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DONNE E COSTITUZIONE: LE RADICI ED IL CAMMINO
                                                di Barbara Pezzini

Testo della lezione presentata dall'autrice nell'ambito del Ciclo di lezioni svoltosi a Bergamo dal 3
novembre al 7 dicembre, derivato dal convegno “La Costituzione della Repubblica italiana. Le
radici, il cammino”, svoltosi a Bergamo il 28 e 29 ottobre 2005.
Pubblicata in “Studi e ricerche di storia contemporanea”, 2007 – Fasc. 68 – pp. 163 - 187.

1.- Donne e costituzione: le radici ed il cammino. 2.- Sessi, genere e costituzione. 3.- I diritti
politici dell’uno e dell’altro sesso. 4.- Un paradosso: il diritto costruisce il genere e il genere
costruisce il diritto. 5.- Funzione riproduttiva, funzioni di cura e genere dei lavoratori. 6.- Del
genere della rappresentanza (e dei rischi di un uso retorico e dilatorio della Costituzione).

1. Donne e Costituzione: le radici e il cammino
Il riferimento ad alcune delle norme costituzionali che toccano più da vicino e più
significativamente la differenza di genere può essere fatto in una duplice prospettiva: utilizzare la
Costituzione per riflettere sul genere, da un lato, ma anche utilizzare il genere per riflettere sulla
Costituzione, dall’altro.
Lo vorrei fare, in particolare, attraverso l’esame di tre diverse disposizioni costituzionali: gli articoli
48 e 51 cost., per rilevare precedenti e presupposti della formulazione degli enunciati normativi;
l’art. 37 cost., per comprendere come cambiano le norme – anche quando le disposizioni restano
uguali – e cosa si riflette nell’interpretazione giuridica; e di nuovo l’art. 51 cost, per mettere in luce
il rapporto complesso tra la norma costituzionale e la sua attuazione.
Il rapporto tra donne e costituzione appare, per diversi aspetti, un luogo privilegiato nel quale
osservare sia le “radici” che il “cammino” della Costituzione italiana del 1948.
Innanzitutto, la piena affermazione del suffragio universale è uno dei più significativi elementi che
caratterizzano le origini, e quindi le radici, della carta costituzionale repubblicana; o, quanto meno,
è l’elemento più significativo sul piano “istituzionale”, a partire dal fatto che proprio l’evocazione
del potere costituente, interamente nuovo, fondato sul suffragio universale segna la prima
“costituzione provvisoria”, il decreto legislativo luogotenenziale n. 151 del 19441, spezzando la
continuità con l’ordinamento costituzionale monarchico e statutario precedente.
In secondo luogo, l’impianto fortemente innovativo sul terreno dell’uguaglianza fra i sessi delle
norme del testo costituzionale entrato in vigore il 1° gennaio 1948 rappresenta efficacemente la
novità dell’ispirazione della Costituzione repubblicana e la connessa tensione alla trasformazione;
di conseguenza richiede di osservare con attenzione in quali forme e con quali modalità temporali
sia avvenuta l’attuazione della Costituzione nella legislazione ordinaria e nell’intera società,
percorrendone il cammino.
E, infine, il rapporto tra donne e Costituzione consente di osservare anche le più recenti stagioni
costituzionali, gli ultimi sviluppi del cammino della Costituzione del 1948: dopo una lenta stagione
di attuazione costituzionale, che ha portato progressivamente a compimento il sistema dei nuovi
diritti dei cittadini, le riforme di garanzia (Consiglio superiore della magistratura e Corte
costituzionale) e gli istituti di nuova concezione (referendum, regioni), tra il 1983 e il 1997 si apre
una stagione segnata dalla crisi del sistema dei partiti, che pone all’ordine del giorno del dibattito
politico la tensione verso le riforme istituzionali e conduce alla rottura del tabù della riforma della
Costituzione, senza peraltro produrre revisioni di ampia portata; nel 1999 ha poi inizio una terza
fase di vero e proprio riformismo costituzionale, che si prolunga sino all’ampia riscrittura della
1
  È lo stesso Meuccio Ruini (nella seduta del 5 dicembre 1947, Atti Ass. Cost., CCCXXI, p. 2899) a definire il decreto
151 una “piccola costituzione provvisoria uscita dalla rivoluzione” e “il punto iniziale, la cellula da cui è provenuto
l’ordinamento provvisorio”.

                                                          1
seconda parte della costituzione al termine della XIV legislatura2 e che appare percorsa in modo
progressivo e crescente da una tensione riformistica maggioritaria (nel senso che la progettazione e
l’avvio di processi di revisione costituzionale, anche di ampio respiro, diventano progressivamente
indifferenti alla ricerca di un consenso più allargato dell’area della maggioranza di governo e,
parallelamente, rinnegano l’orizzonte di un semplice adeguamento del testo originario, aspirando
alla rottura della continuità con il patto originario e alla sostituzione radicale e integrale della sua
ispirazione). I problemi e le dinamiche della stagione del riformismo costituzionale riguardano
direttamente anche alcune più recenti riforme della costituzione rivolte alla costituzionalizzazione
espressa del principio di pari opportunità tra uomini e donne, con leggi di revisione costituzionale
che hanno imposto la doverosità di politiche di genere come un orientamento generale di merito
della legislazione regionale e sul terreno specifico dell’accesso alle cariche elettive, regionali e
nazionali, ed agli uffici pubblici.
Per quanto riguarda il primo aspetto, a connotare le radici della Costituzione, gli studi di Anna
Rossi Doria3 hanno pienamente mostrato il faticoso e conflittuale maturare, negli anni della
costituzione provvisoria, delle condizioni che hanno consentito alle donne di “diventare cittadine”,
frantumando un paradigma costitutivo della modernità, quello che separa le sfere privata e pubblica
in base al genere4 costruendo il concetto moderno di individuo sulla base di proprietà
originariamente negate alle donne, quali l’autonomia e la disponibilità del proprio corpo5.
Il suffragio universale praticato nelle elezioni del 1946 rappresenta un elemento centrale della
rottura e della discontinuità rispetto allo Statuto albertino e quindi dell’attivazione del potere
costituente; un elemento che entra come componente irreversibile della costituzione provvisoria,
che vincola lo stesso potere dell’Assemblea costituente, che certo non avrebbe potuto rinnegarlo. Il
suffragio universale è stato incorporato nella costituzione formale e sostanziale come elemento che
definisce la sovranità e la forma di stato in opposizione al suffragio limitato, dando vita ad un
ordinamento costituzionale che definisce, indefettibilmente, una forma di stato democratica fondata
univocamente sulla sovranità popolare (mentre lo Statuto, da questo punto di vista, dava espressione
alla forma di stato liberale, fondata sulla sovranità nazionale rappresentativa, sia pure in una forma
aperta, anche per la flessibilità di quella carta costituzionale, alla progressiva evoluzione in
direzione democratica). In maniera altrettanto irreversibile il voto alle donne ha riconosciuto la
piena cittadinanza politica delle donne incorporando nel patto fondamentale i diritti politici delle
donne come diritti inviolabili; per questa via la Costituzione repubblicana apre ad una
trasformazione ulteriore della forma di stato: come l’allargamento della base del diritto di voto è
stato cruciale per la creazione dello stato sociale, la cui legislazione considera i soggetti non nella
loro astrazione giuridica ma nella loro concreta collocazione sociale, di classe ed economica, così il
pieno ingresso delle donne nella sfera politica e l’accesso effettivo delle donne nei luoghi della
rappresentanza rendono possibile l’orizzonte di una democrazia duale6, consapevolmente declinata
rispetto al genere, capace di riconoscere le differenze tra i sessi e di assumerle in modo non
2
  Per approfondire i contenuti della legge di riforma della parte seconda della costituzione, approvata a maggioranza
assoluta e in attesa del referendum confermativo, v. B. PEZZINI e S. TROILO (a cura di), La Costituzione riscritta,
Giuffré, Milano, 2006.
3
  A. ROSSI DORIA, Diventare cittadine, Il voto alle donne in Italia, Giunti, Firenze 1996.
4
  A. ROSSI DORIA, cit. p. 9; v. anche L. GIANFORMAGGIO, La soggettività politica delle donne: strategie contro,
Dem. dir. 1994, p. 489ss. M.L. BOCCIA, La differenza politica, Il Saggiatore, Milano 2002, p. 29.
5
  Il riferimento è a C. PATEMAN, Il contratto sessuale, Ed. Riuniti, Roma 1997; ma anche a P. ROSANVALLON, La
rivoluzione dell’uguaglianza. Storia del suffragio universale in Francia, Anabasi, Milano 1994, che rileva come sia
l’uomo a polarizzare la nuova figura dell’individuo, mentre la donna resta assegnata alla forma comunitaria del sociale
che sopravvive nella famiglia: “identificata alla comunità familiare la donna è spogliata dell’individualità” (p. 144).
6
  Per il concetto di democrazia duale v. B. PEZZINI, Guardare il diritto con la coscienza del genere: la democrazia
paritaria, in Commissione nazionale per le pari opportunità, Regioni: quale riforma, Roma, IPZS, 2003, p. 130; il
concetto è ripreso adesivamente da L. CASSETTI, Le pari opportunità tra i sessi nelle consultazioni elettorali dal
costituzionalismo regionale al costituzionalismo statale, 24 luglio 2003, in www.federalismi.it, p. 17, e da G.
BRUNELLI, Pari opportunità elettorali e ruolo delle regioni, in Diritti sociali tra uniformità e differenziazione.
Legislazione e politiche regionali in materia di pari opportunità, previdenza e lavoro dopo la riforma del titolo V, a
cura di B. Pezzini, Milano, Giuffrè, 2005, p. 68, nota 43.

                                                          2
discriminatorio7, proprio perché la presenza anche delle donne nelle sedi della rappresentanza
consente di influenzare la produzione delle leggi che definiscono le condizioni delle donne e degli
uomini8.
Per quanto riguarda il secondo aspetto, il cammino della Costituzione nell’arco dei sessant’anni
dall’avvio del processo costituente, non si può mancare di osservare quanto l’attuazione del precetto
di uguaglianza tra i sessi nella legislazione ordinaria sia stata faticosa e lenta, anche se progressiva9;
proprio la misurazione della distanza tra le norme costituzionali e la legislazione rivela il potenziale
di trasformazione sociale incorporato nella norma costituzionale, la sua capacità di pretendere e di
orientare mutamenti che riguardano la posizione degli uomini e delle donne nella società, le
relazioni sociali tra i sessi (vale a dire la distribuzione del potere nella società dal punto di vista di
genere).

2. Sessi, genere e costituzione
Lo Statuto albertino nominava con specifico riferimento al loro genere solo le donne della famiglia
reale: l’art. 21 prevedeva una riserva di legge in ordine alla dote delle Principesse e al dovario delle
Regine; secondo l’art. 17 alla Regina Madre spettava la funzione di tutrice del Re sino all’età di
sette anni, dopo di che la tutela sarebbe passata al Reggente (Principe parente più prossimo
nell’ordine della successione al trono); alla Regina Madre, inoltre, l’art. 14 consentiva di assumere
la reggenza “in mancanza di parenti maschi” durante la minorità del Re: in questo solo caso,
specifico ed eccezionale, l’esercizio della sovranità non era ritenuto incompatibile con il sesso
femminile.
Le differenza tra i sessi sono, invece, espressamente nominate e considerate dalla Costituzione
repubblicana, con il fine specifico di rimuovere le discriminazioni a carico delle donne; per la prima
volta la Costituzione riconosce espressamente che le relazioni tra i sessi ed i rapporti di genere (la
posizione relativa degli uomini nei confronti delle donne nei vari ambiti della vita sociale – dalla
famiglia, al lavoro, alla sfera politica) rappresentano un elemento rilevante della struttura
dell’ordinamento: la novità consiste nell’emergere in forma palese di fronte al diritto (e
specificamente al diritto costituzionale) di relazioni che sino ad allora il diritto aveva costruito in
forma occulta, contribuendo a dissimularne la stessa esistenza (come si vedrà, ad esempio, a
proposito delle vicende del voto alle donne dei primi anni del novecento).
La costruzione dei generi maschile e femminile10, in quanto elaborazione sociale delle differenze tra
i sessi11, avviene, infatti, e si sviluppa anche per mezzo del diritto, nella forma di una costruzione
7
   Per distinguere tra differenza, uguaglianza e discriminazione, v. L. GIANFORMAGGIO, Eguaglianza, donne e
diritto, Mulino, Bologna, 2005.
8
  Tale apertura – connessa all’ingresso delle donne nella cittadinanza politica – è avvenuta in modo inconsapevole della
reale portata innovativa di tale ingresso, per la “naturale inscindibilità” della cittadinanza politica con i diritti civili e
sociali e per le contraddizioni che le donne avrebbero portato nella fruizione di quei diritti entro il sistema moderno
delle libertà: P. GAIOTTI DE BIASE, L’accesso alla cittadinanza il voto e la Costituzione, in Le donne e la
Costituzione, Camera dei deputati, Roma 1989, p. 62.
9
   Fra le ricostruzioni più recenti v. E. PALICI DI SUNI, Tra parità e differenza. Dal voto alle donne alle quote
elettorali, Giappichelli, Torino, 2004.
10
   Genere è un concetto descrittivo e insieme una categoria analitica: indica la costruzione sociale dell’essere donna e
uomo (i processi, i comportamenti, i rapporti che organizzano la divisione dei compiti tra uomini e donne,
differenziandoli) ed implica l’adozione di un codice binario e relazionale, che richiede dialettica e reciprocità tra le sue
componenti; il genere ha come presupposto il riconoscimento del fatto che le differenze tra i sessi determinano relazioni
sociali imperniate sulla differenza (costruiscono gli uomini e le donne come generi) e che, a loro volta, tali relazioni
sociali riproducono le differenze.
11
   Si segnala, però, che solo in una prima approssimazione si può assumere il sesso (la differenza sessuale) come il dato
biologico in qualche modo pre-esistente (e resistente) all’elaborazione sociale e culturale in termini di genere; se è
plausibile distinguere tra sesso e genere, in base alla considerazione che il sesso rappresenta (nel senso di descrive) il
dato biologico della esistenza di uomini e donne, mentre il genere identifica il dato culturale e sociale (quanto vi sia di
socialmente determinato nella differenziazione tra uomini e donne), è altrettanto indispensabile ricordare che
l’appartenenza sessuale delle persone, la delimitazione e la numerazione dei sessi, la definizione biologica e/o genetica
del sesso costituiscono operazioni sociali, socialmente e culturalmente determinate (e quindi tutte costruiti anche
giuridicamente). Sesso e genere si inseguono come un gatto che si morde la coda, senza che possiamo stabilire una volta

                                                              3
giuridica12 che segna il modo sessuato della società (la duplice presenza di uomini e donne nella
società segnata dalla differenza di ruoli e dalla disparità di potere connessa a tali ruoli). La
costituzione repubblicana, da questo punto di vista, è interamente nuova nel nominare la differenza
in termini di sesso direttamente nel principio fondamentale dell’art. 3 cost. (che vieta ogni
discriminazione fondata sul sesso) e in termini di genere nei numerosi articoli nei quali riconosce
una posizione differente degli uomini e delle donne rispetto al lavoro e alla famiglia (in forma
esplicita, negli art. 36, 37, 31, e, più indirettamente, negli articoli 29, 48 e 51: questi ultimi, infatti,
ribadiscono, nella sfera dei rapporti coniugali ed in quella dei rapporti politici, il precetto
dell’uguaglianza tra uomini e donne proprio perché pienamente consapevoli della effettiva
condizione di disuguaglianza e discriminazione delle donne).
Ciò rende visibile – e particolarmente visibile, al livello della struttura fondamentale costituzionale13
– il ruolo del diritto nella costruzione del genere.
Ma la costituzione del 1948 è almeno altrettanto nuova anche nei contenuti, che assegnano alla
norma costituzionale la funzione di trasformare il “verso” prevalente della costruzione di genere,
della costruzione del maschile e del femminile all’epoca della sua entrata in vigore (verso allora
segnato dalla subordinazione e discriminazione della donna).
L’Assemblea costituente è la prima sede di una rappresentanza politica anche delle donne italiane e
la Costituzione repubblicana è la prima legge significativa alla cui produzione le donne italiane
partecipano direttamente in qualità rappresentanti politiche elette; per quanto le donne presenti in
Costituente costituiscano un’esigua minoranza (ventuno donne, pari al 3,7 % dei componenti
dell’Assemblea14), si tratta di un gruppo sufficientemente combattivo, qualificato ed unito
trasversalmente, in grado di porre all’ordine del giorno della Costituente la questione della
rimozione delle discriminazioni in base al sesso (rimossa la discriminazione politica, restavano,
infatti, da scalzare tutte le altre discriminazioni giuridiche).
I risultati nel testo della costituzione sono evidenti, a partire dal principio fondamentale di
uguaglianza, formale (art. 3 cost., 1° comma) e sostanziale (2° comma)15.
Il primo comma configura un’uguaglianza formale davanti alla legge meno astratta di quanto non
fosse in precedenza, declinando le discriminazioni vietate, per ragioni di sesso, di razza, di lingua,
di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. Con l’affermazione che tutti
sono uguali davanti alla legge, le differenze tra i singoli individui sono rese irrilevanti per la legge
e giuridicamente rimosse. Il limite di questa formulazione consiste nel fatto che essa rimane nel
solco della tradizione giuridica di una soggettività sostanzialmente astratta, realizzando la
rimozione giuridica non delle sole differenziazioni discriminanti, ma anche della differenza di
genere in quanto tale; come è noto, il divieto costituzionale di discriminazione opera non già
impedendo in modo assoluto alla legge di differenziare in base ad uno dei parametri indicati, ma
per tutte se il primo costruisce il secondo, o viceversa.
Per una ricostruzione del concetto di genere in relazione all’elaborazione della differenza tra i sessi, v. S. PICCONE
STELLA, C. SARACENO (a cura di), La costruzione sociale del femminile e del maschile, Il mulino, Bologna 1996, ed
in particolare, delle curatrici, “Introduzione. La storia di un concetto e di un dibattito”.
12
   Come significativamente indicato dal sottotitolo del libro di T. PITCH, Un diritto per due, il Saggiatore, Milano
1998, che recita appunto “La costruzione giuridica di genere, sesso e sessualità”.
13
   Il modello, da questo punto di vista, è la cost. Weimar del 1919, che aveva introdotto il principio generale “Tutti i
tedeschi sono uguali innanzi alla legge. Uomini e donne hanno di regola gli stessi diritti e doveri civici.” (art. 109),
accompagnato dalle garanzie specifiche in tema di pubblico impiego “Sono abolite tutte le norme di eccezione nei
confronti delle donne impiegate.” (art. 128) e diritto di voto “I deputati sono eletti con elezione generale, uguale,
immediata e segreta da uomini e donne che abbiano raggiunto il 20° anno di età, secondo i principi generali della
rappresentanza proporzionale” (art. 22).
14
   9 su 208 per la Dc, 9 su 104 per il Pci, 2 su 104 per il Psiup, 1 su 30 per l’Uomo qualunque.
15
   Art. 3.
Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di
lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personale e sociali.
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e
l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i
lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

                                                           4
semplicemente esigendo che la legge introduttiva di differenziazioni sulla base di uno dei criteri
nominati sia sottoposta ad un vaglio particolarmente rigoroso (ciò che la giurisprudenza americana
chiama strict scrutiny): la discriminazione viene, per così dire, presunta, con la conseguenza della
incostituzionalità della legge, a meno che non emerga l’esistenza di ragioni di differenziazione
costituzionalmente rilevanti e ragionevolmente delineate nell’oggettività della disciplina (criterio di
ragionevolezza nel giudizio sulla costituzionalità delle leggi). L’interpretazione sistematica della
costituzione consente, ad esempio, la differenziazione dei soggetti in base alla lingua – che di per sé
sarebbe vietata dall’art. 3 – in quanto, e nella misura in cui, rivolta alla protezione dei gruppi di
identità linguistica minoritaria (ex art. 6: La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze
linguistiche); oppure consente la differenziazione della posizione della donna lavoratrice in quanto
finalizzata alla tutela della maternità (ex art. 37: La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità
di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono
consentire l’adempimento della sua essenziale funzioni familiare e assicurare alla madre e al
bambino una speciale adeguata protezione).
Attraverso questa proprietà dell’uguaglianza formale, tuttavia, hanno modo di passare e permanere
anche tutti i pregiudizi sociali nei confronti del genere femminile. La stessa Corte Costituzionale nei
giudizi sull'uguaglianza applica prevalentemente il concetto di uguaglianza formale, rivedendo in
concreto ciò che il legislatore, di volta in volta, ha definito nelle leggi come paradigma dominante,
per stabilire se tale definizione ha una qualche razionalità oppure se è palesemente carente di
fondamento obiettivo. E, nell'armamentario della Corte, cioè nelle concrete argomentazioni
utilizzate nelle sue sentenze, come in generale in tutta la giurisprudenza, la giustificazione delle
diversità attinge ampiamente alle argomentazioni di tipo sociale e culturale, con una forte
dipendenza del giudizio giuridico dal contesto culturale e sociale: diventa, così, sin troppo facile che
giuristi di sesso maschile e formati in un contesto culturale segnato dalla minorità e subalternità
della donna riconoscano come ragionevoli tutte quelle differenziazioni che ad essi appaiono
semplicemente far capo a quella speciale biologia, quella speciale psicologia, quella speciale
condizione che alimenta, per loro e per la società nella quale vivono, la definizione del genere
femminile.
Si attenua, così, anche la portata innovativa del secondo comma dell’art. 3 cost., rivolto
all’uguaglianza sostanziale, e si osserva, in parallelo, una notevole resistenza ad impiegare
direttamente nei giudizi di legittimità costituzionale il concetto di uguaglianza sostanziale e,
soprattutto, l'elemento finalistico del pieno sviluppo, che condurrebbe a valorizzare tutti gli
elementi di identità personale.
L’uguaglianza sostanziale è in grado di far emergere le differenze individuali, rendendole, al
contrario del primo comma, rilevanti per il diritto; rivela che le differenze sono insieme fonte di
potere e prodotto del potere, costituiscono esse stesse una distribuzione di potere. Le differenze
presuppongono una definizione, un paradigma in base al quale sia possibile distinguere ciò che è
uguale (che corrisponde al paradigma) da ciò che è diverso (estraneo alla definizione assunta); il
secondo comma dell'art. 3 cost., prescrivendo di rimuovere tutte quelle differenze che costituiscono
ostacolo all'eguale libertà e partecipazione degli individui, svela molto chiaramente che ogni
differenza pone una questione di potere e addossa altrettanto chiaramente alla collettività il compito
di rimuovere tali ostacoli, garantendo a tutti pari opportunità nella fruizione dei diritti. Gli interventi
di rimozione degli ostacoli e di creazione di pari opportunità hanno una precisa finalità: il pieno
sviluppo della persona umana, la consapevole costruzione di quell'identità individuale che è per
ciascuno una ricchezza irrinunciabile e irriducibile (in questo senso, pari opportunità sono
occasioni equivalenti per fare emergere le personalità individuali, per consentire a ciascuno di far
emergere la propria identità attraverso il proprio percorso, la propria storia, le proprie relazioni). La
finalità del pieno sviluppo della persona si accompagna al richiamo della partecipazione
all’organizzazione politica, economica e sociale, che implica necessariamente costruzione di
relazioni intersoggettive e fornisce la misura del pieno sviluppo della personalità: gli ostacoli sono


                                                    5
rimossi al fine di assicurare il pieno sviluppo e la partecipazione; il pieno sviluppo è relazionale, è
nella e attraverso la partecipazione.
Tuttavia, nella società, è molto arduo percepire che, di fronte al principio di uguaglianza
sostanziale, anche la differenza tra i sessi può essere un ostacolo all’effettivo godimento dei diritti,
al libero sviluppo della persona e alla piena partecipazione; ed ancora più arduo è sviluppare
coerentemente il principio per cui è compito della Repubblica rimuovere ogni ostacolo che produce
differenza; tanto più difficile in quanto, diversamente da quanto avviene per le disparità sociali ed
economiche, che vanno rimosse in quanto tali, per garantire l’uguaglianza tra uomini e donne ciò
che si richiede di rimuovere non può essere la differenza tra i sessi ma la discriminazione di
genere, cioè la costruzione sociale che, a partire dalla differenza tra i sessi, ha costruito un limite
concreto alla libertà e all’uguaglianza, un ostacolo al pieno sviluppo della persona e alla
partecipazione.
Il pregiudizio appanna e condiziona persino il testo della costituzione, stravolgendo il senso proprio
di quell’art. 37 cost. che pure avrebbe dovuto assolvere la funzione di garantire la parità dei diritti
della donna lavoratrice – e che certamente ha, almeno parzialmente, operato in tal senso. Il richiamo
all’essenziale funzione familiare, affermando la necessità di conciliazione dei tempi e delle
condizioni del lavoro extradomestico e di quello svolto dalla donna nella e per la famiglia, aveva la
funzione, necessaria e condivisibile, di dare copertura costituzionale alla legislazione di tutela del
lavoro femminile, costituendo un’intuizione anticipatrice del riconoscimento della doppia presenza
della donna nella produzione e nella riproduzione (come sarà possibile osservare anche più avanti,
nonostante un linguaggio “arcaico” l’art. 37 cost. può egregiamente funzionare, a mezzo secolo di
distanza, come una norma che opera in modo bi-direzionale nei confronti dei due sessi, riferendosi
non solo alle donne in quanto madri, ma al lavoro di cura in quanto tale, chiunque se ne faccia
carico: ciò, ovviamente, in una lettura adeguatrice, resa possibile dopo cinquant’anni, dal
consolidarsi di alcune trasformazioni di grande rilievo nel tessuto sociale). A lungo, tuttavia, il
richiamo di questa norma è servito, al contrario, per giustificare discriminazioni della lavoratrice,
sulla base del presupposto che la donna fosse essenzialmente madre, prima che lavoratrice, e
introducendo un’inaccettabile gerarchia che subordinava, per la sola donna, il ruolo lavorativo al
ruolo familiare.
Le norme anti-discriminatorie della Costituzione intervengono anche nella sfera dei rapporti
familiari.
Nel 1946 la famiglia è una struttura sociale ancora fortemente gerarchizzata e connotata dalla
subalternità della donna affermata dal diritto di famiglia vigente (basti pensare alla patria potestà,
all’autorità maritale che impone alla moglie le decisioni sulla residenza familiare, sulle scelte
lavorative, sui figli, al regime patrimoniale); la famiglia è segnata e conformata dall’indissolubilità
del vincolo matrimoniale, principio largamente condiviso e presupposto come una sorta di carattere
intrinseco del matrimonio. Il primo radicale elemento di discontinuità riguarda, quindi, proprio la
mancata costituzionalizzazione dell’indissolubilità del matrimonio, faticosamente ottenuta dallo
schieramento laico e progressista (solo alla fine del 1970 la legge n. 898 introdurrà il divorzio,
trovando successivamente nel 1974 la conferma del voto popolare, contrario alla richiesta di
abrogazione nel primo referendum votato in Italia). Il secondo è rappresentato dal rapporto tra gli
articoli 29 e 30 cost.16: il primo propone una definizione della famiglia come società naturale
fondata sul matrimonio, la cui apparente univocità17 risulta contraddetta dal secondo, che costruisce

16
   Art. 29.
La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio.
Il matrimonio è ordinato sull’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia
dell’unità familiare.
   Art. 30.
È dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori del matrimonio.
17
   Si tratta, invece, di una definizione tutt’altro che univoca e di facile lettura, di un vero e proprio ossimoro, come
rilevato da R. BIN, La famiglia. Alla radice di un ossimoro, “Studium iuris”, 2000, p. 1066; sul punto v. anche B.
PEZZINI, Riflessioni introduttive su genere e diritto pubblico, in Genere e pari opportunità: teorie e pratiche,

                                                           6
la relazione genitoriale e, per questa via, anche la famiglia, a prescindere dal matrimonio stesso.
Ma, soprattutto, la Costituzione repubblicana nell’art. 29 costruisce l’ordinamento del matrimonio
sull’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi, imponendo alla relazione coniugale, e per questa
via alla famiglia, una regola fortemente innovativa della relazione tra marito e moglie e della
relazione tra i generi.
La parità tra i sessi, che ridefinisce i generi maschile e femminile in una prospettiva interamente
nuova, oltre che nella sfera sociale del lavoro e nella sfera privata della famiglia, è, infine,
specificamente ribadita dalla costituzione anche nella sfera pubblica politica (elettorato attivo e
passivo, accesso agli uffici ed alle cariche pubbliche18).

3. I diritti politici dell’uno e dell’altro sesso
Ma per quale ragione gli articoli 48 e 51 cost., nell’attribuire i diritti politici di elettorato attivo e
passivo, hanno una formulazione ridondante rispetto alla enunciazione solenne dell’uguaglianza
formale “senza distinzione di sesso” già proclamata fra i principi fondamentali dall’art. 3, 1° comma
cost.?
Quale significato normativo attribuire al fatto che il principio del suffragio universale (sono elettori
tutti i cittadini … che hanno raggiunto la maggiore età) risulta specificato rispetto al genere (tutti i
cittadini “uomini e donne”), quando non lo è rispetto alla razza, al censo e a nessun’altra delle
differenze che pure, come il genere, sono menzionate nell’art. 3 cost.?
Perché l’elettorato passivo – e, in generale, l’accesso ai pubblici uffici – è diritto attribuito in
condizioni di eguaglianza a tutti i cittadini “dell’uno e dell’altro sesso”? Dire “in condizioni di
eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge” non sarebbe già sufficiente a richiamare il
principio fondamentale di uguaglianza formulato all’art. 3 cost., e di conseguenza a ritenere vietate
le differenziazioni (di razza, religione, condizioni sociali e certamente di sesso) non ragionevoli ?
La spiegazione tradizionale considera questa formulazione come una ripetizione pleonastica, non
strettamente necessaria19, che avrebbe, tutt’al più, lo scopo e la funzione di una sorta di
rafforzamento del principio di uguaglianza introdotto per tenere conto della portata
dell’innovazione al momento della sua entrata in vigore; la formula “insistita”, proprio per il suo
tenore letteralmente esplicito, avrebbe inteso produrre una immediata abrogazione20 delle norme
preesistenti secondo le quali l’appartenenza all’uno o all’altro sesso poteva essere richiesta come
requisito di accesso alle cariche elettive ed agli uffici pubblici. Non si può tacere, tuttavia, che
anche la giurisprudenza è stata inizialmente assai restia a riconoscere la portata immediatamente
precettiva del principio di uguaglianza tra i sessi: la stessa Corte costituzionale, nel 1958,
giustificava una quota riservata maschile nella misura di almeno il 50% per la partecipazione dei
“Quaderni del dipartimento di scienze giuridiche dell’università di Bergamo”, 2004.
18
    Art. 48.
Sono elettori tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore età.
Art. 51 .
Tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di
eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. A tal fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le
pari opportunità tra donne e uomini.
19
   A proposito della formula dell’art. 48, T. MARTINES, Art. 56, in Commentario Branca, Le Camere, Tomo I, ,
Zanichelli Il Foro it., Bologna Roma 1984, p. 44, osserva che essa si limita a “rendere esplicita e a dare forma
giuridica al principio (fondamentale) del suffragio universale, inteso nella sua massima latitudine, con quell’inciso:
<uomini e donne>, che vale a sottolineare (ma non ve n’era bisogno) che anche i cittadini di sesso femminile sono
elettori”. D’altra parte, una certa qual sottovalutazione della dimensione di genere del problema, da parte di un
costituzionalista pur illustre ed attento come Martines, traspare da un’osservazione di poco successiva, quando sostiene
che, di fronte all’esistenza di stati in cui il suffragio è riservato agli uomini (e, dunque, non è veramente universale), si
può discutere del “grado” di democraticità, non già metterne in discussione il carattere democratico.
Quanto all’art. 51, analogamente osserva U. POTOTSCHNIG, Art. 97 [e 51],Comm. Branca, La Pubblica
Amministrazione, Zanichelli-Il Foro it., Bologna Roma 1984, p. 367, che esso “conserverebbe tutta la sua portata
anche se quell’inciso non ci fosse, essendo pacifico e incontestabile che la regola dell’eguaglianza, in rapporto al
sesso, si imporrebbe comunque”.
20
   U. POTOTSCHNIG, cit., p. 367.

                                                             7
giudici popolari ai collegi giudicanti delle Corti d’assise (prevista dalla legge 1441/1956, art. 102),
in base ad un’interpretazione storico-sistematica secondo la quale l’evoluzione verso principi di
uguaglianza di genere, da poco iniziata, avrebbe dovuto essere graduale, riconoscendo al legislatore
di definirne progressivamente i confini; nel caso specifico, la quota maschile minima riservata
avrebbe risposto “ai fini della migliore organizzazione e del più proficuo funzionamento dei diversi
uffici pubblici, anche nell'intento di meglio utilizzare le attitudini delle persone”, in base
all’indimostrato presupposto di attitudini femminili poco compatibili con la funzione di giudice
popolare21. La stessa Assemblea costituente aveva respinto nella seduta del 26 novembre 1947 un
emendamento che specificava espressamente che “Le donne hanno accesso a tutti gli ordini e gradi
della magistratura”, con una ambigua votazione segreta nella quale alle preoccupazioni di Maria
Federici che ogni specificazione, ultronea rispetto al principio di uguaglianza, potesse addirittura
indebolire il contenuto precettivo dello stesso articolo 51 cost., si erano affiancate posizioni
decisamente reazionarie miranti a salvaguardare uno spazio in cui il legislatore fosse lasciato libero
di circoscrivere e limitare l’accesso delle donne; il messaggio che “per quanto riguarda l’accesso
della donna alla magistratura l’art. 48 [poi 51 nel testo definitivo] contiene le garanzie necessarie
per la tutela di questo diritto” era stato poi affidato ad un ordine del giorno approvato nella seduta
successiva, per un’iniziativa congiunta e trasversale delle costituenti Maria Federici, Filomena Delli
Castelli, Maria Maddalena Rossi e Teresa Mattei. In realtà, solo la legge 66 del 1963 ha aperto alle
donne tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici, compresa la magistratura, nei vari ruoli,
carriere e categorie, senza limitazioni di mansioni e di svolgimento di carriera, salvi i requisiti
stabiliti dalla legge indipendentemente dal sesso.
Non a torto, il superamento delle discriminazioni politiche nei confronti delle donne appariva nel
1948 un impegno ingente, tale da richiedere lo sforzo di una precisa articolazione normativa, in
grado di produrre un effetto vincolante in modo univoco e insuperabile; sino a quel momento,
infatti, la discriminazione di genere aveva avuto una sorte peculiare rispetto a tutte le altre possibili
discriminazioni, procedendo implicitamente da un pregiudizio pre e meta-giuridico concretamente
rivelatosi irresistibile.
Lo Statuto albertino affermava l’uguaglianza di “tutti i regnicoli” davanti alla legge 22: da ciò
discendeva, data la particolare natura di costituzione flessibile dello statuto23, che solo la legge
avrebbe potuto introdurre condizioni di trattamento differenziate tra cittadini del Regno; le
differenze di trattamento erano non solo tollerate ma normalmente ammesse, purché stabilite
attraverso lo strumento della legge, deliberata dal parlamento rappresentativo e dotata di efficacia
generale. In materia elettorale, la limitazione del suffragio era stata definita dalla legge che,
inizialmente, aveva escluso dalla cittadinanza politica attiva tutti coloro che non possedevano i
requisiti di età (25 anni), di istruzione (alfabetismo), di censo (40 lire) 24, e, successivamente, aveva
proceduto ad includere progressivamente in base a requisiti meno restrittivi (maggiore età, licenza



21
   Sent. n. 56/1958, che aggiunge anche: “La differenziazione non appare, in questo caso, in contrasto con il precetto
dell'eguaglianza, in quanto la limitazione numerica nella partecipazione delle donne in quei collegi risponde non al
concetto di una minore capacità delle donne ma alla esigenza di un più appropriato funzionamento dei collegi stessi.
Non é superfluo, all'uopo, ricordare come nelle legislazioni di Paesi che da tanti anni ci hanno preceduto nel
riconoscimento dell'eguaglianza giuridica dei sessi, il potere di limitare o addirittura di escludere le donne dalla giuria
popolare in certi processi é affidato al presidente.” Per una tempestiva critica di tale orientamento della giurisprudenza
costituzionale, v. V. CRISAFULLI, Eguaglianza dei sessi, requisiti e sindacato della Corte costituzionale, Giur. cost.,
1958, p. 861.
22
   Art. 24.
Tutti i regnicoli, qualunque sia il loro titolo o grado sono eguali dinanzi alla legge. Tutti godono egualmente i diritti
civili e politici e sono ammessibili alle cariche civili e militari, salve le eccezioni determinate dalle leggi.
23
   La natura flessibile di una costituzione comporta che le norme costituzionali non sono distinguibili dalle norme
legislative per quanto riguarda la loro efficacia (forza di legge): la costituzione non vincola il legislatore, che resta
libero di disciplinare secondo la propria volontà i contenuti della legge.
24
   Legge elettorale del 1848.

                                                            8
elementare, censo di lire 19,8025), sino alla completa abolizione dei requisiti di censo ed istruzione
per tutti coloro che avessero superato i 30 anni (suffragio universale maschile)26.
Nello stesso arco di tempo, nei confronti delle donne “regnicole” erano, invece, falliti tutti i tentativi
di inclusione: una prima proposta di legge presentata da Salvatore Morelli nel 1867 non era stata
neppure ammessa alla lettura27; la relazione della commissione Zanardelli per la riforma della legge
elettorale del 1880, pur riconoscendo il valore della petizione promossa da Anna Maria Mozzoni e
la legittimità giuridica della richiesta di voto alle donne, aveva ribadito l’inopportunità del suffragio
femminile con argomentazioni che rimandavano alla speciale missione domestica della donna e alle
sue naturali virtù – tenerezza e passionalità, sentimento e generosità – incompatibili con i forti
doveri razionali della vita civica28; nel dibattito parlamentare del 1912, la Camera aveva respinto la
concessione del voto alle donne con 209 contrari, 48 favorevoli e 6 astenuti.
L’esclusione delle donne dal voto avveniva, però, nel silenzio della legge: le donne risultavano
discriminate implicitamente, senza che, in realtà, la legislazione all’epoca vigente pronunziasse in
modo espresso l’esclusione del sesso femminile ovvero affermasse esplicitamente il sesso maschile
come requisito positivo per l’elettorato attivo: la vicenda dell’iscrizione alle liste elettorali agli inizi
del ‘900 lo racconta esemplarmente29.
Nel 1906 Maria Montessori si era fatta promotrice di un appello rivolto alle donne perché
chiedessero di iscriversi alle liste elettorali, dal momento che la legge per le elezioni politiche, a
differenza di quelle amministrative, non prevedeva espressamente il sesso femminile come causa di
esclusione; alcune Commissioni provinciali avevano accolto l’iscrizione e, dalla vicenda, erano nate
vertenze giudiziarie che vennero risolte dalla maggior parte delle Corti d’appello riaffermando il
divieto. Fece eccezione la sentenza della Corte d’appello di Ancona30, che utilizzava diversi ordini
di argomentazioni per affermare il principio che anche le donne sono comprese dall’art. 24 dello
Statuto tra “tutti i regnicoli” proclamati “uguali dinanzi alla legge”: innanzitutto, la sentenza di
Ancona richiamava l’art. 25 (secondo il quale tutti i regnicoli contribuiscono indistintamente nella
proporzione dei loro averi ai carichi dello Stato), evidenziando come non si fosse mai dubitato del
fatto che le donne dovessero contribuire al fisco in proporzione dei loro averi alla pari degli uomini;
in secondo luogo, riconosceva il carattere essenzialmente politico dei diritti di libertà individuale, di
manifestazione del pensiero e di riunione, già pacificamente riconosciuti anche alle donne, in
quanto diritti fondamentali garantiti dallo Statuto, ricavandone che, di conseguenza, le donne non
avrebbero potuto essere escluse da altro diverso diritto politico (di voto) se non per volontà espressa
del legislatore; infine, aggiungeva il ricorso al criterio ermeneutico generale del favor libertatis, per
cui, quando si debba determinare l’estensione di un diritto fondamentale, in caso di dubbio
sull’intenzione del legislatore, l’interpretazione non possa che essere estensiva (nel senso, quindi,
dell’inclusione soggettiva).
Anche la sentenza di Ancona cade però sotto i colpi della Corte di cassazione che, nonostante le
rigorose e articolate argomentazioni giuridiche del presidente estensore Lodovico Mortara31, si
25
   Legge 999 del 1882, che amplia il corpo elettorale dal 2% al 7% della popolazione.
26
   Con la legge 666 del 1912 che porta il corpo elettorale al 23% della popolazione (sino ai trent’anni continuano a
valere le condizioni di istruzione e di censo già richieste in precedenza).
27
   Il progetto di legge è intitolato “Abolizione della schiavitù domestica con la reintegrazione giuridica della donna
accordando alle donne i diritti civili e politici” e attribuisce il diritto di voto insieme alla generalità dei diritti civili e
politici: art. 1 “La donna italiana può esercitare tutti i diritti che le leggi riconoscono ai cittadini del regno”.
28
   A. ROSSI DORIA, cit., p. 79.
29
   A. ROSSI DORIA, cit., p. 81ss.; Donne e diritti. Dalla sentenza Mortara del 1906 alla prima avvocata italiana, a
cura di N. SBANO, Mulino, Bologna 2004.
30
   L’estensore della sentenza di Ancona è Lodovico Mortara, passato nel 1902 dalla cattedra napoletana di procedura
civile alla Corte di cassazione romana e divenuto nel 1906 Primo presidente della Corte d’Appello di Ancona; Mortara
sarà successivamente il ministro guardasigilli che nel 1919 porterà in Parlamento la legge di abrogazione
dell’autorizzazione maritale e di ammissione delle donne alle professioni.
31
   È curioso rilevare che, nel corso di un’intervista rilasciata nel momento del massimo clamore suscitato dalla sentenza,
che creò un vero e proprio caso nazionale, il presidente Mortara volle precisare di essere personalmente contrario
all’allargamento del suffragio femminile; l’esito della sentenza, tuttavia, gli appariva inevitabile applicazione di criteri
ermeneutici: la sentenza, infatti, sviluppa sul piano del ragionamento giuridico un’argomentazione linearmente

                                                               9
limita ad invocare la forza del principio presupposto dell’estraneità delle donne a qualsiasi carica e
funzione attinente alla vita politica dello Stato: un principio che sarebbe talmente forte ed auto-
evidente, secondo la Suprema Corte, “che non si è sentito neppure il bisogno di dichiararlo
espressamente”.
L’interpretazione e l’applicazione della legge in questa vicenda appaiono macroscopicamente
segnate dal pregiudizio sessista; ma si tratta di un vero e proprio pre-giudizio, che vorrebbe
confinare la discriminazione nella sfera pre-giuridica della natura, in una sfera in cui il diritto
apparentemente neppure interviene. La Corte di cassazione pretende che la differenza tra donne e
uomini esista come tale in natura, mentre il diritto si limiterebbe a recepirla.
Ma proprio questa separazione tra natura e diritto, che dovrebbe consentire al diritto di conservare
la propria “neutralità” e “universalità”, viene, invece, messa in discussione dalla dialettica che si
manifesta nella successione di pronunce giurisprudenziali variamente orientate (la giurisprudenza
consente, infatti, al pluralismo di esprimersi): la semplice esistenza di una sola sentenza divergente
è sufficiente a mostrare come sia necessario un ordinamento giuridico (e non basti un preteso
ordine naturale delle cose) per produrre e mantenere l’esclusione delle donne dalla cittadinanza
politica. L’esclusione delle donne dal diritto di voto è tanto poco naturale che, nella vicenda del
1906, si mostrano evidenti due contraddizioni: da un lato, si affacciano sulla scena le donne che
hanno chiesto l’iscrizione nelle liste elettorali, soggetti politici non più disposti ad acconsentire alla
propria discriminazione e a subire volontariamente la propria esclusione politica (donne che non
accettano la propria “natura”); dall’altro, l’ordinamento giuridico deve rendere esplicita la
discriminazione, che si realizza e può operare solo per il tramite della forza della sentenza.
E per questo solo fatto l’esclusione delle donne dal voto cessa di essere una differenza naturale, per
divenire a tutti gli effetti una discriminazione giuridica, prodotta mediante l’effetto giuridico.
Il conflitto giurisprudenziale mostra che “il Re è nudo”; l’unica e isolata sentenza della Corte
d’Appello di Ancona è il bambino che pronuncia la verità indicibile: non la natura, ma il diritto
priva le donne del diritto fondamentale politico di voto.
Riguardando questa vicenda, non stupisce che, sapendo quanto il pregiudizio avesse in precedenza
condizionato l’interpretazione del testo costituzionale, l’enunciato normativo formulato nella nuova
costituzione a proposito dei diritti politici (di elettorato attivo e passivo) abbia “reagito” nell’ottica
della “regolazione dei poteri temuti”, che costituisce la tecnica di base della garanzia costituzionale:
la disposizione costituzionale viene costruita in modo da poter contrastare il ripetersi di
sopraffazioni e discriminazioni implicite già conosciute e lo può fare tanto più efficacemente quanto
più note e sperimentate siano le modalità di esercizio del potere che si teme e che si vuole
contrastare.

4. Un paradosso: il diritto costruisce il genere, ma il genere costruisce il diritto
Ma proprio la dimostrazione della necessità storica, sociale e politica di enfatizzare e ribadire il
divieto di discriminazione nei confronti delle donne nell’ambito specifico dei diritti politici,
sollecita a trarre anche altre conseguenze.
Le modalità e l’intensità con la quale il rapporto di genere definisce l’orientamento della
interpretazione appare decisamente particolare; incide, cioè, in forme peculiari e con un rilievo ben
maggiore di quanto non sia ordinario nell’attività di interpretazione delle disposizioni, che pure è
sempre, fisiologicamente, influenzata dal contesto sociale e che è debitrice al contesto sociale del
significato che attribuisce alle “parole della legge”.
Nei primi del novecento le leggi elettorali – formulate come proposizioni neutre rispetto al sesso –
vengono interpretate a partire dall’inferiorità della donna, inferiorità socialmente e storicamente
determinata ma presentata come naturale; così le leggi elettorali sanciscono l’estraneità della donna
dalla sfera politica, costruendo il genere femminile come discriminato politicamente; la struttura di
genere della società – la posizione di subordinazione ed inferiorità della donna rispetto all’uomo e

consequenziale, basata su criteri rigorosamente giuridici ed esegetici: v. L. LACCHÈ, “Personalmente contrario,
giuridicamente favorevole”. La sentenza Mortara e il voto politico alle donne, in Donne e diritti, cit., p. 99.

                                                      10
l’ordinamento maschilista dell’intera struttura sociale – viene assunta come una premessa logica
della norma e della sua formulazione letterale e, contemporaneamente, viene dissimulata dietro alla
affermata naturalità di una discriminazione che invece è corposamente creata e alimentata
incessantemente anche dal diritto.
Ancora più significativamente, l’ordinamento sembra restare del tutto indifferente alle
macroscopiche contraddizioni che si aprono all’interno del sistema giuridico e non spiega perché
tale a-priori dell’interpretazione (l’inferiorità naturale della donna) operi, nella sfera pubblica, sul
terreno dei diritti politici delle donne, ma non sul terreno dei doveri di solidarietà economica.
L’influenza peculiare della condizione di genere sull’interpretazione delle norme permane anche
dopo l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana e a rivelare la resistenza del pre-giudizio di
genere non sono solo la fatica ed il ritardo con cui la stessa Corte costituzionale assume quella
prospettiva anti-discriminatoria nei confronti delle donne che la Costituzione impone32.
La specificazione dei due sessi negli articoli 48 e 51 cost. sembrerebbe rimandare alla possibilità
che le formulazioni linguistiche che usano il maschile nel testo della Costituzione vengano
interrogate come testi “aperti” o ambigui, come se ogni espressione declinata al maschile
richiedesse di valutare se il maschile viene usato come genere grammaticale o come requisito;
usato come genere grammaticale per indicare l’insieme degli appartenenti ai due sessi – come
avviene per regola grammaticale nel plurale della lingua italiana e, per estensione, attribuendo
anche al maschile singolare la capacità di significare anche il femminile, mentre non vale il
contrario – condurrebbe ad un’interpretazione estensiva, secondo la quale “cittadino/i” sta per
“cittadini e cittadine” e, persino, “uomo/uomini” sta per “uomini e donne”; diversamente, quando il
maschile fosse rivolto ad individuare un requisito positivamente prescritto nei confronti dei soggetti
considerati dalla norma o ad identificare e delimitare la sfera dei titolari del diritto o dei destinatari
degli obblighi, imporrebbe l’interpretazione restrittiva per cui “cittadini” sono solo quelli di sesso
maschile e “tutti” sono solo gli uomini e non le donne. In questa prospettiva, la specificazione dei
due sessi con riferimento ai soli diritti politici (art. 48 e 51) finirebbe per gettare una luce sinistra
sui molti altri articoli in cui l’uso del maschile potrebbe essere inteso, proprio in mancanza di
analogo richiamo, come un vero e proprio requisito.
In realtà, una volta che la costituzione ha assunto il principio di uguaglianza come principio
fondamentale, non c’è posto per alcuna ambiguità degli enunciati al maschile: il divieto di
discriminazioni in base al sesso rende l’eventuale differenza di trattamento un’eccezione che
potrebbe essere giustificata solo da esigenze stringenti e di rango costituzionale, con il corollario
che la formulazione dell’eccezione non potrebbe avvenire “implicitamente” e per via solo
interpretativa; detto altrimenti, il divieto di discriminazioni in base al sesso di cui all’art. 3 cost.
impedisce l’interpretazione restrittiva della formulazione grammaticale al maschile, rendendo assai
poco persuasiva la spiegazione tradizionale; in essa ritroviamo una lettura storica delle ragioni dei
costituenti (intenzione del legislatore in senso soggettivo), che non è accettabile per individuare la
ratio della norma (intenzione del legislatore nel senso obiettivizzato nella norma, nella sua
contestualizzazione e attualizzazione).
D’altro canto, moltissimi articoli della costituzione usano il genere maschile senza ulteriori richiami
(dall’art. 2 al 4, dal 10 al 21, al 32, al 53 …).
Il fatto stesso della specificazione contenuta negli art. 48 e 51 cost. rimarca, dunque, la peculiarità
della sfera politica rispetto al genere. Una peculiarità che si manifesta anche nella sfera del lavoro,
dove, tuttavia, a differenza del campo dei diritti politici che la costituzione pretende uguali per gli
uomini e le donne, le norme33 esprimono precisamente la necessità di connotare in modo
32
  V. nota 24 e più ampiamente E. PALICI DI SUNI, cit.
33
  Art. 36
Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso
sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa.
Art. 37.
La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le
condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e

                                                          11
differenziato le diverse condizioni materiali di coloro che lavorano: i lavoratori e le lavoratrici,
infatti, possono avere o non avere carichi di famiglia – che diventano parametro legittimo per
differenziare le misure delle retribuzioni a parità di quantità e qualità del lavoro – e possono essere
diversamente coinvolti nella riproduzione (in base al loro sesso) e nella cura dei figli (in base al loro
genere, cioè in base ai differenti ruoli socialmente assegnati agli uomini e alle donne).
La formulazione degli articoli 48 e 51 cost. è, dunque, rivelatrice del paradosso dell’uguaglianza tra
i sessi, e il paradosso si riproduce con particolare persistenza.
Per rimuovere la contraddizione insita nella ridondanza della ripetizione (“dell’uno e dell’altro
sesso”) rispetto all’art. 3 cost., è stato sostenuto che nell’art. 51 cost. fosse già presente il dovere di
garantire una rappresentanza politica effettivamente composta di uomini e di donne34; e, d’altra
parte, le disposizioni che definiscono il principio di uguaglianza rispetto al genere vanno
interpretate nell’ambito di una costante relazione dialettica tra uguaglianza formale e sostanziale (i
due poli di un unico principio di uguaglianza), per cui la specificazione del principio di uguaglianza
da parte dell’art. 51 cost. ribadisce e rafforza il principio generale senza mutarne la natura (in una
visione diacronica dell’uguaglianza tra i sessi sono consentite tutte le misure di diritto diseguale
che assumono la prescrizione di uguaglianza come obiettivo da conseguire)35. Ma queste letture non
hanno convinto né la giurisprudenza36, né la dottrina37; è stato perciò necessario un sovraccarico
testuale38 perché l’interpretazione della legittimità costituzionale delle pari opportunità elettorali
divenisse effettiva e generalizzata39. D’altra parte, si può osservare che con tale ulteriore
enfatizzazione testuale il diritto sociale alle pari opportunità, che prima era solo generico (cioè
fondato sull’art. 3, 2° cost.), è divenuto nei testi novellati degli artt. 117 e 51 cost. un diritto
specificamente costituzionalizzato, con indubbio riflesso positivo sulla sua struttura 40.
Quanto sia persistente il paradosso del rapporto circolare tra diritto positivo, interpretazione del
diritto e genere, è curiosamente confermato dall’esempio del nuovo statuto della Regione Toscana,
che ha previsto una norma di chiusura (art. 82) volta a precisare che l’uso del genere grammaticale
maschile per indicare soggetti titolari di diritti, incarichi e stati giuridici risponde solo ad esigenze di
semplicità del testo: disposizione priva di contenuto normativo, o meglio, puramente ripetitiva di un
criterio interpretativo ormai corrente e costituzionalmente obbligato, ma pur sempre interessante ai
fini della visibilità della caratterizzazione duale dello stesso ordinamento.

5. Funzione riproduttiva, funzioni di cura e genere dei lavoratori
Come già osservato, la divisione dei ruoli sessuali rispetto alle funzioni riproduttive e di cura, da un
lato, ed al lavoro produttivo, dall’altro, tramandata dal linguaggio della costituzione repubblicana

al bambino una speciale adeguata protezione.
34
   Particolarmente stringente l’argomentazione di L. GIANFORMAGGIO, La promozione della parità di accesso alle
cariche elettive in Costituzione, in AA.VV., La parità dei sessi nella rappresentanza politica, Giappichelli, Torino,
2003, p. 74ss.
35
   B. PEZZINI, Principio costituzionale di uguaglianza e differenza tra i sessi, Pol dir., 1993, p. 60.
36
   Si veda in particolare la sentenza Corte cost. 422 del 1995.
37
   Anche se le critiche alla sentenza 422 del 1995 non sono mancate (v. per tutte U. DE SIERVO, La mano pesante
della Corte sulle “quote” nelle liste elettorali, Giur. cost., 1995, p. 3268), la maggioranza della dottrina sino alla sent.
della Corte costituzionale 49/2003 si mostrava sinceramente riluttante a cogliere la novità connessa all’impatto della
questione di genere sulla rappresentanza: si vedano, per lo stato dell’arte precedente alla sentenza sullo statuto Val
d’Aosta, i contributi raccolti nel volume La parità dei sessi cit., che raccoglie gli atti del seminario “preventivo” Amicus
curiae svolto il 16 novembre 2002 in occasione della visita della Corte costituzionale alla Facoltà di giurisprudenza di
Ferrara.
38
   Quello che ha inserito nel 117 il 7° comma: “Le leggi regionali rimuovono ogni ostacolo che impedisce la piena
parità degli uomini e delle donne nella vita sociale, culturale ed economica e promuovono la parità di accesso tra
donne e uomini alle cariche elettive” ed ha completato il primo comma del 51 con la frase: “A tale fine la Repubblica
promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini”.
39
   Qui va citata non solo la svolta della giurisprudenza costituzionale dalla sentenza 422 del 1995 alla 49 del 2003, ma
anche il ridefinirsi delle posizioni in dottrina, ad. es. G. BRUNELLI, cit. in nota 8.
40
   Sulla struttura dei diritti sociali costituzionali sia consentito rinviare a B. PEZZINI, La decisione sui diritti sociali,
Giuffré, Milano 2001.

                                                            12
risulta molto “datata”. Il lavoratore maschio è visto nel ruolo di potenziale capo-famiglia che
sostiene con il suo reddito l’intero nucleo familiare (art. 36 cost., per cui la retribuzione è giusta
quando, oltre che proporzionata alla quantità e qualità del lavoro, è sufficiente a garantire
l’esistenza libera e dignitosa del lavoratore e della sua famiglia); la lavoratrice di sesso femminile è
portatrice di una specificità da tutelare non solo in relazione alla sua insostituibile funzione
riproduttiva in quanto madre, ma anche associata ad un’essenziale funzione di cura di cui le
condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento. Il precetto di parità ed il divieto di
discriminazione, tuttavia, impediscono la cristallizzazione definitiva e normativamente imposta
della divisione dei ruoli domestico ed extra-domestico presupposta dai costituenti e consentono di
recepire, nell’interpretazione della norma, l’evoluzione sociale che ha fortemente modificato i ruoli
sessuali e le definizioni di genere nei sessant’anni trascorsi dall’approvazione della costituzione.
Entrambe le norme, nonostante la lettera della legge fortemente connotata in base al genere, sono
potenzialmente estensibili, in base alla loro ratio, all’altro sesso, dando vita a regole bi-direzionali;
la donna lavoratrice con carichi di famiglia ha diritto, come il lavoratore, a quella parte della
retribuzione parametrata a tali carichi; il lavoratore padre con responsabilità di cura fruisce delle
norme per la conciliazione introdotte in origine per le sole madri41. Resta regola unidirezionale a
favore delle sole madri la tutela della gestazione e del puerperio, condizioni fisiologicamente
ancorate al corpo femminile42.
Da rilevare anche che la specifica affermazione del principio della parità di trattamento della prima
frase dell’art. 37 cost. non ha quella dimensione ridondante rispetto al precetto di uguaglianza
formale vista nei diritti politici; qui la regola anti-disciminatoria introduce un elemento peculiare, la
prescrizione che la retribuzione dovuta per il lavoro si misuri, rispetto al sesso del lavoratore, per
categorie generali e per tipologie di prestazioni richieste anziché in uscita guardando al risultato
concreto delle prestazioni effettuate.
Quando oggi guardiamo agli articoli 36 e 37 cost., troviamo in essi il riconoscimento del valore
sociale della funzione di cura, del valore fondamentale della conciliazione del lavoro domestico ed
extra-domestico (retribuito e di cura), non già la prescrizione normativa di genere in merito alla
ripartizione del carico di tale lavoro. Sono regole sulle condizioni e la qualità del lavoro e dei lavori,
sui diritti di tutti i lavoratori e di tutte le lavoratrici; solo la singolarità irripetibile di ciascun uomo e
di ciascuna donna può stabilire quale, e quanto, debba essere il mix di attività produttive,
riproduttive e di cura nello svolgersi della propria esistenza, in quanto ciò riguarda il progetto di
vita e di sviluppo della personalità di ogni persona (art. 2 cost.). Ai percorsi di vita autonomamente
scelti e costruiti da uomini e donne la costituzione offre la garanzia che il progetto individuale di
ognuno trovi il sostegno ed il riconoscimento sociale che ne garantiscono l’effettività: lo fa
attraverso l’art. 3, 2° comma e attraverso ogni diritto sociale specificamente costituzionalizzato, in
un quadro che, soprattutto dopo la recente introduzione dell’art. 117, 7° comma, si potrebbe definire
di un vero Welfare-mix gender oriented. Bisogna, infatti, sottolineare che la legge di revisione
costituzionale del titolo V della costituzione ha delineato, in materia, un vero e proprio indirizzo
costituzionale: il 7° comma dell’art. 117 cost. prefigura la “piena parità degli uomini e delle donne
nella vita sociale, culturale ed economica”, assumendo l’obiettivo della costruzione di una società
duale, sessuata, segnata in tutti gli ambiti dalla presenza delle donne e degli uomini.
La qualificazione introdotta dal nuovo art. 117 cost. guarda alla condizione di parità in relazione
alla dimensione sociale di genere, non atomisticamente nella situazione del singolo/della singola,
come fa il precetto generale di uguaglianza (art. 3 cost.) che ha riferimento alla posizione individuale.
Assicura alle donne una potenzialità di posizione pienamente paritaria rispetto agli uomini (e,
naturalmente, viceversa, essendo formulata in modo neutro e bi-direzionale); il che significa
garantire ai due generi, nel complesso delle attività sociali, culturali ed economiche, una presenza
41
   E addirittura la legge 53 del 2000 e il t.u. 151 del 2001, in funzione incentivante e promozionale di una ridefinizione
delle responsabilità di cura tra i padri e madri, “premiano” il padre che utilizza congedi parentali, prolungandone
l’estensione.
42
   Ratio della tutela sono la salute della madre e del bambino; questo spiega perché, nell’ipotesi eccezionale in cui la
madre sia fisicamente assente, le norme sull’astensione possano essere utilizzate dal padre del bambino.

                                                           13
equilibrata ossia corrispondente al loro peso statistico, in cui le variazioni dovute alle preferenze,
attitudini, vocazioni individuali incidono e si distribuiscono in modo equilibrato tra i due generi.
Ciò introduce un parametro sufficientemente definito per misurare l’adeguatezza della legislazione:
quando la distribuzione statistica dei due generi in un determinato campo, ambito, settore della vita
sociale, culturale e economica risulta squilibrata, diventa sintomo della presenza di ostacoli che
impediscono al genere sotto-rappresentato la piena parità. E lo squilibrio è tale sia per il genere
sotto che per quello sovra-rappresentato, a prescindere, quindi, dall’effetto discriminatorio; lo
squilibrio di genere non è solo il sintomo di una discriminazione, rivelatore di un problema da
affrontare per garantire giustizia a chi è discriminato, ma è anche un ordine (sociale) di genere che
la norma costituzionale non consente, dal momento che la ratio della norma corrisponde alla
volontà di segnare “binariamente” con la presenza paritaria dei due generi tutti gli ambiti e le
dimensioni della vita.
La presenza duale è richiesta nella vita sociale, culturale ed economica, oltre che nella vita politica
(attraverso la formula della parità di accesso tra donne e uomini alle cariche elettive). Manca,
invece, un diretto riferimento alla vita familiare, che tanta rilevanza ha, nei fatti, a segnare la
condizione del genere femminile e la divisione sessuale del lavoro. La questione della parità nella
dimensione della famiglia è oggetto diretto dell’art. 29 cost., che riguarda la definizione dei rapporti
tra i coniugi all’interno del matrimonio (benché, come già osservato, l’area della famiglia per la
costituzione sia più ampia, data l’irrilevanza del matrimonio ai fini della disciplina del rapporto di
filiazione e per l’indubbia rilevanza costituzionale delle cosiddette famiglie di fatto, società naturali
ex art. 2 cost.); nell’art. 37 cost. la costituzione segue, invece, una prospettiva capovolta e, associate
le funzioni familiari al genere femminile, ne riconosce l’essenzialità e pone il precetto della parità di
trattamento dei lavoratori dei due generi; il riferimento specifico al genere femminile discriminato è
reso necessario proprio dal fatto di aver dovuto riconoscere le differenze di genere (la doppia
presenza, il doppio ruolo della donna): evitando di agire autoritativamente all’interno dei rapporti
familiari, la norma anti-discriminatoria interrompe il circolo vizioso e impedisce che la ineguale
distribuzione dei ruoli sessuali in famiglia si converta necessariamente in ineguale distribuzione
dei ruoli sessuali nel lavoro extra-domestico43.
Nella medesima prospettiva dell’art. 37 cost. va letto anche il testo del 7° comma dell’art. 117 cost.:
in esso manca il riferimento alla vita familiare perché ciò che interessa non è definire un modello di
famiglia costruito sulla piena parità tra i coniugi (funzione già assolta dall’art. 29 cost.), quanto
piuttosto garantire il risultato della piena parità in tutti gli ambiti della vita relazionale esterna alla
famiglia. Ciò, evidentemente non autorizza ad ignorare la rilevanza degli squilibri nella ripartizione
delle funzioni di cura, perché di essi l’art. 117 prende atto indirettamente, attraverso gli squilibri
nella vita economica, culturale e sociale. Anzi, nel linguaggio del 117 si può dire che proprio
l’ineguale distribuzione del lavoro di cura rappresenti uno dei principali ostacoli alla piena parità
nei vari campi “esterni”, sociale, culturale ed economico: di conseguenza, la distribuzione del
lavoro di cura nella famiglia costituisce un terreno senz’altro rilevante per le politiche di pari
opportunità, semplicemente segnato dalla cautele necessarie di fronte alla dimensione speciale della
famiglia, titolare di una sfera di autonomia costituzionalmente garantita.

6. Del genere della rappresentanza (e dei rischi di un uso retorico e dilatorio della
Costituzione)
Si è già considerato il fatto che la formula dell’art. 51 cost., non sostenuta da attori politici che
fossero convinti del suo carattere precettivo, non ha impedito il protrarsi di una sostanziale
esclusione delle donne dalla rappresentanza politica (macroscopica in Italia, collocata al

43
  Come si è visto sopra, in una lettura evolutiva (in cui il mutamento dei rapporti sociali ha messo in discussione la
premessa di associazione necessaria delle funzioni di cura al genere femminile) e in una visione storicizzata (che
associa il genere femminile alla cura per osservazione sociologica e statistica, rifutando ogni declinazione
essenzialistica) resta la norma che, riconosciuta l’essenzialità di tali funzioni indipendentemente dal sesso di chi le
svolge, ne assicura la conciliazione con la vita lavorativa.

                                                          14
sessantaquattresimo posto nelle graduatorie mondiali della presenza di donne in parlamento44).
Senza una vera adesione ai suoi valori la costituzione, del resto, resta un “pezzo di carta che non si
muove”, come ammonisce Calamandrei nel celebrato Discorso agli studenti del 1953; la sua stessa
interpretazione qualificata ad opera della Corte costituzionale viene declinata restrittivamente
contro le leggi che nei primi anni novanta avevano introdotto nella legislazione elettorale misure di
sostegno alle candidature femminili, sino a che non viene introdotto un esplicito riferimento alle
pari opportunità tra donne e uomini in materia elettorale (nel 2001 nell’art. 117, 7° comma, e nel
2003 nell’art. 51 cost.45).
Guardare alla vicenda della riforma dell’art. 51 cost. – e della sua mancata attuazione che si protrae
a tutt’oggi – consente di riflettere sui molteplici problemi del rapporto complesso tra una norma
costituzionale e la sua attuazione.
A chi è stata indirizzata la modifica dell’art. 51 cost.? Alla Corte costituzionale, che nel 1995 aveva
ritenuto illegittime le quote elettorali? al legislatore che aveva ignorato il monito che la Corte gli
aveva rivolto nel 1995 sollecitandolo ad intervenire con interventi “di altro tipo, certamente
possibili sotto il profilo dello sviluppo della persona umana, per favorire l’effettivo riequilibrio fra i
sessi nel conseguimento delle cariche pubbliche elettive, dal momento che molte misure […]
possono essere in grado di agire sulle differenze di condizioni culturali, economiche e sociali”46?
La legittimità di misure positive dirette a garantire che la presenza di esponenti di un sesso nelle
liste o nelle candidature elettorali non scenda al di sotto di una certa percentuale viene riconosciuta
come principio di portata generale dalla giurisprudenza costituzionale, anche prima che la modifica
dell’art. 51 giunga definitivamente in porto: basta l’indirizzo di promozione dell’accesso paritario
alle cariche elettive positivamente prescritto nell’art. 117 cost. a consentire alla Corte di affermare il
principio di doverosità di misure legislative volte alla parità effettiva in campo elettorale, senza
distinzioni tra la rappresentanza politica in sede regionale e in altre sedi47.
Altrettanta convinzione nei confronti della doverosità delle pari opportunità elettorali non matura,
invece, nella classe politica: sulla scia della sollecitazione della Corte del 1995, l’unico intervento
del legislatore era stato nella legge 157 del 1999, art. 3, vincolando i partiti destinatari dei rimborsi
elettorali a destinarne una quota non inferiore al 5% ad iniziative volte ad accrescere la
partecipazione attiva delle donne alla politica, senza alcuna sanzione in caso di inadempienza; ed
anche dopo l’approvazione del nuovo testo dell’art. 51 cost. la situazione non muta.
Nel 2004 viene approvata la legge n. 90 per le elezioni europee, che impone alle liste
circoscrizionali aventi un medesimo contrassegno di non rappresentare nessuno dei due sessi in
misura superiore ai due terzi dei candidati; la regola è limitata alle prime due tornate elettorali
successive e, in caso di violazione, la lista non viene ammessa se non vi sia almeno un
candidato/una candidata di ciascun sesso; negli altri casi, la sanzione consiste nella riduzione dei
rimborsi per le spese elettorali.
Nel 2005, però, fallito il tentativo di introdurre nella legge di conversione del decreto-legge recante
disposizioni urgenti per lo svolgimento di elezioni amministrative48 un apposito emendamento sulle

44
   La classifica mondiale costantemente aggiornata dall’Unione interparlamentare colloca l’Italia al 63° posto (giugno
2007).
45
   Posto che “Tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici ed alle cariche elettive in
condizioni di eguaglianza”, si aggiunge: “A tal fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari
opportunità tra donne e uomini”.
46
   Corte costituzionale 422/1995.
47
   L’interpretazione congiunta suggerita dalla stessa Corte cost nella sent. 49 del 2003 è collegata da G. BRUNELLI,
Riequilibrio di genere nella rappresentanza politica: la parola al legislatore regionale, Editoriale 572003, in
“federalismi.it”, Rivista telematica, anche all’omogeneità di natura e funzioni delle assemblee legislative sottolineata
dalla sentenza 29 del 2003.
48
   D.l. 8/2005, convertito nella legge 40/2005; l’emendamento prevedeva la sostituzione del comma 3 dell’art. 71 del t.
u. delle leggi sull’ordinamento degli enti locali con la previsione, valida sino al 31 dicembre 2015, della quota di un
terzo di candidati non appartenenti ad unico sesso in ciascuna lista, accompagnata dalla cancellazione dei candidati in
eccesso rispetto al limite a partire dal fondo della lista e con sanzione di inammissibilità limitata alle liste interamente
mono-sesso: approvato in commissione è stato poi respinto dall’aula.

                                                            15
pari opportunità, imperniato su una quota di genere temporanea nella misura di un terzo, la
questione dell’attuazione delle pari opportunità elettorali viene successivamente sganciata anche
dalla approvazione della riforma delle leggi elettorali politiche49: una votazione a scrutinio segreto
respinge l’emendamento presentato da parlamentari della maggioranza, sostenuto dalla stessa
ministra delle pari opportunità Prestigiacomo ed accettato dal governo, che prevedeva di introdurre
un modello simile a quello tentato per le elezioni amministrative (quota di genere di un terzo,
meccanismo incrementale per le sanzioni e per l’ordine di successione nelle liste bloccate,
temporaneità connessa alla presenza di uno scarto tra gli eletti dei due generi superiore al 15%)50.
Benché la ministra ottenga poi di ripresentare la proposta bocciata nella veste di un disegno di legge
ad hoc51, il voto favorevole espresso dal Senato nella seduta dell’8 febbraio 2006 risulta inutile (e,
forse, dato proprio in quanto inutile): lo scioglimento anticipato delle Camera l’11 febbraio
preclude, infatti, l’ulteriore cammino del procedimento legislativo.
D’altra parte, nella successiva legislatura, né il governo, né i venti senatori richiesti dal regolamento
si avvalgono della possibilità di riprodurre il testo precedentemente approvato in un disegno di
legge che possa fruire della procedura abbreviata e d’urgenza prevista dai regolamenti parlamentari.
Ad un anno dall’inizio della nuova legislatura, nel quadro dell’incertezza del dibattito sulle riforme
elettorali, non si intravede ancora alcuna chiara volontà di attuazione dell’art. 51 cost.
La dissociazione tra l’intenzione proclamata attraverso al norma costituzionale di promuovere le
pari opportunità nell’accesso alla politica e la chiarissima volontà politica concreta di non
ammettere nello spazio politico della rappresentanza “corpi sessuati”, il contrasto tra il voto sul
principio costituzionale ed il voto sulla legge che potrebbe (e dovrebbe) darvi attuazione, segnalano
e rivelano altro, oltre alla resistenza di una classe politica la cui composizione di genere è
fortemente squilibrata a ridefinire rispetto al genere gli spazi privati e pubblici.
Essi testimoniano e rivelano un pericoloso uso dilatorio ed ideologico della Costituzione, le cui
norme sono riscritte non tanto per rispondere ad obiettiva esigenza costituzionale e per rendere
possibile il dispiegarsi di una scelta politica altrimenti impedita proprio dalla costituzione, ma per
dissimulare un’intenzione politica non apertamente confessabile che, perpetuando e riproducendo la
discriminazione di genere, agisce pesantemente ad escludere le donne dal circuito effettivo della
rappresentanza politica.

49
   Legge 270/2005: il nuovo sistema elettorale per la Camera e per il Senato trasforma il sistema elettorale del 1993
(misto in entrambe le camere, prevalentemente uninominale a maggioranza semplice, con correzione proporzionale pari
ad un quarto dei seggi e differenziato in relazione alle modalità di voto per la quota proporzionale) in un sistema
proporzionale a liste bloccate con premio di maggioranza su base nazionale alla Camera, premi di maggioranza
regionali per il Senato e con soglie di sbarramento multiple per le coalizioni e per le liste (calcolate su base nazionale
alla Camera e su base regionale al Senato).
50
   Sulla discussione dell’emendamento 1.620, bocciato a scrutinio segreto v. la ricostruzione di M. D’AMICO, A.
CONCARO, Donne e istituzioni politiche, Analisi critica e materiali di approfondimento, Giappichelli, Torino, 2006, p.
72ss.
51
   Ddl 3660, Disposizioni in materia di pari opportunità tra uomini e donne nell’accesso alle cariche elettive
parlamentari: il disegno approvato dal Senato è ispirato ad una disciplina complessiva, che si vuole adeguabile
flessibilmente a sistemi elettorali anche di tipo differente: limitato a due tornate elettorali, fissa una quota di genere
paritaria (la soglia del 50% viene introdotta da un emendamento nella discussione in aula) da applicare a ciascuna lista
di candidati o a ciascun gruppo di candidati: (potenzialmente applicabile, quindi, anche a sistemi uninominali purché
prevedano forme di collegamento per gruppi); presenta un meccanismo progressivo nello stabilire l’alternanza
nell’ordine di lista (tre nella prima e due nella seconda elezione) e nelle sanzioni (riduzione rimborsi nella prima,
inammissibilità nella seconda). Nella discussione in aula vengono inserite anche due ulteriori articoli riferiti alle
elezioni amministrative, che prevedono una quota di genere di un terzo, con la sanzione della cancellazione dei
candidati in eccesso a partire dal fondo della lista, in ambito comunale, e sanzioni pecuniarie per l’ambito provinciale. Il
testo approvato dal Senato prevede, infine, un obbligo periodico di monitoraggio e relazione da parte del governo
sull’applicazione della legge, nonché sulle misure necessarie per promuovere ulteriormente le pari opportunità
nell’accesso oltre che alle cariche elettive parlamentari, anche alle nomine nel Consiglio superiore della magistratura,
nella Corte costituzionale, nelle Autorità e in tutte le cariche di responsabilità nelle quali sottorappresentato il genere
femminile.


                                                            16
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Donne e costituzione: le radici ed il cammino

  • 1. DONNE E COSTITUZIONE: LE RADICI ED IL CAMMINO di Barbara Pezzini Testo della lezione presentata dall'autrice nell'ambito del Ciclo di lezioni svoltosi a Bergamo dal 3 novembre al 7 dicembre, derivato dal convegno “La Costituzione della Repubblica italiana. Le radici, il cammino”, svoltosi a Bergamo il 28 e 29 ottobre 2005. Pubblicata in “Studi e ricerche di storia contemporanea”, 2007 – Fasc. 68 – pp. 163 - 187. 1.- Donne e costituzione: le radici ed il cammino. 2.- Sessi, genere e costituzione. 3.- I diritti politici dell’uno e dell’altro sesso. 4.- Un paradosso: il diritto costruisce il genere e il genere costruisce il diritto. 5.- Funzione riproduttiva, funzioni di cura e genere dei lavoratori. 6.- Del genere della rappresentanza (e dei rischi di un uso retorico e dilatorio della Costituzione). 1. Donne e Costituzione: le radici e il cammino Il riferimento ad alcune delle norme costituzionali che toccano più da vicino e più significativamente la differenza di genere può essere fatto in una duplice prospettiva: utilizzare la Costituzione per riflettere sul genere, da un lato, ma anche utilizzare il genere per riflettere sulla Costituzione, dall’altro. Lo vorrei fare, in particolare, attraverso l’esame di tre diverse disposizioni costituzionali: gli articoli 48 e 51 cost., per rilevare precedenti e presupposti della formulazione degli enunciati normativi; l’art. 37 cost., per comprendere come cambiano le norme – anche quando le disposizioni restano uguali – e cosa si riflette nell’interpretazione giuridica; e di nuovo l’art. 51 cost, per mettere in luce il rapporto complesso tra la norma costituzionale e la sua attuazione. Il rapporto tra donne e costituzione appare, per diversi aspetti, un luogo privilegiato nel quale osservare sia le “radici” che il “cammino” della Costituzione italiana del 1948. Innanzitutto, la piena affermazione del suffragio universale è uno dei più significativi elementi che caratterizzano le origini, e quindi le radici, della carta costituzionale repubblicana; o, quanto meno, è l’elemento più significativo sul piano “istituzionale”, a partire dal fatto che proprio l’evocazione del potere costituente, interamente nuovo, fondato sul suffragio universale segna la prima “costituzione provvisoria”, il decreto legislativo luogotenenziale n. 151 del 19441, spezzando la continuità con l’ordinamento costituzionale monarchico e statutario precedente. In secondo luogo, l’impianto fortemente innovativo sul terreno dell’uguaglianza fra i sessi delle norme del testo costituzionale entrato in vigore il 1° gennaio 1948 rappresenta efficacemente la novità dell’ispirazione della Costituzione repubblicana e la connessa tensione alla trasformazione; di conseguenza richiede di osservare con attenzione in quali forme e con quali modalità temporali sia avvenuta l’attuazione della Costituzione nella legislazione ordinaria e nell’intera società, percorrendone il cammino. E, infine, il rapporto tra donne e Costituzione consente di osservare anche le più recenti stagioni costituzionali, gli ultimi sviluppi del cammino della Costituzione del 1948: dopo una lenta stagione di attuazione costituzionale, che ha portato progressivamente a compimento il sistema dei nuovi diritti dei cittadini, le riforme di garanzia (Consiglio superiore della magistratura e Corte costituzionale) e gli istituti di nuova concezione (referendum, regioni), tra il 1983 e il 1997 si apre una stagione segnata dalla crisi del sistema dei partiti, che pone all’ordine del giorno del dibattito politico la tensione verso le riforme istituzionali e conduce alla rottura del tabù della riforma della Costituzione, senza peraltro produrre revisioni di ampia portata; nel 1999 ha poi inizio una terza fase di vero e proprio riformismo costituzionale, che si prolunga sino all’ampia riscrittura della 1 È lo stesso Meuccio Ruini (nella seduta del 5 dicembre 1947, Atti Ass. Cost., CCCXXI, p. 2899) a definire il decreto 151 una “piccola costituzione provvisoria uscita dalla rivoluzione” e “il punto iniziale, la cellula da cui è provenuto l’ordinamento provvisorio”. 1
  • 2. seconda parte della costituzione al termine della XIV legislatura2 e che appare percorsa in modo progressivo e crescente da una tensione riformistica maggioritaria (nel senso che la progettazione e l’avvio di processi di revisione costituzionale, anche di ampio respiro, diventano progressivamente indifferenti alla ricerca di un consenso più allargato dell’area della maggioranza di governo e, parallelamente, rinnegano l’orizzonte di un semplice adeguamento del testo originario, aspirando alla rottura della continuità con il patto originario e alla sostituzione radicale e integrale della sua ispirazione). I problemi e le dinamiche della stagione del riformismo costituzionale riguardano direttamente anche alcune più recenti riforme della costituzione rivolte alla costituzionalizzazione espressa del principio di pari opportunità tra uomini e donne, con leggi di revisione costituzionale che hanno imposto la doverosità di politiche di genere come un orientamento generale di merito della legislazione regionale e sul terreno specifico dell’accesso alle cariche elettive, regionali e nazionali, ed agli uffici pubblici. Per quanto riguarda il primo aspetto, a connotare le radici della Costituzione, gli studi di Anna Rossi Doria3 hanno pienamente mostrato il faticoso e conflittuale maturare, negli anni della costituzione provvisoria, delle condizioni che hanno consentito alle donne di “diventare cittadine”, frantumando un paradigma costitutivo della modernità, quello che separa le sfere privata e pubblica in base al genere4 costruendo il concetto moderno di individuo sulla base di proprietà originariamente negate alle donne, quali l’autonomia e la disponibilità del proprio corpo5. Il suffragio universale praticato nelle elezioni del 1946 rappresenta un elemento centrale della rottura e della discontinuità rispetto allo Statuto albertino e quindi dell’attivazione del potere costituente; un elemento che entra come componente irreversibile della costituzione provvisoria, che vincola lo stesso potere dell’Assemblea costituente, che certo non avrebbe potuto rinnegarlo. Il suffragio universale è stato incorporato nella costituzione formale e sostanziale come elemento che definisce la sovranità e la forma di stato in opposizione al suffragio limitato, dando vita ad un ordinamento costituzionale che definisce, indefettibilmente, una forma di stato democratica fondata univocamente sulla sovranità popolare (mentre lo Statuto, da questo punto di vista, dava espressione alla forma di stato liberale, fondata sulla sovranità nazionale rappresentativa, sia pure in una forma aperta, anche per la flessibilità di quella carta costituzionale, alla progressiva evoluzione in direzione democratica). In maniera altrettanto irreversibile il voto alle donne ha riconosciuto la piena cittadinanza politica delle donne incorporando nel patto fondamentale i diritti politici delle donne come diritti inviolabili; per questa via la Costituzione repubblicana apre ad una trasformazione ulteriore della forma di stato: come l’allargamento della base del diritto di voto è stato cruciale per la creazione dello stato sociale, la cui legislazione considera i soggetti non nella loro astrazione giuridica ma nella loro concreta collocazione sociale, di classe ed economica, così il pieno ingresso delle donne nella sfera politica e l’accesso effettivo delle donne nei luoghi della rappresentanza rendono possibile l’orizzonte di una democrazia duale6, consapevolmente declinata rispetto al genere, capace di riconoscere le differenze tra i sessi e di assumerle in modo non 2 Per approfondire i contenuti della legge di riforma della parte seconda della costituzione, approvata a maggioranza assoluta e in attesa del referendum confermativo, v. B. PEZZINI e S. TROILO (a cura di), La Costituzione riscritta, Giuffré, Milano, 2006. 3 A. ROSSI DORIA, Diventare cittadine, Il voto alle donne in Italia, Giunti, Firenze 1996. 4 A. ROSSI DORIA, cit. p. 9; v. anche L. GIANFORMAGGIO, La soggettività politica delle donne: strategie contro, Dem. dir. 1994, p. 489ss. M.L. BOCCIA, La differenza politica, Il Saggiatore, Milano 2002, p. 29. 5 Il riferimento è a C. PATEMAN, Il contratto sessuale, Ed. Riuniti, Roma 1997; ma anche a P. ROSANVALLON, La rivoluzione dell’uguaglianza. Storia del suffragio universale in Francia, Anabasi, Milano 1994, che rileva come sia l’uomo a polarizzare la nuova figura dell’individuo, mentre la donna resta assegnata alla forma comunitaria del sociale che sopravvive nella famiglia: “identificata alla comunità familiare la donna è spogliata dell’individualità” (p. 144). 6 Per il concetto di democrazia duale v. B. PEZZINI, Guardare il diritto con la coscienza del genere: la democrazia paritaria, in Commissione nazionale per le pari opportunità, Regioni: quale riforma, Roma, IPZS, 2003, p. 130; il concetto è ripreso adesivamente da L. CASSETTI, Le pari opportunità tra i sessi nelle consultazioni elettorali dal costituzionalismo regionale al costituzionalismo statale, 24 luglio 2003, in www.federalismi.it, p. 17, e da G. BRUNELLI, Pari opportunità elettorali e ruolo delle regioni, in Diritti sociali tra uniformità e differenziazione. Legislazione e politiche regionali in materia di pari opportunità, previdenza e lavoro dopo la riforma del titolo V, a cura di B. Pezzini, Milano, Giuffrè, 2005, p. 68, nota 43. 2
  • 3. discriminatorio7, proprio perché la presenza anche delle donne nelle sedi della rappresentanza consente di influenzare la produzione delle leggi che definiscono le condizioni delle donne e degli uomini8. Per quanto riguarda il secondo aspetto, il cammino della Costituzione nell’arco dei sessant’anni dall’avvio del processo costituente, non si può mancare di osservare quanto l’attuazione del precetto di uguaglianza tra i sessi nella legislazione ordinaria sia stata faticosa e lenta, anche se progressiva9; proprio la misurazione della distanza tra le norme costituzionali e la legislazione rivela il potenziale di trasformazione sociale incorporato nella norma costituzionale, la sua capacità di pretendere e di orientare mutamenti che riguardano la posizione degli uomini e delle donne nella società, le relazioni sociali tra i sessi (vale a dire la distribuzione del potere nella società dal punto di vista di genere). 2. Sessi, genere e costituzione Lo Statuto albertino nominava con specifico riferimento al loro genere solo le donne della famiglia reale: l’art. 21 prevedeva una riserva di legge in ordine alla dote delle Principesse e al dovario delle Regine; secondo l’art. 17 alla Regina Madre spettava la funzione di tutrice del Re sino all’età di sette anni, dopo di che la tutela sarebbe passata al Reggente (Principe parente più prossimo nell’ordine della successione al trono); alla Regina Madre, inoltre, l’art. 14 consentiva di assumere la reggenza “in mancanza di parenti maschi” durante la minorità del Re: in questo solo caso, specifico ed eccezionale, l’esercizio della sovranità non era ritenuto incompatibile con il sesso femminile. Le differenza tra i sessi sono, invece, espressamente nominate e considerate dalla Costituzione repubblicana, con il fine specifico di rimuovere le discriminazioni a carico delle donne; per la prima volta la Costituzione riconosce espressamente che le relazioni tra i sessi ed i rapporti di genere (la posizione relativa degli uomini nei confronti delle donne nei vari ambiti della vita sociale – dalla famiglia, al lavoro, alla sfera politica) rappresentano un elemento rilevante della struttura dell’ordinamento: la novità consiste nell’emergere in forma palese di fronte al diritto (e specificamente al diritto costituzionale) di relazioni che sino ad allora il diritto aveva costruito in forma occulta, contribuendo a dissimularne la stessa esistenza (come si vedrà, ad esempio, a proposito delle vicende del voto alle donne dei primi anni del novecento). La costruzione dei generi maschile e femminile10, in quanto elaborazione sociale delle differenze tra i sessi11, avviene, infatti, e si sviluppa anche per mezzo del diritto, nella forma di una costruzione 7 Per distinguere tra differenza, uguaglianza e discriminazione, v. L. GIANFORMAGGIO, Eguaglianza, donne e diritto, Mulino, Bologna, 2005. 8 Tale apertura – connessa all’ingresso delle donne nella cittadinanza politica – è avvenuta in modo inconsapevole della reale portata innovativa di tale ingresso, per la “naturale inscindibilità” della cittadinanza politica con i diritti civili e sociali e per le contraddizioni che le donne avrebbero portato nella fruizione di quei diritti entro il sistema moderno delle libertà: P. GAIOTTI DE BIASE, L’accesso alla cittadinanza il voto e la Costituzione, in Le donne e la Costituzione, Camera dei deputati, Roma 1989, p. 62. 9 Fra le ricostruzioni più recenti v. E. PALICI DI SUNI, Tra parità e differenza. Dal voto alle donne alle quote elettorali, Giappichelli, Torino, 2004. 10 Genere è un concetto descrittivo e insieme una categoria analitica: indica la costruzione sociale dell’essere donna e uomo (i processi, i comportamenti, i rapporti che organizzano la divisione dei compiti tra uomini e donne, differenziandoli) ed implica l’adozione di un codice binario e relazionale, che richiede dialettica e reciprocità tra le sue componenti; il genere ha come presupposto il riconoscimento del fatto che le differenze tra i sessi determinano relazioni sociali imperniate sulla differenza (costruiscono gli uomini e le donne come generi) e che, a loro volta, tali relazioni sociali riproducono le differenze. 11 Si segnala, però, che solo in una prima approssimazione si può assumere il sesso (la differenza sessuale) come il dato biologico in qualche modo pre-esistente (e resistente) all’elaborazione sociale e culturale in termini di genere; se è plausibile distinguere tra sesso e genere, in base alla considerazione che il sesso rappresenta (nel senso di descrive) il dato biologico della esistenza di uomini e donne, mentre il genere identifica il dato culturale e sociale (quanto vi sia di socialmente determinato nella differenziazione tra uomini e donne), è altrettanto indispensabile ricordare che l’appartenenza sessuale delle persone, la delimitazione e la numerazione dei sessi, la definizione biologica e/o genetica del sesso costituiscono operazioni sociali, socialmente e culturalmente determinate (e quindi tutte costruiti anche giuridicamente). Sesso e genere si inseguono come un gatto che si morde la coda, senza che possiamo stabilire una volta 3
  • 4. giuridica12 che segna il modo sessuato della società (la duplice presenza di uomini e donne nella società segnata dalla differenza di ruoli e dalla disparità di potere connessa a tali ruoli). La costituzione repubblicana, da questo punto di vista, è interamente nuova nel nominare la differenza in termini di sesso direttamente nel principio fondamentale dell’art. 3 cost. (che vieta ogni discriminazione fondata sul sesso) e in termini di genere nei numerosi articoli nei quali riconosce una posizione differente degli uomini e delle donne rispetto al lavoro e alla famiglia (in forma esplicita, negli art. 36, 37, 31, e, più indirettamente, negli articoli 29, 48 e 51: questi ultimi, infatti, ribadiscono, nella sfera dei rapporti coniugali ed in quella dei rapporti politici, il precetto dell’uguaglianza tra uomini e donne proprio perché pienamente consapevoli della effettiva condizione di disuguaglianza e discriminazione delle donne). Ciò rende visibile – e particolarmente visibile, al livello della struttura fondamentale costituzionale13 – il ruolo del diritto nella costruzione del genere. Ma la costituzione del 1948 è almeno altrettanto nuova anche nei contenuti, che assegnano alla norma costituzionale la funzione di trasformare il “verso” prevalente della costruzione di genere, della costruzione del maschile e del femminile all’epoca della sua entrata in vigore (verso allora segnato dalla subordinazione e discriminazione della donna). L’Assemblea costituente è la prima sede di una rappresentanza politica anche delle donne italiane e la Costituzione repubblicana è la prima legge significativa alla cui produzione le donne italiane partecipano direttamente in qualità rappresentanti politiche elette; per quanto le donne presenti in Costituente costituiscano un’esigua minoranza (ventuno donne, pari al 3,7 % dei componenti dell’Assemblea14), si tratta di un gruppo sufficientemente combattivo, qualificato ed unito trasversalmente, in grado di porre all’ordine del giorno della Costituente la questione della rimozione delle discriminazioni in base al sesso (rimossa la discriminazione politica, restavano, infatti, da scalzare tutte le altre discriminazioni giuridiche). I risultati nel testo della costituzione sono evidenti, a partire dal principio fondamentale di uguaglianza, formale (art. 3 cost., 1° comma) e sostanziale (2° comma)15. Il primo comma configura un’uguaglianza formale davanti alla legge meno astratta di quanto non fosse in precedenza, declinando le discriminazioni vietate, per ragioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. Con l’affermazione che tutti sono uguali davanti alla legge, le differenze tra i singoli individui sono rese irrilevanti per la legge e giuridicamente rimosse. Il limite di questa formulazione consiste nel fatto che essa rimane nel solco della tradizione giuridica di una soggettività sostanzialmente astratta, realizzando la rimozione giuridica non delle sole differenziazioni discriminanti, ma anche della differenza di genere in quanto tale; come è noto, il divieto costituzionale di discriminazione opera non già impedendo in modo assoluto alla legge di differenziare in base ad uno dei parametri indicati, ma per tutte se il primo costruisce il secondo, o viceversa. Per una ricostruzione del concetto di genere in relazione all’elaborazione della differenza tra i sessi, v. S. PICCONE STELLA, C. SARACENO (a cura di), La costruzione sociale del femminile e del maschile, Il mulino, Bologna 1996, ed in particolare, delle curatrici, “Introduzione. La storia di un concetto e di un dibattito”. 12 Come significativamente indicato dal sottotitolo del libro di T. PITCH, Un diritto per due, il Saggiatore, Milano 1998, che recita appunto “La costruzione giuridica di genere, sesso e sessualità”. 13 Il modello, da questo punto di vista, è la cost. Weimar del 1919, che aveva introdotto il principio generale “Tutti i tedeschi sono uguali innanzi alla legge. Uomini e donne hanno di regola gli stessi diritti e doveri civici.” (art. 109), accompagnato dalle garanzie specifiche in tema di pubblico impiego “Sono abolite tutte le norme di eccezione nei confronti delle donne impiegate.” (art. 128) e diritto di voto “I deputati sono eletti con elezione generale, uguale, immediata e segreta da uomini e donne che abbiano raggiunto il 20° anno di età, secondo i principi generali della rappresentanza proporzionale” (art. 22). 14 9 su 208 per la Dc, 9 su 104 per il Pci, 2 su 104 per il Psiup, 1 su 30 per l’Uomo qualunque. 15 Art. 3. Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personale e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese. 4
  • 5. semplicemente esigendo che la legge introduttiva di differenziazioni sulla base di uno dei criteri nominati sia sottoposta ad un vaglio particolarmente rigoroso (ciò che la giurisprudenza americana chiama strict scrutiny): la discriminazione viene, per così dire, presunta, con la conseguenza della incostituzionalità della legge, a meno che non emerga l’esistenza di ragioni di differenziazione costituzionalmente rilevanti e ragionevolmente delineate nell’oggettività della disciplina (criterio di ragionevolezza nel giudizio sulla costituzionalità delle leggi). L’interpretazione sistematica della costituzione consente, ad esempio, la differenziazione dei soggetti in base alla lingua – che di per sé sarebbe vietata dall’art. 3 – in quanto, e nella misura in cui, rivolta alla protezione dei gruppi di identità linguistica minoritaria (ex art. 6: La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche); oppure consente la differenziazione della posizione della donna lavoratrice in quanto finalizzata alla tutela della maternità (ex art. 37: La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzioni familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione). Attraverso questa proprietà dell’uguaglianza formale, tuttavia, hanno modo di passare e permanere anche tutti i pregiudizi sociali nei confronti del genere femminile. La stessa Corte Costituzionale nei giudizi sull'uguaglianza applica prevalentemente il concetto di uguaglianza formale, rivedendo in concreto ciò che il legislatore, di volta in volta, ha definito nelle leggi come paradigma dominante, per stabilire se tale definizione ha una qualche razionalità oppure se è palesemente carente di fondamento obiettivo. E, nell'armamentario della Corte, cioè nelle concrete argomentazioni utilizzate nelle sue sentenze, come in generale in tutta la giurisprudenza, la giustificazione delle diversità attinge ampiamente alle argomentazioni di tipo sociale e culturale, con una forte dipendenza del giudizio giuridico dal contesto culturale e sociale: diventa, così, sin troppo facile che giuristi di sesso maschile e formati in un contesto culturale segnato dalla minorità e subalternità della donna riconoscano come ragionevoli tutte quelle differenziazioni che ad essi appaiono semplicemente far capo a quella speciale biologia, quella speciale psicologia, quella speciale condizione che alimenta, per loro e per la società nella quale vivono, la definizione del genere femminile. Si attenua, così, anche la portata innovativa del secondo comma dell’art. 3 cost., rivolto all’uguaglianza sostanziale, e si osserva, in parallelo, una notevole resistenza ad impiegare direttamente nei giudizi di legittimità costituzionale il concetto di uguaglianza sostanziale e, soprattutto, l'elemento finalistico del pieno sviluppo, che condurrebbe a valorizzare tutti gli elementi di identità personale. L’uguaglianza sostanziale è in grado di far emergere le differenze individuali, rendendole, al contrario del primo comma, rilevanti per il diritto; rivela che le differenze sono insieme fonte di potere e prodotto del potere, costituiscono esse stesse una distribuzione di potere. Le differenze presuppongono una definizione, un paradigma in base al quale sia possibile distinguere ciò che è uguale (che corrisponde al paradigma) da ciò che è diverso (estraneo alla definizione assunta); il secondo comma dell'art. 3 cost., prescrivendo di rimuovere tutte quelle differenze che costituiscono ostacolo all'eguale libertà e partecipazione degli individui, svela molto chiaramente che ogni differenza pone una questione di potere e addossa altrettanto chiaramente alla collettività il compito di rimuovere tali ostacoli, garantendo a tutti pari opportunità nella fruizione dei diritti. Gli interventi di rimozione degli ostacoli e di creazione di pari opportunità hanno una precisa finalità: il pieno sviluppo della persona umana, la consapevole costruzione di quell'identità individuale che è per ciascuno una ricchezza irrinunciabile e irriducibile (in questo senso, pari opportunità sono occasioni equivalenti per fare emergere le personalità individuali, per consentire a ciascuno di far emergere la propria identità attraverso il proprio percorso, la propria storia, le proprie relazioni). La finalità del pieno sviluppo della persona si accompagna al richiamo della partecipazione all’organizzazione politica, economica e sociale, che implica necessariamente costruzione di relazioni intersoggettive e fornisce la misura del pieno sviluppo della personalità: gli ostacoli sono 5
  • 6. rimossi al fine di assicurare il pieno sviluppo e la partecipazione; il pieno sviluppo è relazionale, è nella e attraverso la partecipazione. Tuttavia, nella società, è molto arduo percepire che, di fronte al principio di uguaglianza sostanziale, anche la differenza tra i sessi può essere un ostacolo all’effettivo godimento dei diritti, al libero sviluppo della persona e alla piena partecipazione; ed ancora più arduo è sviluppare coerentemente il principio per cui è compito della Repubblica rimuovere ogni ostacolo che produce differenza; tanto più difficile in quanto, diversamente da quanto avviene per le disparità sociali ed economiche, che vanno rimosse in quanto tali, per garantire l’uguaglianza tra uomini e donne ciò che si richiede di rimuovere non può essere la differenza tra i sessi ma la discriminazione di genere, cioè la costruzione sociale che, a partire dalla differenza tra i sessi, ha costruito un limite concreto alla libertà e all’uguaglianza, un ostacolo al pieno sviluppo della persona e alla partecipazione. Il pregiudizio appanna e condiziona persino il testo della costituzione, stravolgendo il senso proprio di quell’art. 37 cost. che pure avrebbe dovuto assolvere la funzione di garantire la parità dei diritti della donna lavoratrice – e che certamente ha, almeno parzialmente, operato in tal senso. Il richiamo all’essenziale funzione familiare, affermando la necessità di conciliazione dei tempi e delle condizioni del lavoro extradomestico e di quello svolto dalla donna nella e per la famiglia, aveva la funzione, necessaria e condivisibile, di dare copertura costituzionale alla legislazione di tutela del lavoro femminile, costituendo un’intuizione anticipatrice del riconoscimento della doppia presenza della donna nella produzione e nella riproduzione (come sarà possibile osservare anche più avanti, nonostante un linguaggio “arcaico” l’art. 37 cost. può egregiamente funzionare, a mezzo secolo di distanza, come una norma che opera in modo bi-direzionale nei confronti dei due sessi, riferendosi non solo alle donne in quanto madri, ma al lavoro di cura in quanto tale, chiunque se ne faccia carico: ciò, ovviamente, in una lettura adeguatrice, resa possibile dopo cinquant’anni, dal consolidarsi di alcune trasformazioni di grande rilievo nel tessuto sociale). A lungo, tuttavia, il richiamo di questa norma è servito, al contrario, per giustificare discriminazioni della lavoratrice, sulla base del presupposto che la donna fosse essenzialmente madre, prima che lavoratrice, e introducendo un’inaccettabile gerarchia che subordinava, per la sola donna, il ruolo lavorativo al ruolo familiare. Le norme anti-discriminatorie della Costituzione intervengono anche nella sfera dei rapporti familiari. Nel 1946 la famiglia è una struttura sociale ancora fortemente gerarchizzata e connotata dalla subalternità della donna affermata dal diritto di famiglia vigente (basti pensare alla patria potestà, all’autorità maritale che impone alla moglie le decisioni sulla residenza familiare, sulle scelte lavorative, sui figli, al regime patrimoniale); la famiglia è segnata e conformata dall’indissolubilità del vincolo matrimoniale, principio largamente condiviso e presupposto come una sorta di carattere intrinseco del matrimonio. Il primo radicale elemento di discontinuità riguarda, quindi, proprio la mancata costituzionalizzazione dell’indissolubilità del matrimonio, faticosamente ottenuta dallo schieramento laico e progressista (solo alla fine del 1970 la legge n. 898 introdurrà il divorzio, trovando successivamente nel 1974 la conferma del voto popolare, contrario alla richiesta di abrogazione nel primo referendum votato in Italia). Il secondo è rappresentato dal rapporto tra gli articoli 29 e 30 cost.16: il primo propone una definizione della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio, la cui apparente univocità17 risulta contraddetta dal secondo, che costruisce 16 Art. 29. La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. Il matrimonio è ordinato sull’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare. Art. 30. È dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori del matrimonio. 17 Si tratta, invece, di una definizione tutt’altro che univoca e di facile lettura, di un vero e proprio ossimoro, come rilevato da R. BIN, La famiglia. Alla radice di un ossimoro, “Studium iuris”, 2000, p. 1066; sul punto v. anche B. PEZZINI, Riflessioni introduttive su genere e diritto pubblico, in Genere e pari opportunità: teorie e pratiche, 6
  • 7. la relazione genitoriale e, per questa via, anche la famiglia, a prescindere dal matrimonio stesso. Ma, soprattutto, la Costituzione repubblicana nell’art. 29 costruisce l’ordinamento del matrimonio sull’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi, imponendo alla relazione coniugale, e per questa via alla famiglia, una regola fortemente innovativa della relazione tra marito e moglie e della relazione tra i generi. La parità tra i sessi, che ridefinisce i generi maschile e femminile in una prospettiva interamente nuova, oltre che nella sfera sociale del lavoro e nella sfera privata della famiglia, è, infine, specificamente ribadita dalla costituzione anche nella sfera pubblica politica (elettorato attivo e passivo, accesso agli uffici ed alle cariche pubbliche18). 3. I diritti politici dell’uno e dell’altro sesso Ma per quale ragione gli articoli 48 e 51 cost., nell’attribuire i diritti politici di elettorato attivo e passivo, hanno una formulazione ridondante rispetto alla enunciazione solenne dell’uguaglianza formale “senza distinzione di sesso” già proclamata fra i principi fondamentali dall’art. 3, 1° comma cost.? Quale significato normativo attribuire al fatto che il principio del suffragio universale (sono elettori tutti i cittadini … che hanno raggiunto la maggiore età) risulta specificato rispetto al genere (tutti i cittadini “uomini e donne”), quando non lo è rispetto alla razza, al censo e a nessun’altra delle differenze che pure, come il genere, sono menzionate nell’art. 3 cost.? Perché l’elettorato passivo – e, in generale, l’accesso ai pubblici uffici – è diritto attribuito in condizioni di eguaglianza a tutti i cittadini “dell’uno e dell’altro sesso”? Dire “in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge” non sarebbe già sufficiente a richiamare il principio fondamentale di uguaglianza formulato all’art. 3 cost., e di conseguenza a ritenere vietate le differenziazioni (di razza, religione, condizioni sociali e certamente di sesso) non ragionevoli ? La spiegazione tradizionale considera questa formulazione come una ripetizione pleonastica, non strettamente necessaria19, che avrebbe, tutt’al più, lo scopo e la funzione di una sorta di rafforzamento del principio di uguaglianza introdotto per tenere conto della portata dell’innovazione al momento della sua entrata in vigore; la formula “insistita”, proprio per il suo tenore letteralmente esplicito, avrebbe inteso produrre una immediata abrogazione20 delle norme preesistenti secondo le quali l’appartenenza all’uno o all’altro sesso poteva essere richiesta come requisito di accesso alle cariche elettive ed agli uffici pubblici. Non si può tacere, tuttavia, che anche la giurisprudenza è stata inizialmente assai restia a riconoscere la portata immediatamente precettiva del principio di uguaglianza tra i sessi: la stessa Corte costituzionale, nel 1958, giustificava una quota riservata maschile nella misura di almeno il 50% per la partecipazione dei “Quaderni del dipartimento di scienze giuridiche dell’università di Bergamo”, 2004. 18 Art. 48. Sono elettori tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore età. Art. 51 . Tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. A tal fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini. 19 A proposito della formula dell’art. 48, T. MARTINES, Art. 56, in Commentario Branca, Le Camere, Tomo I, , Zanichelli Il Foro it., Bologna Roma 1984, p. 44, osserva che essa si limita a “rendere esplicita e a dare forma giuridica al principio (fondamentale) del suffragio universale, inteso nella sua massima latitudine, con quell’inciso: <uomini e donne>, che vale a sottolineare (ma non ve n’era bisogno) che anche i cittadini di sesso femminile sono elettori”. D’altra parte, una certa qual sottovalutazione della dimensione di genere del problema, da parte di un costituzionalista pur illustre ed attento come Martines, traspare da un’osservazione di poco successiva, quando sostiene che, di fronte all’esistenza di stati in cui il suffragio è riservato agli uomini (e, dunque, non è veramente universale), si può discutere del “grado” di democraticità, non già metterne in discussione il carattere democratico. Quanto all’art. 51, analogamente osserva U. POTOTSCHNIG, Art. 97 [e 51],Comm. Branca, La Pubblica Amministrazione, Zanichelli-Il Foro it., Bologna Roma 1984, p. 367, che esso “conserverebbe tutta la sua portata anche se quell’inciso non ci fosse, essendo pacifico e incontestabile che la regola dell’eguaglianza, in rapporto al sesso, si imporrebbe comunque”. 20 U. POTOTSCHNIG, cit., p. 367. 7
  • 8. giudici popolari ai collegi giudicanti delle Corti d’assise (prevista dalla legge 1441/1956, art. 102), in base ad un’interpretazione storico-sistematica secondo la quale l’evoluzione verso principi di uguaglianza di genere, da poco iniziata, avrebbe dovuto essere graduale, riconoscendo al legislatore di definirne progressivamente i confini; nel caso specifico, la quota maschile minima riservata avrebbe risposto “ai fini della migliore organizzazione e del più proficuo funzionamento dei diversi uffici pubblici, anche nell'intento di meglio utilizzare le attitudini delle persone”, in base all’indimostrato presupposto di attitudini femminili poco compatibili con la funzione di giudice popolare21. La stessa Assemblea costituente aveva respinto nella seduta del 26 novembre 1947 un emendamento che specificava espressamente che “Le donne hanno accesso a tutti gli ordini e gradi della magistratura”, con una ambigua votazione segreta nella quale alle preoccupazioni di Maria Federici che ogni specificazione, ultronea rispetto al principio di uguaglianza, potesse addirittura indebolire il contenuto precettivo dello stesso articolo 51 cost., si erano affiancate posizioni decisamente reazionarie miranti a salvaguardare uno spazio in cui il legislatore fosse lasciato libero di circoscrivere e limitare l’accesso delle donne; il messaggio che “per quanto riguarda l’accesso della donna alla magistratura l’art. 48 [poi 51 nel testo definitivo] contiene le garanzie necessarie per la tutela di questo diritto” era stato poi affidato ad un ordine del giorno approvato nella seduta successiva, per un’iniziativa congiunta e trasversale delle costituenti Maria Federici, Filomena Delli Castelli, Maria Maddalena Rossi e Teresa Mattei. In realtà, solo la legge 66 del 1963 ha aperto alle donne tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici, compresa la magistratura, nei vari ruoli, carriere e categorie, senza limitazioni di mansioni e di svolgimento di carriera, salvi i requisiti stabiliti dalla legge indipendentemente dal sesso. Non a torto, il superamento delle discriminazioni politiche nei confronti delle donne appariva nel 1948 un impegno ingente, tale da richiedere lo sforzo di una precisa articolazione normativa, in grado di produrre un effetto vincolante in modo univoco e insuperabile; sino a quel momento, infatti, la discriminazione di genere aveva avuto una sorte peculiare rispetto a tutte le altre possibili discriminazioni, procedendo implicitamente da un pregiudizio pre e meta-giuridico concretamente rivelatosi irresistibile. Lo Statuto albertino affermava l’uguaglianza di “tutti i regnicoli” davanti alla legge 22: da ciò discendeva, data la particolare natura di costituzione flessibile dello statuto23, che solo la legge avrebbe potuto introdurre condizioni di trattamento differenziate tra cittadini del Regno; le differenze di trattamento erano non solo tollerate ma normalmente ammesse, purché stabilite attraverso lo strumento della legge, deliberata dal parlamento rappresentativo e dotata di efficacia generale. In materia elettorale, la limitazione del suffragio era stata definita dalla legge che, inizialmente, aveva escluso dalla cittadinanza politica attiva tutti coloro che non possedevano i requisiti di età (25 anni), di istruzione (alfabetismo), di censo (40 lire) 24, e, successivamente, aveva proceduto ad includere progressivamente in base a requisiti meno restrittivi (maggiore età, licenza 21 Sent. n. 56/1958, che aggiunge anche: “La differenziazione non appare, in questo caso, in contrasto con il precetto dell'eguaglianza, in quanto la limitazione numerica nella partecipazione delle donne in quei collegi risponde non al concetto di una minore capacità delle donne ma alla esigenza di un più appropriato funzionamento dei collegi stessi. Non é superfluo, all'uopo, ricordare come nelle legislazioni di Paesi che da tanti anni ci hanno preceduto nel riconoscimento dell'eguaglianza giuridica dei sessi, il potere di limitare o addirittura di escludere le donne dalla giuria popolare in certi processi é affidato al presidente.” Per una tempestiva critica di tale orientamento della giurisprudenza costituzionale, v. V. CRISAFULLI, Eguaglianza dei sessi, requisiti e sindacato della Corte costituzionale, Giur. cost., 1958, p. 861. 22 Art. 24. Tutti i regnicoli, qualunque sia il loro titolo o grado sono eguali dinanzi alla legge. Tutti godono egualmente i diritti civili e politici e sono ammessibili alle cariche civili e militari, salve le eccezioni determinate dalle leggi. 23 La natura flessibile di una costituzione comporta che le norme costituzionali non sono distinguibili dalle norme legislative per quanto riguarda la loro efficacia (forza di legge): la costituzione non vincola il legislatore, che resta libero di disciplinare secondo la propria volontà i contenuti della legge. 24 Legge elettorale del 1848. 8
  • 9. elementare, censo di lire 19,8025), sino alla completa abolizione dei requisiti di censo ed istruzione per tutti coloro che avessero superato i 30 anni (suffragio universale maschile)26. Nello stesso arco di tempo, nei confronti delle donne “regnicole” erano, invece, falliti tutti i tentativi di inclusione: una prima proposta di legge presentata da Salvatore Morelli nel 1867 non era stata neppure ammessa alla lettura27; la relazione della commissione Zanardelli per la riforma della legge elettorale del 1880, pur riconoscendo il valore della petizione promossa da Anna Maria Mozzoni e la legittimità giuridica della richiesta di voto alle donne, aveva ribadito l’inopportunità del suffragio femminile con argomentazioni che rimandavano alla speciale missione domestica della donna e alle sue naturali virtù – tenerezza e passionalità, sentimento e generosità – incompatibili con i forti doveri razionali della vita civica28; nel dibattito parlamentare del 1912, la Camera aveva respinto la concessione del voto alle donne con 209 contrari, 48 favorevoli e 6 astenuti. L’esclusione delle donne dal voto avveniva, però, nel silenzio della legge: le donne risultavano discriminate implicitamente, senza che, in realtà, la legislazione all’epoca vigente pronunziasse in modo espresso l’esclusione del sesso femminile ovvero affermasse esplicitamente il sesso maschile come requisito positivo per l’elettorato attivo: la vicenda dell’iscrizione alle liste elettorali agli inizi del ‘900 lo racconta esemplarmente29. Nel 1906 Maria Montessori si era fatta promotrice di un appello rivolto alle donne perché chiedessero di iscriversi alle liste elettorali, dal momento che la legge per le elezioni politiche, a differenza di quelle amministrative, non prevedeva espressamente il sesso femminile come causa di esclusione; alcune Commissioni provinciali avevano accolto l’iscrizione e, dalla vicenda, erano nate vertenze giudiziarie che vennero risolte dalla maggior parte delle Corti d’appello riaffermando il divieto. Fece eccezione la sentenza della Corte d’appello di Ancona30, che utilizzava diversi ordini di argomentazioni per affermare il principio che anche le donne sono comprese dall’art. 24 dello Statuto tra “tutti i regnicoli” proclamati “uguali dinanzi alla legge”: innanzitutto, la sentenza di Ancona richiamava l’art. 25 (secondo il quale tutti i regnicoli contribuiscono indistintamente nella proporzione dei loro averi ai carichi dello Stato), evidenziando come non si fosse mai dubitato del fatto che le donne dovessero contribuire al fisco in proporzione dei loro averi alla pari degli uomini; in secondo luogo, riconosceva il carattere essenzialmente politico dei diritti di libertà individuale, di manifestazione del pensiero e di riunione, già pacificamente riconosciuti anche alle donne, in quanto diritti fondamentali garantiti dallo Statuto, ricavandone che, di conseguenza, le donne non avrebbero potuto essere escluse da altro diverso diritto politico (di voto) se non per volontà espressa del legislatore; infine, aggiungeva il ricorso al criterio ermeneutico generale del favor libertatis, per cui, quando si debba determinare l’estensione di un diritto fondamentale, in caso di dubbio sull’intenzione del legislatore, l’interpretazione non possa che essere estensiva (nel senso, quindi, dell’inclusione soggettiva). Anche la sentenza di Ancona cade però sotto i colpi della Corte di cassazione che, nonostante le rigorose e articolate argomentazioni giuridiche del presidente estensore Lodovico Mortara31, si 25 Legge 999 del 1882, che amplia il corpo elettorale dal 2% al 7% della popolazione. 26 Con la legge 666 del 1912 che porta il corpo elettorale al 23% della popolazione (sino ai trent’anni continuano a valere le condizioni di istruzione e di censo già richieste in precedenza). 27 Il progetto di legge è intitolato “Abolizione della schiavitù domestica con la reintegrazione giuridica della donna accordando alle donne i diritti civili e politici” e attribuisce il diritto di voto insieme alla generalità dei diritti civili e politici: art. 1 “La donna italiana può esercitare tutti i diritti che le leggi riconoscono ai cittadini del regno”. 28 A. ROSSI DORIA, cit., p. 79. 29 A. ROSSI DORIA, cit., p. 81ss.; Donne e diritti. Dalla sentenza Mortara del 1906 alla prima avvocata italiana, a cura di N. SBANO, Mulino, Bologna 2004. 30 L’estensore della sentenza di Ancona è Lodovico Mortara, passato nel 1902 dalla cattedra napoletana di procedura civile alla Corte di cassazione romana e divenuto nel 1906 Primo presidente della Corte d’Appello di Ancona; Mortara sarà successivamente il ministro guardasigilli che nel 1919 porterà in Parlamento la legge di abrogazione dell’autorizzazione maritale e di ammissione delle donne alle professioni. 31 È curioso rilevare che, nel corso di un’intervista rilasciata nel momento del massimo clamore suscitato dalla sentenza, che creò un vero e proprio caso nazionale, il presidente Mortara volle precisare di essere personalmente contrario all’allargamento del suffragio femminile; l’esito della sentenza, tuttavia, gli appariva inevitabile applicazione di criteri ermeneutici: la sentenza, infatti, sviluppa sul piano del ragionamento giuridico un’argomentazione linearmente 9
  • 10. limita ad invocare la forza del principio presupposto dell’estraneità delle donne a qualsiasi carica e funzione attinente alla vita politica dello Stato: un principio che sarebbe talmente forte ed auto- evidente, secondo la Suprema Corte, “che non si è sentito neppure il bisogno di dichiararlo espressamente”. L’interpretazione e l’applicazione della legge in questa vicenda appaiono macroscopicamente segnate dal pregiudizio sessista; ma si tratta di un vero e proprio pre-giudizio, che vorrebbe confinare la discriminazione nella sfera pre-giuridica della natura, in una sfera in cui il diritto apparentemente neppure interviene. La Corte di cassazione pretende che la differenza tra donne e uomini esista come tale in natura, mentre il diritto si limiterebbe a recepirla. Ma proprio questa separazione tra natura e diritto, che dovrebbe consentire al diritto di conservare la propria “neutralità” e “universalità”, viene, invece, messa in discussione dalla dialettica che si manifesta nella successione di pronunce giurisprudenziali variamente orientate (la giurisprudenza consente, infatti, al pluralismo di esprimersi): la semplice esistenza di una sola sentenza divergente è sufficiente a mostrare come sia necessario un ordinamento giuridico (e non basti un preteso ordine naturale delle cose) per produrre e mantenere l’esclusione delle donne dalla cittadinanza politica. L’esclusione delle donne dal diritto di voto è tanto poco naturale che, nella vicenda del 1906, si mostrano evidenti due contraddizioni: da un lato, si affacciano sulla scena le donne che hanno chiesto l’iscrizione nelle liste elettorali, soggetti politici non più disposti ad acconsentire alla propria discriminazione e a subire volontariamente la propria esclusione politica (donne che non accettano la propria “natura”); dall’altro, l’ordinamento giuridico deve rendere esplicita la discriminazione, che si realizza e può operare solo per il tramite della forza della sentenza. E per questo solo fatto l’esclusione delle donne dal voto cessa di essere una differenza naturale, per divenire a tutti gli effetti una discriminazione giuridica, prodotta mediante l’effetto giuridico. Il conflitto giurisprudenziale mostra che “il Re è nudo”; l’unica e isolata sentenza della Corte d’Appello di Ancona è il bambino che pronuncia la verità indicibile: non la natura, ma il diritto priva le donne del diritto fondamentale politico di voto. Riguardando questa vicenda, non stupisce che, sapendo quanto il pregiudizio avesse in precedenza condizionato l’interpretazione del testo costituzionale, l’enunciato normativo formulato nella nuova costituzione a proposito dei diritti politici (di elettorato attivo e passivo) abbia “reagito” nell’ottica della “regolazione dei poteri temuti”, che costituisce la tecnica di base della garanzia costituzionale: la disposizione costituzionale viene costruita in modo da poter contrastare il ripetersi di sopraffazioni e discriminazioni implicite già conosciute e lo può fare tanto più efficacemente quanto più note e sperimentate siano le modalità di esercizio del potere che si teme e che si vuole contrastare. 4. Un paradosso: il diritto costruisce il genere, ma il genere costruisce il diritto Ma proprio la dimostrazione della necessità storica, sociale e politica di enfatizzare e ribadire il divieto di discriminazione nei confronti delle donne nell’ambito specifico dei diritti politici, sollecita a trarre anche altre conseguenze. Le modalità e l’intensità con la quale il rapporto di genere definisce l’orientamento della interpretazione appare decisamente particolare; incide, cioè, in forme peculiari e con un rilievo ben maggiore di quanto non sia ordinario nell’attività di interpretazione delle disposizioni, che pure è sempre, fisiologicamente, influenzata dal contesto sociale e che è debitrice al contesto sociale del significato che attribuisce alle “parole della legge”. Nei primi del novecento le leggi elettorali – formulate come proposizioni neutre rispetto al sesso – vengono interpretate a partire dall’inferiorità della donna, inferiorità socialmente e storicamente determinata ma presentata come naturale; così le leggi elettorali sanciscono l’estraneità della donna dalla sfera politica, costruendo il genere femminile come discriminato politicamente; la struttura di genere della società – la posizione di subordinazione ed inferiorità della donna rispetto all’uomo e consequenziale, basata su criteri rigorosamente giuridici ed esegetici: v. L. LACCHÈ, “Personalmente contrario, giuridicamente favorevole”. La sentenza Mortara e il voto politico alle donne, in Donne e diritti, cit., p. 99. 10
  • 11. l’ordinamento maschilista dell’intera struttura sociale – viene assunta come una premessa logica della norma e della sua formulazione letterale e, contemporaneamente, viene dissimulata dietro alla affermata naturalità di una discriminazione che invece è corposamente creata e alimentata incessantemente anche dal diritto. Ancora più significativamente, l’ordinamento sembra restare del tutto indifferente alle macroscopiche contraddizioni che si aprono all’interno del sistema giuridico e non spiega perché tale a-priori dell’interpretazione (l’inferiorità naturale della donna) operi, nella sfera pubblica, sul terreno dei diritti politici delle donne, ma non sul terreno dei doveri di solidarietà economica. L’influenza peculiare della condizione di genere sull’interpretazione delle norme permane anche dopo l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana e a rivelare la resistenza del pre-giudizio di genere non sono solo la fatica ed il ritardo con cui la stessa Corte costituzionale assume quella prospettiva anti-discriminatoria nei confronti delle donne che la Costituzione impone32. La specificazione dei due sessi negli articoli 48 e 51 cost. sembrerebbe rimandare alla possibilità che le formulazioni linguistiche che usano il maschile nel testo della Costituzione vengano interrogate come testi “aperti” o ambigui, come se ogni espressione declinata al maschile richiedesse di valutare se il maschile viene usato come genere grammaticale o come requisito; usato come genere grammaticale per indicare l’insieme degli appartenenti ai due sessi – come avviene per regola grammaticale nel plurale della lingua italiana e, per estensione, attribuendo anche al maschile singolare la capacità di significare anche il femminile, mentre non vale il contrario – condurrebbe ad un’interpretazione estensiva, secondo la quale “cittadino/i” sta per “cittadini e cittadine” e, persino, “uomo/uomini” sta per “uomini e donne”; diversamente, quando il maschile fosse rivolto ad individuare un requisito positivamente prescritto nei confronti dei soggetti considerati dalla norma o ad identificare e delimitare la sfera dei titolari del diritto o dei destinatari degli obblighi, imporrebbe l’interpretazione restrittiva per cui “cittadini” sono solo quelli di sesso maschile e “tutti” sono solo gli uomini e non le donne. In questa prospettiva, la specificazione dei due sessi con riferimento ai soli diritti politici (art. 48 e 51) finirebbe per gettare una luce sinistra sui molti altri articoli in cui l’uso del maschile potrebbe essere inteso, proprio in mancanza di analogo richiamo, come un vero e proprio requisito. In realtà, una volta che la costituzione ha assunto il principio di uguaglianza come principio fondamentale, non c’è posto per alcuna ambiguità degli enunciati al maschile: il divieto di discriminazioni in base al sesso rende l’eventuale differenza di trattamento un’eccezione che potrebbe essere giustificata solo da esigenze stringenti e di rango costituzionale, con il corollario che la formulazione dell’eccezione non potrebbe avvenire “implicitamente” e per via solo interpretativa; detto altrimenti, il divieto di discriminazioni in base al sesso di cui all’art. 3 cost. impedisce l’interpretazione restrittiva della formulazione grammaticale al maschile, rendendo assai poco persuasiva la spiegazione tradizionale; in essa ritroviamo una lettura storica delle ragioni dei costituenti (intenzione del legislatore in senso soggettivo), che non è accettabile per individuare la ratio della norma (intenzione del legislatore nel senso obiettivizzato nella norma, nella sua contestualizzazione e attualizzazione). D’altro canto, moltissimi articoli della costituzione usano il genere maschile senza ulteriori richiami (dall’art. 2 al 4, dal 10 al 21, al 32, al 53 …). Il fatto stesso della specificazione contenuta negli art. 48 e 51 cost. rimarca, dunque, la peculiarità della sfera politica rispetto al genere. Una peculiarità che si manifesta anche nella sfera del lavoro, dove, tuttavia, a differenza del campo dei diritti politici che la costituzione pretende uguali per gli uomini e le donne, le norme33 esprimono precisamente la necessità di connotare in modo 32 V. nota 24 e più ampiamente E. PALICI DI SUNI, cit. 33 Art. 36 Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa. Art. 37. La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e 11
  • 12. differenziato le diverse condizioni materiali di coloro che lavorano: i lavoratori e le lavoratrici, infatti, possono avere o non avere carichi di famiglia – che diventano parametro legittimo per differenziare le misure delle retribuzioni a parità di quantità e qualità del lavoro – e possono essere diversamente coinvolti nella riproduzione (in base al loro sesso) e nella cura dei figli (in base al loro genere, cioè in base ai differenti ruoli socialmente assegnati agli uomini e alle donne). La formulazione degli articoli 48 e 51 cost. è, dunque, rivelatrice del paradosso dell’uguaglianza tra i sessi, e il paradosso si riproduce con particolare persistenza. Per rimuovere la contraddizione insita nella ridondanza della ripetizione (“dell’uno e dell’altro sesso”) rispetto all’art. 3 cost., è stato sostenuto che nell’art. 51 cost. fosse già presente il dovere di garantire una rappresentanza politica effettivamente composta di uomini e di donne34; e, d’altra parte, le disposizioni che definiscono il principio di uguaglianza rispetto al genere vanno interpretate nell’ambito di una costante relazione dialettica tra uguaglianza formale e sostanziale (i due poli di un unico principio di uguaglianza), per cui la specificazione del principio di uguaglianza da parte dell’art. 51 cost. ribadisce e rafforza il principio generale senza mutarne la natura (in una visione diacronica dell’uguaglianza tra i sessi sono consentite tutte le misure di diritto diseguale che assumono la prescrizione di uguaglianza come obiettivo da conseguire)35. Ma queste letture non hanno convinto né la giurisprudenza36, né la dottrina37; è stato perciò necessario un sovraccarico testuale38 perché l’interpretazione della legittimità costituzionale delle pari opportunità elettorali divenisse effettiva e generalizzata39. D’altra parte, si può osservare che con tale ulteriore enfatizzazione testuale il diritto sociale alle pari opportunità, che prima era solo generico (cioè fondato sull’art. 3, 2° cost.), è divenuto nei testi novellati degli artt. 117 e 51 cost. un diritto specificamente costituzionalizzato, con indubbio riflesso positivo sulla sua struttura 40. Quanto sia persistente il paradosso del rapporto circolare tra diritto positivo, interpretazione del diritto e genere, è curiosamente confermato dall’esempio del nuovo statuto della Regione Toscana, che ha previsto una norma di chiusura (art. 82) volta a precisare che l’uso del genere grammaticale maschile per indicare soggetti titolari di diritti, incarichi e stati giuridici risponde solo ad esigenze di semplicità del testo: disposizione priva di contenuto normativo, o meglio, puramente ripetitiva di un criterio interpretativo ormai corrente e costituzionalmente obbligato, ma pur sempre interessante ai fini della visibilità della caratterizzazione duale dello stesso ordinamento. 5. Funzione riproduttiva, funzioni di cura e genere dei lavoratori Come già osservato, la divisione dei ruoli sessuali rispetto alle funzioni riproduttive e di cura, da un lato, ed al lavoro produttivo, dall’altro, tramandata dal linguaggio della costituzione repubblicana al bambino una speciale adeguata protezione. 34 Particolarmente stringente l’argomentazione di L. GIANFORMAGGIO, La promozione della parità di accesso alle cariche elettive in Costituzione, in AA.VV., La parità dei sessi nella rappresentanza politica, Giappichelli, Torino, 2003, p. 74ss. 35 B. PEZZINI, Principio costituzionale di uguaglianza e differenza tra i sessi, Pol dir., 1993, p. 60. 36 Si veda in particolare la sentenza Corte cost. 422 del 1995. 37 Anche se le critiche alla sentenza 422 del 1995 non sono mancate (v. per tutte U. DE SIERVO, La mano pesante della Corte sulle “quote” nelle liste elettorali, Giur. cost., 1995, p. 3268), la maggioranza della dottrina sino alla sent. della Corte costituzionale 49/2003 si mostrava sinceramente riluttante a cogliere la novità connessa all’impatto della questione di genere sulla rappresentanza: si vedano, per lo stato dell’arte precedente alla sentenza sullo statuto Val d’Aosta, i contributi raccolti nel volume La parità dei sessi cit., che raccoglie gli atti del seminario “preventivo” Amicus curiae svolto il 16 novembre 2002 in occasione della visita della Corte costituzionale alla Facoltà di giurisprudenza di Ferrara. 38 Quello che ha inserito nel 117 il 7° comma: “Le leggi regionali rimuovono ogni ostacolo che impedisce la piena parità degli uomini e delle donne nella vita sociale, culturale ed economica e promuovono la parità di accesso tra donne e uomini alle cariche elettive” ed ha completato il primo comma del 51 con la frase: “A tale fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini”. 39 Qui va citata non solo la svolta della giurisprudenza costituzionale dalla sentenza 422 del 1995 alla 49 del 2003, ma anche il ridefinirsi delle posizioni in dottrina, ad. es. G. BRUNELLI, cit. in nota 8. 40 Sulla struttura dei diritti sociali costituzionali sia consentito rinviare a B. PEZZINI, La decisione sui diritti sociali, Giuffré, Milano 2001. 12
  • 13. risulta molto “datata”. Il lavoratore maschio è visto nel ruolo di potenziale capo-famiglia che sostiene con il suo reddito l’intero nucleo familiare (art. 36 cost., per cui la retribuzione è giusta quando, oltre che proporzionata alla quantità e qualità del lavoro, è sufficiente a garantire l’esistenza libera e dignitosa del lavoratore e della sua famiglia); la lavoratrice di sesso femminile è portatrice di una specificità da tutelare non solo in relazione alla sua insostituibile funzione riproduttiva in quanto madre, ma anche associata ad un’essenziale funzione di cura di cui le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento. Il precetto di parità ed il divieto di discriminazione, tuttavia, impediscono la cristallizzazione definitiva e normativamente imposta della divisione dei ruoli domestico ed extra-domestico presupposta dai costituenti e consentono di recepire, nell’interpretazione della norma, l’evoluzione sociale che ha fortemente modificato i ruoli sessuali e le definizioni di genere nei sessant’anni trascorsi dall’approvazione della costituzione. Entrambe le norme, nonostante la lettera della legge fortemente connotata in base al genere, sono potenzialmente estensibili, in base alla loro ratio, all’altro sesso, dando vita a regole bi-direzionali; la donna lavoratrice con carichi di famiglia ha diritto, come il lavoratore, a quella parte della retribuzione parametrata a tali carichi; il lavoratore padre con responsabilità di cura fruisce delle norme per la conciliazione introdotte in origine per le sole madri41. Resta regola unidirezionale a favore delle sole madri la tutela della gestazione e del puerperio, condizioni fisiologicamente ancorate al corpo femminile42. Da rilevare anche che la specifica affermazione del principio della parità di trattamento della prima frase dell’art. 37 cost. non ha quella dimensione ridondante rispetto al precetto di uguaglianza formale vista nei diritti politici; qui la regola anti-disciminatoria introduce un elemento peculiare, la prescrizione che la retribuzione dovuta per il lavoro si misuri, rispetto al sesso del lavoratore, per categorie generali e per tipologie di prestazioni richieste anziché in uscita guardando al risultato concreto delle prestazioni effettuate. Quando oggi guardiamo agli articoli 36 e 37 cost., troviamo in essi il riconoscimento del valore sociale della funzione di cura, del valore fondamentale della conciliazione del lavoro domestico ed extra-domestico (retribuito e di cura), non già la prescrizione normativa di genere in merito alla ripartizione del carico di tale lavoro. Sono regole sulle condizioni e la qualità del lavoro e dei lavori, sui diritti di tutti i lavoratori e di tutte le lavoratrici; solo la singolarità irripetibile di ciascun uomo e di ciascuna donna può stabilire quale, e quanto, debba essere il mix di attività produttive, riproduttive e di cura nello svolgersi della propria esistenza, in quanto ciò riguarda il progetto di vita e di sviluppo della personalità di ogni persona (art. 2 cost.). Ai percorsi di vita autonomamente scelti e costruiti da uomini e donne la costituzione offre la garanzia che il progetto individuale di ognuno trovi il sostegno ed il riconoscimento sociale che ne garantiscono l’effettività: lo fa attraverso l’art. 3, 2° comma e attraverso ogni diritto sociale specificamente costituzionalizzato, in un quadro che, soprattutto dopo la recente introduzione dell’art. 117, 7° comma, si potrebbe definire di un vero Welfare-mix gender oriented. Bisogna, infatti, sottolineare che la legge di revisione costituzionale del titolo V della costituzione ha delineato, in materia, un vero e proprio indirizzo costituzionale: il 7° comma dell’art. 117 cost. prefigura la “piena parità degli uomini e delle donne nella vita sociale, culturale ed economica”, assumendo l’obiettivo della costruzione di una società duale, sessuata, segnata in tutti gli ambiti dalla presenza delle donne e degli uomini. La qualificazione introdotta dal nuovo art. 117 cost. guarda alla condizione di parità in relazione alla dimensione sociale di genere, non atomisticamente nella situazione del singolo/della singola, come fa il precetto generale di uguaglianza (art. 3 cost.) che ha riferimento alla posizione individuale. Assicura alle donne una potenzialità di posizione pienamente paritaria rispetto agli uomini (e, naturalmente, viceversa, essendo formulata in modo neutro e bi-direzionale); il che significa garantire ai due generi, nel complesso delle attività sociali, culturali ed economiche, una presenza 41 E addirittura la legge 53 del 2000 e il t.u. 151 del 2001, in funzione incentivante e promozionale di una ridefinizione delle responsabilità di cura tra i padri e madri, “premiano” il padre che utilizza congedi parentali, prolungandone l’estensione. 42 Ratio della tutela sono la salute della madre e del bambino; questo spiega perché, nell’ipotesi eccezionale in cui la madre sia fisicamente assente, le norme sull’astensione possano essere utilizzate dal padre del bambino. 13
  • 14. equilibrata ossia corrispondente al loro peso statistico, in cui le variazioni dovute alle preferenze, attitudini, vocazioni individuali incidono e si distribuiscono in modo equilibrato tra i due generi. Ciò introduce un parametro sufficientemente definito per misurare l’adeguatezza della legislazione: quando la distribuzione statistica dei due generi in un determinato campo, ambito, settore della vita sociale, culturale e economica risulta squilibrata, diventa sintomo della presenza di ostacoli che impediscono al genere sotto-rappresentato la piena parità. E lo squilibrio è tale sia per il genere sotto che per quello sovra-rappresentato, a prescindere, quindi, dall’effetto discriminatorio; lo squilibrio di genere non è solo il sintomo di una discriminazione, rivelatore di un problema da affrontare per garantire giustizia a chi è discriminato, ma è anche un ordine (sociale) di genere che la norma costituzionale non consente, dal momento che la ratio della norma corrisponde alla volontà di segnare “binariamente” con la presenza paritaria dei due generi tutti gli ambiti e le dimensioni della vita. La presenza duale è richiesta nella vita sociale, culturale ed economica, oltre che nella vita politica (attraverso la formula della parità di accesso tra donne e uomini alle cariche elettive). Manca, invece, un diretto riferimento alla vita familiare, che tanta rilevanza ha, nei fatti, a segnare la condizione del genere femminile e la divisione sessuale del lavoro. La questione della parità nella dimensione della famiglia è oggetto diretto dell’art. 29 cost., che riguarda la definizione dei rapporti tra i coniugi all’interno del matrimonio (benché, come già osservato, l’area della famiglia per la costituzione sia più ampia, data l’irrilevanza del matrimonio ai fini della disciplina del rapporto di filiazione e per l’indubbia rilevanza costituzionale delle cosiddette famiglie di fatto, società naturali ex art. 2 cost.); nell’art. 37 cost. la costituzione segue, invece, una prospettiva capovolta e, associate le funzioni familiari al genere femminile, ne riconosce l’essenzialità e pone il precetto della parità di trattamento dei lavoratori dei due generi; il riferimento specifico al genere femminile discriminato è reso necessario proprio dal fatto di aver dovuto riconoscere le differenze di genere (la doppia presenza, il doppio ruolo della donna): evitando di agire autoritativamente all’interno dei rapporti familiari, la norma anti-discriminatoria interrompe il circolo vizioso e impedisce che la ineguale distribuzione dei ruoli sessuali in famiglia si converta necessariamente in ineguale distribuzione dei ruoli sessuali nel lavoro extra-domestico43. Nella medesima prospettiva dell’art. 37 cost. va letto anche il testo del 7° comma dell’art. 117 cost.: in esso manca il riferimento alla vita familiare perché ciò che interessa non è definire un modello di famiglia costruito sulla piena parità tra i coniugi (funzione già assolta dall’art. 29 cost.), quanto piuttosto garantire il risultato della piena parità in tutti gli ambiti della vita relazionale esterna alla famiglia. Ciò, evidentemente non autorizza ad ignorare la rilevanza degli squilibri nella ripartizione delle funzioni di cura, perché di essi l’art. 117 prende atto indirettamente, attraverso gli squilibri nella vita economica, culturale e sociale. Anzi, nel linguaggio del 117 si può dire che proprio l’ineguale distribuzione del lavoro di cura rappresenti uno dei principali ostacoli alla piena parità nei vari campi “esterni”, sociale, culturale ed economico: di conseguenza, la distribuzione del lavoro di cura nella famiglia costituisce un terreno senz’altro rilevante per le politiche di pari opportunità, semplicemente segnato dalla cautele necessarie di fronte alla dimensione speciale della famiglia, titolare di una sfera di autonomia costituzionalmente garantita. 6. Del genere della rappresentanza (e dei rischi di un uso retorico e dilatorio della Costituzione) Si è già considerato il fatto che la formula dell’art. 51 cost., non sostenuta da attori politici che fossero convinti del suo carattere precettivo, non ha impedito il protrarsi di una sostanziale esclusione delle donne dalla rappresentanza politica (macroscopica in Italia, collocata al 43 Come si è visto sopra, in una lettura evolutiva (in cui il mutamento dei rapporti sociali ha messo in discussione la premessa di associazione necessaria delle funzioni di cura al genere femminile) e in una visione storicizzata (che associa il genere femminile alla cura per osservazione sociologica e statistica, rifutando ogni declinazione essenzialistica) resta la norma che, riconosciuta l’essenzialità di tali funzioni indipendentemente dal sesso di chi le svolge, ne assicura la conciliazione con la vita lavorativa. 14
  • 15. sessantaquattresimo posto nelle graduatorie mondiali della presenza di donne in parlamento44). Senza una vera adesione ai suoi valori la costituzione, del resto, resta un “pezzo di carta che non si muove”, come ammonisce Calamandrei nel celebrato Discorso agli studenti del 1953; la sua stessa interpretazione qualificata ad opera della Corte costituzionale viene declinata restrittivamente contro le leggi che nei primi anni novanta avevano introdotto nella legislazione elettorale misure di sostegno alle candidature femminili, sino a che non viene introdotto un esplicito riferimento alle pari opportunità tra donne e uomini in materia elettorale (nel 2001 nell’art. 117, 7° comma, e nel 2003 nell’art. 51 cost.45). Guardare alla vicenda della riforma dell’art. 51 cost. – e della sua mancata attuazione che si protrae a tutt’oggi – consente di riflettere sui molteplici problemi del rapporto complesso tra una norma costituzionale e la sua attuazione. A chi è stata indirizzata la modifica dell’art. 51 cost.? Alla Corte costituzionale, che nel 1995 aveva ritenuto illegittime le quote elettorali? al legislatore che aveva ignorato il monito che la Corte gli aveva rivolto nel 1995 sollecitandolo ad intervenire con interventi “di altro tipo, certamente possibili sotto il profilo dello sviluppo della persona umana, per favorire l’effettivo riequilibrio fra i sessi nel conseguimento delle cariche pubbliche elettive, dal momento che molte misure […] possono essere in grado di agire sulle differenze di condizioni culturali, economiche e sociali”46? La legittimità di misure positive dirette a garantire che la presenza di esponenti di un sesso nelle liste o nelle candidature elettorali non scenda al di sotto di una certa percentuale viene riconosciuta come principio di portata generale dalla giurisprudenza costituzionale, anche prima che la modifica dell’art. 51 giunga definitivamente in porto: basta l’indirizzo di promozione dell’accesso paritario alle cariche elettive positivamente prescritto nell’art. 117 cost. a consentire alla Corte di affermare il principio di doverosità di misure legislative volte alla parità effettiva in campo elettorale, senza distinzioni tra la rappresentanza politica in sede regionale e in altre sedi47. Altrettanta convinzione nei confronti della doverosità delle pari opportunità elettorali non matura, invece, nella classe politica: sulla scia della sollecitazione della Corte del 1995, l’unico intervento del legislatore era stato nella legge 157 del 1999, art. 3, vincolando i partiti destinatari dei rimborsi elettorali a destinarne una quota non inferiore al 5% ad iniziative volte ad accrescere la partecipazione attiva delle donne alla politica, senza alcuna sanzione in caso di inadempienza; ed anche dopo l’approvazione del nuovo testo dell’art. 51 cost. la situazione non muta. Nel 2004 viene approvata la legge n. 90 per le elezioni europee, che impone alle liste circoscrizionali aventi un medesimo contrassegno di non rappresentare nessuno dei due sessi in misura superiore ai due terzi dei candidati; la regola è limitata alle prime due tornate elettorali successive e, in caso di violazione, la lista non viene ammessa se non vi sia almeno un candidato/una candidata di ciascun sesso; negli altri casi, la sanzione consiste nella riduzione dei rimborsi per le spese elettorali. Nel 2005, però, fallito il tentativo di introdurre nella legge di conversione del decreto-legge recante disposizioni urgenti per lo svolgimento di elezioni amministrative48 un apposito emendamento sulle 44 La classifica mondiale costantemente aggiornata dall’Unione interparlamentare colloca l’Italia al 63° posto (giugno 2007). 45 Posto che “Tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici ed alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza”, si aggiunge: “A tal fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini”. 46 Corte costituzionale 422/1995. 47 L’interpretazione congiunta suggerita dalla stessa Corte cost nella sent. 49 del 2003 è collegata da G. BRUNELLI, Riequilibrio di genere nella rappresentanza politica: la parola al legislatore regionale, Editoriale 572003, in “federalismi.it”, Rivista telematica, anche all’omogeneità di natura e funzioni delle assemblee legislative sottolineata dalla sentenza 29 del 2003. 48 D.l. 8/2005, convertito nella legge 40/2005; l’emendamento prevedeva la sostituzione del comma 3 dell’art. 71 del t. u. delle leggi sull’ordinamento degli enti locali con la previsione, valida sino al 31 dicembre 2015, della quota di un terzo di candidati non appartenenti ad unico sesso in ciascuna lista, accompagnata dalla cancellazione dei candidati in eccesso rispetto al limite a partire dal fondo della lista e con sanzione di inammissibilità limitata alle liste interamente mono-sesso: approvato in commissione è stato poi respinto dall’aula. 15
  • 16. pari opportunità, imperniato su una quota di genere temporanea nella misura di un terzo, la questione dell’attuazione delle pari opportunità elettorali viene successivamente sganciata anche dalla approvazione della riforma delle leggi elettorali politiche49: una votazione a scrutinio segreto respinge l’emendamento presentato da parlamentari della maggioranza, sostenuto dalla stessa ministra delle pari opportunità Prestigiacomo ed accettato dal governo, che prevedeva di introdurre un modello simile a quello tentato per le elezioni amministrative (quota di genere di un terzo, meccanismo incrementale per le sanzioni e per l’ordine di successione nelle liste bloccate, temporaneità connessa alla presenza di uno scarto tra gli eletti dei due generi superiore al 15%)50. Benché la ministra ottenga poi di ripresentare la proposta bocciata nella veste di un disegno di legge ad hoc51, il voto favorevole espresso dal Senato nella seduta dell’8 febbraio 2006 risulta inutile (e, forse, dato proprio in quanto inutile): lo scioglimento anticipato delle Camera l’11 febbraio preclude, infatti, l’ulteriore cammino del procedimento legislativo. D’altra parte, nella successiva legislatura, né il governo, né i venti senatori richiesti dal regolamento si avvalgono della possibilità di riprodurre il testo precedentemente approvato in un disegno di legge che possa fruire della procedura abbreviata e d’urgenza prevista dai regolamenti parlamentari. Ad un anno dall’inizio della nuova legislatura, nel quadro dell’incertezza del dibattito sulle riforme elettorali, non si intravede ancora alcuna chiara volontà di attuazione dell’art. 51 cost. La dissociazione tra l’intenzione proclamata attraverso al norma costituzionale di promuovere le pari opportunità nell’accesso alla politica e la chiarissima volontà politica concreta di non ammettere nello spazio politico della rappresentanza “corpi sessuati”, il contrasto tra il voto sul principio costituzionale ed il voto sulla legge che potrebbe (e dovrebbe) darvi attuazione, segnalano e rivelano altro, oltre alla resistenza di una classe politica la cui composizione di genere è fortemente squilibrata a ridefinire rispetto al genere gli spazi privati e pubblici. Essi testimoniano e rivelano un pericoloso uso dilatorio ed ideologico della Costituzione, le cui norme sono riscritte non tanto per rispondere ad obiettiva esigenza costituzionale e per rendere possibile il dispiegarsi di una scelta politica altrimenti impedita proprio dalla costituzione, ma per dissimulare un’intenzione politica non apertamente confessabile che, perpetuando e riproducendo la discriminazione di genere, agisce pesantemente ad escludere le donne dal circuito effettivo della rappresentanza politica. 49 Legge 270/2005: il nuovo sistema elettorale per la Camera e per il Senato trasforma il sistema elettorale del 1993 (misto in entrambe le camere, prevalentemente uninominale a maggioranza semplice, con correzione proporzionale pari ad un quarto dei seggi e differenziato in relazione alle modalità di voto per la quota proporzionale) in un sistema proporzionale a liste bloccate con premio di maggioranza su base nazionale alla Camera, premi di maggioranza regionali per il Senato e con soglie di sbarramento multiple per le coalizioni e per le liste (calcolate su base nazionale alla Camera e su base regionale al Senato). 50 Sulla discussione dell’emendamento 1.620, bocciato a scrutinio segreto v. la ricostruzione di M. D’AMICO, A. CONCARO, Donne e istituzioni politiche, Analisi critica e materiali di approfondimento, Giappichelli, Torino, 2006, p. 72ss. 51 Ddl 3660, Disposizioni in materia di pari opportunità tra uomini e donne nell’accesso alle cariche elettive parlamentari: il disegno approvato dal Senato è ispirato ad una disciplina complessiva, che si vuole adeguabile flessibilmente a sistemi elettorali anche di tipo differente: limitato a due tornate elettorali, fissa una quota di genere paritaria (la soglia del 50% viene introdotta da un emendamento nella discussione in aula) da applicare a ciascuna lista di candidati o a ciascun gruppo di candidati: (potenzialmente applicabile, quindi, anche a sistemi uninominali purché prevedano forme di collegamento per gruppi); presenta un meccanismo progressivo nello stabilire l’alternanza nell’ordine di lista (tre nella prima e due nella seconda elezione) e nelle sanzioni (riduzione rimborsi nella prima, inammissibilità nella seconda). Nella discussione in aula vengono inserite anche due ulteriori articoli riferiti alle elezioni amministrative, che prevedono una quota di genere di un terzo, con la sanzione della cancellazione dei candidati in eccesso a partire dal fondo della lista, in ambito comunale, e sanzioni pecuniarie per l’ambito provinciale. Il testo approvato dal Senato prevede, infine, un obbligo periodico di monitoraggio e relazione da parte del governo sull’applicazione della legge, nonché sulle misure necessarie per promuovere ulteriormente le pari opportunità nell’accesso oltre che alle cariche elettive parlamentari, anche alle nomine nel Consiglio superiore della magistratura, nella Corte costituzionale, nelle Autorità e in tutte le cariche di responsabilità nelle quali sottorappresentato il genere femminile. 16
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