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La Costituzione, stella polare della democrazia

           Raimondo Ricci, Giancarlo Rolla, Valerio Onida, Andrea Manzella

Nell'ambito delle clebrazioni per il sessantesimo anniversario dell'entrata in vigore della
Costituzione italiana, il 17 gennaio 2008 l'Istituto ligure per la storia della Resistenza e dell'età
contemporanea ha organizzato una tavola rotonda dal titolo “La Costituzione, stella polare della
democrazia”.
Di seguito sono pubblicati i loro interventi.

Pubblicato in “Storia e memoria”, 2008- Vol.17 - Fasc.1 – pp. 21 - 37

        Raimondo Ricci:
        Signore e Signori, amici, rappresentanti delle istituzioni, tocca a me introdurre questo
momento solenne di ricordo e commemorazione di un’epoca e di un evento che ha cambiato la
storia d’Italia. Noi siamo qui per celebrare, per ricordare, per riflettere sul momento in cui è entrata
in vigore la Costituzione della nostra Repubblica e io vi ringrazio a nome di tutte le Istituzioni dalle
quali sono stato delegato a parlare.
        La mia età molto avanzata mi consente di parlare della Costituzione con un senso di
commozione e nello stesso tempo di riflessione, poiché essa ha rappresentato, di quel periodo
drammatico e straordinario attraverso il quale l’Italia è riuscita a cambiare la propria identità, il
lascito più importante. È chiaro come mi riferisca al periodo della lotta antifascista e della
Resistenza, a quel periodo cioè nel quale la parte migliore del nostro popolo è riuscita a dare il
segno della propria volontà di rompere con un regime totalitario e di fondare una realtà
democratica. Fondare, giacché non si può parlare di rifondazione, essendo stata la democrazia
antecedente all’entrata in vigore della nostra Costituzione parziale e zoppa. Basti pensare come
allora non fosse previsto il voto alle donne e al peso della casa reale. Ebbene, io credo che questo
epocale cambiamento della realtà italiana e della sua identità, attuatosi grazie alla lotta resistenziale
culminata nel 25 aprile 1945, sia stato non solo il frutto della vittoria alleata nella seconda guerra
mondiale ma anche il merito del nostro popolo, dei tanti giovani, dei militari, degli uomini e delle
donne che in condizioni estremamente drammatiche hanno compiuto la giusta scelta, a prezzo di
enormi sacrifici e con il sacrificio, spesso, della loro stessa vita.
        Ma c’è qualcosa che non è stato portato qui dagli angloamericani o dai sovietici, qualcosa
che ha mutato in profondità l’identità del nostro Paese: è stato infatti l’antifascismo, movimento
politico ed ideale non importato dall’estero, a guidare, in nome dei valori di libertà, democrazia,
giustizia, la lotta delle forze più nobili del nostro popolo contro il regime mussoliniano. E io voglio
ricordare il senso unitario dell’antifascismo, quell’incontro tra anime, culture, ideologie diverse che,
lungi dal costituire un impedimento, ha favorito la nascita di una Costituzione tra le più avanzate
dell’Occidente, frutto del senso di responsabilità di uomini che sapevano di dover assolvere un
compito fondamentale nella storia d’Italia. Io credo che l’incontro fra uomini come Umberto
Terracini e Alcide De Gasperi abbia consentito alla Costituzione di nascere e che, nonostante i vari
compromessi raggiunti nella stesura del testo, il suo aspetto saliente debba ravvisarsi nella
condivisione di alcuni valori e principi fondamentali che venivano ad opporsi in maniera radicale e
antitetica alle parole d’ordine dei totalitarismi nazista e fascista.
        È proprio da questa tensione, da questo vissuto collettivo, da queste speranze, che è nata la
Costituzione della Repubblica, che ha tradotto nei suoi articoli, soprattutto nei primi dodici,
riguardanti i principi fondamentali, e negli altri concernenti i diritti e doveri dei cittadini, l’essenza
di un rinnovamento e di una prospettiva per il futuro. Vorrei, a questo proposito, ricordare l’articolo
3, che parla dell’eguaglianza come meta da raggiungere attraverso l’intervento pubblico, l’articolo
11, sul ripudio della guerra come strumento per la risoluzione dei contrasti internazionali, l’articolo
36, sulla dignità del lavoro.
Io credo di non dovere aggiungere altro, ma questo legame fra lotta del popolo italiano e
Costituzione della Repubblica doveva essere particolarmente sottolineato da chi, come me, ha
vissuto personalmente questa esperienza prima come militare, poi come resistente e infine come
deportato in un campo di concentramento nazista e continua a viverla adempiendo il compito, per il
poco tempo che gli resterà ancora da vivere, della testimonianza soprattutto nei confronti dei
giovani, nella speranza che sappiano far tesoro della nostra storia e difendere i valori della
Costituzione repubblicana a sessant’anni dalla sua entrata in vigore.
        Darò adesso la parola al professor Rolla, ordinario di Diritto costituzionale dal 1980 e
direttore del centro studi sulla Comparazione dei sistemi costituzionali in tutto il mondo, un centro
che prospera sotto la sua guida a Genova ed è legato a molte istituzioni, in particolare spagnole, di
Madrid, di Granada, e dell’America latina e del Canada. Vorrei anche ricordare che con il professor
Giancarlo Rolla ci siamo trovati insieme in una grande battaglia, la battaglia per difendere la
Costituzione dallo stravolgimento che nel 2006, dunque meno di due anni fa, tendeva a modificare
profondamente quello che deve essere invece la bussola, la stella polare della nostra democrazia.
La Costituzione deve essere modificata e migliorata in relazione ai tempi ma non certamente essere
profondamente alterata.

        Giancarlo Rolla:
        Ringrazio il senatore Ricci non solo per le gentili parole ma anche per l’onore ed il piacere
di partecipare a questa iniziativa. Cercherò di sviluppare alcune brevi considerazioni su quello che
mi sembra essere oggi il valore più profondo e il senso più autentico della nostra Costituzione, in
modo da poter affidare poi all’autorevolezza del professor Onida un intervento più ampio e più
organico.
        Vorrei partire da due giudizi che in tempi diversi sono stati dati della nostra Carta
costituzionale e che a me sembrano ancora particolarmente validi. Il primo afferma che la
Costituzione ha il merito di aver saputo esprimere il larghissimo consenso che si era determinato
nella società italiana perché si potessero adottare istituzioni democratiche, rispettose delle libertà
tradizionali e insieme aperte ai diritti sociali. Il secondo dice che la Costituzione è stato uno
strumento particolarmente efficace per stimolare il rinnovamento del sistema italiano e per renderlo
conforme ai princìpi del moderno costituzionalismo. A proposito di questi due giudizi mi sembra
interessante sottolineare proprio due concetti che ha ripreso anche Ricci: il primo relativo al
larghissimo consenso che si era formato non solo nell’Assemblea costituente ma anche nella società
italiana; il secondo relativo al fatto che la Costituzione inseriva finalmente lo Stato italiano nel
novero dei moderni ordinamenti democratici e sociali.
        Partendo da quest’ultima considerazione desidero perciò fare alcune sottolineature, a
cominciare da quello che a me pare un equivoco ricorrente: considerare cioè la Costituzione come
una semplice legge, e sia pure legge suprema e fondamentale; l’equivoco consiste nel vederla come
una legge che il Parlamento, sia pure nel rispetto di particolari procedure, può legittimamente e per
così dire tranquillamente modificare così come modifica, abroga e sostituisce le leggi ordinarie.
Questo equivoco credo vada indicato con forza per ribadire come la Costituzione fissi e traduca sul
piano giuridico quelli che sono i valori, i principi e le regole nelle quali il popolo si riconosce.
        Per riprendere l’immagine di un antico pensatore, si potrebbe dire che la Costituzione è
l’anima della repubblica, l’anima della società. Scopo della Costituzione è di affermare con forza un
senso di appartenenza, di individuare le ragioni che giustificano lo stare insieme di una comunità.
La forza della Costituzione non deriva soltanto dal fatto che le sue norme hanno una particolare
forza giuridica per cui vincolano tutti i cittadini e tutti i poteri, ma anche dal fatto, come
ricordavano anche i due giudizi da cui sono partito, che i princìpi e le regole che esprime sono
accettati e convalidati dalla cultura del Paese, sono cioè capaci di esistere per sé, di penetrare in
profondità nel tessuto sociale, di diventare naturali ed evidentemente necessari.
        I giudizi che gli storici e i giuristi hanno dato sono concordi nel ritenere che dal 1948 ad
oggi la Costituzione non solo ha saputo adempiere questa funzione, ma ha avuto anche
un’importante funzione di tipo formativo ed educativo, facendo in modo che il consenso intorno ai
valori che afferma si accrescesse e si rinnovasse nel succedersi delle generazioni; e questa
valutazione sono persuaso abbia una valenza oggettiva. Questo non esime dal vigilare perché la
cultura del Paese non si discosti dalla cultura della Costituzione.
         Su diversi fronti − del diritto, della legalità, del rispetto della sovranità popolare, del
principio di solidarietà tra le persone e i territori − talvolta emergono segnali abbastanza
preoccupanti che non debbono essere sottovalutati. Ritengo quindi che, prima di porsi il problema
di un cambiamento della Costituzione, sia doveroso cercar di rinnovare i valori della Costituzione
all’interno della società. Tutte le costituzioni, per la loro natura, sono nate per durare nel tempo e
hanno avuto e hanno un ruolo determinante nel plasmare un ideale di popolo. Ma la nostra
Costituzione può e deve avere anche un’altra importante funzione che si collega con la nascita e
l’affermarsi di un’idea forte di cittadinanza, fatta non solo di elementi per così dire extragiuridici in
riferimento alle idee di nazionalità, comunanza di lingua, etnia, storia, cultura, ma fondata - di là
dai concetti di nascita, sangue e suolo - su valori e regole precise. Questo profilo della Costituzione
è di fatto molto importante in tutti quegli ordinamenti che hanno la caratteristica di non essere più
ordinamenti strettamente nazionali ma tendono a divenire sempre più ordinamenti plurinazionali e
anche multiculturali, come tende ad essere il nostro.
         Nello stesso tempo andrà rilevata la fortuna toccata alle formule non solo giornalistiche ma
francamente politologiche, che parlano di prima, seconda e terza Repubblica. Sappiamo che, dal
punto di vista del diritto, la Repubblica è una sola, sia pure nel suo trasformarsi e modificarsi. È
una, perché fa riferimento a principi essenziali che continuano a permanere. Mi riferisco ai valori
dell’apertura internazionale, dell’apertura all’Unione europea, al pacifismo, al riconoscimento
dell’accoglienza degli stranieri, del necessario pluralismo, della tutela delle minoranze e delle
differenze, per non parlare delle libertà tradizionali che continuano a essere un ottimo fondamento:
valore del principio di legalità, del principio di autonomia, riconoscimento dei diritti delle comunità
locali e delle comunità territoriali. Questi, di là dai cambiamenti dei regimi e delle formule
politiche, rimangono gli assi attorno ai quali la Costituzione e la Repubblica continuano a ruotare.
         Resta indubbio che le costituzioni, per poter durare nel tempo, debbono anche avere la
capacità di trasformarsi e di modificarsi assecondando quelle che sono le trasformazioni e le
variazioni delle singole storie. Di qui l’immagine suggestiva che vede nella carta fondamentale una
sorta di albero vivente che produce sempre nuovi frutti rinnovandosi attraverso il vitale
collegamento con la società. La domanda è a chi competa propriamente assicurare l’elasticità di una
Costituzione. Compete innanzitutto al legislatore attraverso l’approvazione di leggi di attuazione
della Costituzione stessa, dove l’espressione “attuazione” non è qualche cosa di meccanico, giacché
“attuare” significa mettere ogni volta in sintonia le disposizioni, le norme, il testo della Costituzione
con le trasformazioni sociali e le trasformazioni culturali. Andrà riconosciuto che su questo
versante, in diversi momenti della nostra storia repubblicana, il legislatore ha incontrato di volta non
pohe difficoltà. Ha certo incontrato difficoltà nella prima fase in cui molte parti, molti istituti sono
stati attuati con grande ritardo; ma credo che incontri molte difficoltà ancora oggi là dove mancano
le leggi che diano attualità alla Costituzione in rapporto a diversi e importanti cambiamenti.
Pensiamo ai cambiamenti legati alle problematiche della libertà personale, della laicità delle
istituzioni, delle libertà religiose, dei diritti delle comunità locali, della tutela contro forme di
discriminazione e così via. Citerei poi il secondo soggetto cui compete assicurare l’elasticità della
Costituzione: ed è sicuramente l’interprete, il giudice, che ha svolto in tutti questi anni un ruolo
fondamentale nel perseguire questo risultato - e tutti noi ci auguriamo che la sua azione continui al
meglio anche perché può oggi arricchirsi di ulteriori strumenti, come la Carta dei diritti dell’Unione
Europea, che può essere utilizzata per attuare e attualizzare la stessa Costituzione.
         È evidente da ultimo che l’adattamento della Costituzione è compito proprio del legislatore
costituzionale. Ma questo intervento non può non avvenire in modo condiviso perché, come
accennato, la Costituzione non è una semplice legge, ma uno specchio, un valore presente nella
società: utilizzando un’espressione simbolica si potrebbe dire che ciò dovrebbe essere fatto con lo
spirito di un restauro conservativo, oppure di un’alta manutenzione. Certo è che, se si avverte che i
comportamenti pubblici o politici non sono coerenti con le previsioni costituzionali; la via maestra
non sarà quella di adattare la Costituzione a questi comportamenti ma, al contrario, di cercar di
modificare questi comportamenti per riportarli in sintonia con i valori della Costituzione.
          Un ultimo punto brevissimo per additare un ulteriore equivoco: pensare cioè che si possano
rigidamente distinguere le due parti della Costituzione dicendo: nella prima parte ci sono i valori, i
diritti, i princìpi e nella seconda parte solo delle regole organizzative. Questo non è corretto, perché
non si tratta di due parti giustapposte ma complementari ed essenziali, perché la garanzia dei
princìpi, dei valori e dei diritti contenuti nella prima parte è in buona misura affidata alle regole
contenute nella seconda. Faccio un esempio: i diritti. Il riconoscimento dei diritti rischia di essere
una romantica dichiarazione se non gli corrisponde un’efficace tutela. Dove si trova la tutela del
riconoscimento dei diritti? Ovviamente, nella seconda parte, nel ruolo dell’ordinamento giudiziario,
nelle caratteristiche di un Parlamento pluralistico, di un’amministrazione efficiente e di una
giustizia rapida, imparziale e indipendente. L’altro grande valore, il principio di legalità, dove
trova il suo inveramento? Nella seconda parte della Costituzione, fondamentalmente. Vorrei quindi
concludere ribadendo come che la Costituzione debba essere considerata un tutt’uno. Bisogna fare
molta attenzione perché le modifiche, che si intendano apportare alla sua seconda parte, non
arrivino a incidere sui valori e i principi fondamentali che sono contenuti nella prima.

        Raimondo Ricci:
        Ringrazio il professor Rolla per aver detto con molta chiarezza qual è la funzione della
nostra Costituzione. Passo ora la parola al professor Valerio Onida. Il professor Onida è ordinario di
Diritto costituzionale all’Università di Milano ed è stato componente della Corte costituzionale dal
1996 al 2005 e dal 2004 fino alla conclusione del mandato ha ricoperto inoltre la carica di
presidente della Corte costituzionale. Egli cura una rivista annuale “Viva vox constituionis”, che si
occupa della giurisprudenza costituzionale; continua infine ad occuparsi in modo fattivo del pratico
controllo che la Corte costituzionale esercita sull’applicazione delle norme costituzionali alla
legislazione italiana e, in genere, ai comportamenti pubblici nel nostro Paese, ed è persona la quale,
oltre all’attività scientifica, ha dedicato e continua a dedicare molto tempo all’attività di solidarietà
umana, all’attività filantropica. Il suo studio professionale è uno studio nel quale ci si adopera
soprattutto in un’azione di recupero delle persone, di istruzione dei detenuti nel tentativo, del quale
anche io come legislatore mi sono occupato nel periodo in cui sono stato in Parlamento, del
recupero di coloro che hanno violato la legge ad una vita diversa.

        Valerio Onida:
        Vorrei cominciare dicendo che noi siamo abituati a parlare della nostra Costituzione come
d’una legge nata dalla Resistenza, e siamo abituati a pensare alla Costituzione come a una vicenda
fondamentale, alta e nobile della nostra storia nazionale, anche come punto di convergenza delle
forze politiche nazionali. Si dice spesso che “la Costituzione è frutto dell’incontro di tre ideologie:
l’ideologia liberale, l’ideologia democratica e l’ideologia marxista”, e tutto questo è sicuramente
vero dal punto di vista storico immediato, così come è vero che la Costituzione si collega alla
Resistenza. Piero Calamandrei, questo grande costituente, in un suo celebre discorso del 1965 agli
studenti milanesi aveva detto, al momento di concludere: “Se voi volete andare alle radici della
Costituzione, sapere dove è nata, dovete andare sulle montagne, dovete andare nei luoghi dove i
partigiani hanno combattuto, dove sono morti, dove sono stati imprigionati”. Tutto vero dal punto di
vista storico. Ma è anche parziale questa visione della Costituzione, poiché essa riprende cose molto
più antiche, nei suoi articoli riecheggiano voci più lontane. A tal proposito ricordiamo che nel già
citato discorso di Calamandrei si sottoline il fatto che negli articoli della nostra Costituzione
risuonano le parole di Mazzini, Cavour, Cattaneo, “poiché là dove si dice che la Repubblica
riconosce le autonomie c’è Cattaneo, là dove si dice che lo Stato e la Chiesa sono ciascuno nel
proprio ordine sovrani c’è Cavour, e dove si parla di diritti e di doveri si trova Mazzini”. È vero
perciò che nella Costituzione italiana riecheggia molta storia del nostro Paese, ma è vero soprattutto
che il significato storico più profondo della nostra Costituzione è stato quello – come già ricordato
dal professor Rolla – di collocare il nostro Paese in una storia più ampia, in un contesto più ampio,
cioè nel contesto del costituzionalismo contemporaneo.
         La nostra Costituzione, insomma, non è un prodotto autarchico, una specie di prodotto
domestico, un compromesso nazionale: è qualcosa di più, perché quel terreno comune che tante
volte si è detto è stato trovato nel fare la Costituzione, quel punto di incontro tra ideologie e forze
politiche che allora concorsero all’Assemblea Costituente riporta a quel terreno comune che è stato
trovato nei principi del costituzionalismo contemporaneo.
         I princìpi del costituzionalismo nascono, come sappiamo, con una vocazione
tendenzialmente universale e assoluta. Tutti ricordano l’incipit delle famosa “Dichiarazione di
indipendenza degli Stati Uniti d’America”: “Noi crediamo che vi siano delle verità incontestabili e
di per sé evidenti: fra queste, che tutti gli uomini sono stati creati uguali e che tutti gli uomini sono
stati dotati dal loro creatore di alcuni diritti inalienabili”, e così via. La storia del costituzionalismo
nasce proprio da affermazioni esplicite di ideali, di fini che hanno una vocazione di tipo universale
e in qualche modo assoluto; di là naturalmente dalle continue contraddizioni che la storia dimostra,
perché è facile constatare che, tra le proclamazioni costituzionali di tutti tempi e la realtà della vita,
le contraddizioni sono continue. La Costituzione degli Stati Uniti, che cominciava con questa
solenne proclamazione, “Tutti gli uomini sono stati creati uguali”, ha convissuto per secoli con
l’istituzione della schiavitù in alcuni Stati americani. La rivoluzione francese, che ha dato luogo
all’affermazione in Europa dei principi del liberalismo, ha visto le fasi e la storia del terrore, della
rivoluzione che mangiava se stessa. L’aspirazione all’eguaglianza, che è un patrimonio storico del
costituzionalismo, è arrivata a tradursi, lo sappiamo, nell’azione di uomini che in nome
dell’eguaglianza hanno rinnegato l’esigenza della libertà, del regime pluralistico, sino al traguardo
dei regimi comunisti. Quante volte abbiamo dovuto constatare il gap, la contraddizione tra la storia
com’era, cioè i fatti, e le proclami costituzionali. Ma questa è la storia: la storia degli uomini è fatta
anche di contraddizioni. Ciò non toglie, anzi conferma, che questi princìpi del costituzionalismo,
che gli uomini nel loro faticoso cammino hanno enucleato, enunciato, proclamato e scritto nelle loro
carte, sono princìpi che aspirano ad essere punti di riferimento permanenti e punti di riferimento
universali. Per questo possiamo dire che la nostra Costituzione si deve in realtà considerare il frutto
di un’epoca molto particolare della storia dell’umanità, che è l’epoca – come ricordava già il
senatore Ricci – della seconda guerra mondiale, perché la conclusione tragica di quella guerra e ciò
che è avvenuto in seguito è stato il momento storico nel quale, per la prima volta, l’umanità, e non
solo ristrette minoranze intellettuali, ha creduto nella possibilità di unificare il mondo intorno a
princìpi comuni, quelli appunto della dignità umana, della libertà, dell’eguaglianza, della
democrazia, della giustizia interna e internazionale, del dominio del diritto e non più della forza,
non solo nei rapporti tra le persone ma nei rapporti fra le nazioni e i popoli. Non è un caso che
l’Organizzazione delle nazioni unite sia nata esattamente all’indomani della fine della seconda
guerra mondiale e che uno dei primi atti dell’Assemblea delle Nazioni unite, in cui allora tutti gli
stati del mondo, oggi quasi tutti, si riconoscevano ed erano componenti, sia stata l’approvazione di
quella “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo” che è stata votata dall’Assemblea dell’Onu il
10 dicembre 1948, per cui alla fine di quest’anno celebreremo anche un altro sessantesimo
anniversario, quello della “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo”.
         Tutto questo non è un caso, perché tale era il clima storico in cui è nata anche la
Costituzione repubblicana. Quello era il terreno di coltura del costituzionalismo italiano. Vorrei
citare qui le parole di un grande costituente, Giuseppe Dossetti, che come sapete lasciò molto presto
la vita politica, nei primi anni Cinquanta, per votarsi poi al sacerdozio e alla vita monacale, ma che
nel 1994, tornando in Italia, prese la guida di un movimento di difesa della Costituzione. Dossetti,
in un discorso presto diventato famoso, del settembre 1994, diceva così: “Alcuni pensano che la
Costituzione sia un fiore pungente nato quasi per caso da un arido terreno di sbandamenti
postbellici e da risentimenti faziosi volti al passato; altri pensano che essa nasca da un’ideologia
antifascista, di fatto coltivata da minoranze, da certe minoranze che avevano vissuto soprattutto da
esuli gli anni del fascismo; altri ancora si richiamano alla Resistenza, con cui l’Italia può avere
ritrovato il suo onore, e in certo modo si è omologata ad una certa cultura internazionale. Ebbene,
tutte queste opinioni non sono fondamentalmente errate, ma sono insufficienti, perché – continuava
Dossetti – la Costituzione italiana del 1948, proprio perché votata l’indomani della seconda guerra
mondiale, si può ben dire nata da quel crogiolo ardente e universale più che dalle stesse vicende
italiane del fascismo e del postfascismo. Più che del confronto-scontro fra tre ideologie datate, essa
porta l’impronta di uno spirito universale e in certo modo, transtemporale”. Sono parole che, credo,
non potrebbero meglio esprimere quel concetto che stavo cercando di richiamare: il carattere, in
qualche modo, non “domestico”, non autarchico della nostra Costituzione, il fatto che essa è in
realtà uno dei prodotti migliori di una fase storica nella quale l’umanità ha guardato a princìpi
capaci di unificare il mondo.
        Questo è insomma il clima in cui nasce la Costituzione. Per questo il miglior modo di
celebrare i sessant’anni della Costituzione è secondo me quello di riflettere su due fenomeni che,
pure nel nostro mondo – del quale tanto spesso dobbiamo constatare le intrinseche contraddizioni,
le insufficienze, i drammi e le tragedie – rappresentano la continuazione del momento di fede che
l’umanità ha espresso: per la prima volta, direi, nella storia successiva alla seconda guerra
mondiale. Il primo di tali fenomeni lo chiamerei “internazionalizzazione del Diritto costituzionale”.
Il Diritto costituzionale, che nasce come diritto delle nazioni (ogni nazione aveva la sua
Costituzione e si richiamava proprio agli elementi specifici della nazionalità), diventa un diritto
costituzionale internazionale, universale. Il secondo fenomeno, corrispondente, lo potremmo invece
chiamare “costituzionalizzazione del Diritto internazionale”: il Diritto internazionale, il diritto dei
rapporti fra gli stati, che nasceva sulla base di certi principi, diventa Diritto costituzionale, nel senso
che fa propri, per la prima volta, quei principi, quegli ideali universali. Il Diritto internazionale
classico, come sappiamo, era fondato sull’idea base per la quale “ciascuno stato è sovrano”, e
“sovrano” voleva dire assolutamente sovrano, nel senso che non riconosceva nessuno “fuori”; i
rapporti con gli altri membri della comunità internazionale erano rapporti tra “pari”, tra stati sovrani
che dialogavano tra loro in rapporti quindi di tipo “contrattuale”. L’unica regola generale del Diritto
internazionale era quella che si esprime nel motto latino “pacta sunt servanda”, bisogna adempiere
ai patti: se si contratta; se si stipula un contratto lo si deve mantenere. Il Diritto internazionale era
questo: ciascuno stato rivendicava una piena sovranità, una piena indipendenza, l’insindacabilità dei
propri poteri, e poi trattava con gli altri stati. Come sempre nei rapporti tra soggetti, si andava a
patteggiare, a negoziare, e talvolta capitava anche il caso in cui ci si trovasse in dissenso. Quando
sorgeva una controversia, nel Diritto internazionale classico quale era lo strumento per risolvere le
controversie? La guerra. La guerra era un istituto, l’istituto centrale potremmo dire, del Diritto
internazionale, strumento giuridico destinato a risolvere le controversie. La guerra voleva dire la
prevalenza del più forte, così come era avvenuto nelle antiche società prestatuali: dove gli individui
non avevano ancora dato vita ad un’autorità sociale e la risoluzione delle controversie tra individui
era rimessa ai rapporti di forza, potremmo dire a “guerre private”; così nella comunità
internazionale, per secoli, per millenni, la risoluzione delle controversie era rimessa alla forza, cioè
alla guerra. Ebbene questi due fenomeni, l’internazionalizzazione del Diritto costituzionale e la
costituzionalizzazione del Diritto internazionale, cioè il fatto che per la prima volta a livello
internazionale si affermi l’idea che vi debbano essere dei principi, che vi sia un diritto che debba
prevalere sulla forza, hanno fatto in questi anni, in questi decenni, un grande cammino, un lungo
cammino.
        I fatti sono ancora lontani, naturalmente – non dimentichiamo mai che la storia è fatta anche
di contraddizioni. Ma quando, il 10 gennaio del 1948, l’Assemblea generale dell’Onu approva la
Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, scrive delle affermazioni che almeno sulla carta tutti
gli stati del mondo accettano. E la Dichiarazione universale non è che la traduzione sul piano,
appunto, universale di quegli stessi principi del costituzionalismo: la dignità di ogni essere umano,
l’eguaglianza fondamentale, i diritti inalienabili di tipo civile, politico e sociale. In Europa questa
Dichiarazione universale ha dato luogo a una serie di ulteriori tentativi di applicazione giacché la
Dichiarazione non è un documento strettamente giuridico ma una dichiarazione politica alla quale
l’Organizzazione delle Nazioni unite si è impegnata a dare attuazione con degli accordi, con delle
convenzioni internazionali, e queste sono state convenzioni stipulate tra molti stati, fra tutti o tra
gruppi di stati. Per quanto riguarda l’Europa, per esempio, c’è la Convenzione europea dei diritti
dell’uomo per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, stipulata nel 1950 a
Roma, e, per quanto riguarda l’Italia, recepita ed entrata in vigore con una legge del 1955. Questa
Convenzione ha una particolare importanza non solo perché riguarda la nostra area geopolitica, cioè
l’Europa, e l’Europa in questo senso più larga dell’Europa comunitaria, perché la Convenzione
europea comprende quarantasei stati membri sino alla Russia e alle repubbliche ex-sovietiche; ed è
importante perché per la prima volta nella storia non si è limitata a stabilire che gli stati avessero
degli obblighi – l’obbligo di riconoscere questi diritti fondamentali a tutti coloro che entrano sotto il
loro controllo, sotto la loro giurisdizione, sono loro cittadini – ma ha dato vita anche ad un
tribunale, a una corte internazionale, la Corte europea dei diritti dell’uomo che siede a Strasburgo e
pronuncia sulle controversie in tema di violazione dei diritti fondamentali. Questa Corte è una corte
non appartenente ai singoli stati, è una corte che pronuncia su tutti gli stati membri e che dà
attuazione ai diritti fondamentali. La tutela dei diritti fondamentali oggi, per noi, non sta più solo
nel diritto nazionale, ma anche in questo diritto sovranazionale. Un tempo si diceva:“ci sono giudici
a Berlino”, per significare: ci sono giudici nei luoghi della nazione; oggi potremmo dire: a
Strasburgo, in Europa, cioè al di sopra della nazione ci sono giudici. Questo naturalmente non fa
scomparire il senso delle giurisdizioni nazionali, delle costituzioni nazionali, ma indica come si
attui l’universalizzazione dei diritti.
         Proprio alla fine dell’anno scorso la nostra Corte Costituzionale ha adottato due sentenze che
sono forse un po’ sfuggite all’opinione pubblica perché sembrano un fatto tecnico, mentre si tratta
di due sentenze molto importanti, in cui per la prima volta la Corte ha affermato che ciò che sta
scritto nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo, quindi i diritti garantiti dalla Convenzione
europea e soprattutto il modo in cui quei diritti sono affermati, tradotti e interpretati dalla Corte
europea dei diritti, hanno dignità costituzionale, nel senso che vincolano le autorità del nostro
Paese, anche il legislatore, allo stesso modo della Costituzione. Si tratta di un progresso importante.
Vorrei dire in conclusione un’ultima cosa: la nostra Costituzione è uno dei prodotti migliori di
quella fase storica, e lo dimostra non solo la coincidenza che c’è tra le fondamentali affermazioni di
diritto della Costituzione, la Dichiarazione universale e la Convenzione europea, ma il fatto che la
nostra Costituzione ha, fin dall’inizio, aperto questa prospettiva sovranazionale grazie all’articolo
11, che è una sua singolarità. Piero Calamandrei la chiamava “una finestra attraverso la quale,
quando il tempo non è troppo nuvoloso, riusciremmo a intravedere qualcosa che potrebbero essere
gli Stati uniti d’Europa o del mondo”. L’articolo 11 esprime proprio questo afflato, questo spirito
universalistico della Costituzione, l’apertura all’universalismo. Noi non abbiamo avuto bisogno
della lunga storia dell’Europa unita, dell’Europa comunitaria di cui l’Italia è stata per lungo tempo
uno dei protagonisti, uno dei sei stati fondatori – alcuni statisti italiani sono tra i padri dell’Europa -;
non abbiamo avuto bisogno di cambiare la nostra Costituzione per cedere parti della sovranità
italiana alle istituzioni europee, perché avevamo già nella nostra Costituzione questa clausola
europea, l’articolo che diceva che la Repubblica italiana ammette, accetta le limitazioni di sovranità
necessarie per dare vita ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni. Si
pensava sopratutto all’Onu in quel momento, quando si scrisse questa clausola; ma è stata la
clausola che ha consentito, che ha fondato il cammino europeo anche dell’Italia con gli altri stati
europei. Il ministro degli esteri francese, Schuman, uno dei padri dell’Europa, scrisse nella sua
celebre dichiarazione del 1950 che “costruire l’Europa era necessario per rendere l’ipotesi di
un’altra guerra in Europa non solo impensabile ma materialmente impossibile”. Questa
affermazione si è avverata perché noi oggi possiamo dire che la guerra in Europa è materialmente
impossibile e non solo impensabile, nel momento in cui abbiamo visto che non ci sono più
frontiere, mentre come fuori di questi processi di unificazione, di integrazione la guerra purtroppo è
ripresa: basti pensare ai fatti della ex Jugoslavia.
         Un’ultima cosa. La nostra Costituzione, che è prodotto trastemporale, prodotto universale e
non solo domestico, non è qualcosa di diverso dai principi del costituzionalismo europeo e
mondiale. Qualcuno ritiene che la nostra Costituzione, proprio perché è nata in quel periodo, con il
concorso soprattutto di alcune forze politiche, quelle dominanti nell’Assemblea costituente, sia una
costituzione ideologicamente orientata; qualcuno dice “non liberale”, “troppo sociale”. Bene, io
inviterei chi fa questo tipo di affermazioni, chi pensa che la nostra Costituzione sia invecchiata
perché, appunto, “troppo sociale e poco attenta alle libertà”, a fare una lettura comparata della
Costituzione italiana e della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Si potrà constatare che,
certe volte con le stesse parole, si dicono le stesse cose. E si dice che cosa? Che al centro della
Dichiarazione c’è la dignità dell’uomo, ci sono i diritti di libertà: non solo le libertà civili, non solo
le libertà politiche, ma anche i diritti sociali.
         La prima grande affermazione della necessità di dar vita ad un assetto sociale e politico nel
quale non solo la libertà ma anche l’eguaglianza e la giustizia fossero promosse, la prima grande
affermazione si trova in un celebre discorso di un presidente americano del 1941: è il discorso delle
quattro libertà. Il presidente Roosevelt disse: “noi vogliamo creare un mondo nel quale ovunque nel
mondo siano assicurate queste quattro libertà”, ossia la libertà di espressione, la libertà di religione,
la libertà dal bisogno, la libertà dalla paura. Queste quattro libertà sono il fondamento del
costituzionalismo – e infatti vengono richiamate espressamente nel preambolo della Dichiarazione
universale. Non si può quindi dire - sarebbe un falso storico - che le costituzioni come la nostra che
è attenta ai diritti sociali siano costituzioni particolari, lontane dai princìpi del costituzionalismo
liberale. In realtà, il costituzionalismo è un patrimonio comune, al quale siamo stati associati
attraverso la Costituzione. Teniamocela dunque stretta questa Costituzione repubblicana.

       Raimondo Ricci:
       Grazie al professor Onida per il suo bellissimo intervento, che è penetrato nell’anima
universale della nostra Costituzione. “Teniamocela stretta”, egli ha affermato, e questo mi pare sia
un invito al quale tutti dobbiamo rispondere, soprattutto i giovani. Passo adesso la parola al
professor Andrea Manzella, professore di Diritto costituzionale e direttore del Centro studi sul
Parlamento dell’Università Luiss di Roma. Il professor Manzella è attualmente senatore della
Repubblica, presiede la XIV commissione, quella che si occupa delle politiche dell’Unione
europea, ed è stato Segretario generale della Presidenza del Consiglio dei Ministri con il governo
Spadolini, con il governo De Mita e con il governo Ciampi.

        Andrea Manzella:
        Ringrazio Raimondo Ricci per questa sua introduzione. Il senatore Ricci merita sempre la
nostra gratitudine per la sua carica di animatore di ogni battaglia in difesa degli ideali che
informano la nostra Carta costituzionale. Aggiungo che in questp momento sono lieto di portargli
anche il saluto del nostro presidente della Repubblica. Alcuni giorni fa Valerio Onida ha svolto una
magistrale lezione all’Accademia dei Lincei, soffermandosi tra l’altro sulle “quattro libertà”.
Durante quel discorso io, di colpo, mi sono ricordato bambino – un ricordo un po’ amarognolo
perché le quattro libertà erano scritte nel quadrato delle “amlire” –, un bambino che viveva nel
Regno del Sud e che per la prima volta si era accorto, dato che stava prendendo lezioni di inglese,
dell’esistenza di quelle quattro libertà che giustamente Onida ha ricordato e che hanno costituito e
costituiscono il fondamento della “internazionalizzazione del diritto costituzionale”.
        L’ultima volta che sono venuto a Genova è stato per un momento di tensione, di lotta: era la
lotta per il referendum in difesa della Costituzione. Questa difesa ha portato a un risultato
straripante per il popolo italiano, come si evince dal confronto con i dati delle elezioni politiche del
2006, che hanno danno un sostanziale pareggio tra i due schieramenti. Il che significa che in
occasione del referendum ci fu un riversamento di voti in favore della Costituzione anche da parte
di elettori di partiti che sostenevano la tesi contraria, tanto che possiamo dire che la Costituzione
mostrò allora appieno il suo valore di bene pubblico condiviso. Adesso non siamo più
nell’atmosfera tesa della lotta per la difesa della Costituzione, anche se non si deve abbassare la
guardia; ma è il momento di dare luogo a una riflessione pacata, pur sapendo che non si può fare
una riflessione su un lago tranquillo, perché la nostra Costituzione non è fatta di acque tranquille,
bensì di una continua dialettica, di una continua tensione, di un continuo aspirare verso un qualche
cosa in cui si traduce anche la stessa storia del nostro Paese. Il costituzionalismo non è una dottrina
per anime belle, per anime pacifiche; è una dottrina per combattenti. Ora, in questa dialettica della
Costituzione mi è parso rilevare quattro elementi, più precisamente quattro paradossi, di fondo.
         In primo luogo c’è un paradosso di opposti tra attuazione e inattuazione; poi c’è il
paradosso tra povertà e ricchezza semantica della nostra Costituzione, nel senso che il significato
delle norme costituzionali da un lato è povero, dall’altro è pieno di ricchezza e forse di ricchezza
inesplorata. Il terzo paradosso è quello tra rigidità e flessibilità: è vero, come sanno i nostri studenti
di Scienze politiche e di Giurisprudenza, che la nostra Costituzione è rigida; ma ciò non toglie che
in questi sessant’ abbia mostrato una straordinaria flessibilità. Infine, il quarto ed ultimo paradosso
– ma forse ce ne sono altri su cui non possiamo soffermarci – è quello tra persistenza e mutamento
della Costituzione, tra la durata e il mutamento che c’è.
         Attuazione e inattuazione. La Costituzione è stata attuata: attuata attraverso lotte, attraverso
l’intervento del presidente della Repubblica Gronchi che fece un’opera importante contribuendo al
mutamento condiviso tra maggioranza ed opposizione, quello dell’art. 111. C’è stato quindi questo
completamento, e io credo che sia stato un completamento anche quello del titolo V sulle Regioni,
che rappresenta la continuazione dell’articolo 5 della Costituzione che dice “la Repubblica
riconosce le autonomie territoriali del nostro Stato”. Vediamo il catalogo dei diritti fondamentali
della Costituzione che poi hanno trovato conferma recente in quel Trattato europeo di Lisbona del
dicembre scorso che ha convalidato la Carta dei diritti fondamentali degli europei e in cui i nostri
diritti fondamentali trovano la loro internazionalizzazione, perché vi è una perfetta consonanza e
uno scambio di validità tra l’uno e l’altro catalogo. Però, se consideriamo bene le cose, non
possiamo non chiederci se sono stati veramente attuati tutti questi diritti. Tanto per rimanere
all’attualità, è stato veramente attuato l’art. 35 della Costituzione che dice: “la Repubblica tutela il
lavoro in tutte le sue forme e le sue applicazioni”? È stato veramente applicato, nel momento in cui
il problema della sicurezza del lavoro è così presente al nostro spirito, al nostro dolente spirito di
italiani? È stato veramente applicato l’art. 47 della Costituzione, che dice “la Repubblica tutela il
risparmio”, nel momento in cui ci sono centinaia di migliaia di consumatori che hanno visto i loro
risparmi volatilizzati nei derivati, nelle diavolerie della cosiddetta finanza creativa? Poi abbiamo
visto l’articolo 5 delle autonomie territoriali. Ma noi veramente crediamo che sia stata attuata la
Costituzione quando non è stato ancora attuato quel Senato su base territoriale che è il presupposto
di una rappresentanza bicamerale che nella territorialità vuole esprime l’adeguatezza ai tempi
moderni? Gli stessi diritti fondamentali sono veramente applicati in tutte le regioni senza differenza
di livello di prestazione, come dice la Costituzione? Ecco, da un lato l’attuazione e dall’altro
l’inattuazione della Costituzione; ed è una dialettica che si ritrova anche nella parte seconda della
Costituzione. Pensate veramente che l’apparato normativo di governo dato dagli articoli 92 e 95,
quello che traccia il rapporto tra Governo e Parlamento, abbia piena attuazione senza che diventi
realtà quel che chiedeva l’ordine del giorno Perassi esigendo, con parole che suonerebbero
durissime se fossero pubblicate oggi, che l’assestamento definitivo del nostro apparato di governo
evitasse le degenerazioni del parlamentarismo? Non è forse parlamentarismo degenerato quello dei
gruppuscoli di tre o quattro deputati, tre o quattro senatori che fanno il bello e il cattivo tempo?
Ecco la dialettica tra attuazione ed inattuazione della Costituzione, il senso della lotta continua per
la Costituzione.
         Il secondo paradosso è quello della povertà e nello stesso tempo della ricchezza di
significato delle norme costituzionali. Il diritto costituzionale è in genere un diritto povero perché
non può stare in piedi da solo, come un sacco, senza che ci siano adeguatezza di regolamenti
parlamentari, di leggi organiche e dell’ordinamento giudiziario. Spetta a questo apparato normativo
“di contorno” esprimere e interpretare tutta la ricchezza delle norme costituzionali, come si trattasse
di spremere una spugna, perché le norme costituzionali sono una sorta di spugna che bisogna
spremere a fondo per far sì che diano tutto il loro contenuto. Nello stesso tempo abbiamo una
grande ricchezza di significato nelle norme costituzionali: si pensi soltanto alle norme
programmatiche, all’articolo 3 che parla di partecipazione, di democrazia partecipativa, di tematiche
cioè così moderne da aver caratterizzato le ultime elezioni politiche in Francia. Lo stesso dicasi del
passaggio riservato al diritto al lavoro e a tante altre norme che attendono ancora di essere
esplicitate fino al loro estremo contenuto.
         Il terzo paradosso è quello relativo alla rigidità e alla flessibilità. Il discorso sulle norme
programmatiche dice come la Costituzione abbia una capacità di inveramento nel tempo; ma
dall’altra parte c’è l’articolo 138, che presiede alla rigidità della Costituzione. La Costituzione può
essere mutata solo attraverso procedure rafforzate e a queste procedure mette come salvaguardia
estrema quel diritto al referendum di cui abbiamo usufruito appena un anno fa. Ma poi c’è la
flessibilità, e chi preside a questa flessibilità se non la giurisprudenza della Corte Costituzionale?
Una giurisprudenza che ha accompagnato lo sviluppo intimo della Costituzione. Faccio un cenno a
quella che è la norma più evidente della flessibilità della Costituzione, cioè l’articolo 11 che afferma
che la Repubblica consente, in condizioni di parità con gli altri stati, limitazioni di sovranità in
favore di un superiore ordinamento sopranazionale. È questa la vera norma di sviluppo, di
integrazione e di flessibilità della nostra Costituzione; norma che poi, come conseguenza, è stata
completata dall’articolo 117, che si riferisce ai vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e
dagli obblighi internazionali.
         L’ultimo dei paradossi è quello della perduranza e del mutamento della Costituzione. La
Costituzione, che oggi ha 60 anni, è davvero quella che fu approvata il 28 dicembre 1947 ed entrò
in vigore il 1° gennaio 1948? O non è invece stata mutata rispetto ad allora? Si tratta, per certi
aspetti, dell’interrogativo che un grande poeta, Luis Borges, si pone quando vede Ulisse che,
arrivato alla fine del suo viaggio, dorme finalmente tra le bianche braccia di Penelope: quell’Ulisse,
che sta dormendo così, è veramente lo stesso Ulisse che sfidò i mari e gli dei e le lusinghe della
maga Circe, o non è invece qualcosa di diverso? In altre parole, il viaggio non l’ha reso diverso?
Ecco, è questo l’interrogativo che ci dobbiamo porre sulla nostra Costituzione. La Costituzione ha
fatto quel viaggio e quel viaggio l’ha mutata, perché c’è stata la giurisprudenza della Corte
costituzionale, un fluire di sentenze sui diritti fondamentali, sulle attribuzioni dei poteri dello stato,
sui referendum, che han quasi creato un tessuto connettivo in cui ormai le norme costituzionali
vivono. E abbiamo poi la Costituzione europea che rappresenta a sua volta un ordinamento
costituzionale: se guardate al Parlamento come è scritto nella Costituzione, se guardate alla giustizia
come è scritta nella Costituzione, se guardate alle forze armate come sono scritte nella Costituzione
e al il bilancio come è scritto nella Costituzione, scoprite che le cose sono differenti, perché le forze
armate sono inquadrate in una difesa europea, perché il bilancio è inquadrato nei vincoli del Trattato
di Maastricht, perché il Parlamento non fa più tutte le leggi ma solo una minima parte di esse e le
altre si fanno a Bruxelles. Ecco il cambiare della Costituzione. E allora, ci si deve chiedere, cosa è
rimasto della nostra Costituzione? È rimasto il “clima”, cioè quel suo essere parte integrante della
storia italiana pur nelle mutazioni. E di questo clima si deve tener conto quando si dubita che lo
spirito della Costituzione sia mutato in quella sua universalità, come diceva il prof. Onida che
parlava addirittura di religione. Ho apprezzato molto questo suo senso della “religiosità”dei diritti
fondamentali iscritti nella Costituzione: richiamo tanto più opportuno, credo, in un momento di
acuta contraddizione, quando, di fronte al fondamentalismo islamico e del califfato, si tende a
contrapporre un fondamentalismo cristiano e dello stato. Senza contrapporci a nessuno, noi siamo
dalla parte della Repubblica, crediamo cioè nel valore universale della Repubblica in cui sono
compresi anche i valori morali, i valori religiosi e i valori etici che sessant’anni fa hanno animato un
compromesso che era un compromesso istituzionale, non un compromesso politico. Proprio oggi ho
avuto in dono dalla mia segretaria le prime pagine dei giornali del 28 dicembre 1947 e del 2 gennaio
1948. Vi si legge come, di fronte all’impegno istituzionale che determinava l’unanime
riconoscimento della Costituzione, fosse in atto uno scontro politico violentissimo. Ma quegli
articoli dicono anche che il compromesso istituzionale transtemporale e transnazionale era più forte
delle divisioni ideologiche degli italiani. Quello era il clima, un clima che speriamo si ricostituisca
perché si chiama, ora e sempre, “patriottismo costituzionale”.

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La Costituzione stella polare della democrazia

  • 1. La Costituzione, stella polare della democrazia Raimondo Ricci, Giancarlo Rolla, Valerio Onida, Andrea Manzella Nell'ambito delle clebrazioni per il sessantesimo anniversario dell'entrata in vigore della Costituzione italiana, il 17 gennaio 2008 l'Istituto ligure per la storia della Resistenza e dell'età contemporanea ha organizzato una tavola rotonda dal titolo “La Costituzione, stella polare della democrazia”. Di seguito sono pubblicati i loro interventi. Pubblicato in “Storia e memoria”, 2008- Vol.17 - Fasc.1 – pp. 21 - 37 Raimondo Ricci: Signore e Signori, amici, rappresentanti delle istituzioni, tocca a me introdurre questo momento solenne di ricordo e commemorazione di un’epoca e di un evento che ha cambiato la storia d’Italia. Noi siamo qui per celebrare, per ricordare, per riflettere sul momento in cui è entrata in vigore la Costituzione della nostra Repubblica e io vi ringrazio a nome di tutte le Istituzioni dalle quali sono stato delegato a parlare. La mia età molto avanzata mi consente di parlare della Costituzione con un senso di commozione e nello stesso tempo di riflessione, poiché essa ha rappresentato, di quel periodo drammatico e straordinario attraverso il quale l’Italia è riuscita a cambiare la propria identità, il lascito più importante. È chiaro come mi riferisca al periodo della lotta antifascista e della Resistenza, a quel periodo cioè nel quale la parte migliore del nostro popolo è riuscita a dare il segno della propria volontà di rompere con un regime totalitario e di fondare una realtà democratica. Fondare, giacché non si può parlare di rifondazione, essendo stata la democrazia antecedente all’entrata in vigore della nostra Costituzione parziale e zoppa. Basti pensare come allora non fosse previsto il voto alle donne e al peso della casa reale. Ebbene, io credo che questo epocale cambiamento della realtà italiana e della sua identità, attuatosi grazie alla lotta resistenziale culminata nel 25 aprile 1945, sia stato non solo il frutto della vittoria alleata nella seconda guerra mondiale ma anche il merito del nostro popolo, dei tanti giovani, dei militari, degli uomini e delle donne che in condizioni estremamente drammatiche hanno compiuto la giusta scelta, a prezzo di enormi sacrifici e con il sacrificio, spesso, della loro stessa vita. Ma c’è qualcosa che non è stato portato qui dagli angloamericani o dai sovietici, qualcosa che ha mutato in profondità l’identità del nostro Paese: è stato infatti l’antifascismo, movimento politico ed ideale non importato dall’estero, a guidare, in nome dei valori di libertà, democrazia, giustizia, la lotta delle forze più nobili del nostro popolo contro il regime mussoliniano. E io voglio ricordare il senso unitario dell’antifascismo, quell’incontro tra anime, culture, ideologie diverse che, lungi dal costituire un impedimento, ha favorito la nascita di una Costituzione tra le più avanzate dell’Occidente, frutto del senso di responsabilità di uomini che sapevano di dover assolvere un compito fondamentale nella storia d’Italia. Io credo che l’incontro fra uomini come Umberto Terracini e Alcide De Gasperi abbia consentito alla Costituzione di nascere e che, nonostante i vari compromessi raggiunti nella stesura del testo, il suo aspetto saliente debba ravvisarsi nella condivisione di alcuni valori e principi fondamentali che venivano ad opporsi in maniera radicale e antitetica alle parole d’ordine dei totalitarismi nazista e fascista. È proprio da questa tensione, da questo vissuto collettivo, da queste speranze, che è nata la Costituzione della Repubblica, che ha tradotto nei suoi articoli, soprattutto nei primi dodici, riguardanti i principi fondamentali, e negli altri concernenti i diritti e doveri dei cittadini, l’essenza di un rinnovamento e di una prospettiva per il futuro. Vorrei, a questo proposito, ricordare l’articolo 3, che parla dell’eguaglianza come meta da raggiungere attraverso l’intervento pubblico, l’articolo 11, sul ripudio della guerra come strumento per la risoluzione dei contrasti internazionali, l’articolo 36, sulla dignità del lavoro.
  • 2. Io credo di non dovere aggiungere altro, ma questo legame fra lotta del popolo italiano e Costituzione della Repubblica doveva essere particolarmente sottolineato da chi, come me, ha vissuto personalmente questa esperienza prima come militare, poi come resistente e infine come deportato in un campo di concentramento nazista e continua a viverla adempiendo il compito, per il poco tempo che gli resterà ancora da vivere, della testimonianza soprattutto nei confronti dei giovani, nella speranza che sappiano far tesoro della nostra storia e difendere i valori della Costituzione repubblicana a sessant’anni dalla sua entrata in vigore. Darò adesso la parola al professor Rolla, ordinario di Diritto costituzionale dal 1980 e direttore del centro studi sulla Comparazione dei sistemi costituzionali in tutto il mondo, un centro che prospera sotto la sua guida a Genova ed è legato a molte istituzioni, in particolare spagnole, di Madrid, di Granada, e dell’America latina e del Canada. Vorrei anche ricordare che con il professor Giancarlo Rolla ci siamo trovati insieme in una grande battaglia, la battaglia per difendere la Costituzione dallo stravolgimento che nel 2006, dunque meno di due anni fa, tendeva a modificare profondamente quello che deve essere invece la bussola, la stella polare della nostra democrazia. La Costituzione deve essere modificata e migliorata in relazione ai tempi ma non certamente essere profondamente alterata. Giancarlo Rolla: Ringrazio il senatore Ricci non solo per le gentili parole ma anche per l’onore ed il piacere di partecipare a questa iniziativa. Cercherò di sviluppare alcune brevi considerazioni su quello che mi sembra essere oggi il valore più profondo e il senso più autentico della nostra Costituzione, in modo da poter affidare poi all’autorevolezza del professor Onida un intervento più ampio e più organico. Vorrei partire da due giudizi che in tempi diversi sono stati dati della nostra Carta costituzionale e che a me sembrano ancora particolarmente validi. Il primo afferma che la Costituzione ha il merito di aver saputo esprimere il larghissimo consenso che si era determinato nella società italiana perché si potessero adottare istituzioni democratiche, rispettose delle libertà tradizionali e insieme aperte ai diritti sociali. Il secondo dice che la Costituzione è stato uno strumento particolarmente efficace per stimolare il rinnovamento del sistema italiano e per renderlo conforme ai princìpi del moderno costituzionalismo. A proposito di questi due giudizi mi sembra interessante sottolineare proprio due concetti che ha ripreso anche Ricci: il primo relativo al larghissimo consenso che si era formato non solo nell’Assemblea costituente ma anche nella società italiana; il secondo relativo al fatto che la Costituzione inseriva finalmente lo Stato italiano nel novero dei moderni ordinamenti democratici e sociali. Partendo da quest’ultima considerazione desidero perciò fare alcune sottolineature, a cominciare da quello che a me pare un equivoco ricorrente: considerare cioè la Costituzione come una semplice legge, e sia pure legge suprema e fondamentale; l’equivoco consiste nel vederla come una legge che il Parlamento, sia pure nel rispetto di particolari procedure, può legittimamente e per così dire tranquillamente modificare così come modifica, abroga e sostituisce le leggi ordinarie. Questo equivoco credo vada indicato con forza per ribadire come la Costituzione fissi e traduca sul piano giuridico quelli che sono i valori, i principi e le regole nelle quali il popolo si riconosce. Per riprendere l’immagine di un antico pensatore, si potrebbe dire che la Costituzione è l’anima della repubblica, l’anima della società. Scopo della Costituzione è di affermare con forza un senso di appartenenza, di individuare le ragioni che giustificano lo stare insieme di una comunità. La forza della Costituzione non deriva soltanto dal fatto che le sue norme hanno una particolare forza giuridica per cui vincolano tutti i cittadini e tutti i poteri, ma anche dal fatto, come ricordavano anche i due giudizi da cui sono partito, che i princìpi e le regole che esprime sono accettati e convalidati dalla cultura del Paese, sono cioè capaci di esistere per sé, di penetrare in profondità nel tessuto sociale, di diventare naturali ed evidentemente necessari. I giudizi che gli storici e i giuristi hanno dato sono concordi nel ritenere che dal 1948 ad oggi la Costituzione non solo ha saputo adempiere questa funzione, ma ha avuto anche
  • 3. un’importante funzione di tipo formativo ed educativo, facendo in modo che il consenso intorno ai valori che afferma si accrescesse e si rinnovasse nel succedersi delle generazioni; e questa valutazione sono persuaso abbia una valenza oggettiva. Questo non esime dal vigilare perché la cultura del Paese non si discosti dalla cultura della Costituzione. Su diversi fronti − del diritto, della legalità, del rispetto della sovranità popolare, del principio di solidarietà tra le persone e i territori − talvolta emergono segnali abbastanza preoccupanti che non debbono essere sottovalutati. Ritengo quindi che, prima di porsi il problema di un cambiamento della Costituzione, sia doveroso cercar di rinnovare i valori della Costituzione all’interno della società. Tutte le costituzioni, per la loro natura, sono nate per durare nel tempo e hanno avuto e hanno un ruolo determinante nel plasmare un ideale di popolo. Ma la nostra Costituzione può e deve avere anche un’altra importante funzione che si collega con la nascita e l’affermarsi di un’idea forte di cittadinanza, fatta non solo di elementi per così dire extragiuridici in riferimento alle idee di nazionalità, comunanza di lingua, etnia, storia, cultura, ma fondata - di là dai concetti di nascita, sangue e suolo - su valori e regole precise. Questo profilo della Costituzione è di fatto molto importante in tutti quegli ordinamenti che hanno la caratteristica di non essere più ordinamenti strettamente nazionali ma tendono a divenire sempre più ordinamenti plurinazionali e anche multiculturali, come tende ad essere il nostro. Nello stesso tempo andrà rilevata la fortuna toccata alle formule non solo giornalistiche ma francamente politologiche, che parlano di prima, seconda e terza Repubblica. Sappiamo che, dal punto di vista del diritto, la Repubblica è una sola, sia pure nel suo trasformarsi e modificarsi. È una, perché fa riferimento a principi essenziali che continuano a permanere. Mi riferisco ai valori dell’apertura internazionale, dell’apertura all’Unione europea, al pacifismo, al riconoscimento dell’accoglienza degli stranieri, del necessario pluralismo, della tutela delle minoranze e delle differenze, per non parlare delle libertà tradizionali che continuano a essere un ottimo fondamento: valore del principio di legalità, del principio di autonomia, riconoscimento dei diritti delle comunità locali e delle comunità territoriali. Questi, di là dai cambiamenti dei regimi e delle formule politiche, rimangono gli assi attorno ai quali la Costituzione e la Repubblica continuano a ruotare. Resta indubbio che le costituzioni, per poter durare nel tempo, debbono anche avere la capacità di trasformarsi e di modificarsi assecondando quelle che sono le trasformazioni e le variazioni delle singole storie. Di qui l’immagine suggestiva che vede nella carta fondamentale una sorta di albero vivente che produce sempre nuovi frutti rinnovandosi attraverso il vitale collegamento con la società. La domanda è a chi competa propriamente assicurare l’elasticità di una Costituzione. Compete innanzitutto al legislatore attraverso l’approvazione di leggi di attuazione della Costituzione stessa, dove l’espressione “attuazione” non è qualche cosa di meccanico, giacché “attuare” significa mettere ogni volta in sintonia le disposizioni, le norme, il testo della Costituzione con le trasformazioni sociali e le trasformazioni culturali. Andrà riconosciuto che su questo versante, in diversi momenti della nostra storia repubblicana, il legislatore ha incontrato di volta non pohe difficoltà. Ha certo incontrato difficoltà nella prima fase in cui molte parti, molti istituti sono stati attuati con grande ritardo; ma credo che incontri molte difficoltà ancora oggi là dove mancano le leggi che diano attualità alla Costituzione in rapporto a diversi e importanti cambiamenti. Pensiamo ai cambiamenti legati alle problematiche della libertà personale, della laicità delle istituzioni, delle libertà religiose, dei diritti delle comunità locali, della tutela contro forme di discriminazione e così via. Citerei poi il secondo soggetto cui compete assicurare l’elasticità della Costituzione: ed è sicuramente l’interprete, il giudice, che ha svolto in tutti questi anni un ruolo fondamentale nel perseguire questo risultato - e tutti noi ci auguriamo che la sua azione continui al meglio anche perché può oggi arricchirsi di ulteriori strumenti, come la Carta dei diritti dell’Unione Europea, che può essere utilizzata per attuare e attualizzare la stessa Costituzione. È evidente da ultimo che l’adattamento della Costituzione è compito proprio del legislatore costituzionale. Ma questo intervento non può non avvenire in modo condiviso perché, come accennato, la Costituzione non è una semplice legge, ma uno specchio, un valore presente nella società: utilizzando un’espressione simbolica si potrebbe dire che ciò dovrebbe essere fatto con lo
  • 4. spirito di un restauro conservativo, oppure di un’alta manutenzione. Certo è che, se si avverte che i comportamenti pubblici o politici non sono coerenti con le previsioni costituzionali; la via maestra non sarà quella di adattare la Costituzione a questi comportamenti ma, al contrario, di cercar di modificare questi comportamenti per riportarli in sintonia con i valori della Costituzione. Un ultimo punto brevissimo per additare un ulteriore equivoco: pensare cioè che si possano rigidamente distinguere le due parti della Costituzione dicendo: nella prima parte ci sono i valori, i diritti, i princìpi e nella seconda parte solo delle regole organizzative. Questo non è corretto, perché non si tratta di due parti giustapposte ma complementari ed essenziali, perché la garanzia dei princìpi, dei valori e dei diritti contenuti nella prima parte è in buona misura affidata alle regole contenute nella seconda. Faccio un esempio: i diritti. Il riconoscimento dei diritti rischia di essere una romantica dichiarazione se non gli corrisponde un’efficace tutela. Dove si trova la tutela del riconoscimento dei diritti? Ovviamente, nella seconda parte, nel ruolo dell’ordinamento giudiziario, nelle caratteristiche di un Parlamento pluralistico, di un’amministrazione efficiente e di una giustizia rapida, imparziale e indipendente. L’altro grande valore, il principio di legalità, dove trova il suo inveramento? Nella seconda parte della Costituzione, fondamentalmente. Vorrei quindi concludere ribadendo come che la Costituzione debba essere considerata un tutt’uno. Bisogna fare molta attenzione perché le modifiche, che si intendano apportare alla sua seconda parte, non arrivino a incidere sui valori e i principi fondamentali che sono contenuti nella prima. Raimondo Ricci: Ringrazio il professor Rolla per aver detto con molta chiarezza qual è la funzione della nostra Costituzione. Passo ora la parola al professor Valerio Onida. Il professor Onida è ordinario di Diritto costituzionale all’Università di Milano ed è stato componente della Corte costituzionale dal 1996 al 2005 e dal 2004 fino alla conclusione del mandato ha ricoperto inoltre la carica di presidente della Corte costituzionale. Egli cura una rivista annuale “Viva vox constituionis”, che si occupa della giurisprudenza costituzionale; continua infine ad occuparsi in modo fattivo del pratico controllo che la Corte costituzionale esercita sull’applicazione delle norme costituzionali alla legislazione italiana e, in genere, ai comportamenti pubblici nel nostro Paese, ed è persona la quale, oltre all’attività scientifica, ha dedicato e continua a dedicare molto tempo all’attività di solidarietà umana, all’attività filantropica. Il suo studio professionale è uno studio nel quale ci si adopera soprattutto in un’azione di recupero delle persone, di istruzione dei detenuti nel tentativo, del quale anche io come legislatore mi sono occupato nel periodo in cui sono stato in Parlamento, del recupero di coloro che hanno violato la legge ad una vita diversa. Valerio Onida: Vorrei cominciare dicendo che noi siamo abituati a parlare della nostra Costituzione come d’una legge nata dalla Resistenza, e siamo abituati a pensare alla Costituzione come a una vicenda fondamentale, alta e nobile della nostra storia nazionale, anche come punto di convergenza delle forze politiche nazionali. Si dice spesso che “la Costituzione è frutto dell’incontro di tre ideologie: l’ideologia liberale, l’ideologia democratica e l’ideologia marxista”, e tutto questo è sicuramente vero dal punto di vista storico immediato, così come è vero che la Costituzione si collega alla Resistenza. Piero Calamandrei, questo grande costituente, in un suo celebre discorso del 1965 agli studenti milanesi aveva detto, al momento di concludere: “Se voi volete andare alle radici della Costituzione, sapere dove è nata, dovete andare sulle montagne, dovete andare nei luoghi dove i partigiani hanno combattuto, dove sono morti, dove sono stati imprigionati”. Tutto vero dal punto di vista storico. Ma è anche parziale questa visione della Costituzione, poiché essa riprende cose molto più antiche, nei suoi articoli riecheggiano voci più lontane. A tal proposito ricordiamo che nel già citato discorso di Calamandrei si sottoline il fatto che negli articoli della nostra Costituzione risuonano le parole di Mazzini, Cavour, Cattaneo, “poiché là dove si dice che la Repubblica riconosce le autonomie c’è Cattaneo, là dove si dice che lo Stato e la Chiesa sono ciascuno nel proprio ordine sovrani c’è Cavour, e dove si parla di diritti e di doveri si trova Mazzini”. È vero
  • 5. perciò che nella Costituzione italiana riecheggia molta storia del nostro Paese, ma è vero soprattutto che il significato storico più profondo della nostra Costituzione è stato quello – come già ricordato dal professor Rolla – di collocare il nostro Paese in una storia più ampia, in un contesto più ampio, cioè nel contesto del costituzionalismo contemporaneo. La nostra Costituzione, insomma, non è un prodotto autarchico, una specie di prodotto domestico, un compromesso nazionale: è qualcosa di più, perché quel terreno comune che tante volte si è detto è stato trovato nel fare la Costituzione, quel punto di incontro tra ideologie e forze politiche che allora concorsero all’Assemblea Costituente riporta a quel terreno comune che è stato trovato nei principi del costituzionalismo contemporaneo. I princìpi del costituzionalismo nascono, come sappiamo, con una vocazione tendenzialmente universale e assoluta. Tutti ricordano l’incipit delle famosa “Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America”: “Noi crediamo che vi siano delle verità incontestabili e di per sé evidenti: fra queste, che tutti gli uomini sono stati creati uguali e che tutti gli uomini sono stati dotati dal loro creatore di alcuni diritti inalienabili”, e così via. La storia del costituzionalismo nasce proprio da affermazioni esplicite di ideali, di fini che hanno una vocazione di tipo universale e in qualche modo assoluto; di là naturalmente dalle continue contraddizioni che la storia dimostra, perché è facile constatare che, tra le proclamazioni costituzionali di tutti tempi e la realtà della vita, le contraddizioni sono continue. La Costituzione degli Stati Uniti, che cominciava con questa solenne proclamazione, “Tutti gli uomini sono stati creati uguali”, ha convissuto per secoli con l’istituzione della schiavitù in alcuni Stati americani. La rivoluzione francese, che ha dato luogo all’affermazione in Europa dei principi del liberalismo, ha visto le fasi e la storia del terrore, della rivoluzione che mangiava se stessa. L’aspirazione all’eguaglianza, che è un patrimonio storico del costituzionalismo, è arrivata a tradursi, lo sappiamo, nell’azione di uomini che in nome dell’eguaglianza hanno rinnegato l’esigenza della libertà, del regime pluralistico, sino al traguardo dei regimi comunisti. Quante volte abbiamo dovuto constatare il gap, la contraddizione tra la storia com’era, cioè i fatti, e le proclami costituzionali. Ma questa è la storia: la storia degli uomini è fatta anche di contraddizioni. Ciò non toglie, anzi conferma, che questi princìpi del costituzionalismo, che gli uomini nel loro faticoso cammino hanno enucleato, enunciato, proclamato e scritto nelle loro carte, sono princìpi che aspirano ad essere punti di riferimento permanenti e punti di riferimento universali. Per questo possiamo dire che la nostra Costituzione si deve in realtà considerare il frutto di un’epoca molto particolare della storia dell’umanità, che è l’epoca – come ricordava già il senatore Ricci – della seconda guerra mondiale, perché la conclusione tragica di quella guerra e ciò che è avvenuto in seguito è stato il momento storico nel quale, per la prima volta, l’umanità, e non solo ristrette minoranze intellettuali, ha creduto nella possibilità di unificare il mondo intorno a princìpi comuni, quelli appunto della dignità umana, della libertà, dell’eguaglianza, della democrazia, della giustizia interna e internazionale, del dominio del diritto e non più della forza, non solo nei rapporti tra le persone ma nei rapporti fra le nazioni e i popoli. Non è un caso che l’Organizzazione delle nazioni unite sia nata esattamente all’indomani della fine della seconda guerra mondiale e che uno dei primi atti dell’Assemblea delle Nazioni unite, in cui allora tutti gli stati del mondo, oggi quasi tutti, si riconoscevano ed erano componenti, sia stata l’approvazione di quella “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo” che è stata votata dall’Assemblea dell’Onu il 10 dicembre 1948, per cui alla fine di quest’anno celebreremo anche un altro sessantesimo anniversario, quello della “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo”. Tutto questo non è un caso, perché tale era il clima storico in cui è nata anche la Costituzione repubblicana. Quello era il terreno di coltura del costituzionalismo italiano. Vorrei citare qui le parole di un grande costituente, Giuseppe Dossetti, che come sapete lasciò molto presto la vita politica, nei primi anni Cinquanta, per votarsi poi al sacerdozio e alla vita monacale, ma che nel 1994, tornando in Italia, prese la guida di un movimento di difesa della Costituzione. Dossetti, in un discorso presto diventato famoso, del settembre 1994, diceva così: “Alcuni pensano che la Costituzione sia un fiore pungente nato quasi per caso da un arido terreno di sbandamenti postbellici e da risentimenti faziosi volti al passato; altri pensano che essa nasca da un’ideologia
  • 6. antifascista, di fatto coltivata da minoranze, da certe minoranze che avevano vissuto soprattutto da esuli gli anni del fascismo; altri ancora si richiamano alla Resistenza, con cui l’Italia può avere ritrovato il suo onore, e in certo modo si è omologata ad una certa cultura internazionale. Ebbene, tutte queste opinioni non sono fondamentalmente errate, ma sono insufficienti, perché – continuava Dossetti – la Costituzione italiana del 1948, proprio perché votata l’indomani della seconda guerra mondiale, si può ben dire nata da quel crogiolo ardente e universale più che dalle stesse vicende italiane del fascismo e del postfascismo. Più che del confronto-scontro fra tre ideologie datate, essa porta l’impronta di uno spirito universale e in certo modo, transtemporale”. Sono parole che, credo, non potrebbero meglio esprimere quel concetto che stavo cercando di richiamare: il carattere, in qualche modo, non “domestico”, non autarchico della nostra Costituzione, il fatto che essa è in realtà uno dei prodotti migliori di una fase storica nella quale l’umanità ha guardato a princìpi capaci di unificare il mondo. Questo è insomma il clima in cui nasce la Costituzione. Per questo il miglior modo di celebrare i sessant’anni della Costituzione è secondo me quello di riflettere su due fenomeni che, pure nel nostro mondo – del quale tanto spesso dobbiamo constatare le intrinseche contraddizioni, le insufficienze, i drammi e le tragedie – rappresentano la continuazione del momento di fede che l’umanità ha espresso: per la prima volta, direi, nella storia successiva alla seconda guerra mondiale. Il primo di tali fenomeni lo chiamerei “internazionalizzazione del Diritto costituzionale”. Il Diritto costituzionale, che nasce come diritto delle nazioni (ogni nazione aveva la sua Costituzione e si richiamava proprio agli elementi specifici della nazionalità), diventa un diritto costituzionale internazionale, universale. Il secondo fenomeno, corrispondente, lo potremmo invece chiamare “costituzionalizzazione del Diritto internazionale”: il Diritto internazionale, il diritto dei rapporti fra gli stati, che nasceva sulla base di certi principi, diventa Diritto costituzionale, nel senso che fa propri, per la prima volta, quei principi, quegli ideali universali. Il Diritto internazionale classico, come sappiamo, era fondato sull’idea base per la quale “ciascuno stato è sovrano”, e “sovrano” voleva dire assolutamente sovrano, nel senso che non riconosceva nessuno “fuori”; i rapporti con gli altri membri della comunità internazionale erano rapporti tra “pari”, tra stati sovrani che dialogavano tra loro in rapporti quindi di tipo “contrattuale”. L’unica regola generale del Diritto internazionale era quella che si esprime nel motto latino “pacta sunt servanda”, bisogna adempiere ai patti: se si contratta; se si stipula un contratto lo si deve mantenere. Il Diritto internazionale era questo: ciascuno stato rivendicava una piena sovranità, una piena indipendenza, l’insindacabilità dei propri poteri, e poi trattava con gli altri stati. Come sempre nei rapporti tra soggetti, si andava a patteggiare, a negoziare, e talvolta capitava anche il caso in cui ci si trovasse in dissenso. Quando sorgeva una controversia, nel Diritto internazionale classico quale era lo strumento per risolvere le controversie? La guerra. La guerra era un istituto, l’istituto centrale potremmo dire, del Diritto internazionale, strumento giuridico destinato a risolvere le controversie. La guerra voleva dire la prevalenza del più forte, così come era avvenuto nelle antiche società prestatuali: dove gli individui non avevano ancora dato vita ad un’autorità sociale e la risoluzione delle controversie tra individui era rimessa ai rapporti di forza, potremmo dire a “guerre private”; così nella comunità internazionale, per secoli, per millenni, la risoluzione delle controversie era rimessa alla forza, cioè alla guerra. Ebbene questi due fenomeni, l’internazionalizzazione del Diritto costituzionale e la costituzionalizzazione del Diritto internazionale, cioè il fatto che per la prima volta a livello internazionale si affermi l’idea che vi debbano essere dei principi, che vi sia un diritto che debba prevalere sulla forza, hanno fatto in questi anni, in questi decenni, un grande cammino, un lungo cammino. I fatti sono ancora lontani, naturalmente – non dimentichiamo mai che la storia è fatta anche di contraddizioni. Ma quando, il 10 gennaio del 1948, l’Assemblea generale dell’Onu approva la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, scrive delle affermazioni che almeno sulla carta tutti gli stati del mondo accettano. E la Dichiarazione universale non è che la traduzione sul piano, appunto, universale di quegli stessi principi del costituzionalismo: la dignità di ogni essere umano, l’eguaglianza fondamentale, i diritti inalienabili di tipo civile, politico e sociale. In Europa questa
  • 7. Dichiarazione universale ha dato luogo a una serie di ulteriori tentativi di applicazione giacché la Dichiarazione non è un documento strettamente giuridico ma una dichiarazione politica alla quale l’Organizzazione delle Nazioni unite si è impegnata a dare attuazione con degli accordi, con delle convenzioni internazionali, e queste sono state convenzioni stipulate tra molti stati, fra tutti o tra gruppi di stati. Per quanto riguarda l’Europa, per esempio, c’è la Convenzione europea dei diritti dell’uomo per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, stipulata nel 1950 a Roma, e, per quanto riguarda l’Italia, recepita ed entrata in vigore con una legge del 1955. Questa Convenzione ha una particolare importanza non solo perché riguarda la nostra area geopolitica, cioè l’Europa, e l’Europa in questo senso più larga dell’Europa comunitaria, perché la Convenzione europea comprende quarantasei stati membri sino alla Russia e alle repubbliche ex-sovietiche; ed è importante perché per la prima volta nella storia non si è limitata a stabilire che gli stati avessero degli obblighi – l’obbligo di riconoscere questi diritti fondamentali a tutti coloro che entrano sotto il loro controllo, sotto la loro giurisdizione, sono loro cittadini – ma ha dato vita anche ad un tribunale, a una corte internazionale, la Corte europea dei diritti dell’uomo che siede a Strasburgo e pronuncia sulle controversie in tema di violazione dei diritti fondamentali. Questa Corte è una corte non appartenente ai singoli stati, è una corte che pronuncia su tutti gli stati membri e che dà attuazione ai diritti fondamentali. La tutela dei diritti fondamentali oggi, per noi, non sta più solo nel diritto nazionale, ma anche in questo diritto sovranazionale. Un tempo si diceva:“ci sono giudici a Berlino”, per significare: ci sono giudici nei luoghi della nazione; oggi potremmo dire: a Strasburgo, in Europa, cioè al di sopra della nazione ci sono giudici. Questo naturalmente non fa scomparire il senso delle giurisdizioni nazionali, delle costituzioni nazionali, ma indica come si attui l’universalizzazione dei diritti. Proprio alla fine dell’anno scorso la nostra Corte Costituzionale ha adottato due sentenze che sono forse un po’ sfuggite all’opinione pubblica perché sembrano un fatto tecnico, mentre si tratta di due sentenze molto importanti, in cui per la prima volta la Corte ha affermato che ciò che sta scritto nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo, quindi i diritti garantiti dalla Convenzione europea e soprattutto il modo in cui quei diritti sono affermati, tradotti e interpretati dalla Corte europea dei diritti, hanno dignità costituzionale, nel senso che vincolano le autorità del nostro Paese, anche il legislatore, allo stesso modo della Costituzione. Si tratta di un progresso importante. Vorrei dire in conclusione un’ultima cosa: la nostra Costituzione è uno dei prodotti migliori di quella fase storica, e lo dimostra non solo la coincidenza che c’è tra le fondamentali affermazioni di diritto della Costituzione, la Dichiarazione universale e la Convenzione europea, ma il fatto che la nostra Costituzione ha, fin dall’inizio, aperto questa prospettiva sovranazionale grazie all’articolo 11, che è una sua singolarità. Piero Calamandrei la chiamava “una finestra attraverso la quale, quando il tempo non è troppo nuvoloso, riusciremmo a intravedere qualcosa che potrebbero essere gli Stati uniti d’Europa o del mondo”. L’articolo 11 esprime proprio questo afflato, questo spirito universalistico della Costituzione, l’apertura all’universalismo. Noi non abbiamo avuto bisogno della lunga storia dell’Europa unita, dell’Europa comunitaria di cui l’Italia è stata per lungo tempo uno dei protagonisti, uno dei sei stati fondatori – alcuni statisti italiani sono tra i padri dell’Europa -; non abbiamo avuto bisogno di cambiare la nostra Costituzione per cedere parti della sovranità italiana alle istituzioni europee, perché avevamo già nella nostra Costituzione questa clausola europea, l’articolo che diceva che la Repubblica italiana ammette, accetta le limitazioni di sovranità necessarie per dare vita ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni. Si pensava sopratutto all’Onu in quel momento, quando si scrisse questa clausola; ma è stata la clausola che ha consentito, che ha fondato il cammino europeo anche dell’Italia con gli altri stati europei. Il ministro degli esteri francese, Schuman, uno dei padri dell’Europa, scrisse nella sua celebre dichiarazione del 1950 che “costruire l’Europa era necessario per rendere l’ipotesi di un’altra guerra in Europa non solo impensabile ma materialmente impossibile”. Questa affermazione si è avverata perché noi oggi possiamo dire che la guerra in Europa è materialmente impossibile e non solo impensabile, nel momento in cui abbiamo visto che non ci sono più
  • 8. frontiere, mentre come fuori di questi processi di unificazione, di integrazione la guerra purtroppo è ripresa: basti pensare ai fatti della ex Jugoslavia. Un’ultima cosa. La nostra Costituzione, che è prodotto trastemporale, prodotto universale e non solo domestico, non è qualcosa di diverso dai principi del costituzionalismo europeo e mondiale. Qualcuno ritiene che la nostra Costituzione, proprio perché è nata in quel periodo, con il concorso soprattutto di alcune forze politiche, quelle dominanti nell’Assemblea costituente, sia una costituzione ideologicamente orientata; qualcuno dice “non liberale”, “troppo sociale”. Bene, io inviterei chi fa questo tipo di affermazioni, chi pensa che la nostra Costituzione sia invecchiata perché, appunto, “troppo sociale e poco attenta alle libertà”, a fare una lettura comparata della Costituzione italiana e della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Si potrà constatare che, certe volte con le stesse parole, si dicono le stesse cose. E si dice che cosa? Che al centro della Dichiarazione c’è la dignità dell’uomo, ci sono i diritti di libertà: non solo le libertà civili, non solo le libertà politiche, ma anche i diritti sociali. La prima grande affermazione della necessità di dar vita ad un assetto sociale e politico nel quale non solo la libertà ma anche l’eguaglianza e la giustizia fossero promosse, la prima grande affermazione si trova in un celebre discorso di un presidente americano del 1941: è il discorso delle quattro libertà. Il presidente Roosevelt disse: “noi vogliamo creare un mondo nel quale ovunque nel mondo siano assicurate queste quattro libertà”, ossia la libertà di espressione, la libertà di religione, la libertà dal bisogno, la libertà dalla paura. Queste quattro libertà sono il fondamento del costituzionalismo – e infatti vengono richiamate espressamente nel preambolo della Dichiarazione universale. Non si può quindi dire - sarebbe un falso storico - che le costituzioni come la nostra che è attenta ai diritti sociali siano costituzioni particolari, lontane dai princìpi del costituzionalismo liberale. In realtà, il costituzionalismo è un patrimonio comune, al quale siamo stati associati attraverso la Costituzione. Teniamocela dunque stretta questa Costituzione repubblicana. Raimondo Ricci: Grazie al professor Onida per il suo bellissimo intervento, che è penetrato nell’anima universale della nostra Costituzione. “Teniamocela stretta”, egli ha affermato, e questo mi pare sia un invito al quale tutti dobbiamo rispondere, soprattutto i giovani. Passo adesso la parola al professor Andrea Manzella, professore di Diritto costituzionale e direttore del Centro studi sul Parlamento dell’Università Luiss di Roma. Il professor Manzella è attualmente senatore della Repubblica, presiede la XIV commissione, quella che si occupa delle politiche dell’Unione europea, ed è stato Segretario generale della Presidenza del Consiglio dei Ministri con il governo Spadolini, con il governo De Mita e con il governo Ciampi. Andrea Manzella: Ringrazio Raimondo Ricci per questa sua introduzione. Il senatore Ricci merita sempre la nostra gratitudine per la sua carica di animatore di ogni battaglia in difesa degli ideali che informano la nostra Carta costituzionale. Aggiungo che in questp momento sono lieto di portargli anche il saluto del nostro presidente della Repubblica. Alcuni giorni fa Valerio Onida ha svolto una magistrale lezione all’Accademia dei Lincei, soffermandosi tra l’altro sulle “quattro libertà”. Durante quel discorso io, di colpo, mi sono ricordato bambino – un ricordo un po’ amarognolo perché le quattro libertà erano scritte nel quadrato delle “amlire” –, un bambino che viveva nel Regno del Sud e che per la prima volta si era accorto, dato che stava prendendo lezioni di inglese, dell’esistenza di quelle quattro libertà che giustamente Onida ha ricordato e che hanno costituito e costituiscono il fondamento della “internazionalizzazione del diritto costituzionale”. L’ultima volta che sono venuto a Genova è stato per un momento di tensione, di lotta: era la lotta per il referendum in difesa della Costituzione. Questa difesa ha portato a un risultato straripante per il popolo italiano, come si evince dal confronto con i dati delle elezioni politiche del 2006, che hanno danno un sostanziale pareggio tra i due schieramenti. Il che significa che in occasione del referendum ci fu un riversamento di voti in favore della Costituzione anche da parte
  • 9. di elettori di partiti che sostenevano la tesi contraria, tanto che possiamo dire che la Costituzione mostrò allora appieno il suo valore di bene pubblico condiviso. Adesso non siamo più nell’atmosfera tesa della lotta per la difesa della Costituzione, anche se non si deve abbassare la guardia; ma è il momento di dare luogo a una riflessione pacata, pur sapendo che non si può fare una riflessione su un lago tranquillo, perché la nostra Costituzione non è fatta di acque tranquille, bensì di una continua dialettica, di una continua tensione, di un continuo aspirare verso un qualche cosa in cui si traduce anche la stessa storia del nostro Paese. Il costituzionalismo non è una dottrina per anime belle, per anime pacifiche; è una dottrina per combattenti. Ora, in questa dialettica della Costituzione mi è parso rilevare quattro elementi, più precisamente quattro paradossi, di fondo. In primo luogo c’è un paradosso di opposti tra attuazione e inattuazione; poi c’è il paradosso tra povertà e ricchezza semantica della nostra Costituzione, nel senso che il significato delle norme costituzionali da un lato è povero, dall’altro è pieno di ricchezza e forse di ricchezza inesplorata. Il terzo paradosso è quello tra rigidità e flessibilità: è vero, come sanno i nostri studenti di Scienze politiche e di Giurisprudenza, che la nostra Costituzione è rigida; ma ciò non toglie che in questi sessant’ abbia mostrato una straordinaria flessibilità. Infine, il quarto ed ultimo paradosso – ma forse ce ne sono altri su cui non possiamo soffermarci – è quello tra persistenza e mutamento della Costituzione, tra la durata e il mutamento che c’è. Attuazione e inattuazione. La Costituzione è stata attuata: attuata attraverso lotte, attraverso l’intervento del presidente della Repubblica Gronchi che fece un’opera importante contribuendo al mutamento condiviso tra maggioranza ed opposizione, quello dell’art. 111. C’è stato quindi questo completamento, e io credo che sia stato un completamento anche quello del titolo V sulle Regioni, che rappresenta la continuazione dell’articolo 5 della Costituzione che dice “la Repubblica riconosce le autonomie territoriali del nostro Stato”. Vediamo il catalogo dei diritti fondamentali della Costituzione che poi hanno trovato conferma recente in quel Trattato europeo di Lisbona del dicembre scorso che ha convalidato la Carta dei diritti fondamentali degli europei e in cui i nostri diritti fondamentali trovano la loro internazionalizzazione, perché vi è una perfetta consonanza e uno scambio di validità tra l’uno e l’altro catalogo. Però, se consideriamo bene le cose, non possiamo non chiederci se sono stati veramente attuati tutti questi diritti. Tanto per rimanere all’attualità, è stato veramente attuato l’art. 35 della Costituzione che dice: “la Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme e le sue applicazioni”? È stato veramente applicato, nel momento in cui il problema della sicurezza del lavoro è così presente al nostro spirito, al nostro dolente spirito di italiani? È stato veramente applicato l’art. 47 della Costituzione, che dice “la Repubblica tutela il risparmio”, nel momento in cui ci sono centinaia di migliaia di consumatori che hanno visto i loro risparmi volatilizzati nei derivati, nelle diavolerie della cosiddetta finanza creativa? Poi abbiamo visto l’articolo 5 delle autonomie territoriali. Ma noi veramente crediamo che sia stata attuata la Costituzione quando non è stato ancora attuato quel Senato su base territoriale che è il presupposto di una rappresentanza bicamerale che nella territorialità vuole esprime l’adeguatezza ai tempi moderni? Gli stessi diritti fondamentali sono veramente applicati in tutte le regioni senza differenza di livello di prestazione, come dice la Costituzione? Ecco, da un lato l’attuazione e dall’altro l’inattuazione della Costituzione; ed è una dialettica che si ritrova anche nella parte seconda della Costituzione. Pensate veramente che l’apparato normativo di governo dato dagli articoli 92 e 95, quello che traccia il rapporto tra Governo e Parlamento, abbia piena attuazione senza che diventi realtà quel che chiedeva l’ordine del giorno Perassi esigendo, con parole che suonerebbero durissime se fossero pubblicate oggi, che l’assestamento definitivo del nostro apparato di governo evitasse le degenerazioni del parlamentarismo? Non è forse parlamentarismo degenerato quello dei gruppuscoli di tre o quattro deputati, tre o quattro senatori che fanno il bello e il cattivo tempo? Ecco la dialettica tra attuazione ed inattuazione della Costituzione, il senso della lotta continua per la Costituzione. Il secondo paradosso è quello della povertà e nello stesso tempo della ricchezza di significato delle norme costituzionali. Il diritto costituzionale è in genere un diritto povero perché non può stare in piedi da solo, come un sacco, senza che ci siano adeguatezza di regolamenti
  • 10. parlamentari, di leggi organiche e dell’ordinamento giudiziario. Spetta a questo apparato normativo “di contorno” esprimere e interpretare tutta la ricchezza delle norme costituzionali, come si trattasse di spremere una spugna, perché le norme costituzionali sono una sorta di spugna che bisogna spremere a fondo per far sì che diano tutto il loro contenuto. Nello stesso tempo abbiamo una grande ricchezza di significato nelle norme costituzionali: si pensi soltanto alle norme programmatiche, all’articolo 3 che parla di partecipazione, di democrazia partecipativa, di tematiche cioè così moderne da aver caratterizzato le ultime elezioni politiche in Francia. Lo stesso dicasi del passaggio riservato al diritto al lavoro e a tante altre norme che attendono ancora di essere esplicitate fino al loro estremo contenuto. Il terzo paradosso è quello relativo alla rigidità e alla flessibilità. Il discorso sulle norme programmatiche dice come la Costituzione abbia una capacità di inveramento nel tempo; ma dall’altra parte c’è l’articolo 138, che presiede alla rigidità della Costituzione. La Costituzione può essere mutata solo attraverso procedure rafforzate e a queste procedure mette come salvaguardia estrema quel diritto al referendum di cui abbiamo usufruito appena un anno fa. Ma poi c’è la flessibilità, e chi preside a questa flessibilità se non la giurisprudenza della Corte Costituzionale? Una giurisprudenza che ha accompagnato lo sviluppo intimo della Costituzione. Faccio un cenno a quella che è la norma più evidente della flessibilità della Costituzione, cioè l’articolo 11 che afferma che la Repubblica consente, in condizioni di parità con gli altri stati, limitazioni di sovranità in favore di un superiore ordinamento sopranazionale. È questa la vera norma di sviluppo, di integrazione e di flessibilità della nostra Costituzione; norma che poi, come conseguenza, è stata completata dall’articolo 117, che si riferisce ai vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali. L’ultimo dei paradossi è quello della perduranza e del mutamento della Costituzione. La Costituzione, che oggi ha 60 anni, è davvero quella che fu approvata il 28 dicembre 1947 ed entrò in vigore il 1° gennaio 1948? O non è invece stata mutata rispetto ad allora? Si tratta, per certi aspetti, dell’interrogativo che un grande poeta, Luis Borges, si pone quando vede Ulisse che, arrivato alla fine del suo viaggio, dorme finalmente tra le bianche braccia di Penelope: quell’Ulisse, che sta dormendo così, è veramente lo stesso Ulisse che sfidò i mari e gli dei e le lusinghe della maga Circe, o non è invece qualcosa di diverso? In altre parole, il viaggio non l’ha reso diverso? Ecco, è questo l’interrogativo che ci dobbiamo porre sulla nostra Costituzione. La Costituzione ha fatto quel viaggio e quel viaggio l’ha mutata, perché c’è stata la giurisprudenza della Corte costituzionale, un fluire di sentenze sui diritti fondamentali, sulle attribuzioni dei poteri dello stato, sui referendum, che han quasi creato un tessuto connettivo in cui ormai le norme costituzionali vivono. E abbiamo poi la Costituzione europea che rappresenta a sua volta un ordinamento costituzionale: se guardate al Parlamento come è scritto nella Costituzione, se guardate alla giustizia come è scritta nella Costituzione, se guardate alle forze armate come sono scritte nella Costituzione e al il bilancio come è scritto nella Costituzione, scoprite che le cose sono differenti, perché le forze armate sono inquadrate in una difesa europea, perché il bilancio è inquadrato nei vincoli del Trattato di Maastricht, perché il Parlamento non fa più tutte le leggi ma solo una minima parte di esse e le altre si fanno a Bruxelles. Ecco il cambiare della Costituzione. E allora, ci si deve chiedere, cosa è rimasto della nostra Costituzione? È rimasto il “clima”, cioè quel suo essere parte integrante della storia italiana pur nelle mutazioni. E di questo clima si deve tener conto quando si dubita che lo spirito della Costituzione sia mutato in quella sua universalità, come diceva il prof. Onida che parlava addirittura di religione. Ho apprezzato molto questo suo senso della “religiosità”dei diritti fondamentali iscritti nella Costituzione: richiamo tanto più opportuno, credo, in un momento di acuta contraddizione, quando, di fronte al fondamentalismo islamico e del califfato, si tende a contrapporre un fondamentalismo cristiano e dello stato. Senza contrapporci a nessuno, noi siamo dalla parte della Repubblica, crediamo cioè nel valore universale della Repubblica in cui sono compresi anche i valori morali, i valori religiosi e i valori etici che sessant’anni fa hanno animato un compromesso che era un compromesso istituzionale, non un compromesso politico. Proprio oggi ho avuto in dono dalla mia segretaria le prime pagine dei giornali del 28 dicembre 1947 e del 2 gennaio
  • 11. 1948. Vi si legge come, di fronte all’impegno istituzionale che determinava l’unanime riconoscimento della Costituzione, fosse in atto uno scontro politico violentissimo. Ma quegli articoli dicono anche che il compromesso istituzionale transtemporale e transnazionale era più forte delle divisioni ideologiche degli italiani. Quello era il clima, un clima che speriamo si ricostituisca perché si chiama, ora e sempre, “patriottismo costituzionale”.