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IL NUOVO VOLTO DELL’ITALIA REPUBBLICANA
                             I MUTAMENTI DEL COSTUME

                                           di Simona Colarizi


Testo della lezione presentata dall'autrice nell'ambito del Ciclo di lezioni svoltosi a Bergamo dal 3
novembre al 7 dicembre, derivato dal convegno “La Costituzione della Repubblica italiana. Le
radici, il cammino”, svoltosi a Bergamo il 28 e 29 ottobre 2005.
Pubblicata in “Studi e ricerche di storia contemporanea”, 2007 – Fasc. 68 – pp.149 - 161.


Vorrei iniziare queste riflessioni partendo dalla fine, quando il ciclo di mutamento, iniziato nel
secondo dopoguerra lentamente, quasi in sordina, per poi accelerasi col boom economico, arriva al
suo culmine sul finire degli anni Sessanta. Il filo di continuità che lega questo intero processo
durato circa quindici anni autorizza una lettura a ritroso, perché l’esplosione del 1968 rappresenta
un crinale, la conclusione di una fase e il punto di inizio di un’altra stagione. Nel riflettere sul
fenomeno della contestazione sessantottina, si è sempre sottolineato l'allargarsi della forbice tra
società politica e società civile, vale a dire la crisi di rappresentanza di un ceto politico che appare
incapace di recepire inquietudini e domande del paese in movimento accelerato. Naturalmente
questa frattura non è poi così vistosa, se si assumono come indicatori i risultati elettorali, con
particolare attenzione ai due grandi partiti di massa la Dc e il Pci: nel 1968 non c’è alcun terremoto
politico; anzi, i cattolici recuperano consensi e i comunisti confermano la tendenza alla crescita. Se
poi ci si spinge fino alla elezioni politiche del 1972, le oscillazioni si limitano solo a qualche
frazione di punto - uno 0,4% in meno per i cattolici, uno 0,3% in più per i comunisti. Neppure la
crescita straordinaria del movimento sociale che raggiunge il suo massimo storico, l'8,7%, può
essere valutata come un dato allarmante di un umore anti-sistema; in fondo, una fase di disordine
così accentuato, come quello vissuto in Italia dal 1968 al 1972, è logico generasse un moto di
reazione e quindi un voto di protesta da parte dell'elettorato conservatore e persino moderato. E,
tuttavia, la frattura società civile-società politica c'è e ha conseguenze immediate sul sistema
politico dove, già a partire dal 1972, i governi di centrosinistra si avviano definitivamente al
tramonto.

E' questa la spia di un malessere crescente, perché proprio l'alleanza tra cattolici e socialisti era stata
la risposta politica alla grande svolta del 1960 e, a mio giudizio, pur nei limiti inevitabili, una
risposta politica coraggiosa, in armonia con le istanze di cambiamento emerse dal paese in pieno
sviluppo. Anzi; se si considera l'intera storia del sistema politico italiano, il centrosinistra è ancora
un momento di vitalità, di dinamismo delle forze politiche, capaci di rimettersi in discussione e di
elaborare un progetto riformista sul quale, in un certo senso, si è continuato a vivere di rendita nei
vent'anni successivi. Il che dimostra che i partiti sono stati in grado di interpretare il mutamento,
come del resto emerge chiaramente dal lungo dibattito preparatorio del nuovo equilibrio
governativo, un dibattito di livello così notevole da attirare l'attenzione persino degli osservatori
europei. In nessuna altra epoca della storia repubblicana, ad eccezione naturalmente della fase
costituente, il ceto politico ha mostrato altrettanto impegno e acutezza nel leggere la realtà e
proporre soluzioni adeguate. Detto questo, però, va spiegata la rapidità con cui si consuma la spinta
innovativa del centrosinistra – dopo solo quattro-cinque anni dalla sua nascita – e si innesca un
processo di divaricazione profonda con la società civile. A mio giudizio, una delle ragioni sta in un
limite di fondo della classe politica italiana, o per lo meno delle forze politiche maggioritarie del
sistema, incapaci di rispondere al complessivo cambiamento di scenario che investe naturalmente i
rapporti economici e sociali, ma stravolge anche il vivere civile, i comportamenti individuali e
collettivi, i parametri culturali dell'intero paese. In estrema sintesi si potrebbe dire che i partiti
riescono a cogliere i processi di trasformazione economica e sociale in atto nell'Italia del boom;
affannano invece a comprendere lo straordinario cambiamento del costume di cui lo sviluppo è
portatore e, soprattutto, non appaiono in grado di adeguare le proprie strutture e di ricercare una
nuova identità più armonica alle istanze e alle aspettative dei cittadini.




                                                    1
Se si accetta la definizione del 1968 come "rivoluzione del costume" – unico tipo di rivoluzione
possibile in Italia, secondo Bobbio – allora diventa logico che in questa fase di radicale
contestazione la parte più avanzata della società, in particolare i giovani e le donne, non si senta
rappresentata dai partiti e anzi manifesti un'insofferenza visibile nei confronti dei tradizionali
referenti politici. E quando si parla di giovani e donne si deve tenere conto che si tratta proprio dei
nuovi soggetti politici saliti sulla scena a partire appunto dagli anni Sessanta. Questo inedito
protagonismo, risultato appariscente della travolgente ondata di cambiamento del costume, si
determina malgrado l’ostilità delle due forze politiche dominanti il sistema, incapaci di
comprenderlo e, per molti versi, impegnate a frenarlo. Per quanto riguarda la Dc, il partito egemone
del sistema, basterebbe ripercorrere la storia della censura in Italia dagli anni Cinquanta agli anni
Settanta e oltre, per rendersi conto quanto siano pesanti gli interventi per soffocare la libertà di
espressione; così come è sufficiente dare uno sguardo alla storia della sessualità – del resto
strettamente connessa a quella della censura – per capire quali fossero le reazioni di fronte
all'avanzare di comportamenti trasgressivi della morale dominante. E, naturalmente, il sorprendente
permanere in Italia dei codici fascisti nonostante il passare degli anni – più di venti nel 1963 e più di
trenta nel '73 – è significativo di quanto lo strumento giudiziario fosse funzionale a far da freno alla
modernizzazione di valori e comportamenti che si modificano contemporaneamente all’omologarsi
dell’economia italiana all’Occidente avanzato.

L’ingresso improvviso dell’Italia nell’era dei consumi ha certo provocato un disorientamento
comprensibile nel ceto politico che, però, pur con timidezze e non poche contraddizioni si va
attrezzando – anche sul piano politico – a gestire lo sviluppo. Come si è detto, il dibattito
preparatorio del centrosinistra mostra uno sforzo di comprensione del nuovo e una capacità di
servirsi di strumenti conoscitivi ancora abbastanza estranei alla cultura italiana da parte di tutte le
famiglie politico-intellettuali, dai cattolici ai laici ai socialisti e persino ai comunisti, inizialmente in
maggiore ritardo nell’interpretare la mutazione del capitalismo. La storiografia, che si è arricchita in
questi ultimi anni di una solida saggistica sul miracolo economico italiano e sul Welfare State 1,
consente di seguire le tappe di un dibattito assai ricco, in cui i temi in discussione nel mondo hanno
un’eco profonda anche in Italia dove vengono ripresi e legati alle specificità del paese in termini
non banali. Tuttavia proprio dall’analisi di questa stagione cultural-politica si intravede una
discrasia significativa tra due piani, quello economico-sociale e quello del costume e dei valori.
Benessere e consumi, alla fine, acquistano piena cittadinanza; anzi, diventano l’asse su cui si misura
la legittimità dei governi di centrosinistra, accettati proprio in quanto fondativi del Welfare e capaci
di assicurare benessere. Emblematica la frase del ministro del Tesoro, il democristiano Medici, che
nel 1957 così sintetizza il programma dell’esecutivo guidato dalla Dc: “Benessere per tutti nella
libertà: in ciò sta la realizzazione della vera democrazia”2. Il cambiamento del costume che
presuppone l’affermarsi di nuovi valori, suscita invece diffidenze e ostilità. In un certa misura i
consumi, accettati in quanto portatori di benessere, motori dello sviluppo economico, sono criticati,
se non demonizzati, in quanto eversori di un ordine valoriale e comportamentale tradizionale di cui
i partiti si sentono i legittimi custodi. Per la Dc vale in gran parte lo stesso discorso che porta la
Chiesa a opporre un muro di resistenze alla modernità che avanza, distruttiva del patrimonio morale
ed etico della cattolicità. L’ostilità di principio del partito comunista, che in teoria presenta una
visione alternativa della società, anzi si propone come alfiere di una diversa “civiltà”, nasce invece
dalla percezione di un cambiamento indirizzato verso il modello del “nemico”, quell’ american way
of life , trionfante anche nell’Occidente europeo e con una forza di penetrazione tale da intaccare
persino il mondo sovietico dopo l’arrivo al Kremlino di Kruscev 3.


1
  Crf. tra i lavori pubblicati negli ultimi quindici anni, V.ZAMAGNI, Dalla periferia al centro. Il secondo rinascimento
economico italiano, Il Mulino, Bologna, 1990; G. CRAINZ, Storia del miracolo economico italiano Culture, identità,
trasformazioni fra anni Cinquanta e Sessanta, Donzelli, Roma, 1996; G. NARDOZZI, Miracolo e declino, Laterza,
Roma-Bari, 2004.
2
  La frase è citata nel paper di M. MACCAFERRI, Un gruppo di intellettuali italiani fra società opulenta e democrazia
del benessere. “Il Mulino” 1958-1968, presentato al Convegno della Sissco, Bologna, 22-24 ottobre 2005.
3
  Da qui la distinzione continua nel descrivere il benessere in Urss tra l’espandersi dei consumi e modelli di
comportamento rimasti aderenti all’ideologia comunista. Cfr. S. GUNDLE, I comunisti italiani fra Holliwood e Mosca.
La sfida della cultura di massa (1943-1991), Giunti, Firenze, 1995; P. P. D’ATTORRE (a cura di), Nemici per la pelle.
Sogno americano e mito sovietico nell’Italia contemporanea, Angeli, Milano, 1991.




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Chi, come me, insegna la storia della Repubblica alle giovani matricole, si sarà reso conto dello
stupore quasi incredulo degli studenti quando ascoltano il racconto dell'Italia quotidiana negli anni
Cinquanta e Sessanta. Se ci fermiamo solo per un attimo a considerare la moralità sessuale e le
norme che la regolano, sembra di venire proiettati nel medioevo: le cronache rosa che appassionano
i lettori delle riviste illustrate portano alla ribalta i drammi coniugali e gli amori “impossibili” di
Sophia Loren e Carlo Ponti, della Bergman e Rossellini, di Fausto Coppi e della "dama bianca",
arrestata e incarcerata, per adulterio, per parlare solo delle vicende dei personaggi famosi. Nel 1957,
il caso del Vescovo di Prato che definisce “pubblici concubini” una coppia sposata con rito civile, è
significativo del ruolo rivendicato dalla Chiesa nell’imporre i codici comportamentali. Una lettura
del libro di Gabriella Parca, Le italiane si confessano, uscito nel 1959 solleva il velo sulla vita
quotidiana di donne qualunque, oppresse da costumi familiari e sessuali non così lontani da quelli
che ancora oggi si registrano in alcuni paesi islamici o in società rimaste ferme a un’economia
agricola di sussistenza o governate da costumi tribali. Ma se andiamo un po’ più avanti nel tempo
fino al 1966 (alla soglia dunque del 1968), ci troviamo davanti due fatti di cronaca emblematici: il
caso della "Zanzara" e quello di Franca Viola. L'inchiesta sulla sessualità promossa dal giornalino
scolastico del Liceo Parini di Milano che provoca la denuncia e il processo degli studenti
responsabili dell'iniziativa, con tutta una serie di risvolti incredibili-risibili – compresa la visita
medica per accertare l'assenza di malattie veneree; la denuncia di Franca Viola contro il fidanzato
che, dopo averla rapita e stuprata, le aveva offerto generosamente il matrimonio riparatore, rifiutato
chissà per quali oscure ragioni dalla ragazza non più illibata. Certo il segno che qualcosa sta
cambiando lo danno non solo gli studenti del Parini e la giovane siciliana, ma anche la grande
stampa nazionale che non è più così unanime nella condanna di chi viola i codici dell'etica e della
morale tradizionale4. Eppure, il ceto politico è ancora troppo lento nell'agire: ci vuole la spallata del
'68, appunto, perché la Corte Costituzionale deliberi che concubinato e adulterio non sono più reati
perseguibili dal codice penale; e ci vogliono 4 anni di scontri, perché in Italia sia finalmente
accettata la legge sul divorzio, votata nel 1970 – e, per altro, immediatamente sottoposta a
referendum abrogativo. Quanto all'omosessualità, basta solo ricordare il caso del professore di
filosofia Braibanti, condannato a nove anni di reclusione con l'accusa di aver plagiato due studenti.

Alla repressione della sessualità si legano direttamente o indirettamente tutti gli altri aspetti del
cambiamento nei costumi che vengono censurati o addirittura demonizzati: dalla moda ai
comportamenti, fino appunto alla cultura e ai nuovi mezzi di comunicazione che si fanno portatori e
interpreti del nuovo, tutte le espressioni della modernità nei costumi vengono respinte. E, come è
ovvio, la polemica più dura si riversa contro il mondo dei giovani, i primi a percorrere con
entusiasmo la via della modernizzazione. E' significativo l'accanimento contro la moda dei giovani
fin dal suo primo apparire nella seconda metà degli anni Cinquanta – la moda causual, il jeans, la
maglietta a righe – e pensiamo ai ragazzi con le magliette a strisce che compaiono nei cortei contro
il governo Tambroni nel 1960 – per non parlare del giubbotto di pelle, del maglione al posto della
giacca, dell'eliminazione della cravatta o del dilagare tra le ragazze dell'uso quotidiano dei
pantaloni, fino a quel momento consentiti solo, e con cautela, per fare sport. Un accanimento che
continua e si accentua nel periodo successivo, anche per l'evidente fallimento della battaglia contro.
Così quando arrivano le mini gonne, i capelli lunghi per i ragazzi, i due pezzi al mare, ecc. si alzano
altre inutili barricate, anche perché la moda è solo la facciata di un mutamento dei comportamenti
giovanili che fanno da avanguardia ad altrettanto rivoluzionari comportamenti degli adulti. Il paese
si va modernizzando, a prescindere e contro la volontà politica dei governanti5. Resistere al nuovo
era stato difficile persino per la dittatura fascista che per di più ha dominato in un periodo in cui,
dopo la grande crisi del 1929, un vento autarchico spirava in tutto il mondo. Malgrado il fascismo,
malgrado le sue parole d'ordine e il monopolio dei mezzi di propaganda, l'Italia si era trasformata
negli anni Trenta e Quaranta. E, naturalmente, si continuerà a trasformare negli anni Cinquanta e


4
  Sui consumi come motori del cambiamento dei costumi in Italia, già negli anni Sessanta erano stati pubblicati due
lavori a tutt’oggi di grande interesse: F. ALBERONI, Consumi e società, Il Mulino, Bologna 1964 e P. LUZZATO
FEGIZ, Il volto sconosciuto dell’Italia. Seconda serie: 1956-1965, Giuffrè, Milano, 1966. Per una più recente
riflessione a più voci, cfr. P. CAPUZZO (a cura di), Genere, generazioni e consumi. L’Italia degli anni Sessanta,
Roma, Carocci, 2003.
5
  E. SCARPELLINI, People of Plenty: consumi e consumismo come fattori di identità nella società italiana, in P.
CAPUZZO (a cura di), Genere, generazioni e consumi. L’Italia degli anni Sessanta, cit.




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Sessanta, nonostante gli sforzi dei partiti che si oppongono con maggiore o minore forza a questa
rivoluzione del costume.

La questione da discutere, però, non è quanto lento sia il processo di modernizzazione del paese o
quali contraddizioni la lentezza del processo di modernizzazione comporti. E' evidente che in un
paese dove è forza egemone un partito cattolico organico alla Chiesa, la resistenza al nuovo,
all'omologazione dei costumi, dei comportamenti, della cultura ai modelli dell'Occidente
industrializzato, sia più lenta che altrove e incontri forti ostacoli, tanto più che – e lo si è appena
ricordato – l'Italia si affaccia agli anni Cinquanta dopo vent'anni di regime fascista, durante i quali la
dittatura ha sempre ostacolato e demonizzato l'influenza straniera, sia quando si proponeva nelle
vesti di regime autoritario fondato sul trinomio Dio-patria-famiglia, sia quando ha tentato il salto
totalitario. La questione che ho posto all'inizio è un'altra: quanto cioè ha influito la incomprensione,
la sottovalutazione o tout court la resistenza alla modernizzazione da parte di più del 70% della
classe dirigente nell'indebolimento del sistema politico stesso, nella divaricazione tra governati e
governanti che hanno cercato di mantenere in stato di minorità gli italiani il più a lungo possibile,
nella convinzione di quanto fosse più agevole governare il paese, conservando inalterate regole e
leggi del passato. Dal momento però che non si può contrastare più di tanto il processo di
maturazione in atto, viene spontaneo chiedersi perché i partiti rifiutino così a lungo di adeguare se
stessi e le istituzioni al cambiamento; perché farsi sopravanzare dalla società civile al punto di
perderne il controllo e di dover poi affannosamente cercare di inseguirla?

Naturalmente, gli imputati in questa sorta di processo sono la Dc e il Pci – in misura maggiore il
Pci, l'avversario storico della Dc che si affianca ai cattolici nella lotta contro la modernità, anche se
usa altri registri. Un partito comunista “antimoderno” potrebbe apparire un’affermazione
“sacrilega” se si considera che anche la storiografia più recente e più critica, pur ammettendo il
ritardo dei comunisti nella comprensione del boom economico, attribuisce al Pci il ruolo di “agente
di modernizzazione” nella società italiana6. Si tratta – come è intuibile – di intendersi sul significato
che si attribuisce al concetto di modernizzazione, in questo caso riferito all’ambito del cambiamento
del costume, conseguenza diretta dello sviluppo economico. L’incertezza e la reticenza dei
comunisti di fronte all’affermarsi dei consumi come motore del nuovo benessere si proietta in una
evidente ostilità ad accettare le conseguenze di questa rivoluzione in termini di comportamenti e di
valori; così anche quando viene meno l’avversione di principio al nuovo corso economico – una
battaglia “senza speranza”, come la definisce Sassoon7 – il rifiuto e le resistenze si concentrano sulle
conseguenze nefaste che il neo-capitalismo produce nell’esistenza e nell’immaginario degli italiani8.
Già alla fine dei Cinquanta e per tutti i Sessanta, gli interventi politici e più in generale la
produzione culturale dell’intellighentia di sinistra, sotto la diretta influenza del Pci, sono intessuti di
grida d’allarme sugli effetti nefasti dello sviluppo e dei consumi. Non è certo un’invenzione l’altra
faccia del boom, quella della grande emigrazione, dello sradicamento dalle campagne,
dell’affollarsi nelle città inospitali del Nord, della desertificazione del Sud, tutti elementi che non
solo hanno un reale costo economico e sociale, ma producono anche una profonda sofferenza
esistenziale. La denuncia di questi disagi finisce però col diventare così prevalente da soffocare gli
altrettanti fattori di liberazione e di crescita di cui il benessere e i consumi sono portatori. Di più; tra
le righe di questa insistita invettiva contro il nuovo volto dell’Italia non può non leggersi un
rimpianto – e quindi una valorizzazione – di un ordine di vita che è stato scardinato, “violentato”,
dall’imporsi di un modello estraneo e contrario ai costumi, ai valori, all’etica degli italiani.
6
  E. TAVIANI, Il Pci nella società dei consumi, in R. GUALTIERI (a cura di), Il Pci nell’Italia repubblicana 1943-
1991, Carocci, Roma 2001, p.293. Taviani fa riferimento a i lavori di G. GOZZINI, R. MARTINELLI, Storia del
partito comunista italiano. Dall’attentato a Togliatti all’VIII Congresso, Einaudi, Torino 1998; M. FLORES, N.
GALLERANO, Sul Pci. Un’interpretazione storica, Il Mulino, Bologna 1992; A. AGOSTI, Storia del Pci, Laterza,
Roma-Bari, 1999.
7
  Sasson paragona la battaglia delle sinistre contro la società dei consumi a quella “dei luddisti del passato contro le
macchine”. D. SASSOON, Cento anni di socialismo. La sinistra nell’Europa occidentale del XX secolo, Editori Riuniti,
Roma, 1997, p. 217.
8
  Lo riconosce indirettamente anche Gallerano quando sostiene l’azione modernizzatrice del Pci che guida nelle regioni
rosse – in particolare in Emilia – il passaggio dalla società agricola a una società a industrializzazione diffusa. Proprio
qui il Pci finisce per trovarsi in contraddizione con se stesso perché queste zone si rivelarono le “più permeabili
all’edonismo consumistico del ‘neocapitalismo’”. M. FLORES, G. GALLERANO, Sul Pci. Cit., p.226. La cit. è ripresa
anche da E. TAVIANI, Il Pci nella società dei consumi, cit., p. 293.




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L’immagine idealizzata di un mondo agricolo che scompare diventa un richiamo accorato a
un’epoca felice, dalla quale sono però state espunte tutte le componenti scomode: il silenzio
angoscioso, l’oscurità, l’assenza di contatti umani, l’autoritarismo, la violenza della famiglia
patriarcale claustrofobica, la condanna a vita di un lavoro duro che accomuna esseri umani e
animali, la sporcizia, l’ignoranza, le prevaricazioni sessuali, gli incesti, gli stupri. La bellezza dei
campi, la gioia di veder crescere e maturare i frutti della fatica, l’armonia degli affetti familiari, il
contatto rigenerante uomo-natura, lo scandire del giorno e della notte secondo il ciclo del sole e
delle stelle, le incantevoli “lucciole” pasoliniane che mandano sprazzi di luce nelle tenebre, il pane
bianco e fragrante che le donne tolgono dal forno per presentarlo sulla tavola dove siedono solo gli
uomini in attesa di venire amorosamente serviti, che cosa sono se non una laudatio temporis acti,
un recupero dei valori ai quali si dovrebbe conformare l’individuo e la collettività? Non basta
aggiungere l’impegno politico e la fede nel comunismo che avrebbero perfezionato questo mondo
idealizzato, per scardinare l’intero impianto di questa visione. Del resto, speculare è la descrizione-
demonizzazione della città, luogo di corruzione, di miseria morale, di vicoli bui, di quartieri
malfamati, di squallide e sporche periferie, di aria inquinata, di un sole eclissato dai “casermoni” e
addirittura dai grattacieli, degli alberi scomparsi e sostituiti con foreste di antenne televisive e,
soprattutto, di una folla di uomini e donne abbagliati dal dio denaro, avidi di piaceri, pronti a
prostituirsi – come racconta l’epopea di Rocco e i suoi fratelli, ma anche La dolce vita, capolavori di
una splendida stagione cinematografica che così bene riflette la sofferenza sempre implicita nelle
fasi di accelerata trasformazione.

Manca però la lettura e soprattutto l’accettazione di quanto di nuovo sta nascendo da questa
sofferenza e al di là di questa sofferenza. E non stupisce questo vuoto se si considera quale fosse il
conformismo imperante nel Pci comunista fin da quando, nell'immediato dopoguerra, abbandonati
gli schemi del bolscevismo originario, si organizza come partito di integrazione di massa. Una
prima traccia è offerta dalla memorialistica dei militanti, in particolare delle donne, che ricordano le
ferree e minuziose regole di comportamento e di morale del buon comunista: il buon comunista si
sposava, procreava figli legittimi, conduceva un'esistenza austera e ordinata, dedicata
esclusivamente al lavoro, alla famiglia, al partito. Ogni deviazione era mal tollerata; persino quella
del leader massimo che conviveva more uxorio con la compagna Nilde Jotti, pur avendo un'altra
legittima moglie. Togliatti e la Jotti pagavano cara questa trasgressione con un controllo esasperante
sulla loro esistenza privata che solo una grande fede e una grande disciplina consentivano
probabilmente di sopportare. Tutti gli altri trasgressori imparavano presto sulla propria pelle, con
emarginazione e censure, che cosa costasse uscire dai binari della morale corrente: lo sapevano
bene gli intellettuali sregolati – e basta ricordare il caso di Pasolini e il suo tormentatissimo rapporto
con il Pci; lo sapevano le donne del Pci che inghiottivano in silenzio soprusi e umiliazioni. Ma
nonostante il passare degli anni i comunisti modificano i loro atteggiamenti con una lentezza
esasperante, come testimonia una saggistica che negli ultimi anni, dopo la fine del comunismo, ha
cominciato a indagare anche su questo aspetto della storia del Pci9.

Soprattutto la spinta al rinnovamento non viene da loro, ma da altri settori minoritari del mondo
politico. Il partito di opposizione, rappresentante più del 25% dell'elettorato, non è il protagonista
della grande battaglia a favore del divorzio che di sicuro segna in Italia una tappa fondamentale
nella definizione di nuovi codici morali e di nuovi valori. Il progetto di legge sullo scioglimento dei
matrimoni porta la firma di un socialista e di un liberale, Fortuna e Baslini, ed è soprattutto grazie
alla mobilitazione del piccolo gruppo dei radicali che il confronto in Parlamento riesce ad avere una
forte eco e il sostegno della società civile. Persino quando, varata la nuova normativa nel 1970, si
apre la campagna per il referendum abrogativo chiesto dai cattolici, persino in quel momento il Pci
esita a impegnarsi nella lotta, sperando con una attenuazione delle norme di arrivare a un accordo
indolore con la Dc. La Dc per parte sua è talmente cieca di fronte alla nuova società da non dubitare
neppure che il risultato referendario possa smentire le aspettative di una vittoria travolgente del
paese cattolico contro il Parlamento laico. Solo una piccola pattuglia di cattolici per il no, schierati a
favore del divorzio, si rende invece conto a quale sconfitta vada incontro la Dc; ma non a caso si
tratta di cattolici per così dire "esterni" alla democrazia cristiana che vivono più direttamente a

9
 Cfr. C. MARINO, Autoritratto del Pci staliniano 1946-1953, Editori Riuniti, Roma, 1991; S. BELLASAI, La morale
comunista. Pubblico e privato nella rappresentazione del Pci (1947-1956), Carocci, Roma, 2000.




                                                       5
contatto con la società civile; intellettuali che colgono i processi di trasformazione, la laicizzazione
in atto o, per usare il termine di Lanaro, in questo caso sicuramente più calzante, la
scristianizzazione in atto10. Per quanto la prospettiva di impegnarsi in uno scontro referendario con
la Dc non piaccia al Pci, pur tuttavia i comunisti si trovano a un certo punto costretti a cavalcare la
battaglia anche per quanto sta avvenendo al loro interno. Il '68 ha avuto un effetto dirompente nel
corpo del partito che ha visto letteralmente saltare in aria tutta la struttura delle sue organizzazioni
giovanili, travolte dall'ondata della contestazione. Malgrado le cautele dei vertici, il segnale delle
elezioni politiche del '72 è un campanello d'allarme: il lievissimo, quasi impercettibile aumento dei
consensi – un +0,3% – rappresenta una sconfitta, cioè una battuta d'arresto in un processo di crescita
ininterrotta, praticamente dal '46 in poi. Il Pci rischia di perdere il contatto con i soggetti politici
nuovi, i giovani e le donne, se non intraprende la strada del rinnovamento del costume che passa
appunto per le lotte sui diritti civili, per lo smantellamento della legislazione fascista, per
l’affermazione di libertà individuali, vale a dire per la strada della modernizzazione dei costumi.

A spiegare il conformismo comunista si è in genere fatto ricorso a una serie di considerazioni che
hanno fondamento, anche se spiegano solo una parte del problema. Si è detto che trovandosi ad
operare in un paese a stragrande maggioranza cattolica, il Pci si muove con la massima cautela sul
terreno della morale e del costume, un terreno dominato dalla Chiesa e quindi sul quale una presa di
posizione altra è di per sé minoritaria, ben più minoritaria di quanto non sia la stessa rappresentanza
politica, per lo meno nel 1945. Toccare insomma il cleavage confessionale non conviene ai
comunisti: nel momento in cui nel 1944 dal partito di avanguardie si è passati al modello del partito
di integrazione, appare chiaro che il Pci apre le porte a una massa di iscritti di religione cattolica.
(Del resto il nuovo statuto del partito sottolinea che non c'è alcuna incompatibilità tra l'essere
comunisti e professare una propria religione). Mettere il popolo comunista di fronte a una scelta tra
la fede e l'appartenenza politica è quanto i vertici del Pci si impegnano a evitare con grande cura, fin
dal famoso voto sull'articolo 7 della Costituzione. A queste considerazioni si aggiunge, a partire dal
'47, con lo scoppio della guerra fredda e la polarizzazione del sistema, spaccato tra comunisti e
anticomunisti, la preoccupazione di non fornire ulteriori armi alla propaganda avversaria che del
resto, nei toni esasperati del '48, rappresenta i comunisti come i senza Dio, gli atei, i corruttori dei
giovani e i sovvertitori dei valori morali e religiosi. La Russia è dipinta dalla stampa cattolica come
il paese del divorzio e del libero amore, dei figli illegittimi e delle ragazze madri; ed è interessante
sottolineare che la stampa comunista presenta invece l'Unione Sovietica come il paese più
conformista del mondo. Il mito sovietico non certo come mito rivoluzionario, al contrario un mito
di ordine e di conformismo11.

Sicuramente sono considerazioni importanti, ma non bastano a spiegare l'intero problema. Ci si
avvicina di più alla sostanza della questione quando si va a verificare l'antiamericanismo del Pci,
vale a dire la contrapposizione tra civiltà comunista e civiltà capitalistica12. Paradossalmente è
questo stesso terreno su cui convergono i due rivali, Pci e Dc, i due partiti Chiesa.
Internazionalismo proletario ed ecumenismo cattolico fin dall'immediato dopoguerra sono scesi in
campo per combattere entrambi “il sacro egoismo nazionalistico” per dirla con Bodei13. La lotta
tra Dc e Pci è la lotta tra due agenzie etiche contrapposte che promuovono e organizzano la vita di
relazione popolare attraverso un complesso sistema che copre l'intero territorio nazionale con una
fittissima rete associativa: le cellule, le case del popolo, le sezioni ecc, da un lato; le parrocchie, gli
oratori, ecc. dall'altro. Entrambe le “agenzie” – il termine è di Bodei – vedono avanzare con timore
l'egemonia americana portatrice del consumismo che, mettendo in primo piano i valori individuali e
l'economia di mercato, rischia di allentare i vincoli della famiglia e della solidarietà sociale.
Insomma i due maggiori partiti puntano a conservare se stessi: la Dc difende i luoghi e le forme di
10
   Su questo aspetto, come su altri temi della trasformazione del costume, il lavoro di Lanaro ha svolto un ruolo pilota
nel dibattito storiografico: S. LANARO, Storia dell’Italia repubblicana, Marsilio, Venezia, 1992. Su posizioni
sostanzialmente difensive dell’approccio del Pci alla trasformazione del costume è P. GINSBORG , Storia d’Italia dal
dopoguerra ad oggi. Società e politica 1943-1988, Einaudi, Torino, 1988.
11
   F. FIUME, Nel nome di Stalin, Pagano, Napoli, 2003; F. ANDREUCCI, Falce e martello. Identità e linguaggi dei
comunisti italiani tra stalinismo e guerra fredda, Bonomia University Press, Bologna 2005; M. DEGLI INNOCENTI,
Il mito di Stalin. Comunisti e socialisti nell’Italia del dopoguerra, Lacaita Editore, Mandria-Bari-Roma, 2005.
12
   M. TEODORI, Maledetti americani. Destra, sinistra e cattolici: storia del pregiudizio antiamericano, Mondadori,
Milano, 2002.
13
   Remo BODEI, Il noi diviso, Einaudi, Torino, 1998.




                                                           6
socializzazione legate alla tradizione – la Chiesa, la scuola, la famiglia; il Pci si batte per conservare
quelle più moderne, i partiti, i sindacati, i media (pre epoca televisiva), anch'essi però insidiati
dall'avvento dell'era dei consumi. Famiglia o classe sono fondative di una società in cui tutti i ceti
sociali vengono catalogati a seconda del lavoro che svolgono, non già in quanto individui ma come
appartenenti a un determinato aggregato corporativo, non già in quanto consumatori, ma come
lavoratori.

In questa ottica è relativamente facile dare una risposta seppure sofferta alla grande svolta del 1960
sul piano delle riforme economiche e sociali: si tratta di adattare il valore “lavoro”, al cambiamento
dello scenario, da una società agricola a una società industriale. Anche se il Pci è in ritardo persino
su questo terreno – che è invece percorso dal partito socialista; e anche se nella Dc le correnti
favorevoli al centro sinistra impiegano dieci anni per prevalere, elaborare un riformismo economico
e sociale appare ancora possibile. Ma il boom economico è appunto il veicolo anche di altre
profonde modificazioni culturali e del costume che mettono in pericolo la natura stessa dei due
partiti-Chiesa dove gli iscritti-fedeli finiscono nonostante tutto per sviluppare un paradossale
individualismo di massa. Il lavoro comincia inevitabilmente a perdere la sua aureola di sobrio e
quotidiano eroismo per essere vissuto e interpretato come sgradevole necessità. E nel momento in
cui vacilla il valore fondante etico, l'intero edificio del partito-Chiesa e della Chiesa-partito traballa:
nella società si è aperto un conflitto non risolvibile tra etica della produzione ed etica dei consumi.
L'avvento dell'era dei consumi, prima ancora del sessantotto, innesca la "rivoluzione"; ma una
rivoluzione che nulla ha in comune con i miti rivoluzionari del passato. Per molti aspetti è una
rivoluzione multiculturale; elitaria ma non di classe; di base ma non popolare; ideale ma non di
partito o religiosa. Non stupisce che gradualmente i luoghi della socializzazione tradizionale
comincino ad accusare un calo delle presenze: le cellule, le case del popolo, le parrocchie, sono
meno frequentate. Contemporaneamente anche la famiglia, luogo di raccolta, perde la sua funzione:
parenti e persino amici disertano le riunioni domestiche, mostrando con evidenza la crisi di quello
che si può definire il pilastro della socializzazione tradizionale – la famiglia appunto.

Ad accelerare questi processi interviene in modo vistoso l'ingresso sulla scena del nuovo medium
televisivo che erode alla base la tradizionale vita di relazione, con una capacità distruttiva quale
nessun altro mezzo di comunicazione ha mai avuto in passato. La Tv entra direttamente nella
famiglia, nel cuore pulsante della socializzazione tradizionale e qui proietta il nuovo mondo. Un
mondo che appare dagli schermi come un unico sistema integrato, come uno spazio omogeneo,
all'interno del quale ogni luogo è interconnesso. E’ noto e studiato il ritardo della cultura di sinistra
nel rendersi conto delle potenzialità di questo medium che viene respinto con sorprendente
ingenuità – e valga per tutti l'articolo di Saverio Tutino su "Vie Nuove" del 1956, quando scrive:
“A noi non piacciono le cose che succedono in America. Adesso siamo in piena euforia e non si può
negare che "lascia o raddoppia" goda di grande popolarità; per cui rischiamo di dire cose
impopolari. Ma non tutto ciò che viene imposto in America coi sistemi propagandistici di cui là si
dispone, può andare bene anche in Italia”14. Una maggiore acutezza nell’intuire alcune potenzialità
del nuovo medium è sicuramente presente nei cattolici che colgono l’occasione preziosa di allargare
gli spazi propagandistici offerta dalla televisione. Politici e intellettuali democristiani, che nell’Italia
fascista hanno vissuto e magari iniziato a operare all’interno della “macchina del consenso” messa
in moto dalla dittatura, sono consapevoli di quale peso politico abbia il nuovo medium, strutturato
immediatamente in evidente continuità con le istituzioni mediatiche del Minculpop. E’ un vantaggio
non da poco rispetto ai dirigenti della sinistra che su questo, come su altri piani, scontano un esilio
quasi ventennale dall’Italia; un vantaggio che spiega anche la relativa facilità per la burocrazia
interna e per i governi a guida democristiana di assicurarsi il controllo pressoché assoluto del nuovo
strumento. L’impronta pedagogica impressa alle prime trasmissioni televisive della TV palesa
l’esplicito intento di ancorare le masse a una precisa visione della società insidiata da un processo di
laicizzazione che potrebbe diventare prevalente ove dilagasse il modello televisivo americano15. In


14
  S. TUTINO, Il vizio segreto della televisione, "Vie Nuove", 26 febbraio 1956.
15
  In questo senso la paura del modello americano accomuna cattolici e comunisti. Cfr, al proposito G. BETTETINI (a
cura di), American Way of Television. Le origini della TV in Italia, Sansoni, Firenze, 1980; D. FORGACS,
L’industrializzazione della cultura italiana (1880-1990), Il Mulino, Bologna, 1992.




                                                        7
questo senso l’enciclica di Pio XII Miranda Prorsus indica la strada che i vertici della Dc sono
chiamati a percorrere16.

Di nuovo però troviamo intellettuali cattolici e intellettuali comunisti fianco a fianco, perché se i
primi sono più consapevoli dei secondi, entrambi individuano questo rivoluzionario mezzo di
comunicazione di massa come prodotto della società dei consumi. Quella società dei consumi
portatrice di uno stravolgimento del costume che va fermato; e per arrestare il mutamento ci si
rifugia nella demonizzazione dei consumi – il paganesimo dei consumi. Tuttavia, l’anatema non
basta a cancellare il consumismo che abbatte tutte le barriere e passa anche e soprattutto per gli
spazi televisivi dedicati alla pubblicità e all’intrattenimento, a dispetto della censura alle ballerine e
malgrado i palinsesti si arricchiscano di trasmissioni educative17. E’ su questo nodo che si misura
l’inadeguatezza delle due grandi “agenzie etiche” nel leggere la modernità, perché la cultura politica
della Dc e del Pci non può di principio attribuire agli oggetti di consumo una potenza di linguaggi.
Eppure basterebbe attingere alla cultura antropologica per trovare una tesi esattamente opposta, vale
a dire che nel tessuto della quotidianità i consumi diventano il sostrato vitale delle società
comunitarie, cioè proprio quanto sta avvenendo nell’Italia della fine dei Cinquanta. Così,
nonostante il disprezzo per la televisione o il tentativo di “blindarla”, questo nuovo oggetto di
consumo, motore e acceleratore della corsa al consumo tanto da renderlo non solo lo specchio del
boom, ma uno dei principali volani del miracolo economico italiano, piace irresistibilmente agli
italiani di tutte le fedi politiche e religiose. Sotto questo profilo, il divario con le élites politico-
intellettuali non potrebbe essere più chiaro; né può stupire che col 1968 anche il modello culturale-
pedagogico della televisione di Stato giunga al tramonto, a conferma del ritardo accumulato dai
maggiori partiti nel leggere e nell’accettare la rivoluzione del costume.




16
    Il primo intervento di Pio XII risale alla nascita della televisione in Italia quando in una Esortazione ai vescovi il
pontefice indicava i compiti della televisione che doveva essere non solo “moralmente incensurabile”, ma anche
“cristianamente educatrice”. La citazione è tratta da G. GUAZZALOCA, Consumi e cittadinanza: la società del
benessere e dei consumi nell’Italia del miracolo economico, relazione presentata al Convegno della Sissco, settembre
2005.
17
   Cfr. C. MANNUCCI, Lo spettatore senza libertà. Radio-televisione e comunicazione di massa, Laterza, Bari, 1962.
Per una riflessione più recente cfr. E. MENDUNI, La televisione. Il mondo in ogni casa. Forme e poteri del piccolo
schermo nell’era multimediale, Bologna, Il Mulino, 2001.




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Il nuovo volto dell'Italia repubblicana. I mutamenti di costume

  • 1. IL NUOVO VOLTO DELL’ITALIA REPUBBLICANA I MUTAMENTI DEL COSTUME di Simona Colarizi Testo della lezione presentata dall'autrice nell'ambito del Ciclo di lezioni svoltosi a Bergamo dal 3 novembre al 7 dicembre, derivato dal convegno “La Costituzione della Repubblica italiana. Le radici, il cammino”, svoltosi a Bergamo il 28 e 29 ottobre 2005. Pubblicata in “Studi e ricerche di storia contemporanea”, 2007 – Fasc. 68 – pp.149 - 161. Vorrei iniziare queste riflessioni partendo dalla fine, quando il ciclo di mutamento, iniziato nel secondo dopoguerra lentamente, quasi in sordina, per poi accelerasi col boom economico, arriva al suo culmine sul finire degli anni Sessanta. Il filo di continuità che lega questo intero processo durato circa quindici anni autorizza una lettura a ritroso, perché l’esplosione del 1968 rappresenta un crinale, la conclusione di una fase e il punto di inizio di un’altra stagione. Nel riflettere sul fenomeno della contestazione sessantottina, si è sempre sottolineato l'allargarsi della forbice tra società politica e società civile, vale a dire la crisi di rappresentanza di un ceto politico che appare incapace di recepire inquietudini e domande del paese in movimento accelerato. Naturalmente questa frattura non è poi così vistosa, se si assumono come indicatori i risultati elettorali, con particolare attenzione ai due grandi partiti di massa la Dc e il Pci: nel 1968 non c’è alcun terremoto politico; anzi, i cattolici recuperano consensi e i comunisti confermano la tendenza alla crescita. Se poi ci si spinge fino alla elezioni politiche del 1972, le oscillazioni si limitano solo a qualche frazione di punto - uno 0,4% in meno per i cattolici, uno 0,3% in più per i comunisti. Neppure la crescita straordinaria del movimento sociale che raggiunge il suo massimo storico, l'8,7%, può essere valutata come un dato allarmante di un umore anti-sistema; in fondo, una fase di disordine così accentuato, come quello vissuto in Italia dal 1968 al 1972, è logico generasse un moto di reazione e quindi un voto di protesta da parte dell'elettorato conservatore e persino moderato. E, tuttavia, la frattura società civile-società politica c'è e ha conseguenze immediate sul sistema politico dove, già a partire dal 1972, i governi di centrosinistra si avviano definitivamente al tramonto. E' questa la spia di un malessere crescente, perché proprio l'alleanza tra cattolici e socialisti era stata la risposta politica alla grande svolta del 1960 e, a mio giudizio, pur nei limiti inevitabili, una risposta politica coraggiosa, in armonia con le istanze di cambiamento emerse dal paese in pieno sviluppo. Anzi; se si considera l'intera storia del sistema politico italiano, il centrosinistra è ancora un momento di vitalità, di dinamismo delle forze politiche, capaci di rimettersi in discussione e di elaborare un progetto riformista sul quale, in un certo senso, si è continuato a vivere di rendita nei vent'anni successivi. Il che dimostra che i partiti sono stati in grado di interpretare il mutamento, come del resto emerge chiaramente dal lungo dibattito preparatorio del nuovo equilibrio governativo, un dibattito di livello così notevole da attirare l'attenzione persino degli osservatori europei. In nessuna altra epoca della storia repubblicana, ad eccezione naturalmente della fase costituente, il ceto politico ha mostrato altrettanto impegno e acutezza nel leggere la realtà e proporre soluzioni adeguate. Detto questo, però, va spiegata la rapidità con cui si consuma la spinta innovativa del centrosinistra – dopo solo quattro-cinque anni dalla sua nascita – e si innesca un processo di divaricazione profonda con la società civile. A mio giudizio, una delle ragioni sta in un limite di fondo della classe politica italiana, o per lo meno delle forze politiche maggioritarie del sistema, incapaci di rispondere al complessivo cambiamento di scenario che investe naturalmente i rapporti economici e sociali, ma stravolge anche il vivere civile, i comportamenti individuali e collettivi, i parametri culturali dell'intero paese. In estrema sintesi si potrebbe dire che i partiti riescono a cogliere i processi di trasformazione economica e sociale in atto nell'Italia del boom; affannano invece a comprendere lo straordinario cambiamento del costume di cui lo sviluppo è portatore e, soprattutto, non appaiono in grado di adeguare le proprie strutture e di ricercare una nuova identità più armonica alle istanze e alle aspettative dei cittadini. 1
  • 2. Se si accetta la definizione del 1968 come "rivoluzione del costume" – unico tipo di rivoluzione possibile in Italia, secondo Bobbio – allora diventa logico che in questa fase di radicale contestazione la parte più avanzata della società, in particolare i giovani e le donne, non si senta rappresentata dai partiti e anzi manifesti un'insofferenza visibile nei confronti dei tradizionali referenti politici. E quando si parla di giovani e donne si deve tenere conto che si tratta proprio dei nuovi soggetti politici saliti sulla scena a partire appunto dagli anni Sessanta. Questo inedito protagonismo, risultato appariscente della travolgente ondata di cambiamento del costume, si determina malgrado l’ostilità delle due forze politiche dominanti il sistema, incapaci di comprenderlo e, per molti versi, impegnate a frenarlo. Per quanto riguarda la Dc, il partito egemone del sistema, basterebbe ripercorrere la storia della censura in Italia dagli anni Cinquanta agli anni Settanta e oltre, per rendersi conto quanto siano pesanti gli interventi per soffocare la libertà di espressione; così come è sufficiente dare uno sguardo alla storia della sessualità – del resto strettamente connessa a quella della censura – per capire quali fossero le reazioni di fronte all'avanzare di comportamenti trasgressivi della morale dominante. E, naturalmente, il sorprendente permanere in Italia dei codici fascisti nonostante il passare degli anni – più di venti nel 1963 e più di trenta nel '73 – è significativo di quanto lo strumento giudiziario fosse funzionale a far da freno alla modernizzazione di valori e comportamenti che si modificano contemporaneamente all’omologarsi dell’economia italiana all’Occidente avanzato. L’ingresso improvviso dell’Italia nell’era dei consumi ha certo provocato un disorientamento comprensibile nel ceto politico che, però, pur con timidezze e non poche contraddizioni si va attrezzando – anche sul piano politico – a gestire lo sviluppo. Come si è detto, il dibattito preparatorio del centrosinistra mostra uno sforzo di comprensione del nuovo e una capacità di servirsi di strumenti conoscitivi ancora abbastanza estranei alla cultura italiana da parte di tutte le famiglie politico-intellettuali, dai cattolici ai laici ai socialisti e persino ai comunisti, inizialmente in maggiore ritardo nell’interpretare la mutazione del capitalismo. La storiografia, che si è arricchita in questi ultimi anni di una solida saggistica sul miracolo economico italiano e sul Welfare State 1, consente di seguire le tappe di un dibattito assai ricco, in cui i temi in discussione nel mondo hanno un’eco profonda anche in Italia dove vengono ripresi e legati alle specificità del paese in termini non banali. Tuttavia proprio dall’analisi di questa stagione cultural-politica si intravede una discrasia significativa tra due piani, quello economico-sociale e quello del costume e dei valori. Benessere e consumi, alla fine, acquistano piena cittadinanza; anzi, diventano l’asse su cui si misura la legittimità dei governi di centrosinistra, accettati proprio in quanto fondativi del Welfare e capaci di assicurare benessere. Emblematica la frase del ministro del Tesoro, il democristiano Medici, che nel 1957 così sintetizza il programma dell’esecutivo guidato dalla Dc: “Benessere per tutti nella libertà: in ciò sta la realizzazione della vera democrazia”2. Il cambiamento del costume che presuppone l’affermarsi di nuovi valori, suscita invece diffidenze e ostilità. In un certa misura i consumi, accettati in quanto portatori di benessere, motori dello sviluppo economico, sono criticati, se non demonizzati, in quanto eversori di un ordine valoriale e comportamentale tradizionale di cui i partiti si sentono i legittimi custodi. Per la Dc vale in gran parte lo stesso discorso che porta la Chiesa a opporre un muro di resistenze alla modernità che avanza, distruttiva del patrimonio morale ed etico della cattolicità. L’ostilità di principio del partito comunista, che in teoria presenta una visione alternativa della società, anzi si propone come alfiere di una diversa “civiltà”, nasce invece dalla percezione di un cambiamento indirizzato verso il modello del “nemico”, quell’ american way of life , trionfante anche nell’Occidente europeo e con una forza di penetrazione tale da intaccare persino il mondo sovietico dopo l’arrivo al Kremlino di Kruscev 3. 1 Crf. tra i lavori pubblicati negli ultimi quindici anni, V.ZAMAGNI, Dalla periferia al centro. Il secondo rinascimento economico italiano, Il Mulino, Bologna, 1990; G. CRAINZ, Storia del miracolo economico italiano Culture, identità, trasformazioni fra anni Cinquanta e Sessanta, Donzelli, Roma, 1996; G. NARDOZZI, Miracolo e declino, Laterza, Roma-Bari, 2004. 2 La frase è citata nel paper di M. MACCAFERRI, Un gruppo di intellettuali italiani fra società opulenta e democrazia del benessere. “Il Mulino” 1958-1968, presentato al Convegno della Sissco, Bologna, 22-24 ottobre 2005. 3 Da qui la distinzione continua nel descrivere il benessere in Urss tra l’espandersi dei consumi e modelli di comportamento rimasti aderenti all’ideologia comunista. Cfr. S. GUNDLE, I comunisti italiani fra Holliwood e Mosca. La sfida della cultura di massa (1943-1991), Giunti, Firenze, 1995; P. P. D’ATTORRE (a cura di), Nemici per la pelle. Sogno americano e mito sovietico nell’Italia contemporanea, Angeli, Milano, 1991. 2
  • 3. Chi, come me, insegna la storia della Repubblica alle giovani matricole, si sarà reso conto dello stupore quasi incredulo degli studenti quando ascoltano il racconto dell'Italia quotidiana negli anni Cinquanta e Sessanta. Se ci fermiamo solo per un attimo a considerare la moralità sessuale e le norme che la regolano, sembra di venire proiettati nel medioevo: le cronache rosa che appassionano i lettori delle riviste illustrate portano alla ribalta i drammi coniugali e gli amori “impossibili” di Sophia Loren e Carlo Ponti, della Bergman e Rossellini, di Fausto Coppi e della "dama bianca", arrestata e incarcerata, per adulterio, per parlare solo delle vicende dei personaggi famosi. Nel 1957, il caso del Vescovo di Prato che definisce “pubblici concubini” una coppia sposata con rito civile, è significativo del ruolo rivendicato dalla Chiesa nell’imporre i codici comportamentali. Una lettura del libro di Gabriella Parca, Le italiane si confessano, uscito nel 1959 solleva il velo sulla vita quotidiana di donne qualunque, oppresse da costumi familiari e sessuali non così lontani da quelli che ancora oggi si registrano in alcuni paesi islamici o in società rimaste ferme a un’economia agricola di sussistenza o governate da costumi tribali. Ma se andiamo un po’ più avanti nel tempo fino al 1966 (alla soglia dunque del 1968), ci troviamo davanti due fatti di cronaca emblematici: il caso della "Zanzara" e quello di Franca Viola. L'inchiesta sulla sessualità promossa dal giornalino scolastico del Liceo Parini di Milano che provoca la denuncia e il processo degli studenti responsabili dell'iniziativa, con tutta una serie di risvolti incredibili-risibili – compresa la visita medica per accertare l'assenza di malattie veneree; la denuncia di Franca Viola contro il fidanzato che, dopo averla rapita e stuprata, le aveva offerto generosamente il matrimonio riparatore, rifiutato chissà per quali oscure ragioni dalla ragazza non più illibata. Certo il segno che qualcosa sta cambiando lo danno non solo gli studenti del Parini e la giovane siciliana, ma anche la grande stampa nazionale che non è più così unanime nella condanna di chi viola i codici dell'etica e della morale tradizionale4. Eppure, il ceto politico è ancora troppo lento nell'agire: ci vuole la spallata del '68, appunto, perché la Corte Costituzionale deliberi che concubinato e adulterio non sono più reati perseguibili dal codice penale; e ci vogliono 4 anni di scontri, perché in Italia sia finalmente accettata la legge sul divorzio, votata nel 1970 – e, per altro, immediatamente sottoposta a referendum abrogativo. Quanto all'omosessualità, basta solo ricordare il caso del professore di filosofia Braibanti, condannato a nove anni di reclusione con l'accusa di aver plagiato due studenti. Alla repressione della sessualità si legano direttamente o indirettamente tutti gli altri aspetti del cambiamento nei costumi che vengono censurati o addirittura demonizzati: dalla moda ai comportamenti, fino appunto alla cultura e ai nuovi mezzi di comunicazione che si fanno portatori e interpreti del nuovo, tutte le espressioni della modernità nei costumi vengono respinte. E, come è ovvio, la polemica più dura si riversa contro il mondo dei giovani, i primi a percorrere con entusiasmo la via della modernizzazione. E' significativo l'accanimento contro la moda dei giovani fin dal suo primo apparire nella seconda metà degli anni Cinquanta – la moda causual, il jeans, la maglietta a righe – e pensiamo ai ragazzi con le magliette a strisce che compaiono nei cortei contro il governo Tambroni nel 1960 – per non parlare del giubbotto di pelle, del maglione al posto della giacca, dell'eliminazione della cravatta o del dilagare tra le ragazze dell'uso quotidiano dei pantaloni, fino a quel momento consentiti solo, e con cautela, per fare sport. Un accanimento che continua e si accentua nel periodo successivo, anche per l'evidente fallimento della battaglia contro. Così quando arrivano le mini gonne, i capelli lunghi per i ragazzi, i due pezzi al mare, ecc. si alzano altre inutili barricate, anche perché la moda è solo la facciata di un mutamento dei comportamenti giovanili che fanno da avanguardia ad altrettanto rivoluzionari comportamenti degli adulti. Il paese si va modernizzando, a prescindere e contro la volontà politica dei governanti5. Resistere al nuovo era stato difficile persino per la dittatura fascista che per di più ha dominato in un periodo in cui, dopo la grande crisi del 1929, un vento autarchico spirava in tutto il mondo. Malgrado il fascismo, malgrado le sue parole d'ordine e il monopolio dei mezzi di propaganda, l'Italia si era trasformata negli anni Trenta e Quaranta. E, naturalmente, si continuerà a trasformare negli anni Cinquanta e 4 Sui consumi come motori del cambiamento dei costumi in Italia, già negli anni Sessanta erano stati pubblicati due lavori a tutt’oggi di grande interesse: F. ALBERONI, Consumi e società, Il Mulino, Bologna 1964 e P. LUZZATO FEGIZ, Il volto sconosciuto dell’Italia. Seconda serie: 1956-1965, Giuffrè, Milano, 1966. Per una più recente riflessione a più voci, cfr. P. CAPUZZO (a cura di), Genere, generazioni e consumi. L’Italia degli anni Sessanta, Roma, Carocci, 2003. 5 E. SCARPELLINI, People of Plenty: consumi e consumismo come fattori di identità nella società italiana, in P. CAPUZZO (a cura di), Genere, generazioni e consumi. L’Italia degli anni Sessanta, cit. 3
  • 4. Sessanta, nonostante gli sforzi dei partiti che si oppongono con maggiore o minore forza a questa rivoluzione del costume. La questione da discutere, però, non è quanto lento sia il processo di modernizzazione del paese o quali contraddizioni la lentezza del processo di modernizzazione comporti. E' evidente che in un paese dove è forza egemone un partito cattolico organico alla Chiesa, la resistenza al nuovo, all'omologazione dei costumi, dei comportamenti, della cultura ai modelli dell'Occidente industrializzato, sia più lenta che altrove e incontri forti ostacoli, tanto più che – e lo si è appena ricordato – l'Italia si affaccia agli anni Cinquanta dopo vent'anni di regime fascista, durante i quali la dittatura ha sempre ostacolato e demonizzato l'influenza straniera, sia quando si proponeva nelle vesti di regime autoritario fondato sul trinomio Dio-patria-famiglia, sia quando ha tentato il salto totalitario. La questione che ho posto all'inizio è un'altra: quanto cioè ha influito la incomprensione, la sottovalutazione o tout court la resistenza alla modernizzazione da parte di più del 70% della classe dirigente nell'indebolimento del sistema politico stesso, nella divaricazione tra governati e governanti che hanno cercato di mantenere in stato di minorità gli italiani il più a lungo possibile, nella convinzione di quanto fosse più agevole governare il paese, conservando inalterate regole e leggi del passato. Dal momento però che non si può contrastare più di tanto il processo di maturazione in atto, viene spontaneo chiedersi perché i partiti rifiutino così a lungo di adeguare se stessi e le istituzioni al cambiamento; perché farsi sopravanzare dalla società civile al punto di perderne il controllo e di dover poi affannosamente cercare di inseguirla? Naturalmente, gli imputati in questa sorta di processo sono la Dc e il Pci – in misura maggiore il Pci, l'avversario storico della Dc che si affianca ai cattolici nella lotta contro la modernità, anche se usa altri registri. Un partito comunista “antimoderno” potrebbe apparire un’affermazione “sacrilega” se si considera che anche la storiografia più recente e più critica, pur ammettendo il ritardo dei comunisti nella comprensione del boom economico, attribuisce al Pci il ruolo di “agente di modernizzazione” nella società italiana6. Si tratta – come è intuibile – di intendersi sul significato che si attribuisce al concetto di modernizzazione, in questo caso riferito all’ambito del cambiamento del costume, conseguenza diretta dello sviluppo economico. L’incertezza e la reticenza dei comunisti di fronte all’affermarsi dei consumi come motore del nuovo benessere si proietta in una evidente ostilità ad accettare le conseguenze di questa rivoluzione in termini di comportamenti e di valori; così anche quando viene meno l’avversione di principio al nuovo corso economico – una battaglia “senza speranza”, come la definisce Sassoon7 – il rifiuto e le resistenze si concentrano sulle conseguenze nefaste che il neo-capitalismo produce nell’esistenza e nell’immaginario degli italiani8. Già alla fine dei Cinquanta e per tutti i Sessanta, gli interventi politici e più in generale la produzione culturale dell’intellighentia di sinistra, sotto la diretta influenza del Pci, sono intessuti di grida d’allarme sugli effetti nefasti dello sviluppo e dei consumi. Non è certo un’invenzione l’altra faccia del boom, quella della grande emigrazione, dello sradicamento dalle campagne, dell’affollarsi nelle città inospitali del Nord, della desertificazione del Sud, tutti elementi che non solo hanno un reale costo economico e sociale, ma producono anche una profonda sofferenza esistenziale. La denuncia di questi disagi finisce però col diventare così prevalente da soffocare gli altrettanti fattori di liberazione e di crescita di cui il benessere e i consumi sono portatori. Di più; tra le righe di questa insistita invettiva contro il nuovo volto dell’Italia non può non leggersi un rimpianto – e quindi una valorizzazione – di un ordine di vita che è stato scardinato, “violentato”, dall’imporsi di un modello estraneo e contrario ai costumi, ai valori, all’etica degli italiani. 6 E. TAVIANI, Il Pci nella società dei consumi, in R. GUALTIERI (a cura di), Il Pci nell’Italia repubblicana 1943- 1991, Carocci, Roma 2001, p.293. Taviani fa riferimento a i lavori di G. GOZZINI, R. MARTINELLI, Storia del partito comunista italiano. Dall’attentato a Togliatti all’VIII Congresso, Einaudi, Torino 1998; M. FLORES, N. GALLERANO, Sul Pci. Un’interpretazione storica, Il Mulino, Bologna 1992; A. AGOSTI, Storia del Pci, Laterza, Roma-Bari, 1999. 7 Sasson paragona la battaglia delle sinistre contro la società dei consumi a quella “dei luddisti del passato contro le macchine”. D. SASSOON, Cento anni di socialismo. La sinistra nell’Europa occidentale del XX secolo, Editori Riuniti, Roma, 1997, p. 217. 8 Lo riconosce indirettamente anche Gallerano quando sostiene l’azione modernizzatrice del Pci che guida nelle regioni rosse – in particolare in Emilia – il passaggio dalla società agricola a una società a industrializzazione diffusa. Proprio qui il Pci finisce per trovarsi in contraddizione con se stesso perché queste zone si rivelarono le “più permeabili all’edonismo consumistico del ‘neocapitalismo’”. M. FLORES, G. GALLERANO, Sul Pci. Cit., p.226. La cit. è ripresa anche da E. TAVIANI, Il Pci nella società dei consumi, cit., p. 293. 4
  • 5. L’immagine idealizzata di un mondo agricolo che scompare diventa un richiamo accorato a un’epoca felice, dalla quale sono però state espunte tutte le componenti scomode: il silenzio angoscioso, l’oscurità, l’assenza di contatti umani, l’autoritarismo, la violenza della famiglia patriarcale claustrofobica, la condanna a vita di un lavoro duro che accomuna esseri umani e animali, la sporcizia, l’ignoranza, le prevaricazioni sessuali, gli incesti, gli stupri. La bellezza dei campi, la gioia di veder crescere e maturare i frutti della fatica, l’armonia degli affetti familiari, il contatto rigenerante uomo-natura, lo scandire del giorno e della notte secondo il ciclo del sole e delle stelle, le incantevoli “lucciole” pasoliniane che mandano sprazzi di luce nelle tenebre, il pane bianco e fragrante che le donne tolgono dal forno per presentarlo sulla tavola dove siedono solo gli uomini in attesa di venire amorosamente serviti, che cosa sono se non una laudatio temporis acti, un recupero dei valori ai quali si dovrebbe conformare l’individuo e la collettività? Non basta aggiungere l’impegno politico e la fede nel comunismo che avrebbero perfezionato questo mondo idealizzato, per scardinare l’intero impianto di questa visione. Del resto, speculare è la descrizione- demonizzazione della città, luogo di corruzione, di miseria morale, di vicoli bui, di quartieri malfamati, di squallide e sporche periferie, di aria inquinata, di un sole eclissato dai “casermoni” e addirittura dai grattacieli, degli alberi scomparsi e sostituiti con foreste di antenne televisive e, soprattutto, di una folla di uomini e donne abbagliati dal dio denaro, avidi di piaceri, pronti a prostituirsi – come racconta l’epopea di Rocco e i suoi fratelli, ma anche La dolce vita, capolavori di una splendida stagione cinematografica che così bene riflette la sofferenza sempre implicita nelle fasi di accelerata trasformazione. Manca però la lettura e soprattutto l’accettazione di quanto di nuovo sta nascendo da questa sofferenza e al di là di questa sofferenza. E non stupisce questo vuoto se si considera quale fosse il conformismo imperante nel Pci comunista fin da quando, nell'immediato dopoguerra, abbandonati gli schemi del bolscevismo originario, si organizza come partito di integrazione di massa. Una prima traccia è offerta dalla memorialistica dei militanti, in particolare delle donne, che ricordano le ferree e minuziose regole di comportamento e di morale del buon comunista: il buon comunista si sposava, procreava figli legittimi, conduceva un'esistenza austera e ordinata, dedicata esclusivamente al lavoro, alla famiglia, al partito. Ogni deviazione era mal tollerata; persino quella del leader massimo che conviveva more uxorio con la compagna Nilde Jotti, pur avendo un'altra legittima moglie. Togliatti e la Jotti pagavano cara questa trasgressione con un controllo esasperante sulla loro esistenza privata che solo una grande fede e una grande disciplina consentivano probabilmente di sopportare. Tutti gli altri trasgressori imparavano presto sulla propria pelle, con emarginazione e censure, che cosa costasse uscire dai binari della morale corrente: lo sapevano bene gli intellettuali sregolati – e basta ricordare il caso di Pasolini e il suo tormentatissimo rapporto con il Pci; lo sapevano le donne del Pci che inghiottivano in silenzio soprusi e umiliazioni. Ma nonostante il passare degli anni i comunisti modificano i loro atteggiamenti con una lentezza esasperante, come testimonia una saggistica che negli ultimi anni, dopo la fine del comunismo, ha cominciato a indagare anche su questo aspetto della storia del Pci9. Soprattutto la spinta al rinnovamento non viene da loro, ma da altri settori minoritari del mondo politico. Il partito di opposizione, rappresentante più del 25% dell'elettorato, non è il protagonista della grande battaglia a favore del divorzio che di sicuro segna in Italia una tappa fondamentale nella definizione di nuovi codici morali e di nuovi valori. Il progetto di legge sullo scioglimento dei matrimoni porta la firma di un socialista e di un liberale, Fortuna e Baslini, ed è soprattutto grazie alla mobilitazione del piccolo gruppo dei radicali che il confronto in Parlamento riesce ad avere una forte eco e il sostegno della società civile. Persino quando, varata la nuova normativa nel 1970, si apre la campagna per il referendum abrogativo chiesto dai cattolici, persino in quel momento il Pci esita a impegnarsi nella lotta, sperando con una attenuazione delle norme di arrivare a un accordo indolore con la Dc. La Dc per parte sua è talmente cieca di fronte alla nuova società da non dubitare neppure che il risultato referendario possa smentire le aspettative di una vittoria travolgente del paese cattolico contro il Parlamento laico. Solo una piccola pattuglia di cattolici per il no, schierati a favore del divorzio, si rende invece conto a quale sconfitta vada incontro la Dc; ma non a caso si tratta di cattolici per così dire "esterni" alla democrazia cristiana che vivono più direttamente a 9 Cfr. C. MARINO, Autoritratto del Pci staliniano 1946-1953, Editori Riuniti, Roma, 1991; S. BELLASAI, La morale comunista. Pubblico e privato nella rappresentazione del Pci (1947-1956), Carocci, Roma, 2000. 5
  • 6. contatto con la società civile; intellettuali che colgono i processi di trasformazione, la laicizzazione in atto o, per usare il termine di Lanaro, in questo caso sicuramente più calzante, la scristianizzazione in atto10. Per quanto la prospettiva di impegnarsi in uno scontro referendario con la Dc non piaccia al Pci, pur tuttavia i comunisti si trovano a un certo punto costretti a cavalcare la battaglia anche per quanto sta avvenendo al loro interno. Il '68 ha avuto un effetto dirompente nel corpo del partito che ha visto letteralmente saltare in aria tutta la struttura delle sue organizzazioni giovanili, travolte dall'ondata della contestazione. Malgrado le cautele dei vertici, il segnale delle elezioni politiche del '72 è un campanello d'allarme: il lievissimo, quasi impercettibile aumento dei consensi – un +0,3% – rappresenta una sconfitta, cioè una battuta d'arresto in un processo di crescita ininterrotta, praticamente dal '46 in poi. Il Pci rischia di perdere il contatto con i soggetti politici nuovi, i giovani e le donne, se non intraprende la strada del rinnovamento del costume che passa appunto per le lotte sui diritti civili, per lo smantellamento della legislazione fascista, per l’affermazione di libertà individuali, vale a dire per la strada della modernizzazione dei costumi. A spiegare il conformismo comunista si è in genere fatto ricorso a una serie di considerazioni che hanno fondamento, anche se spiegano solo una parte del problema. Si è detto che trovandosi ad operare in un paese a stragrande maggioranza cattolica, il Pci si muove con la massima cautela sul terreno della morale e del costume, un terreno dominato dalla Chiesa e quindi sul quale una presa di posizione altra è di per sé minoritaria, ben più minoritaria di quanto non sia la stessa rappresentanza politica, per lo meno nel 1945. Toccare insomma il cleavage confessionale non conviene ai comunisti: nel momento in cui nel 1944 dal partito di avanguardie si è passati al modello del partito di integrazione, appare chiaro che il Pci apre le porte a una massa di iscritti di religione cattolica. (Del resto il nuovo statuto del partito sottolinea che non c'è alcuna incompatibilità tra l'essere comunisti e professare una propria religione). Mettere il popolo comunista di fronte a una scelta tra la fede e l'appartenenza politica è quanto i vertici del Pci si impegnano a evitare con grande cura, fin dal famoso voto sull'articolo 7 della Costituzione. A queste considerazioni si aggiunge, a partire dal '47, con lo scoppio della guerra fredda e la polarizzazione del sistema, spaccato tra comunisti e anticomunisti, la preoccupazione di non fornire ulteriori armi alla propaganda avversaria che del resto, nei toni esasperati del '48, rappresenta i comunisti come i senza Dio, gli atei, i corruttori dei giovani e i sovvertitori dei valori morali e religiosi. La Russia è dipinta dalla stampa cattolica come il paese del divorzio e del libero amore, dei figli illegittimi e delle ragazze madri; ed è interessante sottolineare che la stampa comunista presenta invece l'Unione Sovietica come il paese più conformista del mondo. Il mito sovietico non certo come mito rivoluzionario, al contrario un mito di ordine e di conformismo11. Sicuramente sono considerazioni importanti, ma non bastano a spiegare l'intero problema. Ci si avvicina di più alla sostanza della questione quando si va a verificare l'antiamericanismo del Pci, vale a dire la contrapposizione tra civiltà comunista e civiltà capitalistica12. Paradossalmente è questo stesso terreno su cui convergono i due rivali, Pci e Dc, i due partiti Chiesa. Internazionalismo proletario ed ecumenismo cattolico fin dall'immediato dopoguerra sono scesi in campo per combattere entrambi “il sacro egoismo nazionalistico” per dirla con Bodei13. La lotta tra Dc e Pci è la lotta tra due agenzie etiche contrapposte che promuovono e organizzano la vita di relazione popolare attraverso un complesso sistema che copre l'intero territorio nazionale con una fittissima rete associativa: le cellule, le case del popolo, le sezioni ecc, da un lato; le parrocchie, gli oratori, ecc. dall'altro. Entrambe le “agenzie” – il termine è di Bodei – vedono avanzare con timore l'egemonia americana portatrice del consumismo che, mettendo in primo piano i valori individuali e l'economia di mercato, rischia di allentare i vincoli della famiglia e della solidarietà sociale. Insomma i due maggiori partiti puntano a conservare se stessi: la Dc difende i luoghi e le forme di 10 Su questo aspetto, come su altri temi della trasformazione del costume, il lavoro di Lanaro ha svolto un ruolo pilota nel dibattito storiografico: S. LANARO, Storia dell’Italia repubblicana, Marsilio, Venezia, 1992. Su posizioni sostanzialmente difensive dell’approccio del Pci alla trasformazione del costume è P. GINSBORG , Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi. Società e politica 1943-1988, Einaudi, Torino, 1988. 11 F. FIUME, Nel nome di Stalin, Pagano, Napoli, 2003; F. ANDREUCCI, Falce e martello. Identità e linguaggi dei comunisti italiani tra stalinismo e guerra fredda, Bonomia University Press, Bologna 2005; M. DEGLI INNOCENTI, Il mito di Stalin. Comunisti e socialisti nell’Italia del dopoguerra, Lacaita Editore, Mandria-Bari-Roma, 2005. 12 M. TEODORI, Maledetti americani. Destra, sinistra e cattolici: storia del pregiudizio antiamericano, Mondadori, Milano, 2002. 13 Remo BODEI, Il noi diviso, Einaudi, Torino, 1998. 6
  • 7. socializzazione legate alla tradizione – la Chiesa, la scuola, la famiglia; il Pci si batte per conservare quelle più moderne, i partiti, i sindacati, i media (pre epoca televisiva), anch'essi però insidiati dall'avvento dell'era dei consumi. Famiglia o classe sono fondative di una società in cui tutti i ceti sociali vengono catalogati a seconda del lavoro che svolgono, non già in quanto individui ma come appartenenti a un determinato aggregato corporativo, non già in quanto consumatori, ma come lavoratori. In questa ottica è relativamente facile dare una risposta seppure sofferta alla grande svolta del 1960 sul piano delle riforme economiche e sociali: si tratta di adattare il valore “lavoro”, al cambiamento dello scenario, da una società agricola a una società industriale. Anche se il Pci è in ritardo persino su questo terreno – che è invece percorso dal partito socialista; e anche se nella Dc le correnti favorevoli al centro sinistra impiegano dieci anni per prevalere, elaborare un riformismo economico e sociale appare ancora possibile. Ma il boom economico è appunto il veicolo anche di altre profonde modificazioni culturali e del costume che mettono in pericolo la natura stessa dei due partiti-Chiesa dove gli iscritti-fedeli finiscono nonostante tutto per sviluppare un paradossale individualismo di massa. Il lavoro comincia inevitabilmente a perdere la sua aureola di sobrio e quotidiano eroismo per essere vissuto e interpretato come sgradevole necessità. E nel momento in cui vacilla il valore fondante etico, l'intero edificio del partito-Chiesa e della Chiesa-partito traballa: nella società si è aperto un conflitto non risolvibile tra etica della produzione ed etica dei consumi. L'avvento dell'era dei consumi, prima ancora del sessantotto, innesca la "rivoluzione"; ma una rivoluzione che nulla ha in comune con i miti rivoluzionari del passato. Per molti aspetti è una rivoluzione multiculturale; elitaria ma non di classe; di base ma non popolare; ideale ma non di partito o religiosa. Non stupisce che gradualmente i luoghi della socializzazione tradizionale comincino ad accusare un calo delle presenze: le cellule, le case del popolo, le parrocchie, sono meno frequentate. Contemporaneamente anche la famiglia, luogo di raccolta, perde la sua funzione: parenti e persino amici disertano le riunioni domestiche, mostrando con evidenza la crisi di quello che si può definire il pilastro della socializzazione tradizionale – la famiglia appunto. Ad accelerare questi processi interviene in modo vistoso l'ingresso sulla scena del nuovo medium televisivo che erode alla base la tradizionale vita di relazione, con una capacità distruttiva quale nessun altro mezzo di comunicazione ha mai avuto in passato. La Tv entra direttamente nella famiglia, nel cuore pulsante della socializzazione tradizionale e qui proietta il nuovo mondo. Un mondo che appare dagli schermi come un unico sistema integrato, come uno spazio omogeneo, all'interno del quale ogni luogo è interconnesso. E’ noto e studiato il ritardo della cultura di sinistra nel rendersi conto delle potenzialità di questo medium che viene respinto con sorprendente ingenuità – e valga per tutti l'articolo di Saverio Tutino su "Vie Nuove" del 1956, quando scrive: “A noi non piacciono le cose che succedono in America. Adesso siamo in piena euforia e non si può negare che "lascia o raddoppia" goda di grande popolarità; per cui rischiamo di dire cose impopolari. Ma non tutto ciò che viene imposto in America coi sistemi propagandistici di cui là si dispone, può andare bene anche in Italia”14. Una maggiore acutezza nell’intuire alcune potenzialità del nuovo medium è sicuramente presente nei cattolici che colgono l’occasione preziosa di allargare gli spazi propagandistici offerta dalla televisione. Politici e intellettuali democristiani, che nell’Italia fascista hanno vissuto e magari iniziato a operare all’interno della “macchina del consenso” messa in moto dalla dittatura, sono consapevoli di quale peso politico abbia il nuovo medium, strutturato immediatamente in evidente continuità con le istituzioni mediatiche del Minculpop. E’ un vantaggio non da poco rispetto ai dirigenti della sinistra che su questo, come su altri piani, scontano un esilio quasi ventennale dall’Italia; un vantaggio che spiega anche la relativa facilità per la burocrazia interna e per i governi a guida democristiana di assicurarsi il controllo pressoché assoluto del nuovo strumento. L’impronta pedagogica impressa alle prime trasmissioni televisive della TV palesa l’esplicito intento di ancorare le masse a una precisa visione della società insidiata da un processo di laicizzazione che potrebbe diventare prevalente ove dilagasse il modello televisivo americano15. In 14 S. TUTINO, Il vizio segreto della televisione, "Vie Nuove", 26 febbraio 1956. 15 In questo senso la paura del modello americano accomuna cattolici e comunisti. Cfr, al proposito G. BETTETINI (a cura di), American Way of Television. Le origini della TV in Italia, Sansoni, Firenze, 1980; D. FORGACS, L’industrializzazione della cultura italiana (1880-1990), Il Mulino, Bologna, 1992. 7
  • 8. questo senso l’enciclica di Pio XII Miranda Prorsus indica la strada che i vertici della Dc sono chiamati a percorrere16. Di nuovo però troviamo intellettuali cattolici e intellettuali comunisti fianco a fianco, perché se i primi sono più consapevoli dei secondi, entrambi individuano questo rivoluzionario mezzo di comunicazione di massa come prodotto della società dei consumi. Quella società dei consumi portatrice di uno stravolgimento del costume che va fermato; e per arrestare il mutamento ci si rifugia nella demonizzazione dei consumi – il paganesimo dei consumi. Tuttavia, l’anatema non basta a cancellare il consumismo che abbatte tutte le barriere e passa anche e soprattutto per gli spazi televisivi dedicati alla pubblicità e all’intrattenimento, a dispetto della censura alle ballerine e malgrado i palinsesti si arricchiscano di trasmissioni educative17. E’ su questo nodo che si misura l’inadeguatezza delle due grandi “agenzie etiche” nel leggere la modernità, perché la cultura politica della Dc e del Pci non può di principio attribuire agli oggetti di consumo una potenza di linguaggi. Eppure basterebbe attingere alla cultura antropologica per trovare una tesi esattamente opposta, vale a dire che nel tessuto della quotidianità i consumi diventano il sostrato vitale delle società comunitarie, cioè proprio quanto sta avvenendo nell’Italia della fine dei Cinquanta. Così, nonostante il disprezzo per la televisione o il tentativo di “blindarla”, questo nuovo oggetto di consumo, motore e acceleratore della corsa al consumo tanto da renderlo non solo lo specchio del boom, ma uno dei principali volani del miracolo economico italiano, piace irresistibilmente agli italiani di tutte le fedi politiche e religiose. Sotto questo profilo, il divario con le élites politico- intellettuali non potrebbe essere più chiaro; né può stupire che col 1968 anche il modello culturale- pedagogico della televisione di Stato giunga al tramonto, a conferma del ritardo accumulato dai maggiori partiti nel leggere e nell’accettare la rivoluzione del costume. 16 Il primo intervento di Pio XII risale alla nascita della televisione in Italia quando in una Esortazione ai vescovi il pontefice indicava i compiti della televisione che doveva essere non solo “moralmente incensurabile”, ma anche “cristianamente educatrice”. La citazione è tratta da G. GUAZZALOCA, Consumi e cittadinanza: la società del benessere e dei consumi nell’Italia del miracolo economico, relazione presentata al Convegno della Sissco, settembre 2005. 17 Cfr. C. MANNUCCI, Lo spettatore senza libertà. Radio-televisione e comunicazione di massa, Laterza, Bari, 1962. Per una riflessione più recente cfr. E. MENDUNI, La televisione. Il mondo in ogni casa. Forme e poteri del piccolo schermo nell’era multimediale, Bologna, Il Mulino, 2001. 8