1. MASSIMILIANO CACCAMO
Responsabile CO.ME - Competenze metodologiche per lo sviluppo
della cultura organizzativa
Rifondare la formazione
aziendale
Dalla riscoperta delle Best Practice alla scoperta del-
le Metacompetenze
A - Le best practice della formazione
Che ci sia in atto da tempo una crisi quantitativa (investimenti
progressivamente decrescenti) e qualitativa (prodotti preva-
lentemente all’insegna delle mode del momento e programmi
di “fast education” che lasciano il più delle volte il tempo che
trovano) è un fatto noto. Una crisi fra l’altro aggravata dalla
crisi economica più generale che sta attraversando il sistema
paese ma che viene da molto più lontano.
Anche da cause, per così dire, endogene; tra queste, alcune
fondamentali “buone pratiche” il cui utilizzo è andato perden-
dosi nel tempo.
Sono “saperi” e modalità operative ben conosciute da chi ha
avuto la fortuna di cominciare il suo percorso formativo den-
tro aziende come Pirelli, Fiat, Unilever, Rinascente, Hewlett
Packard negli anni 80. Oppure di chi ha avuto altrettanta for-
tuna nel frequentare i percorsi di Formazione Formatori AIF,
ISTUD, ISPER, IPSOA negli stessi anni.
Non ho la pretesa di aver ricordato tutte le aree di eccellenza di
quel periodo. Né quella di approfondire tutte le best practice
disponibili.
Mi limiterò alle più importanti.
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2. Best practice n. 1: cosa significa fare formazione?
Su cosa significa fare Sembra una domanda semplice. Ma basta una rapida overview
formazione in questi anni le delle scelte fatte dalle aziende italiane in questi anni per capire
idee sembrano essere assai che proprio su questa domanda le idee sembrano essere assai
confuse e contraddittorie. confuse e contraddittorie.
Cominciamo da cosa “non è formazione”. Come indicavo an-
che in un precedente contributo per ISPER (Personale e La-
voro N. 498, aprile 2007).
Cominciamo dunque col dire cosa non è la formazione, o me-
glio a cosa la formazione non serve, considerando che in que-
sto elenco sono comprese, al contrario e purtroppo, le motiva-
zioni al fare formazione (talora anche esplicite) addotte dai
responsabili HR o Formazione o anche dai DG/AD di molte
aziende italiane.
Qualche breve parola di commento nel caso queste afferma-
zioni non sembrino di tutta evidenza.
- Non si fa (o non si dovrebbe fare) formazione per “tirare
su il morale alla gente” nei momenti di crisi, quando sono
finiti i soldi per la meritocrazia o quando le “analisi del cli-
ma” segnalano “nuvoloso tendente a pioggia” (o peggio).
O almeno non si dovrebbe fare senza che il collegamen-
to fra il sintomo (clima organizzativo pessimo) e la cura
(formazione) trovi giustificazione in un accertato deficit di
competenza.
- Non si fa (o non si dovrebbe fare) formazione per “tenere
impegnato” il personale ormai espulso dal processo pro-
duttivo, di cui non si sa cosa farsene e in cui non esiste,
già a priori, un disegno credibile di riqualificazione e riu-
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3. tilizzo in altri job. Al contrario vediamo ogni tanto in giro
“cimiteri degli elefanti” a cui si propinano giornate sulla
motivazione, la comunicazione, l’orientamento al cliente
ecc. In qualche caso attorno a questi soggetti si crea ad-
dirittura un “centro di formazione” di cui i soggetti me-
desimi diventano docenti (potete immaginare con quale
entusiasmo).
- Non si fa (o non si dovrebbe fare) formazione per veicola-
re in modo unidirezionale i messaggi del vertice aziendale.
Queste comunicazioni possono essere affidate alle “comu-
nicazioni di servizio”, cartacee, via mail o attraverso riu-
nioni a ciò predisposte, senza scomodare la formazione.
Che può rientrare in gioco solo quando si parli dello svi-
luppo di nuove competenze che da queste comunicazioni
possono discendere.
- Non si fa (o non si dovrebbe fare) formazione unicamente
per accaparrarsi qualche finanziamento nazionale od eu-
ropeo attorno al quale inventarsi programmi improbabili
con destinatari altrettanto improbabili. Perché nell’unico
modo regolare di fare le cose prima si identificano dei bi-
sogni e dei target, poi si definisce un programma e infine, se
è proprio necessario, si cerca una linea di credito esterna
che finanzi il programma. Il viceversa è possibile soltanto
nel mondo di duplex (che, per i meno giovani non amanti
di superman, era un mondo in cui tutto andava all’incon-
trario).
- Non si fa (o non si dovrebbe fare) formazione come prete-
sto per stilare una pagella dei buoni e dei cattivi che stan-
no in aula. Perché questa sarebbe una specie di valutazio-
ne del potenziale “coperta”. E perché oltretutto sarebbe
un’idiozia: non si capisce perché un consulente dovrebbe
capire in poche ore quello che i capi dei partecipanti non
avrebbero capito in anni di gestione.
La formazione fa una cosa Insomma la formazione fa una cosa sola: sviluppa competen-
sola: sviluppa competenze. ze. E in ciò si affianca all’esperienza sul campo nel dare soste-
gno alla crescita professionale (o manageriale) delle risorse
umane.
Può fare anche dell’altro, indirettamente (nel caso appena ci-
tato) o direttamente con programmi ad hoc. Ovverossia, soste-
nere lo sviluppo più generale delle organizzazioni, migliorare
la cultura organizzativa, migliorare la diffusione e lo sviluppo
del know-how. Punto. Ed è dunque solo all’interno e intorno
alla parola competenza che si gioca questa partita. E la defi-
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4. nizione corretta di questa parola costituisce la seconda best
practice di cui voglio parlare.
Best practice n. 2: cosa sono le competenze
Questa parola (competenza) viene utilizzata dentro e fuori le
aziende centinaia di volte al giorno. Molto spesso a sproposito.
Da un punto di vista tecnico la competenza è un costrutto, più
che un concetto. Ovverossia, risulta dalla sommatoria di più
dimensioni, come riportato nella figura qui sotto.
Se andate a chiedere all’uomo della strada una definizione
della “persona competente”, nel novanta per cento dei casi vi
risponderà “uno che sa”, oppure “uno che sa fare”.
In ciò cogliendo correttamente due dimensioni della compe-
tenza, le conoscenze e le capacità. Senza addentrarci troppo
nelle sottocategorie (conoscenze di base, intermedie, avan-
zate; capacità operative, di problem solving, ecc.) dobbiamo
integrare queste due dimensioni con la terza che, normal-
mente, non appare così intuitiva ai non addetti ai lavori: i
comportamenti. Anche se la volessimo reinserire nel novero
delle capacità (capacità comportamentali) resta in ogni caso
una dimensione importante perché recupera tutta l’area che
potremmo definire dell’intelligenza sociale. Che assume poi
colorature differenti se la applichiamo, ad esempio, ai com-
portamenti organizzativi.
La seconda operazione che farebbe intuitivamente l’uomo del-
la strada sarebbe poi quella di chiedervi: “Scusi, ma competen-
te in che?”. Anche qui cogliendo intuitivamente una variabile
a tutti nota, ovverossia quella del campo o settore disciplinare
e/o applicativo della competenza. Dall’industria ai servizi, dal-
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5. la produzione al marketing, dalla matematica alla letteratura
straniera, l’elenco delle possibili competenze sarebbe presso-
ché infinito.
A questo punto della nostra breve storia della competenza, po-
tremmo sintetizzare dicendo che una persona competente è una
persona che conosce approfonditamente una certa disciplina e la
sa applicare a situazioni in cui è richiesto un certo tipo di applica-
zione.
La parola “situazioni” ci ricorda però immediatamente che
esistono contesti applicativi diversi per lo stesso tipo di com-
petenza. Due persone possono avere lo stesso curriculum studi
nel marketing e poi trovarsi a lavorare in Benetton e in Fiat.
In un caso si troveranno ad avere a che fare con marketing di
largo consumo, nel secondo con marketing industriale. Sempre
marketing, ma le competenze richieste sono in parte diverse.
Ma anche nello stesso settore le differenze non finiscono. Se
andassimo a vedere cosa significa fare marketing in Oviesse e
in Rinascente, vedremmo che nello stesso settore e all’interno
della medesima disciplina avvengono prassi assai diverse.
Ma non è ancora finita.
Potremmo notare senza difficoltà che anche due colleghi con
lo stesso curriculum studi, che lavorano nella stessa azienda e
nello stesso settore “si muovono “ in modo diverso. E maga-
ri uno lo riteniamo “più competente” dell’altro, anche se con
l’altro condivide la stessa identica esperienza.
E questo avviene per un unico motivo. Perché all’interno della
parola competenza ricomprendiamo anche fattori individuali.
Caratteristiche intrinseche all’individuo come l’intelligenza, il
livello di motivazione, l’autostima, il coraggio, ed altro che, più
in là nel nostro discorso, ricomprenderemo nella categoria del-
le “metacompetenze”.
Se vogliamo costruire La best practice n. 2 può essere riassunta dunque così. Se vo-
competenze, dobbiamo gliamo fare il mestiere della formazione, ovverossia costruire
avere attenzione non solo competenze, dobbiamo avere attenzione non solo agli aspetti
agli aspetti di contenuto ma di contenuto (discipline, materie) ma anche agli aspetti atti-
anche agli aspetti attinenti ai nenti ai differenti contesti applicativi (ambiente socioecono-
differenti contesti applicativi mico, differenti prassi e culture per ciascuna specifica orga-
e, infine, alla persona nizzazione) e, infine, alla persona come individuo, con le sue
come individuo, con le sue caratteristiche uniche e distintive.
caratteristiche uniche e Come vedremo fra breve questo, che diventa immediatamente
distintive. un presupposto fondante una progettazione formativa di qua-
lità, richiede di conseguenza al progettista una competenza
tecnico metodologica non banale.
Best practice n. 3: come si progetta la formazione
Se lasciamo da parte le operazioni di “copia/incolla” da pro-
grammi già confezionati da altri che appartengono alla “bassa
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6. cucina formativa” di molte organizzazioni e si giustificano vuoi
con la mancanza di competenze progettuali, vuoi per il degra-
do, a ruota libera, che ha attraversato il nostro mestiere negli
ultimi anni, i veri mali endemici della formazione sono due:
- la delega progettuale piena ai cosiddetti “esperti di conte-
nuto”;
- il “modismo”.
Riprenderemo fra breve questi problemi dopo aver inserito
i canoni di un processo formativo virtuoso che contempla tre
parti in sequenza:
1. Il finding competence process, che si sostanzia nell’attività
più conosciuta col nome di analisi dei bisogni;
2. Il making competence process, che si sostanzia nelle attivi-
tà più conosciute col nome di progettazione ed erogazione
della formazione;
3. L’acting competence process, che si sostanzia nelle attività
di applicazione “on the job” delle competenze apprese per
il tramite della formazione.
Lo schema riproduce nel dettaglio il processo formativo rispet-
to al quale noi faremo solo qualche importante considerazione
a livello macro.
- La fase di Analisi dei bisogni non è un optional. Lo dico per-
ché si assiste ormai a prassi consolidate nelle quali si eroga-
no programmi preconfezionati sulla base di corrispondenze
più o meno attendibili fra target e contenuti. Per intenderci:
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7. “hanno bisogno di un corso di comunicazione”. E si passa
immediatamente all’erogazione di un corso (preferibilmen-
te “instant”) sulla comunicazione senza aver minimamente
sondato l’interesse/bisogno dei partecipanti né le N. possi-
bili alternative progettuali disponibili.
- La progettazione deve esplorare le alternative sul tappeto
avendo come faro il rapporto con gli obiettivi organizzativi e
didattici. Meno interessanti sono le abitudini progettuali ed
erogative dei docenti che devono piegarsi al progetto e non
viceversa; ancora meno interessante è la moda del momen-
to (Outdoor? Teatro? Coaching?) se non sembra coerente
con detti obiettivi.
- I criteri di valutazione vanno concordati a priori con com-
mittenza e utenza, altrimenti alla fine si valuterà sulla base
di “sensazioni” e per di più disomogenee.
- La valutazione deve accompagnare tutto il processo forma-
tivo e non comparire solo alla fine “a babbo morto” (come
si dice in Emilia).
B - Dalle competenze alle metacompetenze
Se riprendiamo lo schema della competenza vediamo come le
metacompetenze si collochino nella parte bassa e sommersa
della piramide, quella che ha più a che vedere con le variabili
individuali.
Se le “Best Practice”
costituiscono la “cassetta degli
attrezzi”, le metacompetenze
sono l’olio e la benzina del
motore.
Se le “Best Practice” costituiscono la “cassetta degli attrezzi”,
le metacompetenze sono l’olio e la benzina del motore. L’olio
per evitare l’usura. La benzina per generare la spinta necessa-
ria al sorpasso.
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8. 1) Motivazione e Passione
È difficile pensare di affrontare un lavoro qualsiasi senza un
briciolo di motivazione. Ciononostante, per svariati motivi,
molte persone non fanno il lavoro per il quale sarebbero mo-
tivate. Parlando di formazione, le cause della “de-motivazione
in ingresso” sono statisticamente meno rilevanti delle cause
della de-motivazione ad ingresso avvenuto.
È difficile che qualcuno si affacci alla professione di formatore
dentro le aziende senza aver un interesse specifico. Difficile ma,
naturalmente, non impossibile. È più facile invece entrare in posi-
zioni organizzative che riguardano la formazione o, più in genera-
le le HR, senza avere le altre metacompetenze che servirebbero.
Nessun selezionatore è Ed è reso facile dal fatto che nessun selezionatore che io conosca
attrezzato per valutare la è attrezzato per valutare la sussistenza di metacompetenze.
sussistenza di metacompetenze. In realtà, parlando di assunzioni dall’esterno, vengono fatte
entrare in azienda risorse misurate unicamente sul curriculum
studi, sulla motivazione dichiarata, e su una discreta capacità
di comunicazione e relazione. (Tutto questo nel presupposto
che il selezionatore abbia sufficiente competenza… e ci sareb-
be da aprire un capitolo a parte).
Ma che ne sarà di questa motivazione iniziale quando si sco-
prirà il ruolo assegnato al formatore e alla formazione, quando
qualcuno chiederà al formatore di fare da esecutore organiz-
zativo di programmi decisi da docenti selezionati, a loro vol-
ta, da un livello superiore della piramide? Peggio ancora, cosa
succederebbe della motivazione del giovane formatore una
volta che constatasse che un certo programma è abborraccia-
to, il gradimento dei partecipanti basso, ma “i docenti non si
cambiano” perché in realtà sono scelti per ragioni diverse da
quelle della “buona performance”?
Le ragioni della passione suggerirebbero una risposta. Che sa-
rebbe ancora insufficiente. Ma sarebbe un primo passo.
2) Concretezza
La passione senza La passione senza concretezza non produrrebbe nulla di buo-
concretezza non produrrebbe no. Non basta reagire. Non basta opporsi alle “cattive prati-
nulla di buono. che”. Occorre cioè la capacità di “fare le cose giuste” in rap-
porto alla situazione che ci si trova ad affrontare. Ogni azienda
ha la sua storia. Ogni azienda ha una “cosa giusta” che va fatta
per aprire una breccia. E dev’essere una cosa molto concreta
per il contesto in cui ci si trova ad operare.
Nelle prime edizioni del percorso “inserimento e professio-
nalizzazione” dedicato ai neolaureati della Pirelli negli anni
80, sembrò giusto dedicare una settimana all’analisi di casi di
riorganizzazione strategica del Gruppo. Questa era una par-
te intellettualmente sfidante per il neolaureato ma generava
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9. attese nei confronti dell’azienda. In altri termini alla fine del
percorso i neo ingegneri si aspettavano di ricoprire un ruolo
a valenza strategica. E invece avevano molta gavetta da fare,
ivi incluso lo svolgimento di mansioni molto operative alle
dipendenze di periti meccanici molto esperti che godevano
molto nel “mettere sotto torchio” gli aspiranti direttori gene-
rali. La “cosa concreta” che serviva, e che fu fatta, consistette
nell’eliminare i casi di strategia a favore di autocasi dedicati al
rapporto difficile coi diretti superiori. E ricordare che questa
gavetta era parte ineludibile del percorso di crescita dell’inge-
gnere Pirelli.
Al di là di questo esempio va ricordato che:
- la percezione di concretezza è soggettiva: ogni persona de-
finisce “sensate” e “concrete” situazioni ed eventi rispetto
alla propria concezione di sé e ai propri schemi cognitivi;
- è un processo sociale: in un ambiente in cui non si crea inte-
razione è difficile dare senso concreto alle cose;
- è un processo guidato dalla plausibilità più che dalla accu-
ratezza.
Occorre concretezza nella scelta degli interlocutori con cui
parlare, nella strada da prendere per arrivare al proprio obiet-
tivo, persino nel modo di rappresentare un’idea.
Ma passione e concretezza ancora non bastano per resistere
alle condizioni avverse, occorre qualcosa in più.
3) Resilienza
La resilienza è un termine che la psicologia prende a prestito
dalla metallurgia. E in metallurgia significa la proprietà che
hanno alcuni metalli di resistere agli urti e ritornare allo stato
originario senza incrinarsi né rompersi. Si compone di tre parti.
Il formatore resiliente è uno
che ha coraggio a sufficienza
per affrontare le insidie e
le difficoltà che lo scenario
organizzativo diffonde a
piene mani sulla sua strada.
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10. Insomma il formatore resiliente è uno che sa “piegarsi senza
spezzarsi” quando occorre. E ha coraggio a sufficienza per af-
frontare le insidie e le difficoltà che lo scenario organizzativo
diffonde a piene mani sulla sua strada. Un coraggio che si ali-
menta con la passione per fare questo mestiere. Una passione
che aiuta a sua volta ad essere “resilienti” quando occorre.
Conclusioni
Qualcuno si chiederà come si costruiscono le metacompetenze.
O addirittura se è possibile costruirle o non siano al contrario
“innate”. In verità è più facile selezionare persone che siano
già “portatori sani” di queste qualità. Ma non è impossibile
rinforzare queste caratteristiche attraverso la formazione. Ma
questo sforzo è oramai ineludibile in chi si occupa di formare i
formatori. Bisogna “prendere il toro per le corna”, sviluppare
anticorpi e annientare le tossine che sono alla radice del velo-
ce declino della formazione nelle nostre organizzazioni.
Perché queste tornino finalmente ad essere “learning organi-
zations”.
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