continuare a godere di ogni singolo momento. ENZO: (Guarda il ventre dell’infermiera) Ha ragione. EMMA: Prima ha parlato del suo lavoro che gli sta portando via la vita, posso chiederle cosa intendeva? ENZO: Faccio l’operaio da quando avevo 20 anni. Il “sidellurgico” lo chiamava mio nonno. È stato lui che mi ha aiutato ad entrare in fabbrica. A quell’età avevo tanti sogni e progetti. E ce l’ho fatta. Mi sono sposato, sono riuscito a comprare casa e dare una stabilità alla mia famiglia. A quarantacinque anni ho iniziato ad avere i primi malori. Pensavamo fosse affaticamento per tutti i fumi che si respirano lì. Poi un giorno ebbi una crisi respiratoria e una prospettiva di vita di altri due anni al massimo. Ogni volta che vedo quella nube grigiastra salire dagli altiforni, vedo disperdersi nel cielo ogni secondo di vita che mi resta. Sono stato fortunato perchè i due anni sono diventati cinque, poi dieci e poi quindici. Fortunato ma anche condannato. Le terapie hanno prolungato il tempo ma lo hanno reso sempre più doloroso. E non sa quante volte mi sento in colpa quando i figli dei miei stessi amici si sono spenti ancora bambini per questo maledetto cancro. Quante bare bianche ho dovuto salutare mentre io mi trascino ancora in questa vita. La finestra della mia stanza si affaccia su uno scenario rossastro di morte. Poi, però, giro lo sguardo e sa cosa vedo? EMMA: Cosa?
  • 8. ENZO: Il mare! Mi perdo in quello spettacolo e desidero poterlo vedere per sempre. Quando seppi della malattia, portavo i miei figli giù al porto e gli dicevo di guardare la linea che separa il mare dal cielo perchè è lì che custodiamo i nostri sogni. E quando siamo tristi dobbiamo volgere lo sguardo a quell’orizzonte per ricordarci che abbiamo ancora dei sogni da realizzare. Ogni giorno all’alba e al tramonto piango per quanta bellezza ci sia in questo mondo e per quanto noi uomini lo stiamo distruggendo. Mettere al mondo un figlio oggi è un atto di coraggio. Spero che suo figlio abbia il coraggio di lottare per la propria vita perchè niente e nessuno possa portagliela via. Si spengono le luci. Dopo qualche secondo di silenzio, si accende la luce su Maya che questa volta parla in piedi. MAYA: Anche io voglio vedere il mare! Voglio emozionarmi come Enzo e ad ogni tramonto attendere che ci sia una nuova alba. Come queste persone, voglio trovare la forza di proteggere la mia vita e quella degli altri. Voglio sperare che ci siano uomini capaci di mettere da parte il proprio interesse per rispettare la dignità dell’altro. Adesso capisco quando la mamma dice che “il lavoro è ciò che sostiene la vita e la nostra identità. Definisce quello che siamo, le nostre attitudini, talenti, conoscenze, progetti”. Nel lavoro si concretizza il nostro più profondo essere, i nostri desideri e sentimenti. Ma tanto il lavoro contribuisce a costruire una vita, tanto può spezzarla. Luca, Claudia ed Enzo sono stati feriti dalla superficialità, dall’indifferenza, dal gioco del profitto. Vi prometto che troverò un domani la forza e il coraggio di lottare per un mondo più giusto. Perchè tutti possano continuare a sognare d’avanti il mare. Si spengono le luci. Fuori campo si sentono voci concitate, passi frettolosi, rumori di barella. VOCI FUORI CAMPO: Dobbiamo fare presto il paziente sta avendo un’emorragia. Cosa sta succedendo? Come è possibile? Veloci prendete un defribrillatore, la paziente sta avendo un infarto! Forza, andiamo! Scarica! Ancora, non mollare! Si sente il suono prolungato della linea isoelettrica dell’Ecg. Nel buio della scena, entra Maya, ormai grande, con tre candele accese. MAYA: La mia mamma mi ha sempre detto che la vita è meravigliosa. Non ha mai smesso di insegnarmi a difenderla e a rispettarla. Da quando sono nata, ad ogni mio compleanno mi fa accendere tre candele. Una è per Luca, una per Claudia e l’altra per Enzo. Io non so chi siano, non li ho mai visti, ma posso ricordarli nell’amore e nella compassione della mia mamma
  • 9. quando parla di loro, come se li avessi già conosciuti. “Si sono spenti tra le mie braccia”, racconta la mamma, “e abbiamo il dovere di mantenere accesa la fiamma del loro ricordo per commemorare quella dignità che gli è stata strappata insieme alla vita”. Sento di aver conosciuto l’egoismo umano, l’indifferenza, la rabbia e la paura ancora prima di nascere. Ho sentito vite spezzarsi mentre la mia stava ancora iniziando e mi porto nel cuore le storie di uomini e donne che non hanno rinunciato ai loro sogni, che hanno protetto la loro famiglia, che hanno insegnato a mantenere accesa la speranza laddove il buio li circondava. Non c’è diritto più grande della vita. E se tutti insieme saremo vicini, non ci sarà vento talmente forte a spegnere questa luce! FINE