1. News 24/A/2016
Lunedì, 13 Giugno 2016
Xylella fastidiosa, Corte UE: gli ulivi sani ma vicini a quelli infetti possono essere
abbattuti.
Le piante potenzialmente infettate dal batterio Xylella fastidiosa, anche se non
presentano sintomi d’infezione, se si trovano in prossimità delle piante già infettate
possono essere rimosse.
La Commissione può obbligare gli Stati membri ad adottare tale misura dato che è
proporzionata all’obiettivo di protezione fitosanitaria nell’Unione ed è giustificata dal
principio di precauzione.
La vicenda ha inizio nel 2015, con l’adozione da parte della Commissione della
decisione per far fronte all’emergenza ambientale e agricola rappresentata dal
batterio Xylella Fastidiosa per le piantagioni di ulivo della regione Puglia. La
Commissione ha imposto agli Stati membri l’obbligo di procedere alla rimozione
immediata delle piante ospiti del batterio indipendentemente dal loro stato di
salute, se situate in un raggio di 100 metri attorno alle piante infettate. Una
decisione, che fra l’altro non ha previsto, di per sé, un regime di indennizzo.
In conformità a tale decisione, il Servizio Agricoltura della Regione Puglia ha ordinato
a diversi proprietari di uliveti nella provincia di Brindisi di abbattere gli ulivi infettati dal
batterio Xylella, nonché tutte le piante ospiti – ancorché non presentanti sintomi di
infezione da tale batterio – situate in un raggio di 100 metri attorno agli ulivi infetti.
Tali produttori hanno presentato davanti al Tar ricorsi. Perché, a loro avviso, l’ordine,
dovrebbe costituire l’extrema ratio. E perché un tale ordine senza la possibilità di
tentare un preliminare, diverso e meno invasivo trattamento fitosanitario, sarebbe
contrario ai principi di proporzionalità e ragionevolezza nonché alla direttiva sulla
protezione contro gli organismi nocivi ai vegetali (2000/29).
Ma la Corte con sentenza di oggi conferma la validità della decisione della
Commissione.
La Corte precisa, anzitutto, che l’obbligo di rimuovere “immediatamente” tutte le
piante ospiti in un raggio di 100 metri attorno alle piante infette non è in
contraddizione con l’obbligo di eseguire un opportuno trattamento fitosanitario,
comportante, “se del caso”, la rimozione della pianta. Il trattamento preliminare
riguarda gli insetti “vettori” dell’infezione batterica e ha come finalità quella di
2. limitare il rischio della diffusione degli insetti al momento della successiva rimozione
della pianta.
Inoltre la Corte afferma che esiste una correlazione significativa tra tale batterio e la
patologia di cui soffrono gli olivi, nonostante che i pareri scientifici non abbiano
dimostrato l’esistenza di un sicuro nesso causale tra Xylella e il disseccamento rapido
delle piante. I dati scientifici, però, hanno evidenziato che la diffusione della Xylella
dipende essenzialmente da alcune piccole cicale, la cui distanza di volo è limitata,
in media, a un centinaio di metri, e che le piante recentemente contaminate
possono essere esenti da sintomi. Per cui l’obbligo di rimozione risulta una misura
appropriata e necessaria per evitare la diffusione del batterio. E comunque,
quand’anche sussistano incertezze scientifiche al riguardo la rimozione delle piante
infette la misura è giustificata dal principio di precauzione. Una misura che è –
sempre secondo la Corte – proporzionale all’obiettivo di protezione fitosanitaria
perseguito. Anche perché l’adozione di misure meno gravose non risulta possibile:
non esiste attualmente alcun trattamento che consenta di guarire in campo aperto
le piante infette.
Ciò non toglie che la misura possa essere modificata. Se sulla base di nuovi dati
scientifici è dimostrato che l’eradicazione del batterio non richieda più la rimozione
di tutte le piante ospiti situate in prossimità di quelle infette, la Commissione
dovrebbe modificare la propria decisione al fine di tener conto di tale evoluzione
scientifica.
Inoltre, secondo la Corte, la mancata previsione nella direttiva e nella decisione di
un indennizzo dei proprietari degli ulivi abbattuti non significa che il diritto
all’indennizzo sia escluso. Infatti, il rispetto della Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione potrebbe, in alcune circostanze, imporre il pagamento di una “giusta
indennità”. La decisione della Commissione non può dunque essere considerata
invalida per tale ragione.
L’eurodeputata del Movimento 5 Stelle, Rosa D’Amato, sembra dare una lettura
diversa della sentenza: «Dalla Corte di giustizia dell’Ue arriva un chiaro segnale alla
Commissione e agli stati membri: le misure messe in atto contro la Xylella dovranno
essere modificate se, “sulla scorta di nuovi dati scientifici pertinenti, l’eradicazione
del batterio non richiedesse più di procedere alla rimozione di tutte le piante ospiti
situate in prossimità delle piante infette”. Anche perché, scrive sempre la
Corte,”’non esiste un sicuro nesso causale tra il batterio Xylella e il disseccamento
rapido degli ulivi”. In sostanza, la Corte Ue apre la porta a quello per cui ci battiamo
da mesi: allargare il campo della ricerca scientifica in modo da attuare pratiche più
sostenibili per far fronte al disseccamento degli ulivi, in Puglia come in altre zone
3. d’Europa».
La D’Amato aggiunge che «Dopo la pubblicazione del parere dell’avvocato
generale della Corte, sapevamo già che la sentenza avrebbe valutato come
corrette le misure della Commissione. Del resto, la Corte è stata chiamata a
esprimersi sulla correttezza procedurale, che non è al centro delle nostre
contestazioni. Quello che abbiamo sempre contestato è che tali procedure si sono
mosse sulla base di un singolo parere scientifico, quello del Cnr di Bari, e pertanto
abbiamo chiesto con forza di allargare il campo di ricerca. Lo abbiamo fatto
coinvolgendo ricercatori internazionali e locali, associazioni di categoria italiane e
organizzazioni europee. Oggi, la Corte ribadisce quello che abbiamo sempre detto:
le misure possono essere modificate, se la scienza porta nuove evidenze che già ci
sono».
Secondo l’europarlamentare pentastellata, «Queste evidenze spingerebbero verso
l’attuazione di misure efficaci a contrastare il disseccamento delle piante e al
contempo più sostenibili per il territorio sia sotto il profilo ambientale che economico.
D’altra parte, l’ultima decisione della Commissione europea ha di fatto ammorbidito
le misure emergenziali varate in un primo momento. La strada da fare è ancora
tanta, a partire, per l’appunto, da un maggiore finanziamento alla ricerca. Il
presidente Emiliano batta i pugni a Bruxelles e faccia sistema con altre regioni
europee colpite dalla Xylella». (Articolo di Eleonora Santucci)
Fonte:greenreport.it
Come il Collegato agricoltura mette a rischio la filiera del compostaggio in Italia.
Ancora una volta si favorisce il recupero di energia rispetto a quello di materia.
L’art. 41 del ddl propone di rimuovere sfalci e potature delle aree urbane dalla
normativa rifiuti.
Poche righe inserite in coda a un disegno di legge rischiano di ridurre (letteralmente)
in cenere buona parte della filiera italiana del compostaggio. Si tratta dell’art. 41 del
Collegato agricoltura – ovvero, il ddl 1328-b – che, così come oggi formulato, muta il
regime giuridico degli “sfalci e potature provenienti da aree verdi urbane”
disponendo di fatto la loro esclusione dalla disciplina dei rifiuti; una mutazione in
grado di innescare una reazione a catena di dimensioni ciclopiche.
Oggi, quella della frazione organica rappresenta la prima filiera in termini
quantitativi della raccolta differenziata del nostro Paese con oltre 5,7 milioni di
tonnellate/anno; di queste, 1,5 milioni di tonnellate/anno sono rappresentate
4. proprio dagli sfalci e potature provenienti da aree urbane. Circa un quarto del
totale dunque, e composto da materiale particolarmente pregiato ai fini del
compostaggio, un settore dove la qualità della raccolta differenziata rappresenta
ancora uno scoglio importante allo sviluppo. Sfalci e potature in media presentano
buone caratteristiche qualitative per il recupero di materia (la priorità individuata
dall’Europa per la gestione dei rifiuti), contribuendo in modo significativo alla
realizzazione di compost ottimo per essere utilizzato come fertilizzante; togliendo
questi materiali dalla normativa dei rifiuti si andrebbe dunque a intaccare un anello
fondamentale dell’intera filiera, oltre a peggiorare le perfomance ambientali del
Paese e a introdurre aggravi economici per il sistema nel suo complesso.
Il Cic (Consorzio italiano compostatatori), che ha recentemente rinnovato il proprio
cda confermando alla guida il presidente Alessandro Canovai, spiega dunque la
necessità di stralciare l’art. 41 dal Collegato agricoltura o, in seconda istanza, di
limitare il provvedimento agli scarti agricoli e forestali senza applicarlo ai rifiuti
organici (compresi sfalci e potature) di derivazione urbana.
Se invece l’articolo 41 “Modifica all’articolo 185 del decreto legislativo 3 aprile 2006,
n. 152, in materia di esclusione dalla gestione dei rifiuti” venisse approvato così
com’è, è facile individuare le conseguenze. L’azzeramento di tutto il sistema di
trattamento e controllo previsto dalla vigente normativa che oggi garantisce la
sostenibilità ambientale del recupero di sfalci e delle potature derivanti dalla
manutenzione del verde urbano, che verrebbe sostituita da una progressiva
compromissione della qualità ambientale dei terreni agricoli a causa del venir meno
dei trattamenti e dei controlli che oggi vengono obbligatoriamente e puntualmente
effettuati negli impianti di compostaggio.
La drastica riduzione delle percentuali di raccolte differenziate metterebbe a rischio
la sostenibilità dell’intero sistema di gestione dei rifiuti organici urbani,
compromettendo il lavoro fatto e i risultati ottenuti negli ultimi decenni (nonché gli
obbiettivi di estensione a tutto il territorio nazionale delle raccolte differenziate),
mentre a livello dei Comuni – per l’evidente contrasto con la normativa attuale
laddove si dice che i rifiuti da giardini e parchi urbani sono, appunto, rifiuti – si
introdurrebbe un elemento di grande incertezza, con conseguente riduzione degli
occupati e degli investimenti nel settore.
In sintesi, sfalci e potature rischiano di finire nei terreni senza alcuna lavorazione o,
per la parte cellulosica, finire nelle caldaie dove l’energia viene incentivata a carico
del contribuente. Perché tutto questo? Vulgata vuole che, rimuovendo questi
materiali dalla normativa riguardante i rifiuti, potremmo incontro a risparmi per la
collettività. Ma l’evidenza dei fatti mostra semmai il contrario.
5. Come spiegano dal Cic, gli sfalci e le potature non sono infatti idonei tout court per
le caldaie, solo un 20% del totale (la parte secca) può essere bruciata, mentre il
restante presenta elevate percentuali d’acqua: per poter essere bruciato, il rifiuti
verde deve prima essere lavorato, triturato, selezionato, vagliato, per separare la
parte vede dalla parte secca. Tutto ciò con un aggravio economico. Il costo
complessivo a tonnellata è superiore se si mandano sfalci e potature alle caldaie,
rispetto al recupero di materia: i costi attuali di trattamento per il ritiro del verde sono
sotto le 30 €/ton. (in Lombardia), mentre il sistema proposto nel Collegato agricoltura
non costa di meno in fase di selezione e costa di più in fase di incentivi alle
biomasse.
Il risultato finale che si profila all’orizzonte è così la compromissione di una filiera di
recupero di materia che non percepisce alcuna sovvenzione statale, a tutto
vantaggio di una filiera di recupero energetico (caldaie) che sopravvive grazie a
forti incentivi pubblici con un conseguente e inevitabile ulteriore aggravio della
fiscalità generale a carico dei cittadini, senza alcun beneficio ambientale
aggiuntivo. Dopo quasi tre anni dall’avvio del ddl, lanciato al tempo del governo
Letta come un altro collegato, quello ambientale, di certo è necessario puntare a
risultati migliori.
Fonte: greenreport.it
Appalti pubblici: incrementata la percentuale dei criteri minimi ambientali.
Novità per servizi di pulizia, verde pubblico, rifiuti urbani, arredo urbano, carta,
appalti pubblici per determinate categorie di servizi e forniture. E lo fa con apposito
decreto pubblicato sulla Gazzetta ufficiale.
Il decreto stabilisce un incremento progressivo dell’attuale percentuale del 50% del
valore a base d’asta a cui si riferire l’obbligo di applicare le specifiche tecniche e le
clausole contrattuali dei criteri ambientali minimi in considerazione dei benefici
ambientali, del contenuto tecnico e della maturità del settore produttivo pertinenti.
Lo stabilisce per una serie di affidamenti: di servizi di pulizia, di servizi di gestione del
verde pubblico e di forniture di ammendanti, piante ornamentali e impianti di
irrigazione, di servizi di gestione dei rifiuti urbani, di forniture di articoli di arredo
urbano, di forniture di carta in risme e carta grafica,
L’obbligo delle stazioni appaltanti di inserire nella documentazione di gara almeno
le “specifiche tecniche” e le “clausole contrattuali” dei criteri ambientali minimi si
applica in misura non inferiore rispetto a quelle percentuali del valore dell’appalto,
6. nel rispetto dei termini indicati: il 62% dal primo gennaio 2017; il 71% dal 2018; l’84%
dal 2019; il 100% dal 2020.
Fino alla data del 31 dicembre 2016 le amministrazioni sono comunque tenute a
rispettare almeno la percentuale del 50% del valore a base d’asta a cui è riferito
l’obbligo di applicare le specifiche tecniche e le clausole contrattuali dei criteri
ambientali minimi.
Resta in ogni caso fatto salvo che, nei limiti della percentuale del 100%, le
amministrazioni possono applicare incrementi percentuali superiori a quelli
disciplinati dal decreto.
E’ la direttiva europea del 2014 la numero 23 che disciplina l’aggiudicazione “dei
contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d’appalto degli enti
erogatori nei settori dell’acqua, dell’energia, dei trasporti e dei servizi postali,
nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a
lavori, servizi e forniture”. La direttiva stabilisce infatti che le stazioni appaltanti, nel
procedere all’acquisto di forniture, servizi e lavori, devono valutare non solo il prezzo
all’acquisto ma anche i costi del loro ciclo di vita: ovvero i costi connessi all’utilizzo,
quali il consumo di energia e altre risorse; i costi di manutenzione; i costi relativi al
fine vita, ad esempio i costi di raccolta e di riciclaggio; i costi imputati a esternalità
ambientali legate ai prodotti, servizi o lavori nel corso del ciclo di vita, a condizione
che il loro valore monetario possa essere determinato e verificato.
In Italia la direttiva è stata recepita nel 2016 con il decreto legislativo numero 50. Il
decreto disciplina l’applicazione dei criteri di sostenibilità energetica e ambientale,
prevedendo che le stazioni appaltanti contribuiscano agli obiettivi ambientali
previsti dal Piano di sostenibilità ambientale dei consumi nel settore della pubblica
amministrazione. Prevede che lo realizzino attraverso l’inserimento nella
documentazione progettuale e di gara, almeno delle “specifiche tecniche” e delle
“clausole contrattuali” contenute nei criteri ambientali minimi. Tale obbligo si
applica, alle categorie di forniture e affidamenti non connessi agli usi finali di
energia, per almeno il 50% del valore a base d’asta. Secondo il decreto possono
essere disciplinati, per le categorie di forniture ed affidamenti non connessi agli usi
finali di energia, un aumento progressivo della percentuale del 50% del valore a
base d’asta a cui riferire l’obbligo di applicare le specifiche tecniche e le clausole
contrattuali dei criteri ambientali minimi. (Articolo di Eleonora Santucci)
Fonte: greenreport.it
7. Rifiuti. Contaminazioni storiche.
TAR Lombardia (MI) Sez. III n.928 del 11 maggio 2016
L’obbligo di adottare le necessarie misure di prevenzione sussiste anche in relazione
alle contaminazioni storiche, giacché non rileva a tal fine la risalenza
dell'inquinamento, quanto le conseguenze che nell’immediato possono prodursi.
Fonte: lexambiente.it
Rifiuti. Informativa antimafia in relazione al reato di traffico illecito di rifiuti.
Consiglio. di Stato Sez. III n. 1632 del 28 aprile 2016
l disvalore sociale e la portata del danno ambientale connesso al traffico illecito di
rifiuti rappresentano, già di per se stessi, ragioni sufficienti a far valutare con
attenzione i contesti imprenditoriali, nei quali sono rilevati, in quanto oggettivamente
esposti al pericolo di infiltrazioni di malaffare, tanto più, nel caso di specie, ove si
consideri che la società appellata si occupa proprio dello smaltimento dei rifiuti. Ne
segue che l’interdittiva antimafia, nel caso di specie, si fonda motivatamente su
elementi di sicura rilevanza, ai sensi dell’art. 84 del d. lgs. n. 159 del 2011, e
sintomatici di possibile infiltrazione mafiosa.
Fonte: lexambiente.it