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L’Inchino
Storia di un naufragio




    Mara Parmegiani Alfonsi
Progetto Grafico e Stampa:
Rotoform Editore
Via dei Tamarindi, 14
00134 Roma
Tel. 06.71300197 - Fax 06.71302974
www.rotoform.it - info@rotoform.it

Autore:
Mara Parmegiani Alfonsi

Eaditing
Hélène Blignaut

Finito di stampare nel mese di
Febbraio 2012
Nessuna parte di questa opera può essere riprodotta
in qualsiasi forma senza il consenso del detentore dei
diritti, Mara Parmegiani.

ISBN 978-88-89379-20-2




Il marchio FSC® garantisce che la carta di questo volume contiene cellulosa proveniente da foreste gestite in maniera corretta e respon-
sabile secondo rigorosi standard ambientali, sociali ed economici. L’ FSC® (Forest Stewardship Council) è una Organizzazione non
governativa internazionale, indipendente e senza scopo di lucro, che include tra i suoi membri gruppi ambientalisti e sociali, comunità
indigene, proprietari di forestali, industrie che lavorano e commerciano il legno, scienziati e tecnici che operano insieme per migliorare la
gestione delle foreste in tutto il mondo. Per maggiori informazioni vai su www.fsc.org e www.fsc-italia.it
- PRIMA PARTE -




LA NAVE SALPA
Venerdi 13 Gennaio 2012.

       Ore 18.30
Mi imbarco dal porto di Civitavecchia per una crociera che tocche-
rà Savona, Marsiglia, Palma di Majorca, Cagliari, Palermo, sulla nave
Costa Concordia tra uno sfavillio di luci e sorrisi di sconosciuti di ogni
nazionalità.
     Ho consegnato al personale di bordo cinque valigie. All’interno di
queste, come in uno scrigno, un patrimonio di cultura. Si tratta di abiti,
ma non sono abiti qualunque.
    Le consegno con lo stato d’animo di chi lascia in altre mani un bene
prezioso, un grande valore a ettivo.
   Si tratta di un pezzo di Storia italiana, di mezzo secolo di arte-artigia-
na, del racconto evidente in ogni piega, in ogni taglio di una manualità
che ha le sue profonde radici nel Rinascimento. Il racconto delle mani
sapienti delle sarte chine sulle pezze per creare punto dopo punto un
capolavoro, delle dita veloci e attente delle ragazze di laboratorio per dar
vita ad un’idea creativa di stampo squisitamente italiano, per renderla
concreta e indossabile di fronte al mondo intero.
   Penso che la responsabilità di chi abbia la fortuna di avere tra le mani
un simile patrimonio culturale sia quello di mostrarlo, perché si sappia
chi siamo, da dove veniamo, noi che con il biglietto da visita del “made
in Italy” abbiamo conquistato il globo.
   Moda non vuol dire vacuità, nemmeno fatuità. Oggi siamo sopra atti
dalla Storia, rotoliamo insieme ad essa. Tuttavia, ci sono testimonian-
ze che restano e nostro dovere è conservarle con amore, divulgarle alle
nuove generazioni.
     Quale migliore occasione, penso, di questo invito a bordo di una
nave che riunisce più di quattromila persone per o rire alla vista di chi
non la conosce la virtù artigiana del nostro Paese? Mi sento una sorta di
ambasciatore e sorrido anch’io come gli altri, ma non per la gioia di una
vacanza d’inverno.
     Le acque nere intorno alla nave mandano ri essi metallici. Il cielo
sopra di noi è muto, come ascoltasse perplesso il nostro vociare. Per

                                     11
un attimo, mi s ora una sorta di presentimento, gettando un’ occhiata
al mare nero mi tra gge fugacemente un’idea di discesa nelle tenebre
senza remissione. Ma il gigante buono, generoso di luci e chiasso mi
accoglie e l’euforia della mia missione di nuovo mi a erra.




                                 12
Ore 20.00
Entro in cabina. È la numero 1003 al decimo ponte. Una suite, e su-
bito percepisco quell’avvolgente senso di benessere che il lusso sa dare.
Sul tavolo una bottiglia di champagne, calici e un vassoio di frutta matu-
ra. La cabina-armadio è spaziosa. L’arredo essenziale ma di qualità. Sarà
la mia “casa” privata per una settimana.
   Conto le valigie, ne manca una. Una parete è di vetro: è quella che dà
su un ampio balcone che a accia sul mare. L’istinto mi porta ad aprire
la porta- nestra. Vorrei respirare per un attimo il profumo del mare.
Ormai la nave è salpata, la sirena ha salutato i “terrestri”. Respirare l’a-
ria frizzante, guardare avanti verso l’orizzonte e vivere per un momen-
to una sensazione di scon nata libertà. Ma la porta- nestra è bloccata.
No, non si può aprire e improvvisamente mi sento prigioniera, come
in un acquario. Oltre il diaframma trasparente si agita una realtà in-
conoscibile di nero profondo che si macchia a intermittenza di lampi
e ri essi colorati. Nel vetro uttua la mia stessa sagoma come in uno
specchio d’ombre. Questa natura irraggiungibile eppure lì ad un passo,
mi ispira venerazione e spavento... Lasciamo stare, sistemiamo la colle-
zione. Il valletto della cabina è arrivato. Mi aiuta. Riusciamo a metterne
nell’armadio soltanto una parte. Strabilia. La bellezza di queste cose che
vengono da un’altra epoca, da momenti in cui l’eleganza non era solo
un modo di vestire, esercita un’attrazione magnetica anche su questa
persona semplice. La sua curiosità quasi fanciullesca mi scalda il cuore.
L’arte sa parlare a chiunque, penso. Mi rassicura che la quinta valigia è,
per errore, nella cabina 7903 e mi sarà presto recapitata.
    Domani ci sarà da fare le prove con le modelle. Per ora, in tre valigie
e nell’armadio, resta la vita sospesa di questi abiti vuoti che chiedono
soltanto di essere indossati per ritrovare il loro giusto senso. Abiti vuoti,
vita… Penso e mi spazzolo i capelli. Poi ci sono i miei vestiti personali:
scelgo una giacca di seta rossa e pantaloni neri da mettere per la cena.



                                     15
Metto le scarpe basse immaginando di sentirmi più a mio agio nelle
lunghe escursioni da un corridoio all’altro, su e giù per i diversi ponti di
questo colosso galleggiante. La borsa, sì la borsa come contenitore di un
pezzo della mia vita: il documento di identità, le carte di credito, i soldi
no perché a bordo non li accettano, i due cellulari e le mille altre scioc-
chezze utili che una donna vuole sempre con sé. Mi aspettano il regista,
i collaboratori di quella che non sarà soltanto una s lata di moda, ma
una sorta di rituale per svelare la bellezza di una sapienza antica. Poco
prima di uscire, penso di mettere l’ orologio prezioso, un regalo che mi
è tanto caro. Poi cambio idea e decido per un bracciale. L’ orologio ri-
mane sul tavolo, solitario, piccolo, con il suo grande carico a ettivo. La
chiave della camera è elettronica, a tessera. Stanno scomparendo le vec-
chie chiavi di metallo, pesanti. Oggi trionfa la tecnologia e qui su questa
nave si percepisce che mascherata dall’opulenza degli arredi è proprio la
tecnologia a trionfare.
   Mi domando quando verremo radunati per l’esercitazione obbligato-
ria in cui apprendere le regole di salvataggio in caso di problemi. Mah…
so che saremo chiamati entro le prossime ventiquattr’ore.
   Dò un’occhiata alla collezione che dovrò portare in scena. Mi viene in
mente il grande successo ottenuto a Brasilia, Mosca, San Pietroburgo,
Ekaterimburg. Rimane impressa nella mia retina un’immagine perfetta,
una somma di colori fantastica. Resta nel mio udito un lievissimo suono
di sete croccanti, un fruscìo di velluti. Con me resta anche il profumo
delle donne che queste sto e indossarono mescolato a quello delle sarte
impegnate a tesserne la trama, a cucire orli e pieghe. Penso a qualche
minima goccia di sangue causata da aghi che in iggevano punture a dita
che avevano dimenticato il ditale.
    Mi avvio verso il Ristorante Milano al quarto ponte, vado per i cor-
ridoi, prendo ascensori di cristallo che scivolano nella fantasmagoria di
spazi immensi, luci sfolgoranti, passo per i saloni del casinò, del salone
da ballo, i bar, i ristoranti. In questo Dedalo, vorrei tanto avere il lo

                                     16
di Arianna, ma penso che comunque qui non ci sarà nessun famelico
Minotauro da uccidere. Devo, tuttavia, arrivare alla meta, ma continuo
a perdermi. Sarà la stanchezza, ma le indicazioni mi appaiono incom-
prensibili, contradditorie.
    Ma, insomma, devo andare avanti. In ne, “più che l’onor poté il di-
giuno” e decido di ritornare sui miei passi per raggiungere di nuovo la
mia camera e chiedere che mi portino la cena, lì, al riparo. Ma sulla
mia strada, improvvisamente, si materializza una giovane coppia. Lui
tiene in braccio una deliziosa bambina. I due mi sorridono e poi an-
che la bambina mi fa un sorrisetto. Dico che ho problemi di percorso.
Rispondono che anche loro stanno andando al Ristorante Milano così,
guardinghi come in una spedizione nella giungla, ci avventuriamo per
in niti corridoi e saloni.




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  • 5. Venerdi 13 Gennaio 2012. Ore 18.30
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  • 7. Mi imbarco dal porto di Civitavecchia per una crociera che tocche- rà Savona, Marsiglia, Palma di Majorca, Cagliari, Palermo, sulla nave Costa Concordia tra uno sfavillio di luci e sorrisi di sconosciuti di ogni nazionalità. Ho consegnato al personale di bordo cinque valigie. All’interno di queste, come in uno scrigno, un patrimonio di cultura. Si tratta di abiti, ma non sono abiti qualunque. Le consegno con lo stato d’animo di chi lascia in altre mani un bene prezioso, un grande valore a ettivo. Si tratta di un pezzo di Storia italiana, di mezzo secolo di arte-artigia- na, del racconto evidente in ogni piega, in ogni taglio di una manualità che ha le sue profonde radici nel Rinascimento. Il racconto delle mani sapienti delle sarte chine sulle pezze per creare punto dopo punto un capolavoro, delle dita veloci e attente delle ragazze di laboratorio per dar vita ad un’idea creativa di stampo squisitamente italiano, per renderla concreta e indossabile di fronte al mondo intero. Penso che la responsabilità di chi abbia la fortuna di avere tra le mani un simile patrimonio culturale sia quello di mostrarlo, perché si sappia chi siamo, da dove veniamo, noi che con il biglietto da visita del “made in Italy” abbiamo conquistato il globo. Moda non vuol dire vacuità, nemmeno fatuità. Oggi siamo sopra atti dalla Storia, rotoliamo insieme ad essa. Tuttavia, ci sono testimonian- ze che restano e nostro dovere è conservarle con amore, divulgarle alle nuove generazioni. Quale migliore occasione, penso, di questo invito a bordo di una nave che riunisce più di quattromila persone per o rire alla vista di chi non la conosce la virtù artigiana del nostro Paese? Mi sento una sorta di ambasciatore e sorrido anch’io come gli altri, ma non per la gioia di una vacanza d’inverno. Le acque nere intorno alla nave mandano ri essi metallici. Il cielo sopra di noi è muto, come ascoltasse perplesso il nostro vociare. Per 11
  • 8. un attimo, mi s ora una sorta di presentimento, gettando un’ occhiata al mare nero mi tra gge fugacemente un’idea di discesa nelle tenebre senza remissione. Ma il gigante buono, generoso di luci e chiasso mi accoglie e l’euforia della mia missione di nuovo mi a erra. 12
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  • 11. Entro in cabina. È la numero 1003 al decimo ponte. Una suite, e su- bito percepisco quell’avvolgente senso di benessere che il lusso sa dare. Sul tavolo una bottiglia di champagne, calici e un vassoio di frutta matu- ra. La cabina-armadio è spaziosa. L’arredo essenziale ma di qualità. Sarà la mia “casa” privata per una settimana. Conto le valigie, ne manca una. Una parete è di vetro: è quella che dà su un ampio balcone che a accia sul mare. L’istinto mi porta ad aprire la porta- nestra. Vorrei respirare per un attimo il profumo del mare. Ormai la nave è salpata, la sirena ha salutato i “terrestri”. Respirare l’a- ria frizzante, guardare avanti verso l’orizzonte e vivere per un momen- to una sensazione di scon nata libertà. Ma la porta- nestra è bloccata. No, non si può aprire e improvvisamente mi sento prigioniera, come in un acquario. Oltre il diaframma trasparente si agita una realtà in- conoscibile di nero profondo che si macchia a intermittenza di lampi e ri essi colorati. Nel vetro uttua la mia stessa sagoma come in uno specchio d’ombre. Questa natura irraggiungibile eppure lì ad un passo, mi ispira venerazione e spavento... Lasciamo stare, sistemiamo la colle- zione. Il valletto della cabina è arrivato. Mi aiuta. Riusciamo a metterne nell’armadio soltanto una parte. Strabilia. La bellezza di queste cose che vengono da un’altra epoca, da momenti in cui l’eleganza non era solo un modo di vestire, esercita un’attrazione magnetica anche su questa persona semplice. La sua curiosità quasi fanciullesca mi scalda il cuore. L’arte sa parlare a chiunque, penso. Mi rassicura che la quinta valigia è, per errore, nella cabina 7903 e mi sarà presto recapitata. Domani ci sarà da fare le prove con le modelle. Per ora, in tre valigie e nell’armadio, resta la vita sospesa di questi abiti vuoti che chiedono soltanto di essere indossati per ritrovare il loro giusto senso. Abiti vuoti, vita… Penso e mi spazzolo i capelli. Poi ci sono i miei vestiti personali: scelgo una giacca di seta rossa e pantaloni neri da mettere per la cena. 15
  • 12. Metto le scarpe basse immaginando di sentirmi più a mio agio nelle lunghe escursioni da un corridoio all’altro, su e giù per i diversi ponti di questo colosso galleggiante. La borsa, sì la borsa come contenitore di un pezzo della mia vita: il documento di identità, le carte di credito, i soldi no perché a bordo non li accettano, i due cellulari e le mille altre scioc- chezze utili che una donna vuole sempre con sé. Mi aspettano il regista, i collaboratori di quella che non sarà soltanto una s lata di moda, ma una sorta di rituale per svelare la bellezza di una sapienza antica. Poco prima di uscire, penso di mettere l’ orologio prezioso, un regalo che mi è tanto caro. Poi cambio idea e decido per un bracciale. L’ orologio ri- mane sul tavolo, solitario, piccolo, con il suo grande carico a ettivo. La chiave della camera è elettronica, a tessera. Stanno scomparendo le vec- chie chiavi di metallo, pesanti. Oggi trionfa la tecnologia e qui su questa nave si percepisce che mascherata dall’opulenza degli arredi è proprio la tecnologia a trionfare. Mi domando quando verremo radunati per l’esercitazione obbligato- ria in cui apprendere le regole di salvataggio in caso di problemi. Mah… so che saremo chiamati entro le prossime ventiquattr’ore. Dò un’occhiata alla collezione che dovrò portare in scena. Mi viene in mente il grande successo ottenuto a Brasilia, Mosca, San Pietroburgo, Ekaterimburg. Rimane impressa nella mia retina un’immagine perfetta, una somma di colori fantastica. Resta nel mio udito un lievissimo suono di sete croccanti, un fruscìo di velluti. Con me resta anche il profumo delle donne che queste sto e indossarono mescolato a quello delle sarte impegnate a tesserne la trama, a cucire orli e pieghe. Penso a qualche minima goccia di sangue causata da aghi che in iggevano punture a dita che avevano dimenticato il ditale. Mi avvio verso il Ristorante Milano al quarto ponte, vado per i cor- ridoi, prendo ascensori di cristallo che scivolano nella fantasmagoria di spazi immensi, luci sfolgoranti, passo per i saloni del casinò, del salone da ballo, i bar, i ristoranti. In questo Dedalo, vorrei tanto avere il lo 16
  • 13. di Arianna, ma penso che comunque qui non ci sarà nessun famelico Minotauro da uccidere. Devo, tuttavia, arrivare alla meta, ma continuo a perdermi. Sarà la stanchezza, ma le indicazioni mi appaiono incom- prensibili, contradditorie. Ma, insomma, devo andare avanti. In ne, “più che l’onor poté il di- giuno” e decido di ritornare sui miei passi per raggiungere di nuovo la mia camera e chiedere che mi portino la cena, lì, al riparo. Ma sulla mia strada, improvvisamente, si materializza una giovane coppia. Lui tiene in braccio una deliziosa bambina. I due mi sorridono e poi an- che la bambina mi fa un sorrisetto. Dico che ho problemi di percorso. Rispondono che anche loro stanno andando al Ristorante Milano così, guardinghi come in una spedizione nella giungla, ci avventuriamo per in niti corridoi e saloni. 17