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Il villaggio globale in un contesto aziendale. Intervista ad Alessandro
Olivero, HR Manager di Caffarel
A cura di Giulia Di Toro, Mariapina Esposito, Maria Chiara Esposito, Angela Gaggiano,
Francesca Mascioli - Master Risorse Umane e Organizzazione 2016-2017
L’intervista al dott. Olivero ci ha permesso di comprendere, tra le tante cose, la complessità e la dinamicità
del ruolo dell’HR nell’era moderna e quanto sia necessario considerare non solo la dimensione globale
ma anche, e soprattutto, il contesto locale che circonda l’azienda.
Dottor Olivero, ci può raccontare come è
approdato alla posizione che attualmente
ricopre e come si è evoluto il suo ruolo nel
corso degli anni?
Fino a sei anni fa ero responsabile Risorse Umane
per una fetta di popolazione aziendale della
“Alstom transport”, in cui rispondevo ad un HR
director e seguivo la parte “operation activities
supply chain” di quello stabilimento. Sei anni fa,
tramite un head hunter, mi è stata data la possibilità
di entrare in Caffarel e gestire in toto le risorse
umane dell’azienda. Quest’offerta di lavoro per
me significava sia un avanzamento di posizione
aziendale, sia un arricchimento del mio bagaglio
di interazioni, in quanto avrei dovuto occuparmi di
tutte le attività cardine dei processi HR: selezione,
formazione, sviluppo, compensation e benefits,
relazionisindacali,nonchélapartedicomunicazione
e di valutazione. Allettato in primo luogo da
questa prospettiva, ma anche dal notissimo brand
dell’azienda in un CCNL (Alimentare Industria) fino
ad allora non ancora da me sperimentato, decisi di
accettare e dopo sette step, che caratterizzarono
il processo di selezione, riuscii ad ottenere tale
mansione. Lavorare in Caffarel, plant manifatturiero
con 240 operai, è davvero complesso e implica
compiere molteplici azioni che nell’immaginario
collettivo non sono sempre riconducibili a quelle
di un HR, come ad esempio indossare calzature
antinfortunistiche, un camice e scendere nei diversi
reparti. Sostanzialmente, io tento di comprendere
sul campo quali sono le priorità del giorno,
che ovviamente non gestisco dal punto di vista
operativo in senso stretto, ma che nella maggior
parte dei casi hanno impatti di natura sindacale
o di gestione delle Risorse Umane stesse. Per fare
un esempio pratico: prima di recarmi nei reparti,
stampo il registro assenze per malattia, in quanto tali
assenze in un contesto lavorativo, soprattutto di tipo
manifatturiero, ti obbligano a rivedere i piani. Ci si
interroga se sia necessario integrare l’organico con
personale stagionale, o se redigere contestazioni
disciplinari in caso di eventi di negligenza che
hanno portato al mancato raggiungimento di un
obiettivo piuttosto che allo spreco di materiale.
Inoltre, partecipo a riunioni di manufacturing, ai
meeting, al progetto LPW (Lindt Production Way)
da noi implementato due anni fa, che consiste in
riunioni con i capireparto di ogni dipartimento, in
cui vengono messe in risalto le problematiche di
diversa natura ed appartenenti a vari settori. Tali
problematiche si riflettono necessariamente anche
sulle Risorse Umane.
A suo parere chi si occupa di risorse umane
quali competenze professionali deve
possedere necessariamente?
A mio avviso un HR deve essere guidato
costantemente da una fervida curiosità nei
confronti dei processi produttivi dell’azienda in
cui lavora. Non si dovrebbero pensare le risorse
umane come individui che lavorano restando
chiusi nei propri uffici, ma piuttosto come persone
attente alle peculiarità delle attività dell’impresa,
quali la vendita, il marketing, l’acquisto, l’operation
e tutta l’azienda a 360 gradi. Inoltre, credo sia di
fondamentale importanza l’aspetto psicologico, in
quanto consente di rilevare le dinamiche relazionali
vissute da vicino e non top down. La riconoscibilità
delle risorse umane è riconducibile alla capacità
di interagire con tutti i dipartimenti; l’essere un
business provider nasce dalla comprensione delle
esigenze di tutti. L’interazione, inoltre, è l’aspetto
che fornisce complessità al mondo delle risorse
umane. La difficoltà più evidente sta nell’aver a che
fare con il trinomio cuore-coscienza-portafoglio di
ogni individuo. La relazione individuo-sistema è
sempre costante e l’HR si trova ad avere il ruolo di
supervisore di tale relazione.
Dottor Olivero, lei lavora in un’azienda
italiana storica, nata addirittura prima della
proclamazione del Regno d’Italia. Secondo lei
cosa è insito nella dicitura “Made in Italy”, che
tutti noi pronunciamo con orgoglio?
L’azienda in cui lavoro ha 190 anni di storia,
con innumerevoli riconoscimenti riguardanti
l’apprezzamento verso il nostro prodotto, espresso
sia in Italia che all’estero. Il Made in Italy è saper
fare bene, distinguersi sia per il contenuto che per
i valori radicati nella produzione del contenuto
stesso. Nel caso dei nostri prodotti, ad esempio,
l’arte e la singolarità che li rendono degni di nota
sono il produrli bene e il saperli vendere sul mercato
tramite il packaging, la classe, la raffinatezza e il
gusto. In sintesi, nei prodotti italiani troviamo già
quegli elementi valoriali assimilabili e riconducibili
a tutto il mondo del made in Italy. Inoltre, il valore
del made in Italy è connaturato dalla nostra storia
plurisecolare. Nella fattispecie, la nostra azienda
si trova nella Val Pellice, la cui comunità ha una
commistione di credo religioso cattolica e valdese.
Il fare bene (elemento valoriale del made in
Italy) è una caratteristica insita all’interno di tale
comunità; per tale motivo i nostri prodotti vengono
particolarmente apprezzati, ovviamente, in Italia, ma
soprattutto all’estero: questo è motivo di orgoglio. A
fondamento del mio pensiero, possiamo osservare
che il settore alimentare ed il luxury continuano
ad essere da anni un punto di riferimento nel
Made in Italy. Noi possediamo un patrimonio
inestimabile, dato dal turismo, dalla cultura, dalla
moda e dal cibo, che rappresenterà sempre il
made in Italy. Non vedo più molto spazio per una
produzione di massa, ma quest’accezione non è
necessariamente negativa, in quanto il made in Italy
punta alla creatività. Pertanto, al fine di mantenere
la dimensione di italianità solida e costante nel
tempo, è necessario un profondo innalzamento
della cultura in generale, ma soprattutto di quella
digitale, con un’attenzione particolare nei confronti
dell’innovazione e della creatività. Inoltre credo sia
necessario rivedere il ruolo dei dipendenti, al fine di
dare maggiore enfasi alla qualità lavorativa. Il patto
di lavoro tra datore e dipendente è dato soprattutto
dal seguente concetto: “non m’interessa dove sei o
con quali strumenti tu possa lavorare, è importante
invece che tu possa essere generatore di nuove
idee”. In tal modo il profitto sorgerà da questa
continua innovazione.
A tal proposito, le chiedo: quali sono i punti
di forza che lei ritiene imprescindibili per un
dipendente? Quali quelli di debolezza che
andrebbero modificati?
Sono due i concetti per me fondamentali: le
conoscenze, che oggi si esplicano soprattutto nella
conoscenza della lingua straniera e del mondo
digital, e i comportamenti, legati soprattutto alla
sfera educativa, ovvero al rispetto della gerarchia
e dei tempi. Il senso del dovere è un valore
imprescindibile, come pure l’intelligenza emotiva,
vale a dire la capacità relazionale e comunicazionale
di essere empatici, di eseguire assertivamente il
proprio ruolo, non in maniera prevaricatrice ma
cercando di essere leader in ogni contesto. La
leadership è infatti la possibilità di convincere il
proprio interlocutore a percorrere la propria strada.
Qualora un individuo non abbia capacità gestionali,
può colmare i suoi gap attraverso molteplici
metodi. Per quanto riguarda la parte relazionale e
comunicazionale, invece, c’è bisogno di coscienza,
oltre che di metodo. Io ritengo che metodi come
il business coach o l’implementazione del lean
production system e tutti i metodi che connettono
disciplina e metodo, non vadano utilizzati
esclusivamente per gli executive dell’azienda ma in
tutti i contesti aziendali, per poter essere d’aiuto sia
per gli operai, che per gli impiegati e i dirigenti.
Tornando all’importanza della cultura digitale,
da lei apertamente espressa, le chiediamo
quanto influiscano le innovazioni tecnologiche,
come il digital learning, sul suo lavoro e
sull’azienda?
Sono fondamentali. Il digital learning è un mezzo
tramite il quale si forniscono delle conoscenze che
fino a qualche anno fa si fornivano in un momento
d’aula. L’attività formativa è composta da teoria e
prassi e il digital learning serve innanzitutto per la
parte teorica, per comprendere se l’attività formativa
che proponiamo sia significativa e funzionale a
ciò che facciamo e se sia in grado di dare delle
risposte valoriali dove ci aspettiamo possa esserci
un miglioramento. Conseguentemente se io ho un
approccio iniziale di e-learning o digital training,
riesco a comprendere se questo tipo di formazione
individuale possa essere utile a colmare i gap. Spesso
a mio avviso potrebbe essere un buon metodo
per ridurre i tempi e per andare poi a realizzare
dei workshop molto più operativi, imperniati sul
learning by doing, che diventano in tal modo la
messa in pratica di ciò che ho appreso grazie anche
alla digitalizzazione dell’apprendimento.
Quale/i elemento/i, nonostante le continue
innovazioni dell’azienda, non siete disposti a
cambiare?
Io non credo di poter prescindere dall’interazione
umana, aspetto che credo sia fondamentale
per il mestiere che faccio e che mi ha sempre
appassionato. Anche quando parliamo di
innovazione, riprendendo ad esempio il concetto
del digital learning, non dobbiamo dimenticare che
l’uomo è sempre l’aspetto cardine e quindi non si
può prescindere da un’interazione umana.
Può descriverci come reagisce il mondo HR a
fronte della crisi economica che affligge ormai
da qualche anno la nostra società? Ha dovuto
cambiare qualcosa nella sua gestione?
Le risorse umane nei periodi di crisi devono
rivedere sempre l’organizzazione, rimettendo in
discussione sia quest’ultima sia soprattutto gli
individui. La difficoltà più grande sta nell’andare
a rivedere i costi, cercando sempre di essere,
per così dire, “socialmente sostenibili”, ovvero
cercando di equipaggiare tutti coloro che saranno
allontanati dall’azienda, di dare loro un cammino
di valorizzazione professionale in altre aziende o
magari di convincere le risorse a ridurre il tempo
lavoro e conseguentemente a prepararsi a un
cammino diverso al di fuori dell’azienda. Gli HR
devono essere demolitori dei pregiudizi, dei
preconcetti, cercando sia di giocare d’anticipo nei
confronti di questi fenomeni negativi, sia di cercare
di rendere tali eventi “digeribili” nel momento in cui
la crisi ti travolge. Perdere il lavoro in qualche modo
tocca anche la sfera della dignità. In tal caso, l’HR
da un lato è chiamato a fare il suo lavoro e, nei
casi estremi, a licenziare; d’altro canto però di fronte
si hanno persone e quindi si è chiamati a cercare
di comunicare, a cercare strade alternative, come
possono essere ad esempio incentivi monetari,
percorsi formativi di riqualificazione o altre strade
lavorative.
Ci sono molti giovani che, come noi, si
stanno affacciando al mondo delle risorse
umane. Dall’alto della sua lunga e significativa
esperienza, si sente di darci qualche consiglio?
Versatilità, curiosità, attenzioni molteplici su più fronti,
combattere per rendere questo lavoro sempre più
legittimato e valorizzato, in quanto è un mestiere
molto complesso. Questi sono i concetti chiave che
devono guidarvi sempre. Non ci si può aspettare
di fare un lavoro che sia sempre uguale, anzi ciò
che rende affascinante il mio lavoro è l’assoluta
dinamicità. Ciò comporta una gestione efficace dei
propri apprendimenti e un mindset sempre aperto.
Ogni giorno devi mettere in discussione te stesso.
L’HR deve essere un professionista, deve conoscere
tante nozioni sociali, psicologiche, normative; egli
rappresenta tutto ciò che sono i doveri e i diritti
di un lavoratore. Questo lavoro è estremamente
complesso, ma allo stesso tempo arricchente,
in quanto comprende tantissime dinamiche, sia
collettive che individuali e ti chiama a fare da
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Intervista ad Alessandro Olivero - HR Manager Caffarel

  • 1. Business School Il villaggio globale in un contesto aziendale. Intervista ad Alessandro Olivero, HR Manager di Caffarel A cura di Giulia Di Toro, Mariapina Esposito, Maria Chiara Esposito, Angela Gaggiano, Francesca Mascioli - Master Risorse Umane e Organizzazione 2016-2017 L’intervista al dott. Olivero ci ha permesso di comprendere, tra le tante cose, la complessità e la dinamicità del ruolo dell’HR nell’era moderna e quanto sia necessario considerare non solo la dimensione globale ma anche, e soprattutto, il contesto locale che circonda l’azienda. Dottor Olivero, ci può raccontare come è approdato alla posizione che attualmente ricopre e come si è evoluto il suo ruolo nel corso degli anni? Fino a sei anni fa ero responsabile Risorse Umane per una fetta di popolazione aziendale della “Alstom transport”, in cui rispondevo ad un HR director e seguivo la parte “operation activities supply chain” di quello stabilimento. Sei anni fa, tramite un head hunter, mi è stata data la possibilità di entrare in Caffarel e gestire in toto le risorse umane dell’azienda. Quest’offerta di lavoro per me significava sia un avanzamento di posizione aziendale, sia un arricchimento del mio bagaglio di interazioni, in quanto avrei dovuto occuparmi di tutte le attività cardine dei processi HR: selezione, formazione, sviluppo, compensation e benefits, relazionisindacali,nonchélapartedicomunicazione e di valutazione. Allettato in primo luogo da questa prospettiva, ma anche dal notissimo brand dell’azienda in un CCNL (Alimentare Industria) fino ad allora non ancora da me sperimentato, decisi di accettare e dopo sette step, che caratterizzarono il processo di selezione, riuscii ad ottenere tale mansione. Lavorare in Caffarel, plant manifatturiero con 240 operai, è davvero complesso e implica compiere molteplici azioni che nell’immaginario collettivo non sono sempre riconducibili a quelle di un HR, come ad esempio indossare calzature antinfortunistiche, un camice e scendere nei diversi reparti. Sostanzialmente, io tento di comprendere sul campo quali sono le priorità del giorno, che ovviamente non gestisco dal punto di vista operativo in senso stretto, ma che nella maggior parte dei casi hanno impatti di natura sindacale o di gestione delle Risorse Umane stesse. Per fare un esempio pratico: prima di recarmi nei reparti, stampo il registro assenze per malattia, in quanto tali assenze in un contesto lavorativo, soprattutto di tipo manifatturiero, ti obbligano a rivedere i piani. Ci si interroga se sia necessario integrare l’organico con personale stagionale, o se redigere contestazioni disciplinari in caso di eventi di negligenza che
  • 2. hanno portato al mancato raggiungimento di un obiettivo piuttosto che allo spreco di materiale. Inoltre, partecipo a riunioni di manufacturing, ai meeting, al progetto LPW (Lindt Production Way) da noi implementato due anni fa, che consiste in riunioni con i capireparto di ogni dipartimento, in cui vengono messe in risalto le problematiche di diversa natura ed appartenenti a vari settori. Tali problematiche si riflettono necessariamente anche sulle Risorse Umane. A suo parere chi si occupa di risorse umane quali competenze professionali deve possedere necessariamente? A mio avviso un HR deve essere guidato costantemente da una fervida curiosità nei confronti dei processi produttivi dell’azienda in cui lavora. Non si dovrebbero pensare le risorse umane come individui che lavorano restando chiusi nei propri uffici, ma piuttosto come persone attente alle peculiarità delle attività dell’impresa, quali la vendita, il marketing, l’acquisto, l’operation e tutta l’azienda a 360 gradi. Inoltre, credo sia di fondamentale importanza l’aspetto psicologico, in quanto consente di rilevare le dinamiche relazionali vissute da vicino e non top down. La riconoscibilità delle risorse umane è riconducibile alla capacità di interagire con tutti i dipartimenti; l’essere un business provider nasce dalla comprensione delle esigenze di tutti. L’interazione, inoltre, è l’aspetto che fornisce complessità al mondo delle risorse umane. La difficoltà più evidente sta nell’aver a che fare con il trinomio cuore-coscienza-portafoglio di ogni individuo. La relazione individuo-sistema è sempre costante e l’HR si trova ad avere il ruolo di supervisore di tale relazione. Dottor Olivero, lei lavora in un’azienda italiana storica, nata addirittura prima della proclamazione del Regno d’Italia. Secondo lei cosa è insito nella dicitura “Made in Italy”, che tutti noi pronunciamo con orgoglio? L’azienda in cui lavoro ha 190 anni di storia, con innumerevoli riconoscimenti riguardanti l’apprezzamento verso il nostro prodotto, espresso sia in Italia che all’estero. Il Made in Italy è saper fare bene, distinguersi sia per il contenuto che per i valori radicati nella produzione del contenuto stesso. Nel caso dei nostri prodotti, ad esempio, l’arte e la singolarità che li rendono degni di nota sono il produrli bene e il saperli vendere sul mercato tramite il packaging, la classe, la raffinatezza e il gusto. In sintesi, nei prodotti italiani troviamo già quegli elementi valoriali assimilabili e riconducibili a tutto il mondo del made in Italy. Inoltre, il valore del made in Italy è connaturato dalla nostra storia plurisecolare. Nella fattispecie, la nostra azienda si trova nella Val Pellice, la cui comunità ha una commistione di credo religioso cattolica e valdese. Il fare bene (elemento valoriale del made in Italy) è una caratteristica insita all’interno di tale comunità; per tale motivo i nostri prodotti vengono particolarmente apprezzati, ovviamente, in Italia, ma soprattutto all’estero: questo è motivo di orgoglio. A fondamento del mio pensiero, possiamo osservare che il settore alimentare ed il luxury continuano ad essere da anni un punto di riferimento nel Made in Italy. Noi possediamo un patrimonio inestimabile, dato dal turismo, dalla cultura, dalla moda e dal cibo, che rappresenterà sempre il made in Italy. Non vedo più molto spazio per una produzione di massa, ma quest’accezione non è necessariamente negativa, in quanto il made in Italy punta alla creatività. Pertanto, al fine di mantenere la dimensione di italianità solida e costante nel tempo, è necessario un profondo innalzamento della cultura in generale, ma soprattutto di quella digitale, con un’attenzione particolare nei confronti dell’innovazione e della creatività. Inoltre credo sia necessario rivedere il ruolo dei dipendenti, al fine di dare maggiore enfasi alla qualità lavorativa. Il patto di lavoro tra datore e dipendente è dato soprattutto dal seguente concetto: “non m’interessa dove sei o con quali strumenti tu possa lavorare, è importante invece che tu possa essere generatore di nuove idee”. In tal modo il profitto sorgerà da questa continua innovazione. A tal proposito, le chiedo: quali sono i punti di forza che lei ritiene imprescindibili per un dipendente? Quali quelli di debolezza che andrebbero modificati? Sono due i concetti per me fondamentali: le conoscenze, che oggi si esplicano soprattutto nella conoscenza della lingua straniera e del mondo digital, e i comportamenti, legati soprattutto alla sfera educativa, ovvero al rispetto della gerarchia e dei tempi. Il senso del dovere è un valore imprescindibile, come pure l’intelligenza emotiva, vale a dire la capacità relazionale e comunicazionale di essere empatici, di eseguire assertivamente il proprio ruolo, non in maniera prevaricatrice ma cercando di essere leader in ogni contesto. La leadership è infatti la possibilità di convincere il proprio interlocutore a percorrere la propria strada.
  • 3. Qualora un individuo non abbia capacità gestionali, può colmare i suoi gap attraverso molteplici metodi. Per quanto riguarda la parte relazionale e comunicazionale, invece, c’è bisogno di coscienza, oltre che di metodo. Io ritengo che metodi come il business coach o l’implementazione del lean production system e tutti i metodi che connettono disciplina e metodo, non vadano utilizzati esclusivamente per gli executive dell’azienda ma in tutti i contesti aziendali, per poter essere d’aiuto sia per gli operai, che per gli impiegati e i dirigenti. Tornando all’importanza della cultura digitale, da lei apertamente espressa, le chiediamo quanto influiscano le innovazioni tecnologiche, come il digital learning, sul suo lavoro e sull’azienda? Sono fondamentali. Il digital learning è un mezzo tramite il quale si forniscono delle conoscenze che fino a qualche anno fa si fornivano in un momento d’aula. L’attività formativa è composta da teoria e prassi e il digital learning serve innanzitutto per la parte teorica, per comprendere se l’attività formativa che proponiamo sia significativa e funzionale a ciò che facciamo e se sia in grado di dare delle risposte valoriali dove ci aspettiamo possa esserci un miglioramento. Conseguentemente se io ho un approccio iniziale di e-learning o digital training, riesco a comprendere se questo tipo di formazione individuale possa essere utile a colmare i gap. Spesso a mio avviso potrebbe essere un buon metodo per ridurre i tempi e per andare poi a realizzare dei workshop molto più operativi, imperniati sul learning by doing, che diventano in tal modo la messa in pratica di ciò che ho appreso grazie anche alla digitalizzazione dell’apprendimento. Quale/i elemento/i, nonostante le continue innovazioni dell’azienda, non siete disposti a cambiare? Io non credo di poter prescindere dall’interazione umana, aspetto che credo sia fondamentale per il mestiere che faccio e che mi ha sempre appassionato. Anche quando parliamo di innovazione, riprendendo ad esempio il concetto del digital learning, non dobbiamo dimenticare che l’uomo è sempre l’aspetto cardine e quindi non si può prescindere da un’interazione umana. Può descriverci come reagisce il mondo HR a fronte della crisi economica che affligge ormai da qualche anno la nostra società? Ha dovuto cambiare qualcosa nella sua gestione? Le risorse umane nei periodi di crisi devono rivedere sempre l’organizzazione, rimettendo in discussione sia quest’ultima sia soprattutto gli individui. La difficoltà più grande sta nell’andare a rivedere i costi, cercando sempre di essere, per così dire, “socialmente sostenibili”, ovvero cercando di equipaggiare tutti coloro che saranno allontanati dall’azienda, di dare loro un cammino di valorizzazione professionale in altre aziende o magari di convincere le risorse a ridurre il tempo lavoro e conseguentemente a prepararsi a un cammino diverso al di fuori dell’azienda. Gli HR devono essere demolitori dei pregiudizi, dei preconcetti, cercando sia di giocare d’anticipo nei confronti di questi fenomeni negativi, sia di cercare di rendere tali eventi “digeribili” nel momento in cui la crisi ti travolge. Perdere il lavoro in qualche modo tocca anche la sfera della dignità. In tal caso, l’HR da un lato è chiamato a fare il suo lavoro e, nei casi estremi, a licenziare; d’altro canto però di fronte si hanno persone e quindi si è chiamati a cercare di comunicare, a cercare strade alternative, come possono essere ad esempio incentivi monetari, percorsi formativi di riqualificazione o altre strade lavorative. Ci sono molti giovani che, come noi, si stanno affacciando al mondo delle risorse umane. Dall’alto della sua lunga e significativa esperienza, si sente di darci qualche consiglio? Versatilità, curiosità, attenzioni molteplici su più fronti, combattere per rendere questo lavoro sempre più legittimato e valorizzato, in quanto è un mestiere molto complesso. Questi sono i concetti chiave che devono guidarvi sempre. Non ci si può aspettare di fare un lavoro che sia sempre uguale, anzi ciò che rende affascinante il mio lavoro è l’assoluta dinamicità. Ciò comporta una gestione efficace dei propri apprendimenti e un mindset sempre aperto. Ogni giorno devi mettere in discussione te stesso. L’HR deve essere un professionista, deve conoscere tante nozioni sociali, psicologiche, normative; egli rappresenta tutto ciò che sono i doveri e i diritti di un lavoratore. Questo lavoro è estremamente complesso, ma allo stesso tempo arricchente, in quanto comprende tantissime dinamiche, sia collettive che individuali e ti chiama a fare da supporto e a prendere decisioni delicate.