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Metodo e contenuti nel dibattito sulla riforma costituzionale

                                            di Valerio Onida

Relazione presentata al convegno “La Costituzione della Repubblica italiana. Le radici, il
cammino” svoltosi a Bergamo il 28 e 29 ottobre 2005.
Pubblicata in “Studi e ricerche di storia contemporanea”, 2007 – Fasc. 68 – pp. 115 - 128


        Le Costituzioni possono essere assimilate ad un patrimonio, un patrimonio che si trasmette
in via ereditaria. Si potrebbe dunque sostenere che la trasmissione di una Costituzione è un processo
simile a ciò che accade in una famiglia quando i genitori, gli anziani giungono alla fine della loro
vita e si apre, appunto, la fase dell’eredità. Tuttavia l’eredità non è solo un fatto patrimoniale, quello
che spesso conduce i familiari a litigare tra di loro al momento della divisione; è invece un fatto
molto più profondo. Tutti avvertono quanto sia importante e delicata quella fase della vita nella
quale si è chiamati ad assumere il contenuto e anche il peso di ciò che ci viene trasmesso dai padri,
dai genitori, dagli ascendenti. È questo il motivo per cui quello del passaggio dell’eredità è un
momento molto delicato che, non a caso, in molte famiglie fa riaffiorare antichi rancori e vecchie
ruggini, provocando sconquassi, litigi, scontri anche aspri.
        Tuttavia il passaggio dell’eredità è anche un’occasione di arricchimento umano, perché è il
momento in cui ognuno è chiamato ad assumere la responsabilità di quanto riceve. Per quanto
riguarda la Costituzione italiana, questo è valido oggi per tutti quelli che sono giovani, perché la
generazione che ha fatto la Costituzione è giunta ormai al termine della sua vita. Di coloro che
hanno scritto la Costituzione, infatti, pochi sono ancora tra noi.
        Io non appartengo alla generazione della Costituente, sono poco più giovane e tuttavia, per
me, la Costituzione era qualcosa di profondamente nuovo. Quando ho cominciato i miei studi di
diritto costituzionale, la nostra Costituzione era entrata in vigore da non più di otto anni. Faccio
parte dunque della generazione di studiosi di diritto che ha cominciato a lavorare su questo nuovo
prodotto. Ma oggi, appunto, siamo in una fase completamente nuova e diversa e tocca ad altre
generazioni assumersi il compito di portare avanti lo spirito di questa Costituzione.
        Per questo è assolutamente importante percepire il senso di questa preziosa eredità. A questo
proposito credo che negli ultimi venticinque-trent’anni sia successo qualcosa di profondamente
negativo, poiché si è cominciato a guardare ai problemi della Costituzione in un modo che ritengo
fuorviante. Fino ad allora qualcuno parlava addirittura del “tabù” della Costituzione perché – si
diceva – non era possibile neanche immaginare di poterla cambiare. La lotta politica aveva come
riferimento la Costituzione, nel senso che si rivendicava l’attuazione della Costituzione, se ne
criticava la mancata attuazione, si accusavano gli avversari politici di essere tiepidi o incapaci di far
progredire il processo di attuazione della Costituzione, si lamentavano violazioni della
Costituzione. Insomma, la Costituzione era il riferimento comune a cui tutti guardavano, la
maggioranza come l’opposizione.
        È negli anni ‘80, per ragioni varie, che questa posizione comune e condivisa viene
progressivamente sovvertita. È accaduto che si è cominciato lentamente a perdere il senso della
Costituzione come carta fondamentale rappresentativa di valori e indirizzi comuni e si è lasciato
spazio a quel fenomeno che molti studiosi di diritto costituzionale, volendo sottolinearne il carattere
intimamente e pericolosamente eversivo, hanno denominato “nuovismo costituzionale”. L’idea,
cioè, che la Costituzione entrata in vigore nel 1948 avesse ormai esaurito la sua funzione, che
quindi fosse necessario intervenire sulla carta costituzionale e modificarla per la semplice ragione
che era ormai divenuta troppo vecchia. Quella secondo cui una Costituzione, solamente perché è
‘vecchia’, va cambiata è, a mio parere, tra le affermazioni più sbagliate e fuorvianti che si possano
fare in materia di diritto costituzionale. E’ una posizione errata perché in realtà la storia delle
Costituzioni dimostra che il pregio di una Costituzione è proprio quello di durare nel tempo. Le
carte costituzionali migliori sono quelle longeve, quelle che durano, perché le Costituzioni nascono
per durare. Qualcuno, facendo riferimento a quelle norme che impongono che i principi
fondamentali della nostra Costituzione non possano essere cambiati, nemmeno con il procedimento
di revisione, parla addirittura di “clausole di eternità”.
        È infatti chiaro che l’aspirazione di ogni Costituzione è quella di durare, perché la
Costituzione nasce per stabilire o per consolidare, nella vita di una comunità, ciò che è destinato a
durare. È altrettanto palese che la vita di una comunità si evolve e si sviluppa continuamente. Le
novità sono all’ordine del giorno, la società cambia, le persone hanno nuove esigenze, l’economia
progredisce o regredisce, comunque si modifica. Sorgono problemi nuovi, il mondo modifica il
proprio aspetto. Questo moto di cambiamento riguarda anche la politica, le leggi, le attività di
governo che quotidianamente devono affrontare l’insorgere di problemi nuovi. Tuttavia questo
continuo cambiamento può avvenire in modo pacifico, produttivo, positivo, solo se si hanno dei
riferimenti saldi, se ciò che è essenziale resta stabile. Ciò che è essenziale ed è destinato a durare è
appunto ciò che è contenuto nei dettami costituzionali: è questo, non altro, il vero ruolo delle
Costituzioni. Ecco perché è profondamente sbagliato sostenere che la Costituzione va cambiata
solamente perché è vecchia.
        La carta costituzionale più vecchia del mondo è quella degli Stati Uniti d’America, che ha
più di due secoli. Eppure questa Costituzione non è mai stata rifatta; all’occorrenza è stata
emendata. Nel corso di duecentotrenta anni di vita sono stati apportati a questa Costituzione – se si
escludono i primi dieci emendamenti (il catalogo dei diritti), introdotti, ad integrazione,
immediatamente dopo la sua promulgazione – solo diciassette emendamenti, per lo più di modesta
entità. Piccole aggiunte, lievi cambiamenti, lungo tutto questo periodo. Ciononostante nessuno si
sognerebbe, oggi, negli Stati Uniti d’America, di sostenere che la Costituzione va cambiata perché è
vecchia. Nel nostro Paese invece, per ragioni strane o comprensibili, questo clima di “nuovismo
costituzionale” è stato accettato placidamente, quasi che quello di cambiare la Costituzione fosse un
dato di fatto necessitato. Si tratta di un errore, e questo errore – commesso da molti, particolarmente
negli ultimi anni – ha prodotto come conseguenza quella di attenuare, far perdere e svanire il senso
della Costituzione, con effetti nefasti. Perché se si smarrisce il senso della Costituzione si perde
qualcosa di più di questa o quella norma, di questo o quell’istituto: si perde l’idea stessa di
Costituzione.
        Sull’onda di questo atteggiamento sono stati messi in atto diversi procedimenti tesi alla
revisione della Costituzione. La prima commissione bicamerale, cioè composta da membri delle due
Camere, incaricata di studiare modifiche alla Costituzione, risale infatti al 1983. Ad essa ne sono
succedute diverse altre.
        In via di principio, non si riscontrava in queste prime iniziative altro scopo che non fosse
quello di studiare eventuali soluzioni di aggiornamento, di adattamento, di miglioramento del
tessuto costituzionale, relativamente alla parte seconda sull’ordinamento della Repubblica. Il punto
è che progressivamente si è andati scivolando come su una china, adottando quello che a me pare un
vero e proprio mito: quello della cosiddetta “grande riforma”, quasi che ci fosse appunto necessità
di rifare, di rifondare dalla base la nostra carta costituzionale. Si è arrivati, e questa è stata una
prima svolta estremamente negativa, ad immaginare un procedimento di revisione diverso da quello
previsto nel testo, tanto che si sono prodotte leggi costituzionali apposite che stabilivano una
procedura speciale, in deroga al dettato attuale, per modificare la Costituzione stessa. Con questa
procedura si sarebbero dovute approvare le modifiche proposte dalle commissioni bicamerali, che
peraltro sono tutte terminate in un nulla di fatto. Il prodotto del lavoro di queste commissioni non si
è infatti quasi mai tramutato in riforme costituzionali perché, al momento di tirar le somme, non è
mai stata raggiunta un’intesa, non c’è stato accordo, non si è elaborato un testo comune, con la
conseguenza – che personalmente considero positiva – che queste leggi procedurali sono rimaste in
buona sostanza inapplicate.
        Alla fine della scorsa legislatura, nel 2000, l’allora maggioranza di centro-sinistra ha
commesso quello che giudico un errore gravissimo, cioè quello di tradurre parte della progettata
riforma costituzionale predisposta dalla commissione bicamerale in un progetto di legge che ha
proseguito l’iter parlamentare, giungendo fino all’approvazione. Precisamente si tratta della parte
che riguarda il rapporto tra Stato, Regioni ed enti locali, il titolo V della seconda parte della
Costituzione. Il punto è che mentre nella prima fase di elaborazione queste proposte di modifica del
titolo V erano state studiate più o meno d’accordo tra tutte le parti politiche, convinte allo stesso
modo che fosse opportuno realizzare in qualche misura un rafforzamento del tessuto regionalistico
previsto nella Costituzione del ‘48 e che aveva atteso lunghi anni prima di essere realizzato (le
Regioni ordinarie sono state istituite solo nel 1970), verso la fine della legislatura invece, in un
clima politico che andava sempre più verso la contrapposizione, è stato commesso dall’allora
maggioranza di centrosinistra quello che a me pare un errore metodologico. Poiché nel clima di
scontro sempre più teso (si andava verso le elezioni) erano venute meno le condizioni per un
accordo tra maggioranza e opposizione, la maggioranza di allora decise, creando in questo modo un
precedente pericolosissimo, di portare avanti autonomamente, senza l’accordo con la minoranza, la
riforma del titolo V della Costituzione.
        La legge di riforma costituzionale fu approvata con una ristretta maggioranza alla fine del
2000. Come previsto dall’articolo 138 fu richiesto il referendum, e fu richiesto sia dalla minoranza
che dalla maggioranza di allora. La consultazione ebbe effettivamente luogo nell’ottobre 2001.
Oggi quasi nessuno se ne ricorda, perché nell’ottobre 2001 si era distratti da altre cose. Fu quindi un
referendum piuttosto snobbato dall’elettorato: pochi andarono a votare, ma di quelli la grandissima
maggioranza votò “si”, e quindi questa riforma è effettivamente diventata legge costituzionale ed è
entrata in vigore. La nostra Costituzione, oggi, in quella parte è dunque stata modificata dalla
riforma del 2001.
        È fondamentale sottolineare l’errore metodologico compiuto in quell’occasione dalla
maggioranza, l’avere cioè forzato l’approvazione del progetto di legge, in una situazione politica
nella quale non c’era più un’intesa tra maggioranza e opposizione, con il pretesto che la riforma
fosse stata elaborata insieme.
        Si è trattato di un errore, perché in questo modo si è aperta la strada a quello che oggi si
manifesta come un fenomeno pericolosissimo, e cioè che ogni maggioranza contingente, che vince
un’elezione politica, si sente in diritto o addirittura in dovere di portare avanti una riforma anche
profonda della Costituzione, secondo le proprie vedute, indipendentemente dal consenso della
minoranza, e senza cercare l’intesa.
        Di fatto è proprio quello che sta avvenendo oggi. Il 17 ottobre 2003 un progetto di riforma
della seconda parte della Costituzione ben più ampio di quello che aveva modificato il titolo V, e
che tocca tutta la seconda parte della Costituzione, è stato presentato al Senato – d.d.l.
costituzionale n. 2544 – dal Governo. È la prima volta nella storia della Repubblica che il Governo,
cioè l’espressione della maggioranza che ha il compito di portare avanti l’indirizzo politico nel
corso della legislatura, si è fatto promotore di una riforma costituzionale. Sino ad allora era inteso
che una riforma costituzionale, in quanto materia estranea all’indirizzo politico governativo,
dovesse avvenire in Parlamento, attraverso il largo concorso delle forze politiche di maggioranza e
di opposizione. La Costituzione è infatti qualcosa che riguarda tutti, è materia di tutti, e quindi non
si deve modificare in base ad un programma di governo. Si può, eventualmente, modificare sulla
base di un’intesa larga che superi i confini fra maggioranza e opposizione. Invece, in
quell’occasione, l’ipotesi di riforma è stata presentata dal Governo, e da allora questo progetto ha
proseguito il proprio iter, nelle varie e necessarie fasi di approvazione, come iniziativa della sola
maggioranza di governo, tanto che oggi manca solo l’ultimo passaggio da parte del Senato, che
avverrà, si prevede, sempre e solo con i voti della maggioranza. Questo è un grave errore
metodologico, perché le Costituzioni non si cambiano a maggioranza. Perché cambiare a
maggioranza la Costituzione non vuole dire soltanto correre il rischio di fare delle riforme che
vengono contestate, ma vuol dire perdere l’idea stessa di Costituzione come tessuto di fondo che
riguarda tutti e che a tutti appartiene. Tutti si debbono sentire rappresentati dalla Costituzione. Se si
fa una riforma a maggioranza, la Costituzione che ne risulta sarà la Costituzione di quella
maggioranza, e se alle elezioni successive quella maggioranza cambia e viene eletto un altro
schieramento politico, quello schieramento politico si sentirà in diritto e in dovere, a sua volta, di
fare la propria Costituzione. Avremmo così una successione di carte costituzionali, portate avanti da
maggioranze diverse, di cui l’una contraddice l’altra, l’una smentisce l’altra, perdendo in questo
modo, e irrimediabilmente, l’idea di Costituzione come casa di tutti. Al di là del merito delle
singole riforme, al di là del carattere buono o cattivo di questo o quel cambiamento, questa sarebbe
una gravissima perdita.
        Perciò credo che, sul piano metodologico, sia necessario opporsi a questo modo di pensare
alla Costituzione e alle sue riforme.
        Le Costituzioni non sono trattabili alla stregua di una qualsiasi legge, come ad esempio la
legge finanziaria, che si fa ogni anno, o come i vari provvedimenti che disciplinano argomenti
diversi e che si devono continuamente aggiornare perché la società muta e di conseguenza anche le
leggi sono costrette ad inseguirla. La Costituzione è qualcosa di diverso. Non può essere trattata alla
stregua di una legge qualsiasi perché ha uno scopo e una natura diversi. La Costituzione non
pretende di risolvere problemi contingenti. La Costituzione deve stabilire i principi di fondo
destinati a restare validi al di là e nonostante il mutamento delle condizioni politiche. Perché la
Costituzione indica il quadro, l’alveo entro il quale la politica può e deve cercare il cambiamento.
È giusto che ogni maggioranza goda della possibilità di portare avanti il proprio disegno, ma è
necessario che lo faccia rispettando dei limiti, movendosi cioè all’interno del quadro tracciato dalla
Costituzione. Se dunque la Costituzione non è una legge qualsiasi, il modo in cui ci si pone di
fronte ai problemi della Costituzione e del suo cambiamento non può essere lo stesso con cui ci si
pone di fronte ai problemi della legislazione ordinaria.
        Uno degli handicap del nostro paese è l’eccessiva fiducia nella possibilità di risolvere i
problemi facendo nuove leggi, dimenticando ciò che la realtà ci insegna, e cioè che molte volte la
chiave non è fare nuove leggi, ma verificare come e se queste leggi vengono applicate, come si
amministra, come si rende giustizia.
        Il nostro è un Paese afflitto da un eccesso di legislazione. Questo vizio, grave in sé, diventa
gravissimo se applicato alla Costituzione. Perché il ruolo della Costituzione non è quello di
inseguire la realtà, ma di presidiare ciò che nel mutamento della realtà rimane tendenzialmente
costante. I problemi di riforma della Costituzione vanno dunque posti diversamente, domandandosi
quali sono i problemi di fondo, osservando eventuali cambiamenti di tendenze profonde, guardando
avanti, al di là delle singole legislature.
        Quali sono i problemi reali? Ci sono problemi reali la cui soluzione è impedita o ostacolata
da qualcuna delle regole o dei principi della Costituzione in vigore? Ci sono problemi la soluzione
dei quali richieda il cambiamento della Costituzione?
        La riforma costituzionale deve essere l’extrema ratio. È qualcosa a cui si può arrivare,
perché l’articolo 138 prevede revisioni, ma solo quando si tratti di modifiche assolutamente
indispensabili per rispondere a qualche problema che non si può risolvere altrimenti. E ancora,
questa considerazione può non essere sufficiente. Ci si dovrebbe infatti domandare se per caso,
affrontando quel problema, e risolvendolo in un determinato modo, non provochiamo dei danni
collaterali più gravi, perché la Costituzione è un tessuto delicato, in cui tutto si tiene, e bisogna stare
molto attenti a non cambiare un aspetto producendo delle ripercussioni negative su un altro terreno.
        Prima di arrivare ad un progetto di riforma costituzionale, ad un intendimento di riforma,
bisogna rispondere a queste domande, e non partire dal presupposto, come purtroppo troppe volte in
questi ultimi decenni è accaduto, che bisogna cambiare assolutamente. Che cosa poi si debba
cambiare, e come, sembra quasi secondario, qualcosa da valutare in corso d’opera. L’atteggiamento,
in tema di riforma costituzionale, deve essere invece assolutamente opposto a questo modo di
procedere: il presupposto è che in linea di principio non bisogna cambiare. Se poi davvero si
dimostrerà, dopo attenta riflessione, confronto e studio, che ci sono dei problemi di grande portata
che non si possono risolvere se non cambiando la Costituzione, solo allora si potrà cominciare a
valutare ipotesi di riforma tenendo conto però, al tempo stesso, anche delle possibili conseguenze
negative del cambiamento.
                                                   ***
        Fatta questa premessa, proviamo ad esaminare l’attuale progetto di riforma, che investe
l’intera seconda parte della Costituzione, cioè tutta la parte che riguarda l’ordinamento della
Repubblica. È interessante notare, tra l’altro, che anche dal punto di vista redazionale si è preteso di
riscrivere tutta questa parte della carta costituzionale. Mi pare che dietro questa pretesa di riscrivere
tutti gli articoli, dal 55 al 139, anche là dove si cambia poco o nulla della sostanza, si celi
l’ambizione simbolica di voler fare a tutti i costi una “nuova Costituzione”.
        I punti chiave toccati dalla riforma sono quattro. In primo luogo, si ritorna sul tema dei
rapporti tra Stato, Regioni ed enti locali (la cosiddetta “devoluzione”); in secondo luogo si modifica
il bicameralismo, e di conseguenza la struttura e i compiti delle due Camere e i rapporti tra di loro;
in terzo luogo si muta la forma di governo in senso stretto, modificando i rapporti tra Governo e
Parlamento e i ruoli e le funzioni del Primo Ministro e del Presidente della Repubblica; infine si
toccano alcuni aspetti degli organi di garanzia, in particolare il Consiglio Superiore della
Magistratura, l’organo che è chiamato ad amministrare i magistrati, e la Corte costituzionale. Quali
sono dunque le domande che dovremmo porci, secondo il metodo che indicavo prima, per valutare
la riforma?
        Per quanto riguarda il rapporto Stato-Regioni dovremmo domandarci se è oggi necessario
realizzare un ulteriore ampliamento ed un rafforzamento costituzionale delle autonomie regionali e
locali, se c’è bisogno di aumentare, di rafforzare i poteri costituzionali delle Regioni e degli enti
locali rispetto a quelli previsti dalla Costituzione in vigore, per realizzare un migliore assetto del
nostro Paese. Vi è poi una seconda domanda alla quale dovremmo rispondere, sempre sullo stesso
tema: la riforma che è stata fatta nel 2001, che è entrata in vigore e che ha profondamente
modificato i rapporti tra Stato, Regioni ed enti locali, ha bisogno di modifiche, di ritocchi, di
ripensamenti, ha cioè rivelato dei difetti che richiedono dei nuovi interventi costituzionali?
        Credo che si debba rispondere negativamente alla prima di queste due domande e
positivamente alla seconda. Non c’è bisogno, oggi, in Italia, di un nuovo tessuto costituzionale,
diverso da quello del 2001, che identifichi i poteri costituzionali di Stato, Regioni ed enti locali,
mentre c’è, ragionevolmente, l’esigenza di qualche intervento correttivo o di chiarificazione sulla
riforma realizzata frettolosamente nel 2001.
        Ci sono elementi concreti per rispondere negativamente alla prima domanda. Il titolo V in
vigore stabilisce i rispettivi poteri di Stato, Regioni ed enti locali: dopo la riforma del 2001 c’è un
elenco di materie assegnate alla potestà legislativa esclusiva dello Stato, e un elenco di materie
attribuite alla potestà concorrente di Stato e Regioni, il che significa che il legislatore statale può
solo dettare i principi di fondo e la legislazione corrente è compito delle Regioni; tutto il resto è di
competenza delle Regioni. La rivoluzione apportata con la riforma del 2001 consiste proprio in
questo, perché prima era esattamente il contrario: le Regioni erano competenti solo in alcune
materie, tutto il resto era di potestà esclusiva dello Stato. È quindi evidente che l’impianto di fondo,
a partire dal 2001, è fortemente improntato all’autonomia, nel senso che tutto è di competenza
regionale, salvo quanto si è attribuito allo Stato. Ci sono dunque ostacoli, nell’attuale assetto
costituzionale, che precludono alle Regioni di fare qualcosa che secondo noi dovrebbero poter fare?
Non ho ancora sentito argomentazioni valide che diano risposta positiva a questa domanda. Anche
perché la cosiddetta devoluzione, cioè quell’unica disposizione nuova che si vorrebbe introdurre nel
titolo V, in realtà non aggiunge quasi niente ai poteri effettivi delle Regioni. Il comma che si
vorrebbe introdurre, in un quadro in cui si confermano sostanzialmente, con poche correzioni per lo
più a favore dello Stato, il quadro delle competenze attuali, introduce un piccolo elenco di materie
che vengono definite di competenza esclusiva delle Regioni. Ma già dal testo attuale risulta che
tutto quanto non è di competenza statale o di competenza concorrente è di competenza esclusiva
delle Regioni. Di qui alcune domande: perché introdurre un comma diretto a specificare che tre o
quattro materie o sottomaterie sono di competenza esclusiva delle Regioni? Sarebbero davvero
competenze esclusive delle Regioni quelle che si vorrebbero introdurre? Cosa si aggiungerebbe
rispetto alle attuali possibilità per le Regioni di legiferare e di operare in queste materie?
         Le materie indicate sono l’organizzazione sanitaria, l’organizzazione scolastica e la polizia
amministrativa locale. Ora, in materia di sanità le regioni hanno già competenza concorrente. La
riforma toglie la competenza concorrente, ma dà allo Stato in esclusiva il potere di dettare “norme
generali” sulla tutela della salute. Dal punto di vista pratico, non cambierebbe granchè, perché non
c’è molta differenza tra l’affidare allo Stato le norme generali e alle Regioni l’ulteriore disciplina, e
lo stabilire, come nell’attuale Costituzione, che la competenza in materia di sanità sia concorrente.
         Per quanto riguarda l’istruzione, nell’attuale sistema è lo Stato a dettare le norme generali, e
l’istruzione, salvo quella professionale che è regionale, è di competenza concorrente. La proposta di
riforma mantiene la competenza concorrente in materia di istruzione, e aggiunge una competenza
delle Regioni in materia di organizzazione scolastica. Di fatto non cambierebbe molto: non c’è
infatti molta differenza tra l’affermare che l’istruzione è di competenza concorrente e l’affermare
che la Regione si occupa dell’organizzazione scolastica, ma fermo restando che l’istruzione è di
competenza concorrente e che le norme generali sull’istruzione sono stabilite dallo Stato.
         Ancor meno innovativa è la prevista attribuzione alle Regioni di competenza in materia di
polizia amministrativa regionale e locale, competenza che sostanzialmente le Regioni già hanno.
         In realtà questa è una riforma-bandiera, che non introduce nessun potere reale in più, al
massimo esprime un indirizzo politico di maggiore decentramento, ma appunto a livello simbolico,
non dando fondamento costituzionale ad una maggiore attribuzione di poteri. Quindi, quanti
sostengono che questa sia una norma pericolosa perché spacca l’Italia, esasperandone il
regionalismo, nel merito commettono forse un errore perché, da un punto di vista strettamente
giuridico, la proposta di riforma non muta granchè. Se invece la si considera come una norma che
rivela un’intenzione, è corretto valutarla come pericolosa sul piano politico, perché le norme
costituzionali non si fanno per manifestare delle intenzioni o per sbandierare una politica. Le norme
costituzionali si fanno per risolvere problemi. In materia di sanità ed istruzione penso non vi sia
nulla, sul piano strettamente giuridico-costituzionale, che le Regioni oggi non possano fare e che
potrebbero invece fare con l’introduzione di quel comma. Ecco la ragione per la quale, se si chiede
se sia necessaria oggi una riforma costituzionale che modifichi sostanzialmente i poteri di Stato e
Regioni, la mia risposta è negativa: mentre è vero che il Titolo V può esigere delle correzioni, ma
complessivamente marginali.
         C’è poi un altro aspetto che rafforza questa risposta negativa e che emerge dall’esame della
giurisprudenza della Corte costituzionale. Questa ha dovuto occuparsi spesso della riforma del titolo
V della Costituzione introdotta nel 2001. Il contenzioso tra Stato e Regioni è all’ordine del giorno.
L’esperienza mostra che con l’entrata in vigore della riforma del 2001, che ha accresciuto
enormemente sul piano costituzionale i poteri delle Regioni, sul piano della legislazione ordinaria
molto meno è cambiato, perché lo Stato ha continuato a legiferare spesso con gli stessi contenuti e
con lo stesso metodo di prima. Di volta in volta le Regioni hanno presentato ricorsi, la Corte
costituzionale ha cercato di risolvere i conflitti, ma il modo di legiferare da parte dello Stato non è
cambiato. Le leggi finanziarie, ad esempio, contengono ogni anno una serie di norme spesso
analoghe a quelle che contenevano prima del 2001, norme che in alcuni casi le Regioni hanno
attaccato, anche con successo. La Corte costituzionale ha dichiarato incostituzionali due
disposizioni della legge finanziaria 2002, sette della finanziaria 2003, tredici, finora, della
finanziaria 2004. Si assiste ad un crescendo, ciò che dimostra che nei fatti, oggi, il sistema politico
del nostro paese non è molto disposto ad aprire ulteriori spazi di manovra alle Regioni; al contrario,
in certi settori si prosegue con politiche di ispirazione centralistica, da parte di quello stesso
Governo e di quella stessa maggioranza che oggi in Parlamento vuole approvare la cosiddetta
“devoluzione”.
         Quella che emerge è un’evidente contraddizione di fondo. La realtà dimostra che oggi in
Italia il regionalismo, sul piano costituzionale, ha tutta la forza di cui ha bisogno per svilupparsi.
Non è così, invece, sul piano dell’attuazione, per esempio sul piano fiscale e delle destinazione delle
risorse. Su questi temi la proposta di riforma però non interviene: già oggi la Costituzione prevede
una maggiore autonomia finanziaria delle Regioni, che non si è ancora concretizzata perché
Governo e Parlamento non vogliono attuarla o non sono in grado di farlo. È la dimostrazione che
questa riforma costituzionale non è tesa a risolvere i problemi, perché in quel caso si agirebbe sul
piano della legislazione ordinaria e tributaria. Invece – non volendo o non potendo intervenire in
questi settori – si tende a scrivere nuove norme costituzionali, che avrebbero come unico risultato
probabile un’ulteriore complicazione del sistema.
        Passiamo ora ad analizzare il secondo punto della riforma: il bicameralismo. C’è bisogno di
cambiare la struttura bicamerale del parlamento? Qual è la ragione profonda per cambiarla?
Qualcuno sostiene che ciò sia necessario per dare alle Regioni una rappresentanza al centro, cioè
per far sì che in Parlamento le Regioni siano rappresentate, così come avviene in Stati ad
ordinamento federale dove le entità periferiche sono rappresentate direttamente da loro esponenti
nel Parlamento nazionale, e una “Camera delle Regioni” concorre con l’altra Camera nel legiferare
in certe materie, così da garantire meglio che vi sia equilibrio, nella legislazione, tra centro e
periferia. Questa è un’esigenza di per sé corretta: un sistema a forti autonomie può funzionare
meglio se c’è un organismo centrale che rappresenta la periferia ed è quindi in grado di dialogare
con gli organi centrali. La riforma non va però in questa direzione, perché in essa il Senato viene
bensì battezzato “federale”, ma di federale quel Senato non avrebbe nulla: è un’assemblea politica
eletta su base nazionale, seppure distintamente in ciascuna Regione, come del resto accade già oggi.
I senatori, secondo il progetto, sono eletti nelle singole regioni, ma sono eletti a suffragio elettorale
diretto da tutti i cittadini. Inevitabilmente dunque questo Senato cosiddetto “federale” sarebbe
un’assemblea politica che vedrebbe al suo interno la stessa dialettica fra partiti che vi è nella
Camera dei deputati, non un’assemblea direttamente rappresentativa delle realtà regionali, come
avviene ad esempio nella seconda Camera tedesca, composta da esponenti degli esecutivi regionali.
Ma c’è di più. Nel progetto di riforma si opera una distribuzione di materie, ai fini della competenza
a legiferare, che, sul piano tecnico-costituzionale, sarebbe foriera di difficoltà e confusione. Si
prevede che certe leggi debbano essere deliberate da una Camera e altre leggi debbano essere
deliberate dal Senato, altre ancora da entrambe le assemblee. Il modo in cui si distinguono le
competenze delle due Camere è però tale per cui inevitabilmente scoppierebbero quotidiani conflitti
tra le due assemblee: si prevede di affidare alla Camera dei deputati il compito di legiferare nelle
materie che la Costituzione, nel titolo V, attribuisce alla competenza esclusiva dello Stato, mentre
sarebbero di competenza del Senato le leggi (statali) nelle materie di competenza concorrente.
Riprendendo l’esempio precedente, quello dell’istruzione, si avrebbe una situazione per cui la
Camera dovrebbe legiferare in tema di norme generali dell’istruzione, ed il Senato dovrebbe
stabilire i principi fondamentali in materia di istruzione.
        Terzo punto: la forma di governo in senso stretto. A mio parere la riforma offre risposte
vecchie a questioni vecchie, cioè parte dal presupposto che occorra rafforzare l’esecutivo. Nei primi
anni ‘80 questa era un’affermazione corrente. Si sosteneva che in Italia vi fosse un esecutivo debole
ed un Parlamento troppo forte, perché molte decisioni legislative non venivano prese dalla
maggioranza e dal governo, ma venivano concordate in Parlamento attraverso il mercanteggiamento
tra maggioranza e opposizione. Si sosteneva che il Governo non fosse in grado di portare avanti il
proprio indirizzo perché impedito da questa modalità “consociativa” di decidere. L’idea diffusa era
dunque quella di rafforzare l’esecutivo sul piano costituzionale, indebolendo conseguentemente il
Parlamento. Oggi però il panorama è cambiato radicalmente: le cose stanno, per certi versi,
esattamente al contrario di come, secondo molti, stavano all’inizio degli anni 80, quando si
lamentava il fatto che il Governo fosse debole e che non riuscisse a portare avanti la propria azione
politica in un sistema politico “consociativo”.
        Oggi, al contrario, il Governo porta avanti il proprio indirizzo attraverso la propria
maggioranza e in un rapporto esclusivamente di contrapposizione aprioristica con l’opposizione.
Altro che consociativismo! Oggi il Parlamento sembra funzionare solo come macchina per votare.
L’iter con il quale si giunge oggi all’approvazione di leggi legge importanti è significativo: il
Governo propone i provvedimenti che ha intenzione di assumere (ad esempio il progetto di legge
finanziaria). Successivamente concorda con la propria maggioranza le modifiche da apportare al
progetto. Una volta trovata l’intesa il Governo presenta in Parlamento un cosiddetto
“maxiemendamento”, cioè un unico emendamento in cui si raccolgono tutte o molte delle modifiche
al disegno di legge (e si tratta di modifiche spesso di tale portata da rendere il progetto molto
diverso da quello presentato all’inizio); a questo punto si sottopone il “maxiemendamento”, inserito
in un unico articolo, ad un unico voto, ricorrendo alla questione di fiducia che esclude l’esame di
ogni altro emendamento.
        Ciò dimostra che la risposta tesa a rafforzare l’esecutivo è una risposta vecchia, ed è una
risposta sbagliata perché va in direzione persino opposta rispetto a quella in cui si dovrebbe andare.
Nella Costituzione attuale il Presidente del Consiglio dei ministri è espressione della maggioranza
parlamentare ed è colui che dirige – recita così l’articolo 95 della Costituzione – la politica generale
del governo e ne è responsabile, fino a quando goda della fiducia della maggioranza; quando non
gode più della fiducia della maggioranza non ha più il diritto di portare avanti l’indirizzo politico
del suo Governo ed è quindi costretto passare la mano.
        Da questo punto di vista il progetto di riforma compie un’operazione di grande portata,
perché mira a configurare il Primo Ministro non più come l’espressione della maggioranza,
incaricato di dirigere la politica generale del governo fino a quando è sorretto dal consenso della
stessa, ma come una figura politica legittimata indipendentemente dalla sua stessa maggioranza,
eletto in sostanza direttamente dal popolo, e autorizzato a controllare la sua maggioranza, ad
impedire alla sua stessa maggioranza di ostacolare la propria azione. L’ “arma assoluta” di cui
verrebbe a disporre è lo scioglimento della Camera. Se la maggioranza si oppone al Premier, questi
potrebbe imporre lo scioglimento della Camera; se il Premier si dimette, automaticamente la
Camera sarebbe sciolta. Lo scioglimento potrebbe essere evitato solo se la Camera riuscisse entro
un breve termine a designare un nuovo Primo Ministro nell’ambito della stessa maggioranza
originaria. Ci sarebbe dunque un rapporto di simbiosi tra Premier e maggioranza, ma è una simbiosi
in cui la legittimazione politica più forte apparterrebbe al Premier perché questi è uno solo, eletto
sostanzialmente in modo diretto, e quindi potrebbe considerarsi espressione preminente della
volontà popolare, al di sopra dei partiti e della sua stessa maggioranza, la quale sarebbe sotto il suo
controllo.
        Si tratta di uno stravolgimento radicale, sul piano costituzionale, perché va a toccare il tema
centrale della legittimazione: in democrazia la massima legittimazione investe chi può vantare di
esprimere meglio la volontà popolare. Nel sistema costituzionale vigente, il ruolo di massima
espressione della volontà popolare spetta al Parlamento: si tratta quindi di un’espressione collettiva.
Domani – secondo il progetto di riforma – esso spetterebbe ad un organo monocratico. Questo è il
corto circuito tipico delle democrazie autoritarie, dove la democrazia è cioè intesa come
l’investitura periodica di una sola persona. L’operazione che sta dietro alla riforma è dunque il
tentativo di personalizzare la democrazia, con la pericolosa conseguenza di allontanare il nostro
sistema dalla tradizione del costituzionalismo occidentale e in particolare del costituzionalismo
europeo, che non è basato su legittimazioni personali, ma su legittimazioni collettive, attraverso le
assemblee e i partiti.
        Anche il paragone con il presidenzialismo americano, invocato da alcuni, non regge. Il
Presidente degli Stati Uniti è certamente un organo monocratico ed è eletto direttamente dal popolo,
e quindi gode di una sua legittimazione autonoma, ma incontra dei contropoteri molto forti nel
Parlamento, rispetto al quale egli non ha i poteri tipici del Governo parlamentare, “comitato
direttivo” della maggioranza. Avvenimenti anche recenti dimostrano che il sistema della cosiddetta
bilancia dei poteri è in grado di dare garanzie importanti. Nel nostro progetto invece il Premier
avrebbe anche i poteri, nei riguardi della Camera, tipici del Governo parlamentare.
        Ultimo punto, gli organi di garanzia: Consiglio Superiore della magistratura e Corte
costituzionale. Ancora una volta è necessario domandarsi se vi sia realmente bisogno di una riforma
degli organi di garanzia, e perché sarebbe necessario modificarli, dal momento che intervenire sugli
organi di garanzia significa sempre indebolire o rafforzare le garanzie del sistema.
        Accenno solo al tema della Corte costituzionale. Nel caso della Corte costituzionale, la sua
indipendenza dal Governo, dalla maggioranza, dai partiti è una garanzia fondamentale perché la
Costituzione possa essere difesa. Ora, il progetto di riforma va invece a toccare anche le modalità di
nomina dei giudici della Corte costituzionale. Attualmente i giudici, che sono quindici, sono
nominati per un terzo dal Parlamento con una elevata maggioranza, per un terzo dal Capo dello
stato e per un terzo dalle supreme magistrature. La riforma prevede che i membri eletti dal
Parlamento passino da cinque a sette (quattro eletti dal Senato e tre dalla Camera), quelli nominati
dal Capo dello stato da cinque a quattro, così come quelli eletti dalle magistrature. Mentre oggi
abbiamo un equilibrio paritario – 5,5,5 – la riforma prevede una netta alterazione dell’equilibrio a
favore dei membri eletti dal Parlamento. Si tenta di giustificare la riforma sostenendo che è
necessario dare voce alle Regioni all’interno della Corte costituzionale. Ma è in realtà un argomento
infondato, poiché i membri eletti dal Parlamento – anche quelli eletti dal cosiddetto Senato federale
– sarebbero sempre espressi da assemblee politiche nazionali, e quindi designati dai partiti. In
realtà, l’effetto della riforma sarebbe dunque quello di alterare il delicato equilibrio dell’attuale
composizione, favorendo all’interno della Corte costituzionale una maggiore presenza di esponenti
direttamente designati dai partiti.
        La Corte costituzionale non è un organismo che vive fuori dal mondo politico, ed è sensibile
anche alle ragioni della politica. Al tempo stesso, però, deve essere in grado di preservare la propria
totale indipendenza rispetto alle vicende politiche e alle maggioranze contingenti. Alterare
l’equilibrio delle fonti di nomina, di fatto, avrebbe come effetto quello di indebolire la Corte
costituzionale sotto il profilo del necessario distacco dalla politica contingente, perché l’aumento
del numero di membri designati dal Parlamento e quindi dai partiti tenderebbe ad accrescere
l’influenza delle ragioni legate al dibattito politico quotidiano e quindi, in definitiva, ad indebolire
le garanzie. È dunque chiaro che la riforma non porterebbe ad un rafforzamento delle garanzie –
cosa che invece oggi sarebbe utile, perché viviamo in un clima in cui, essendo la politica più
conflittuale di prima, è più che mai necessario che vi siano garanzie fuori dalla politica e nei
confronti della politica –, ma si muoverebbe in senso opposto.

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Metodo e contenuti nel dibattito sulla riforma costituzionale

  • 1. Metodo e contenuti nel dibattito sulla riforma costituzionale di Valerio Onida Relazione presentata al convegno “La Costituzione della Repubblica italiana. Le radici, il cammino” svoltosi a Bergamo il 28 e 29 ottobre 2005. Pubblicata in “Studi e ricerche di storia contemporanea”, 2007 – Fasc. 68 – pp. 115 - 128 Le Costituzioni possono essere assimilate ad un patrimonio, un patrimonio che si trasmette in via ereditaria. Si potrebbe dunque sostenere che la trasmissione di una Costituzione è un processo simile a ciò che accade in una famiglia quando i genitori, gli anziani giungono alla fine della loro vita e si apre, appunto, la fase dell’eredità. Tuttavia l’eredità non è solo un fatto patrimoniale, quello che spesso conduce i familiari a litigare tra di loro al momento della divisione; è invece un fatto molto più profondo. Tutti avvertono quanto sia importante e delicata quella fase della vita nella quale si è chiamati ad assumere il contenuto e anche il peso di ciò che ci viene trasmesso dai padri, dai genitori, dagli ascendenti. È questo il motivo per cui quello del passaggio dell’eredità è un momento molto delicato che, non a caso, in molte famiglie fa riaffiorare antichi rancori e vecchie ruggini, provocando sconquassi, litigi, scontri anche aspri. Tuttavia il passaggio dell’eredità è anche un’occasione di arricchimento umano, perché è il momento in cui ognuno è chiamato ad assumere la responsabilità di quanto riceve. Per quanto riguarda la Costituzione italiana, questo è valido oggi per tutti quelli che sono giovani, perché la generazione che ha fatto la Costituzione è giunta ormai al termine della sua vita. Di coloro che hanno scritto la Costituzione, infatti, pochi sono ancora tra noi. Io non appartengo alla generazione della Costituente, sono poco più giovane e tuttavia, per me, la Costituzione era qualcosa di profondamente nuovo. Quando ho cominciato i miei studi di diritto costituzionale, la nostra Costituzione era entrata in vigore da non più di otto anni. Faccio parte dunque della generazione di studiosi di diritto che ha cominciato a lavorare su questo nuovo prodotto. Ma oggi, appunto, siamo in una fase completamente nuova e diversa e tocca ad altre generazioni assumersi il compito di portare avanti lo spirito di questa Costituzione. Per questo è assolutamente importante percepire il senso di questa preziosa eredità. A questo proposito credo che negli ultimi venticinque-trent’anni sia successo qualcosa di profondamente negativo, poiché si è cominciato a guardare ai problemi della Costituzione in un modo che ritengo fuorviante. Fino ad allora qualcuno parlava addirittura del “tabù” della Costituzione perché – si diceva – non era possibile neanche immaginare di poterla cambiare. La lotta politica aveva come riferimento la Costituzione, nel senso che si rivendicava l’attuazione della Costituzione, se ne criticava la mancata attuazione, si accusavano gli avversari politici di essere tiepidi o incapaci di far progredire il processo di attuazione della Costituzione, si lamentavano violazioni della Costituzione. Insomma, la Costituzione era il riferimento comune a cui tutti guardavano, la maggioranza come l’opposizione. È negli anni ‘80, per ragioni varie, che questa posizione comune e condivisa viene progressivamente sovvertita. È accaduto che si è cominciato lentamente a perdere il senso della Costituzione come carta fondamentale rappresentativa di valori e indirizzi comuni e si è lasciato spazio a quel fenomeno che molti studiosi di diritto costituzionale, volendo sottolinearne il carattere intimamente e pericolosamente eversivo, hanno denominato “nuovismo costituzionale”. L’idea, cioè, che la Costituzione entrata in vigore nel 1948 avesse ormai esaurito la sua funzione, che quindi fosse necessario intervenire sulla carta costituzionale e modificarla per la semplice ragione che era ormai divenuta troppo vecchia. Quella secondo cui una Costituzione, solamente perché è ‘vecchia’, va cambiata è, a mio parere, tra le affermazioni più sbagliate e fuorvianti che si possano fare in materia di diritto costituzionale. E’ una posizione errata perché in realtà la storia delle Costituzioni dimostra che il pregio di una Costituzione è proprio quello di durare nel tempo. Le
  • 2. carte costituzionali migliori sono quelle longeve, quelle che durano, perché le Costituzioni nascono per durare. Qualcuno, facendo riferimento a quelle norme che impongono che i principi fondamentali della nostra Costituzione non possano essere cambiati, nemmeno con il procedimento di revisione, parla addirittura di “clausole di eternità”. È infatti chiaro che l’aspirazione di ogni Costituzione è quella di durare, perché la Costituzione nasce per stabilire o per consolidare, nella vita di una comunità, ciò che è destinato a durare. È altrettanto palese che la vita di una comunità si evolve e si sviluppa continuamente. Le novità sono all’ordine del giorno, la società cambia, le persone hanno nuove esigenze, l’economia progredisce o regredisce, comunque si modifica. Sorgono problemi nuovi, il mondo modifica il proprio aspetto. Questo moto di cambiamento riguarda anche la politica, le leggi, le attività di governo che quotidianamente devono affrontare l’insorgere di problemi nuovi. Tuttavia questo continuo cambiamento può avvenire in modo pacifico, produttivo, positivo, solo se si hanno dei riferimenti saldi, se ciò che è essenziale resta stabile. Ciò che è essenziale ed è destinato a durare è appunto ciò che è contenuto nei dettami costituzionali: è questo, non altro, il vero ruolo delle Costituzioni. Ecco perché è profondamente sbagliato sostenere che la Costituzione va cambiata solamente perché è vecchia. La carta costituzionale più vecchia del mondo è quella degli Stati Uniti d’America, che ha più di due secoli. Eppure questa Costituzione non è mai stata rifatta; all’occorrenza è stata emendata. Nel corso di duecentotrenta anni di vita sono stati apportati a questa Costituzione – se si escludono i primi dieci emendamenti (il catalogo dei diritti), introdotti, ad integrazione, immediatamente dopo la sua promulgazione – solo diciassette emendamenti, per lo più di modesta entità. Piccole aggiunte, lievi cambiamenti, lungo tutto questo periodo. Ciononostante nessuno si sognerebbe, oggi, negli Stati Uniti d’America, di sostenere che la Costituzione va cambiata perché è vecchia. Nel nostro Paese invece, per ragioni strane o comprensibili, questo clima di “nuovismo costituzionale” è stato accettato placidamente, quasi che quello di cambiare la Costituzione fosse un dato di fatto necessitato. Si tratta di un errore, e questo errore – commesso da molti, particolarmente negli ultimi anni – ha prodotto come conseguenza quella di attenuare, far perdere e svanire il senso della Costituzione, con effetti nefasti. Perché se si smarrisce il senso della Costituzione si perde qualcosa di più di questa o quella norma, di questo o quell’istituto: si perde l’idea stessa di Costituzione. Sull’onda di questo atteggiamento sono stati messi in atto diversi procedimenti tesi alla revisione della Costituzione. La prima commissione bicamerale, cioè composta da membri delle due Camere, incaricata di studiare modifiche alla Costituzione, risale infatti al 1983. Ad essa ne sono succedute diverse altre. In via di principio, non si riscontrava in queste prime iniziative altro scopo che non fosse quello di studiare eventuali soluzioni di aggiornamento, di adattamento, di miglioramento del tessuto costituzionale, relativamente alla parte seconda sull’ordinamento della Repubblica. Il punto è che progressivamente si è andati scivolando come su una china, adottando quello che a me pare un vero e proprio mito: quello della cosiddetta “grande riforma”, quasi che ci fosse appunto necessità di rifare, di rifondare dalla base la nostra carta costituzionale. Si è arrivati, e questa è stata una prima svolta estremamente negativa, ad immaginare un procedimento di revisione diverso da quello previsto nel testo, tanto che si sono prodotte leggi costituzionali apposite che stabilivano una procedura speciale, in deroga al dettato attuale, per modificare la Costituzione stessa. Con questa procedura si sarebbero dovute approvare le modifiche proposte dalle commissioni bicamerali, che peraltro sono tutte terminate in un nulla di fatto. Il prodotto del lavoro di queste commissioni non si è infatti quasi mai tramutato in riforme costituzionali perché, al momento di tirar le somme, non è mai stata raggiunta un’intesa, non c’è stato accordo, non si è elaborato un testo comune, con la conseguenza – che personalmente considero positiva – che queste leggi procedurali sono rimaste in buona sostanza inapplicate. Alla fine della scorsa legislatura, nel 2000, l’allora maggioranza di centro-sinistra ha commesso quello che giudico un errore gravissimo, cioè quello di tradurre parte della progettata
  • 3. riforma costituzionale predisposta dalla commissione bicamerale in un progetto di legge che ha proseguito l’iter parlamentare, giungendo fino all’approvazione. Precisamente si tratta della parte che riguarda il rapporto tra Stato, Regioni ed enti locali, il titolo V della seconda parte della Costituzione. Il punto è che mentre nella prima fase di elaborazione queste proposte di modifica del titolo V erano state studiate più o meno d’accordo tra tutte le parti politiche, convinte allo stesso modo che fosse opportuno realizzare in qualche misura un rafforzamento del tessuto regionalistico previsto nella Costituzione del ‘48 e che aveva atteso lunghi anni prima di essere realizzato (le Regioni ordinarie sono state istituite solo nel 1970), verso la fine della legislatura invece, in un clima politico che andava sempre più verso la contrapposizione, è stato commesso dall’allora maggioranza di centrosinistra quello che a me pare un errore metodologico. Poiché nel clima di scontro sempre più teso (si andava verso le elezioni) erano venute meno le condizioni per un accordo tra maggioranza e opposizione, la maggioranza di allora decise, creando in questo modo un precedente pericolosissimo, di portare avanti autonomamente, senza l’accordo con la minoranza, la riforma del titolo V della Costituzione. La legge di riforma costituzionale fu approvata con una ristretta maggioranza alla fine del 2000. Come previsto dall’articolo 138 fu richiesto il referendum, e fu richiesto sia dalla minoranza che dalla maggioranza di allora. La consultazione ebbe effettivamente luogo nell’ottobre 2001. Oggi quasi nessuno se ne ricorda, perché nell’ottobre 2001 si era distratti da altre cose. Fu quindi un referendum piuttosto snobbato dall’elettorato: pochi andarono a votare, ma di quelli la grandissima maggioranza votò “si”, e quindi questa riforma è effettivamente diventata legge costituzionale ed è entrata in vigore. La nostra Costituzione, oggi, in quella parte è dunque stata modificata dalla riforma del 2001. È fondamentale sottolineare l’errore metodologico compiuto in quell’occasione dalla maggioranza, l’avere cioè forzato l’approvazione del progetto di legge, in una situazione politica nella quale non c’era più un’intesa tra maggioranza e opposizione, con il pretesto che la riforma fosse stata elaborata insieme. Si è trattato di un errore, perché in questo modo si è aperta la strada a quello che oggi si manifesta come un fenomeno pericolosissimo, e cioè che ogni maggioranza contingente, che vince un’elezione politica, si sente in diritto o addirittura in dovere di portare avanti una riforma anche profonda della Costituzione, secondo le proprie vedute, indipendentemente dal consenso della minoranza, e senza cercare l’intesa. Di fatto è proprio quello che sta avvenendo oggi. Il 17 ottobre 2003 un progetto di riforma della seconda parte della Costituzione ben più ampio di quello che aveva modificato il titolo V, e che tocca tutta la seconda parte della Costituzione, è stato presentato al Senato – d.d.l. costituzionale n. 2544 – dal Governo. È la prima volta nella storia della Repubblica che il Governo, cioè l’espressione della maggioranza che ha il compito di portare avanti l’indirizzo politico nel corso della legislatura, si è fatto promotore di una riforma costituzionale. Sino ad allora era inteso che una riforma costituzionale, in quanto materia estranea all’indirizzo politico governativo, dovesse avvenire in Parlamento, attraverso il largo concorso delle forze politiche di maggioranza e di opposizione. La Costituzione è infatti qualcosa che riguarda tutti, è materia di tutti, e quindi non si deve modificare in base ad un programma di governo. Si può, eventualmente, modificare sulla base di un’intesa larga che superi i confini fra maggioranza e opposizione. Invece, in quell’occasione, l’ipotesi di riforma è stata presentata dal Governo, e da allora questo progetto ha proseguito il proprio iter, nelle varie e necessarie fasi di approvazione, come iniziativa della sola maggioranza di governo, tanto che oggi manca solo l’ultimo passaggio da parte del Senato, che avverrà, si prevede, sempre e solo con i voti della maggioranza. Questo è un grave errore metodologico, perché le Costituzioni non si cambiano a maggioranza. Perché cambiare a maggioranza la Costituzione non vuole dire soltanto correre il rischio di fare delle riforme che vengono contestate, ma vuol dire perdere l’idea stessa di Costituzione come tessuto di fondo che riguarda tutti e che a tutti appartiene. Tutti si debbono sentire rappresentati dalla Costituzione. Se si fa una riforma a maggioranza, la Costituzione che ne risulta sarà la Costituzione di quella
  • 4. maggioranza, e se alle elezioni successive quella maggioranza cambia e viene eletto un altro schieramento politico, quello schieramento politico si sentirà in diritto e in dovere, a sua volta, di fare la propria Costituzione. Avremmo così una successione di carte costituzionali, portate avanti da maggioranze diverse, di cui l’una contraddice l’altra, l’una smentisce l’altra, perdendo in questo modo, e irrimediabilmente, l’idea di Costituzione come casa di tutti. Al di là del merito delle singole riforme, al di là del carattere buono o cattivo di questo o quel cambiamento, questa sarebbe una gravissima perdita. Perciò credo che, sul piano metodologico, sia necessario opporsi a questo modo di pensare alla Costituzione e alle sue riforme. Le Costituzioni non sono trattabili alla stregua di una qualsiasi legge, come ad esempio la legge finanziaria, che si fa ogni anno, o come i vari provvedimenti che disciplinano argomenti diversi e che si devono continuamente aggiornare perché la società muta e di conseguenza anche le leggi sono costrette ad inseguirla. La Costituzione è qualcosa di diverso. Non può essere trattata alla stregua di una legge qualsiasi perché ha uno scopo e una natura diversi. La Costituzione non pretende di risolvere problemi contingenti. La Costituzione deve stabilire i principi di fondo destinati a restare validi al di là e nonostante il mutamento delle condizioni politiche. Perché la Costituzione indica il quadro, l’alveo entro il quale la politica può e deve cercare il cambiamento. È giusto che ogni maggioranza goda della possibilità di portare avanti il proprio disegno, ma è necessario che lo faccia rispettando dei limiti, movendosi cioè all’interno del quadro tracciato dalla Costituzione. Se dunque la Costituzione non è una legge qualsiasi, il modo in cui ci si pone di fronte ai problemi della Costituzione e del suo cambiamento non può essere lo stesso con cui ci si pone di fronte ai problemi della legislazione ordinaria. Uno degli handicap del nostro paese è l’eccessiva fiducia nella possibilità di risolvere i problemi facendo nuove leggi, dimenticando ciò che la realtà ci insegna, e cioè che molte volte la chiave non è fare nuove leggi, ma verificare come e se queste leggi vengono applicate, come si amministra, come si rende giustizia. Il nostro è un Paese afflitto da un eccesso di legislazione. Questo vizio, grave in sé, diventa gravissimo se applicato alla Costituzione. Perché il ruolo della Costituzione non è quello di inseguire la realtà, ma di presidiare ciò che nel mutamento della realtà rimane tendenzialmente costante. I problemi di riforma della Costituzione vanno dunque posti diversamente, domandandosi quali sono i problemi di fondo, osservando eventuali cambiamenti di tendenze profonde, guardando avanti, al di là delle singole legislature. Quali sono i problemi reali? Ci sono problemi reali la cui soluzione è impedita o ostacolata da qualcuna delle regole o dei principi della Costituzione in vigore? Ci sono problemi la soluzione dei quali richieda il cambiamento della Costituzione? La riforma costituzionale deve essere l’extrema ratio. È qualcosa a cui si può arrivare, perché l’articolo 138 prevede revisioni, ma solo quando si tratti di modifiche assolutamente indispensabili per rispondere a qualche problema che non si può risolvere altrimenti. E ancora, questa considerazione può non essere sufficiente. Ci si dovrebbe infatti domandare se per caso, affrontando quel problema, e risolvendolo in un determinato modo, non provochiamo dei danni collaterali più gravi, perché la Costituzione è un tessuto delicato, in cui tutto si tiene, e bisogna stare molto attenti a non cambiare un aspetto producendo delle ripercussioni negative su un altro terreno. Prima di arrivare ad un progetto di riforma costituzionale, ad un intendimento di riforma, bisogna rispondere a queste domande, e non partire dal presupposto, come purtroppo troppe volte in questi ultimi decenni è accaduto, che bisogna cambiare assolutamente. Che cosa poi si debba cambiare, e come, sembra quasi secondario, qualcosa da valutare in corso d’opera. L’atteggiamento, in tema di riforma costituzionale, deve essere invece assolutamente opposto a questo modo di procedere: il presupposto è che in linea di principio non bisogna cambiare. Se poi davvero si dimostrerà, dopo attenta riflessione, confronto e studio, che ci sono dei problemi di grande portata che non si possono risolvere se non cambiando la Costituzione, solo allora si potrà cominciare a
  • 5. valutare ipotesi di riforma tenendo conto però, al tempo stesso, anche delle possibili conseguenze negative del cambiamento. *** Fatta questa premessa, proviamo ad esaminare l’attuale progetto di riforma, che investe l’intera seconda parte della Costituzione, cioè tutta la parte che riguarda l’ordinamento della Repubblica. È interessante notare, tra l’altro, che anche dal punto di vista redazionale si è preteso di riscrivere tutta questa parte della carta costituzionale. Mi pare che dietro questa pretesa di riscrivere tutti gli articoli, dal 55 al 139, anche là dove si cambia poco o nulla della sostanza, si celi l’ambizione simbolica di voler fare a tutti i costi una “nuova Costituzione”. I punti chiave toccati dalla riforma sono quattro. In primo luogo, si ritorna sul tema dei rapporti tra Stato, Regioni ed enti locali (la cosiddetta “devoluzione”); in secondo luogo si modifica il bicameralismo, e di conseguenza la struttura e i compiti delle due Camere e i rapporti tra di loro; in terzo luogo si muta la forma di governo in senso stretto, modificando i rapporti tra Governo e Parlamento e i ruoli e le funzioni del Primo Ministro e del Presidente della Repubblica; infine si toccano alcuni aspetti degli organi di garanzia, in particolare il Consiglio Superiore della Magistratura, l’organo che è chiamato ad amministrare i magistrati, e la Corte costituzionale. Quali sono dunque le domande che dovremmo porci, secondo il metodo che indicavo prima, per valutare la riforma? Per quanto riguarda il rapporto Stato-Regioni dovremmo domandarci se è oggi necessario realizzare un ulteriore ampliamento ed un rafforzamento costituzionale delle autonomie regionali e locali, se c’è bisogno di aumentare, di rafforzare i poteri costituzionali delle Regioni e degli enti locali rispetto a quelli previsti dalla Costituzione in vigore, per realizzare un migliore assetto del nostro Paese. Vi è poi una seconda domanda alla quale dovremmo rispondere, sempre sullo stesso tema: la riforma che è stata fatta nel 2001, che è entrata in vigore e che ha profondamente modificato i rapporti tra Stato, Regioni ed enti locali, ha bisogno di modifiche, di ritocchi, di ripensamenti, ha cioè rivelato dei difetti che richiedono dei nuovi interventi costituzionali? Credo che si debba rispondere negativamente alla prima di queste due domande e positivamente alla seconda. Non c’è bisogno, oggi, in Italia, di un nuovo tessuto costituzionale, diverso da quello del 2001, che identifichi i poteri costituzionali di Stato, Regioni ed enti locali, mentre c’è, ragionevolmente, l’esigenza di qualche intervento correttivo o di chiarificazione sulla riforma realizzata frettolosamente nel 2001. Ci sono elementi concreti per rispondere negativamente alla prima domanda. Il titolo V in vigore stabilisce i rispettivi poteri di Stato, Regioni ed enti locali: dopo la riforma del 2001 c’è un elenco di materie assegnate alla potestà legislativa esclusiva dello Stato, e un elenco di materie attribuite alla potestà concorrente di Stato e Regioni, il che significa che il legislatore statale può solo dettare i principi di fondo e la legislazione corrente è compito delle Regioni; tutto il resto è di competenza delle Regioni. La rivoluzione apportata con la riforma del 2001 consiste proprio in questo, perché prima era esattamente il contrario: le Regioni erano competenti solo in alcune materie, tutto il resto era di potestà esclusiva dello Stato. È quindi evidente che l’impianto di fondo, a partire dal 2001, è fortemente improntato all’autonomia, nel senso che tutto è di competenza regionale, salvo quanto si è attribuito allo Stato. Ci sono dunque ostacoli, nell’attuale assetto costituzionale, che precludono alle Regioni di fare qualcosa che secondo noi dovrebbero poter fare? Non ho ancora sentito argomentazioni valide che diano risposta positiva a questa domanda. Anche perché la cosiddetta devoluzione, cioè quell’unica disposizione nuova che si vorrebbe introdurre nel titolo V, in realtà non aggiunge quasi niente ai poteri effettivi delle Regioni. Il comma che si vorrebbe introdurre, in un quadro in cui si confermano sostanzialmente, con poche correzioni per lo più a favore dello Stato, il quadro delle competenze attuali, introduce un piccolo elenco di materie che vengono definite di competenza esclusiva delle Regioni. Ma già dal testo attuale risulta che tutto quanto non è di competenza statale o di competenza concorrente è di competenza esclusiva delle Regioni. Di qui alcune domande: perché introdurre un comma diretto a specificare che tre o quattro materie o sottomaterie sono di competenza esclusiva delle Regioni? Sarebbero davvero
  • 6. competenze esclusive delle Regioni quelle che si vorrebbero introdurre? Cosa si aggiungerebbe rispetto alle attuali possibilità per le Regioni di legiferare e di operare in queste materie? Le materie indicate sono l’organizzazione sanitaria, l’organizzazione scolastica e la polizia amministrativa locale. Ora, in materia di sanità le regioni hanno già competenza concorrente. La riforma toglie la competenza concorrente, ma dà allo Stato in esclusiva il potere di dettare “norme generali” sulla tutela della salute. Dal punto di vista pratico, non cambierebbe granchè, perché non c’è molta differenza tra l’affidare allo Stato le norme generali e alle Regioni l’ulteriore disciplina, e lo stabilire, come nell’attuale Costituzione, che la competenza in materia di sanità sia concorrente. Per quanto riguarda l’istruzione, nell’attuale sistema è lo Stato a dettare le norme generali, e l’istruzione, salvo quella professionale che è regionale, è di competenza concorrente. La proposta di riforma mantiene la competenza concorrente in materia di istruzione, e aggiunge una competenza delle Regioni in materia di organizzazione scolastica. Di fatto non cambierebbe molto: non c’è infatti molta differenza tra l’affermare che l’istruzione è di competenza concorrente e l’affermare che la Regione si occupa dell’organizzazione scolastica, ma fermo restando che l’istruzione è di competenza concorrente e che le norme generali sull’istruzione sono stabilite dallo Stato. Ancor meno innovativa è la prevista attribuzione alle Regioni di competenza in materia di polizia amministrativa regionale e locale, competenza che sostanzialmente le Regioni già hanno. In realtà questa è una riforma-bandiera, che non introduce nessun potere reale in più, al massimo esprime un indirizzo politico di maggiore decentramento, ma appunto a livello simbolico, non dando fondamento costituzionale ad una maggiore attribuzione di poteri. Quindi, quanti sostengono che questa sia una norma pericolosa perché spacca l’Italia, esasperandone il regionalismo, nel merito commettono forse un errore perché, da un punto di vista strettamente giuridico, la proposta di riforma non muta granchè. Se invece la si considera come una norma che rivela un’intenzione, è corretto valutarla come pericolosa sul piano politico, perché le norme costituzionali non si fanno per manifestare delle intenzioni o per sbandierare una politica. Le norme costituzionali si fanno per risolvere problemi. In materia di sanità ed istruzione penso non vi sia nulla, sul piano strettamente giuridico-costituzionale, che le Regioni oggi non possano fare e che potrebbero invece fare con l’introduzione di quel comma. Ecco la ragione per la quale, se si chiede se sia necessaria oggi una riforma costituzionale che modifichi sostanzialmente i poteri di Stato e Regioni, la mia risposta è negativa: mentre è vero che il Titolo V può esigere delle correzioni, ma complessivamente marginali. C’è poi un altro aspetto che rafforza questa risposta negativa e che emerge dall’esame della giurisprudenza della Corte costituzionale. Questa ha dovuto occuparsi spesso della riforma del titolo V della Costituzione introdotta nel 2001. Il contenzioso tra Stato e Regioni è all’ordine del giorno. L’esperienza mostra che con l’entrata in vigore della riforma del 2001, che ha accresciuto enormemente sul piano costituzionale i poteri delle Regioni, sul piano della legislazione ordinaria molto meno è cambiato, perché lo Stato ha continuato a legiferare spesso con gli stessi contenuti e con lo stesso metodo di prima. Di volta in volta le Regioni hanno presentato ricorsi, la Corte costituzionale ha cercato di risolvere i conflitti, ma il modo di legiferare da parte dello Stato non è cambiato. Le leggi finanziarie, ad esempio, contengono ogni anno una serie di norme spesso analoghe a quelle che contenevano prima del 2001, norme che in alcuni casi le Regioni hanno attaccato, anche con successo. La Corte costituzionale ha dichiarato incostituzionali due disposizioni della legge finanziaria 2002, sette della finanziaria 2003, tredici, finora, della finanziaria 2004. Si assiste ad un crescendo, ciò che dimostra che nei fatti, oggi, il sistema politico del nostro paese non è molto disposto ad aprire ulteriori spazi di manovra alle Regioni; al contrario, in certi settori si prosegue con politiche di ispirazione centralistica, da parte di quello stesso Governo e di quella stessa maggioranza che oggi in Parlamento vuole approvare la cosiddetta “devoluzione”. Quella che emerge è un’evidente contraddizione di fondo. La realtà dimostra che oggi in Italia il regionalismo, sul piano costituzionale, ha tutta la forza di cui ha bisogno per svilupparsi. Non è così, invece, sul piano dell’attuazione, per esempio sul piano fiscale e delle destinazione delle
  • 7. risorse. Su questi temi la proposta di riforma però non interviene: già oggi la Costituzione prevede una maggiore autonomia finanziaria delle Regioni, che non si è ancora concretizzata perché Governo e Parlamento non vogliono attuarla o non sono in grado di farlo. È la dimostrazione che questa riforma costituzionale non è tesa a risolvere i problemi, perché in quel caso si agirebbe sul piano della legislazione ordinaria e tributaria. Invece – non volendo o non potendo intervenire in questi settori – si tende a scrivere nuove norme costituzionali, che avrebbero come unico risultato probabile un’ulteriore complicazione del sistema. Passiamo ora ad analizzare il secondo punto della riforma: il bicameralismo. C’è bisogno di cambiare la struttura bicamerale del parlamento? Qual è la ragione profonda per cambiarla? Qualcuno sostiene che ciò sia necessario per dare alle Regioni una rappresentanza al centro, cioè per far sì che in Parlamento le Regioni siano rappresentate, così come avviene in Stati ad ordinamento federale dove le entità periferiche sono rappresentate direttamente da loro esponenti nel Parlamento nazionale, e una “Camera delle Regioni” concorre con l’altra Camera nel legiferare in certe materie, così da garantire meglio che vi sia equilibrio, nella legislazione, tra centro e periferia. Questa è un’esigenza di per sé corretta: un sistema a forti autonomie può funzionare meglio se c’è un organismo centrale che rappresenta la periferia ed è quindi in grado di dialogare con gli organi centrali. La riforma non va però in questa direzione, perché in essa il Senato viene bensì battezzato “federale”, ma di federale quel Senato non avrebbe nulla: è un’assemblea politica eletta su base nazionale, seppure distintamente in ciascuna Regione, come del resto accade già oggi. I senatori, secondo il progetto, sono eletti nelle singole regioni, ma sono eletti a suffragio elettorale diretto da tutti i cittadini. Inevitabilmente dunque questo Senato cosiddetto “federale” sarebbe un’assemblea politica che vedrebbe al suo interno la stessa dialettica fra partiti che vi è nella Camera dei deputati, non un’assemblea direttamente rappresentativa delle realtà regionali, come avviene ad esempio nella seconda Camera tedesca, composta da esponenti degli esecutivi regionali. Ma c’è di più. Nel progetto di riforma si opera una distribuzione di materie, ai fini della competenza a legiferare, che, sul piano tecnico-costituzionale, sarebbe foriera di difficoltà e confusione. Si prevede che certe leggi debbano essere deliberate da una Camera e altre leggi debbano essere deliberate dal Senato, altre ancora da entrambe le assemblee. Il modo in cui si distinguono le competenze delle due Camere è però tale per cui inevitabilmente scoppierebbero quotidiani conflitti tra le due assemblee: si prevede di affidare alla Camera dei deputati il compito di legiferare nelle materie che la Costituzione, nel titolo V, attribuisce alla competenza esclusiva dello Stato, mentre sarebbero di competenza del Senato le leggi (statali) nelle materie di competenza concorrente. Riprendendo l’esempio precedente, quello dell’istruzione, si avrebbe una situazione per cui la Camera dovrebbe legiferare in tema di norme generali dell’istruzione, ed il Senato dovrebbe stabilire i principi fondamentali in materia di istruzione. Terzo punto: la forma di governo in senso stretto. A mio parere la riforma offre risposte vecchie a questioni vecchie, cioè parte dal presupposto che occorra rafforzare l’esecutivo. Nei primi anni ‘80 questa era un’affermazione corrente. Si sosteneva che in Italia vi fosse un esecutivo debole ed un Parlamento troppo forte, perché molte decisioni legislative non venivano prese dalla maggioranza e dal governo, ma venivano concordate in Parlamento attraverso il mercanteggiamento tra maggioranza e opposizione. Si sosteneva che il Governo non fosse in grado di portare avanti il proprio indirizzo perché impedito da questa modalità “consociativa” di decidere. L’idea diffusa era dunque quella di rafforzare l’esecutivo sul piano costituzionale, indebolendo conseguentemente il Parlamento. Oggi però il panorama è cambiato radicalmente: le cose stanno, per certi versi, esattamente al contrario di come, secondo molti, stavano all’inizio degli anni 80, quando si lamentava il fatto che il Governo fosse debole e che non riuscisse a portare avanti la propria azione politica in un sistema politico “consociativo”. Oggi, al contrario, il Governo porta avanti il proprio indirizzo attraverso la propria maggioranza e in un rapporto esclusivamente di contrapposizione aprioristica con l’opposizione. Altro che consociativismo! Oggi il Parlamento sembra funzionare solo come macchina per votare. L’iter con il quale si giunge oggi all’approvazione di leggi legge importanti è significativo: il
  • 8. Governo propone i provvedimenti che ha intenzione di assumere (ad esempio il progetto di legge finanziaria). Successivamente concorda con la propria maggioranza le modifiche da apportare al progetto. Una volta trovata l’intesa il Governo presenta in Parlamento un cosiddetto “maxiemendamento”, cioè un unico emendamento in cui si raccolgono tutte o molte delle modifiche al disegno di legge (e si tratta di modifiche spesso di tale portata da rendere il progetto molto diverso da quello presentato all’inizio); a questo punto si sottopone il “maxiemendamento”, inserito in un unico articolo, ad un unico voto, ricorrendo alla questione di fiducia che esclude l’esame di ogni altro emendamento. Ciò dimostra che la risposta tesa a rafforzare l’esecutivo è una risposta vecchia, ed è una risposta sbagliata perché va in direzione persino opposta rispetto a quella in cui si dovrebbe andare. Nella Costituzione attuale il Presidente del Consiglio dei ministri è espressione della maggioranza parlamentare ed è colui che dirige – recita così l’articolo 95 della Costituzione – la politica generale del governo e ne è responsabile, fino a quando goda della fiducia della maggioranza; quando non gode più della fiducia della maggioranza non ha più il diritto di portare avanti l’indirizzo politico del suo Governo ed è quindi costretto passare la mano. Da questo punto di vista il progetto di riforma compie un’operazione di grande portata, perché mira a configurare il Primo Ministro non più come l’espressione della maggioranza, incaricato di dirigere la politica generale del governo fino a quando è sorretto dal consenso della stessa, ma come una figura politica legittimata indipendentemente dalla sua stessa maggioranza, eletto in sostanza direttamente dal popolo, e autorizzato a controllare la sua maggioranza, ad impedire alla sua stessa maggioranza di ostacolare la propria azione. L’ “arma assoluta” di cui verrebbe a disporre è lo scioglimento della Camera. Se la maggioranza si oppone al Premier, questi potrebbe imporre lo scioglimento della Camera; se il Premier si dimette, automaticamente la Camera sarebbe sciolta. Lo scioglimento potrebbe essere evitato solo se la Camera riuscisse entro un breve termine a designare un nuovo Primo Ministro nell’ambito della stessa maggioranza originaria. Ci sarebbe dunque un rapporto di simbiosi tra Premier e maggioranza, ma è una simbiosi in cui la legittimazione politica più forte apparterrebbe al Premier perché questi è uno solo, eletto sostanzialmente in modo diretto, e quindi potrebbe considerarsi espressione preminente della volontà popolare, al di sopra dei partiti e della sua stessa maggioranza, la quale sarebbe sotto il suo controllo. Si tratta di uno stravolgimento radicale, sul piano costituzionale, perché va a toccare il tema centrale della legittimazione: in democrazia la massima legittimazione investe chi può vantare di esprimere meglio la volontà popolare. Nel sistema costituzionale vigente, il ruolo di massima espressione della volontà popolare spetta al Parlamento: si tratta quindi di un’espressione collettiva. Domani – secondo il progetto di riforma – esso spetterebbe ad un organo monocratico. Questo è il corto circuito tipico delle democrazie autoritarie, dove la democrazia è cioè intesa come l’investitura periodica di una sola persona. L’operazione che sta dietro alla riforma è dunque il tentativo di personalizzare la democrazia, con la pericolosa conseguenza di allontanare il nostro sistema dalla tradizione del costituzionalismo occidentale e in particolare del costituzionalismo europeo, che non è basato su legittimazioni personali, ma su legittimazioni collettive, attraverso le assemblee e i partiti. Anche il paragone con il presidenzialismo americano, invocato da alcuni, non regge. Il Presidente degli Stati Uniti è certamente un organo monocratico ed è eletto direttamente dal popolo, e quindi gode di una sua legittimazione autonoma, ma incontra dei contropoteri molto forti nel Parlamento, rispetto al quale egli non ha i poteri tipici del Governo parlamentare, “comitato direttivo” della maggioranza. Avvenimenti anche recenti dimostrano che il sistema della cosiddetta bilancia dei poteri è in grado di dare garanzie importanti. Nel nostro progetto invece il Premier avrebbe anche i poteri, nei riguardi della Camera, tipici del Governo parlamentare. Ultimo punto, gli organi di garanzia: Consiglio Superiore della magistratura e Corte costituzionale. Ancora una volta è necessario domandarsi se vi sia realmente bisogno di una riforma
  • 9. degli organi di garanzia, e perché sarebbe necessario modificarli, dal momento che intervenire sugli organi di garanzia significa sempre indebolire o rafforzare le garanzie del sistema. Accenno solo al tema della Corte costituzionale. Nel caso della Corte costituzionale, la sua indipendenza dal Governo, dalla maggioranza, dai partiti è una garanzia fondamentale perché la Costituzione possa essere difesa. Ora, il progetto di riforma va invece a toccare anche le modalità di nomina dei giudici della Corte costituzionale. Attualmente i giudici, che sono quindici, sono nominati per un terzo dal Parlamento con una elevata maggioranza, per un terzo dal Capo dello stato e per un terzo dalle supreme magistrature. La riforma prevede che i membri eletti dal Parlamento passino da cinque a sette (quattro eletti dal Senato e tre dalla Camera), quelli nominati dal Capo dello stato da cinque a quattro, così come quelli eletti dalle magistrature. Mentre oggi abbiamo un equilibrio paritario – 5,5,5 – la riforma prevede una netta alterazione dell’equilibrio a favore dei membri eletti dal Parlamento. Si tenta di giustificare la riforma sostenendo che è necessario dare voce alle Regioni all’interno della Corte costituzionale. Ma è in realtà un argomento infondato, poiché i membri eletti dal Parlamento – anche quelli eletti dal cosiddetto Senato federale – sarebbero sempre espressi da assemblee politiche nazionali, e quindi designati dai partiti. In realtà, l’effetto della riforma sarebbe dunque quello di alterare il delicato equilibrio dell’attuale composizione, favorendo all’interno della Corte costituzionale una maggiore presenza di esponenti direttamente designati dai partiti. La Corte costituzionale non è un organismo che vive fuori dal mondo politico, ed è sensibile anche alle ragioni della politica. Al tempo stesso, però, deve essere in grado di preservare la propria totale indipendenza rispetto alle vicende politiche e alle maggioranze contingenti. Alterare l’equilibrio delle fonti di nomina, di fatto, avrebbe come effetto quello di indebolire la Corte costituzionale sotto il profilo del necessario distacco dalla politica contingente, perché l’aumento del numero di membri designati dal Parlamento e quindi dai partiti tenderebbe ad accrescere l’influenza delle ragioni legate al dibattito politico quotidiano e quindi, in definitiva, ad indebolire le garanzie. È dunque chiaro che la riforma non porterebbe ad un rafforzamento delle garanzie – cosa che invece oggi sarebbe utile, perché viviamo in un clima in cui, essendo la politica più conflittuale di prima, è più che mai necessario che vi siano garanzie fuori dalla politica e nei confronti della politica –, ma si muoverebbe in senso opposto.