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− Ma si tratta di una lettera anonima. Come mai? -
− Signor giudice, davanti ad ogni comando delle
gendarmerie sua maestà Re Ferdinando ha fatto
mettere delle cassette dove chiunque può
denunciare qualunque misfatto senza che il suo
nome compaia negli atti. Sapete come vanno le
cose … ci sono molti sovversivi e … - Il giudice
l'interruppe.
− Lo sappiamo, lo sappiamo … ma sappiamo
anche che questo è un ottimo sistema usato da
chiunque per vendicarsi di qualsiasi persona che
gli stia antipatica -
− Signorsì, signor Giudice … e, proprio per questo
motivo, siamo tenuti a fare un controllo -
− Va bene … dunque … leggerò questa lettera
pubblicamente affinché tutti i presenti si
facciano un'idea di cosa contenga … uhm! …
vediamo “ Vi inviamo quezta … “ quezta? … ah!
Voleva dire “questa”! “ ... quezta lettera perché
abbiamo zcoperto … “ Zcoperto? … ma come
scrive questo? Mette tutte le esse al contrario?
Mah! Andiamo avanti “ … abbiamo zcoperto
che il zignor Giacomo Fiorenza, muzicista al
teatro Zan Carlo, è un ladro. Ha rubato, e
nazcosto nel zuo armadietto, oggetti
appartenenti ad altri. Ha rubato perzino
l'orologio d'oro con la catena del direttore
Cajafa”. Comandante, mi confermate che è
questo il contenuto della lettera? -
− Signorsì, signor Giudice -.
− E confermate che questa missiva non reca
firma? -
− Signorsì, signor Giudice -.
− Ora, … io ho, qua davanti, l'elenco di tutti gli
oggetti rubati in teatro: “ 3 ciprie e 4 rossetti di
scena, 8 involti di pece per gli archetti, 2
metronomi, 1 panno di raso per coprire i tasti del
clavicembalo, 12 matite, 6 candele, 1 piatto
musicale e un orologio d'oro con catena”.
Tenente, rispondete, di grazia, avete trovato tutte
queste cose nell'armadietto del Fiorenza? -
− Non tutte, eccellenza! Sono stati ritrovati
nell'armadietto le ciprie, i rossetti, il panno di
raso, le candele e l'orologio -
− Quindi … vediamo … mancano … la pece, i
metronomi, le matite e il piatto musicale …
interessante … sono tutti oggetti che fanno gola
solo a chi fa il suonatore … e … si? - In quel
momento, Giacomo che aveva taciuto ed
ascoltato fino ad allora, aveva alzato la mano
come a chiedere la parola.
− Eccellenza, chiedo scusa ma … credo di sapere
chi ha veramente rubato nel teatro – in sala ci fu
un sommesso borbottio.
− Silenzio! … - disse il giudice - … e chi sarebbe
costui? -.
− Ecco, non so se ha agito da solo o in combutta
con altri ma, sono certo che sia stato Francesco
Bossolo! - In sala vi fu un'esplosione di stupore
da parte dei presenti. Su tutto quel tumultuoso
vociare, si sentì l'urlo dell'accusato.
− Come ti permetti, ladruncolo che non sei altro? -
Allora intervenne papà Gaetano.
− Nun te permettere proprio cu figliemo,
scurnacchiato! (pieno di corna) – e si lanciò
addosso a Bossolo.
Immediatamente, intervennero Laido e Mappaluna a
difesa del loro compare.
Vedendolo da solo contro tre, Michele Belcanto e
Ciccio, il fratello di Emma, si lanciarono nella mischia.
− Guardie, divideteli immediatamente! - fu l'urlo
del giudice che sovrastò anche le urla delle
donne e dei bambini spaventati.
Dopo due minuti di caos, era tornata la calma in
aula. Ora sei persone erano legate e affiancate dai
gendarmi. Il giudice tornò a parlare rivolto a Giacomo:
− Signor Fiorenza, ora che abbiamo finito di
assistere agli Orazi e Curiazi, mi potete spiegare
perché avete mosso quest'accusa? Avete le prove
di quanto dite? -
− Signorsì, eccellenza … la lettera anonima -.
− In che senso, di grazia? -
− Mentre la leggevate, avete notato che tutte le
“esse” sono state scritte al contrario, giusto,
signor giudice? -
− Le “esse”? Ah! Già, … ebbene? -
− Francesco Bossolo ha questo strano vizio
grafico -.
− Ah, si! E con ciò? Non credo sia l'unico ad avere
questo difetto -
− Ah! … vero … - Giacomo non ci aveva pensato.
Stava per deprimersi ma poi si riprese - … però
avete pure notato che le cose che non c'erano nel
mio armadietto erano le uniche cose che
potevano far gola a un musicista e … - il giudice
l'interruppe.
− Certo ma, vendendo un orologio d'oro con
catenina, si possono comprare chili di pece,
matite a iosa e un'enorme quantità di piatti e
metronomi -.
A quel punto, Giacomo non aveva più argomenti per
accusare Bossolo per cui, tacque e abbassò la testa. Fu il
giudice a riprendere la parola:
− Purtuttavia, colui che ha spedito la lettera
anonima dev'essere necessariamente persona
interna al teatro … anzi! Dirò di più, un
musicista e, … sebbene non ci siano prove
sufficienti a confutare le accuse del signor
Fiorenza, … comandante Montieri! -
− Comandate pure signor giudice, eccellenza! -
rispose prontamente l'alfiere.
− Tornate al San Carlo e trovate modo di aprire
l'armadietto del signor … ehm! … -
− BOSSOLO! - Urlarono isoritmicamente tutti i
parenti e gli amici di Giacomo.
− Giusto! Montieri, aprite l'armadietto del signor
Bossolo … e, visto che siete lì, vi consiglio di
dare un'occhiata anche agli armadietti degli altri
due signori che sono con lui … signori, fornite
al comandante i vostri nomi e cognomi ZITTI
GLI ALTRI! Non mi serve il vostro corale
suggerimento. Saranno i gendarmi a prendere le
loro generalità … Montieri, quanto tempo vi
occorre per questa operazione? -
− Circa un'ora e mezza, signor giudice -
− Bene! Ci rivediamo qui fra un'ora e mezza.
Guardie! Non fate uscire nessuno da quest'aula
… nemmeno le persone che sono venute a
vedere -.
Con queste parole, il giudice s'allontanò dall'aula.
Fu un'ora e mezza terribile per tutti, sebbene per
motivi diversi.
I sei uomini che avevano partecipato alla rissa
furono raggruppati dalle guardie i due insiemi da tre
individui, divisi per fazioni avverse.
Tutti e sei avevano il volto teso sebbene per motivi
differenti.
Mamma Luisa, Emma e i bambini, piangevano
silenziosamente.
L'unico chiacchiericcio, che si sentiva in aula,
proveniva dai gendarmi e dai curiosi che erano stati
bloccati in aula, dietro ordine del giudice.
Giacomo rimase al centro dell'aula incatenato
sforzandosi di sorridere per tranquillizzare moglie e figli.
Sapeva di aver mosso serie accuse contro Bossolo.
Ora, le parole del giudice gli avevano insinuato un
ragionevole dubbio.
E se non fosse stato Bossolo a incastrarlo e lui
aveva accusato un innocente?
E se, invece, fosse stato effettivamente il collega a
cercare di mandarlo in prigione ma, nel suo armadietto, il
comandante Montieri non avesse trovato nulla?
Novanta lunghi, interminabili minuti che, infine,
passarono.
Rientrò il giudice e prese posto alla sua poltrona.
− Seduti! … - urlò, poi, rivolto al cancelliere - …
è tornato Montieri? -
− Non ancora, eccelle … -
− Eccomi! - Il comandante aveva con sé un sacco
di iuta.
− Jammo bello, comanda'! (Diamoci una mossa,
comandante) Avete trovato qualcosa? -
− Signorsì signore! La refurtiva era equamente
distribuita in tutti e tre gli armadietti. In quello
del signor Francesco Bossolo abbiamo rinvenuto
quattro involti di pece, un metronomo e quattro
matite. In quello del signor Carmine Laido
c'erano due involti di pece, quattro matite e un
metronomo. Infine, nell'armadietto personale del
signor Pasquale Mappaluna, c'erano gli ultimi
due involti di pece per gli archetti, quattro matite
e il piatto musicale -
− EVVIVA! - gridò il pubblico. La voce del
giudice sovrastò quel giubilante tripudio.
− ZITTI! Signori Bessolo, Laido e Mappaluna!
Cosa mi raccontate ora? - Il primo a parlare fu
Mappaluna. Indicando Bossolo, disse:
− È stato lui ad organizzare il furto -. Al ché,
Laido intervenne.
− Davvero? E chi ha rubato le chiavi del
cretinetto? - Mappaluna si difese.
− Parli proprio tu che hai preso l'orologio di
Cajafa? -
− Basta cosi! … - disse il giudice - … ho sentito
abbastanza. Guardie! Arrestate questi tre signori!
Vi condanno a un anno di prigione … e liberate
subito quest'innocente! Buona giornata a tutti …
Gaeta', nce lo vedimmo! (Gaetano, arrivederci) -
Fine veloce di un processo.
Quella sera, Giacomino andò a mangiare la pizza
con tutti i suoi amici.
In pizzeria fu messo al corrente del triste fatto che
aveva perso il lavoro al San Carlo ma era troppo felice per
pensare al domani.
L'indomani decise di rimanere a letto più del
dovuto. Nel pomeriggio sarebbe andato a ritirare il
contrabasso che era rimasto nella buca del teatro.
CAPITOLO XXVI
Cimarosa
Napoli 13 Ottobre 1798
Erano quasi le 11,00 quando una voce dal vicolo lo
strappò dal caldo giaciglio.
− Maestro Fiorenza! Mae'! Affacciatevi! - Lui uscì
fuori al balcone e vide uno scugnizzo giù in
strada.
− Che vvuo'? (cosa vuoi?) -
− Maestro, scusatemi tanto ma, dovete andare
immediatamente a teatro! -
− Je nun lavoro cchiù, llà! (Io non ci lavoro più,
lì!) -
− E che ne saccio io? Sto venenno proprio da 'o
triato! Me hanno mannato loro! (Non ne so
nulla, vengo dal teatro, mi ci hanno mandato
loro) -
Giacomo si lavò e si vestì in tutta fretta e corse al
San Carlo. Appena entrò dall'ingresso artisti, Aniello lo
aspettava.
− Maestro! Che piacere vedervi di nuovo qui!
Addò jate? (dove andate?) … non dovete andare
agli uffici. Vi aspettano in teatro -
Giacomo ridiscese la scala che portava agli uffici di
direzione del teatro e percorse il corridoio che portava
quanto più vicino alla buca orchestrale.
Quando entrò. L'orchestra stava provando un
intermezzo. Il primo orchestrale, che s'accorse della sua
presenza, smise di suonare. Pian piano si fermarono tutti.
Il maestro seguì con lo sguardo la direzione in cui
guardavano i suoi orchestrali e smise di dirigere.
Sul palco comparve il direttore Cajafa.
− Bentornato, maestro Fiorenza – Accolse
Giacomo con un caldo sorriso.
− Io, … io … non capisco … - Lui era basito.
− Non c'è proprio nulla da capire, maestro. In
quest'organico di strumentisti, come potete
vedere, manca tutta la sezione di contrabassi -
− Non me ne stupisco. Uno lo avete licenziato e
altri tre stanno in carcere -.
− Esatto! Noi, come voi, siamo stati vittime di tre
delinquenti -
− Vero! Ma soltanto io sono stato in galera per una
settimana e ho perso il posto di lavoro –
Giacomo era troppo risentito col direttore per
non fargli pesare quanto avesse patito.
− Ah, ah, ah, … vedo che ci state arrivando -.
− Direttore Cajafa, col dovuto rispetto, a me 'sto
fatto non mi fa ridere … io … - Il direttore
smise di sorridere e alzò la voce.
− E lasciatemi finire! … dunque, visto che l'unico
ad aver ricevuto un vero dànno siete stato voi, è
giusto anche che voi abbiate un adeguato
risarcimento … quindi … a nome del regio
teatro San Carlo, vogliate ricevere le nostre più
sentite scuse nell'unica forma che ci è concessa.
Vi offriamo il reintegro immediato nell'organico
di quest'orchestra … col ruolo e la paga di primo
contrabasso … che ne dite? - Il sorriso
ricomparve sul volto di Cajafa ma non su quello
di Giacomo.
− Ah! - Fu la risposta del giovane.
− Beh? Non mi direte che non vi fa piacere? -
Stavolta era Cajafa ad essere basito.
− Direttore, chi saranno gli altri tre? -
− Gli altri … ? Ah! Non lo so … forse dovremmo
fare delle audizioni -
− E io sarò presente alle audizioni? E avrò l'ultima
parola? -
− Io non so … non sarebbe la prassi … ci dovrà
essere una commissione … - Si vedeva
chiaramente che Cajafa non sapeva cosa
rispondere.
− Certo! Una commissione nella quale ci sarò io,
voi e tutti quelli che vi pare ma … ma, visto che
alla fine sarò io a tenere in fila con me questi
strumentisti, chiedo di poter avere l'ultima
parola … altrimenti – Cajafa, sebbene in tono
spazientito, diede a Giacomo la risposta che
quest'ultimo voleva.
− E va bene! Come volete voi! -
− Allora, accetto ma … -
− C'è ancora un “ma”? - Il direttore era agli
sgoccioli della propria pazienza. Giacomo se ne
rese conto e minimizzò.
− 'Na cosa 'e niente (una sciocchezza!). Vi chiedo
la cortesia di farmi cominciare domani -
− E perché? -
− Scusatemi, non mi aspettavo questa onorevole
proposta e … ecco … oggi mi devo togliere tutti
gli impegni che m'ero preso e … -
− Va bene, va bene! Non voglio sapere altro. A
domani. Maestri! Fate un applauso al vostro
collega -.
Giacomo uscì di corsa dal teatro ma, prima di
andare a casa, si diresse alle baracche del porto.
Michele era fuori all'uscio della sua abitazione.
Vedendolo tutto trafelato, gli chiese:
− Giacomi'! E che cos'è tutta sta fretta? È succieso
coccheccosa? (è successo qualcosa?) - L'amico
lo tranquillizzò.
− Si, ma una bella cosa! Cercati una casa più
decente per la tua famiglia, datti una ripulita e
dammi una mano a mettere voce in giro che ci
sono le audizioni per contrabasso di fila al San
Carlo – Quest'ultimo periodo aveva reso
Michele Belcanto tutt'altro che fiducioso.
− Non ti pare di essere troppo ottimista? Tu ci
partecipi? -
− No, io no! -
− Ma sei scemo? E perché? Può essere che ti
ripigliano. Hanno visto che non c'entravi niente
coi marijuoli (ladri) … forse … - Giacomo lo
fermò.
− Perché io sono il primo contrabasso. M'hanno
già ripreso ... e … sarò io a scegliere chi farà
parte della fila … allora? - Michele non riuscì a
nascondere il sorriso che s'accese sul suo volto.
− Aspetta che mi preparo e vengo con te! … - e
corse in casa. Giacomo gli sentì urlare alla
moglie - … Maria, t'aggia dicere 'na cosa … 'na
bbella cosa! (Maria, ti devo dire una cosa, una
bella cosa) -
Per fare tutte le cose secondo regola, si tennero i
provini. Era il 16 ottobre 1798.
In commissione c'erano, oltre a Giacomo e il
direttore Cajafa, che doveva esserci per forza, il notaio
Spezzaferri, che curava da anni tutti i contratti artistici del
teatro, il maestro Buonomo, che aveva insegnato alla
maggior parte dei candidati e Giovanni Paisiello che,
ormai, aveva dimora fissa a Napoli.
Si presentarono quattordici candidati.
Tutti erano di buona scuola e con ottimi strumenti.
Alla fine, l'organico dei tre elementi di fila della
sezione contrabassi fu così decisa dalla commissione:
Michele Belcanto. Giacomo avrebbe fatto carte
false pur di averlo nuovamente con sé ma non ce ne fu
bisogno. L'amico Michele suonò divinamente. Di gran
lunga meglio degli altri candidati e la sua assunzione fu
per scelta unanime.
Giovanni Stocco. Allievo del maestro Buonomo.
Più giovane di Giacomo. Molto muscoloso e abbronzato
come chi è abituato a vivere all'aria aperta. Un suono meno
potente di Belcanto e meno melodioso di Giacomo ma una
tecnica straordinaria e uno sguardo fiero e leale.
Francesco Fucci. Aveva cinque anni in più a
Giacomo ed era, quindi, il più anziano della sezione. Non
aveva studiato dal maestro Buonomo ma dal maestro
Calzolari, il vecchio primo contrabasso del San Carlo al
tempo degli esordi di Giacomo. Su di lui, i giudizi furono
discordanti. Non aveva nessuna delle caratteristiche
peculiari degli altri tre suoi colleghi ma aveva un paio di
particolarità che solo Giacomo Fiorenza colse.
Prima particolarità: Era uno capace di miscelare il
suono.
In orchestra, la capacità di miscelare il suono è
legata al carattere del musicista e crea un vantaggio
incommensurabile all'insieme. Un musicista con queste
caratteristiche è una specie di “imitatore” ossia, cambia il
timbro della propria voce (in questo caso del proprio
strumento) a seconda di “cosa” suona, di “dove” suona e di
“con chi” suona.
La seconda particolarità di Fucci era quella di essere
“buono” cioè di avere un grande cuore. A giacomo bastava.
A metà novembre partirono le prove per una
seconda edizione di repliche dell'”Artemisia, Regina di
Caria” opera seria di Domenico Cimarosa su libretto
dell'avvocato Marcello Marchesini.
Lo spettacolo era andato in scena già l'anno
precedente con enorme successo anche perché era stato
confezionato in occasione delle Nozze delle di Francesco
Borbone e Maria Clementina Arciduchessa d'Austria.
Cimarosa era stato a Vienna, poco dopo la morte di
Mozart e lì aveva scritto il capolavoro che lo aveva reso
famoso: “Il matrimonio segreto”.
Tornato a Napoli, lo spettacolo aveva tenuto ben
110 repliche al teatro dei Fiorentini.
Probabilmente, fu per questo motivo che fu scelto
dai sovrani al posto di Paisiello per scrivere l'”Artemisia,
Regina di Caria” suscitando l'invidia del collega.
Visto che l'anno precedente s'era tenuta una sola
replica, giusto per le nozze borboniche, era giusto mettere
lo spettacolo in cartellone. Anche perché Cajafa non era
uno stupido. Sapeva che il nome di Domenico Cimarosa
avrebbe fatto da richiamo a un folto pubblico.
In occasione dell'inizio delle prove, per la prima
volta, Giacomo Fiorenza vide un aspetto caratteriale di
Giovanni Paisiello che non gli piacque per niente.
Quando fece il suo ingresso in sala prove,
Domenico Cimarosa fu accolto da un calorosissimo
applauso da parte di tutta l'orchestra.
Lui, tanto per i tratti somatici quanto per la dolcezza
che emanava e per il tipo di musica che componeva, era
molto simile a Paisiello. Aveva labbra carnose, aspetto
pingue. Aveva poco meno di cinquant'anni. Era nato ad
Aversa, vicino Napoli, ma aveva girato tutta l'Europa.
L'applauso tributato al maestro fu interrotto da
Giovanni Paisiello che era presente in quanto responsabile
musicale del teatro.
− Forza! Non perdiamo tempo ché qui abbiamo da
fare! -
Giacomo, e non solo lui, era basito dalla reazione di
Paisiello. Era sintomo di buona educazione, come s'era
sempre fatto in passato, lasciare che il compositore si
presentasse all'orchestra e spiegasse loro il lavoro che di lì
a poco avrebbero messo in scena.
Lo stesso Cimarosa guardò in tralice il collega.
Provò a prendere il controllo.
− Giovanni, lascia che mi presenti all'orchestra –
disse con voce ferma ma educatamente. Paisiello
scoppiò a ridere. Una risata finta.
− Ah, ah, ah! E ce n'è bisogno? Qui tutti ti
conoscono, Domenico -
− Si ma … io … - Paisiello lo interruppe.
− Lascia stare! Siamo gente pratica noi … o no? -
Cimarosa capì che era inutile stare lì a insistere.
L'orchestra l'aveva già visto soccombere e non
voleva dare altra soddisfazione al collega.
− Bene! Hai ragione tu. Signori, prendete
l'ouverture! -
Paisiello non abbandonò la sala prove per tutto il
giorno. Accanto a lui c'era il suo assistente copista e, di
tanto in tanto, li si sentiva scoppiare a ridere.
Questo atteggiamento innervosiva non poco
Domenico Cimarosa.
Lui era un abile cantante, molto più bravo di
Paisiello. Aveva studiato tecnica vocale da un famoso
castrato napoletano. Per la prima prova non aveva
convocato i cantanti.
Cantava egli stesso e in un'occasione, alla fine di
un'Aria del soprano che Cimarosa aveva cantato in
maniera magistrale scatenando l'ennesimo applauso dei
suoi orchestrali, Paisiello gli urlò:
− Mimì! (Domenico!) … ma sei sicuro che non
t'hanno castrato? Io ti vedrei benissimo sul palco
… in abiti femminili Ah! Ah! Ah! -
Quando iniziarono le repliche, queste confermarono
la lungimiranza del direttore del teatro. Furono un
successo, il successo previsto e auspicato da Cajafa.
CAPITOLO XXVII
Albano Laziale (Roma) 29 aprile 1866
− Ah! ah! Stavo ripensando a ciò che ha saputo
fare vostro padre col giudice – gli disse Liszt
mentre i due uomini passeggiavano nei giardini
vaticani di Albano Laziale.
− Eh si! In effetti, papà era molto scaltro – rispose
Giacomo sorridendo nostalgico al pensiero del
padre.
− Ma, probabilmente, prima o poi si sarebbe
scoperta la vostra innocenza -
− Non so. Non ho mai avuto molta fiducia nella
cosiddetta giustizia. Nelle aule dei tribunali si
applica la legge e la legge non è nemmeno
lontana parente della giustizia -
− Parole sante, Giacomo. Per fortuna, le cose si
misero per il meglio. Ora avevate un ruolo di
prestigio. Un ruolo che, tra l'altro, avete
conservato fino a pochi anni fa. Avevate una fila
di tutto rispetto … cos'è accaduto dopo? -
− Quell'epoca fu portatrice di grandi cambiamenti
al vertice del governo cittadino -
− Ah, già! L'avvicendarsi di Borbone e dei
francesi, vero? -
− Verissimo. Furono incarcerati molti innocenti …
comunque non più colpevoli di quanto lo fossi
stato io con la faccenda dei furti. Furono
eseguiti molti arresti a sfondo politico e, alla
fine di tanto subbuglio politico, parecchi furono
scarcerati … anche coloro che poco c'entravano
con le varie rivolte … indirettamente, queste
scarcerazioni crearono seri problemi al San
Carlo … e a me! -
− Non capisco … -
− Ora vi racconto … -
CAPITOLO XXVIII
Il governo a Napoli
Napoli, teatro San Carlo 21 dicembre del 1798
A metà della replica, entrò un uomo in teatro
gridando:
− 'O Re se n'è fujuto! (il Re è fuggito) -
S'interruppe immediatamente la replica. Tutto il
pubblico fece ritorno a casa. Davanti al San Carlo
s'accalcarono decine di carrozze. Il tanfo di escrementi
divenne insopportabile.
Gli orchestrali presero i loro strumenti e fecero per
abbandonare la buca ma Cajafa salì sul palco e disse:
− Fermi! Tutti gli strumenti ingombranti come il
clavicembalo, i timpani, l'arpa e i contrabassi,
dovranno essere trasportati al deposito del teatro
e messi in custodia. Tutti gli strumenti leggeri
seguiranno i loro proprietari a casa. Fra tre
giorni, la mattina della vigilia di Natale, alle
10,30 ci vediamo tutti qui, attori, ballerine,
musicisti, maestro Cimarosa e personale del
teatro … solo allora, potremo decidere cosa fare.
Forza! Sbrighiamoci -.
L'indomani, alle 10,30, il direttore raccontò alla
compagnia gli ultimi avvenimenti politici.
Il Re Ferdinando, con tutta la famiglia reale, s'era
rifugiato in Sicilia perché i francesi erano alle porte di
Napoli.
Per non lasciare la città senza guida politica, aveva
nominato, quale suo vicario, il conte Francesco Pignatelli
Strongoli.
Pignatelli, non avendo avuto ordini precisi da
Ferdinando di Borbone e, per evitare un attacco alla sua
città, chiese un armistizio ai francesi.
Si accordò col generale Championnet e, in cambio
di una tregua, il Regno di Napoli si impegnò a richiamare
in patria le truppe ancora stanziate in Romagna e a cedere
ai francesi la fortezza di Capua più le città di Benevento,
Ariano Irpino, Acerra, Arienzo, e Arpaia.
Inoltre, la cittadinanza si impegnò al versamento di
due milioni e mezzo di ducati, pagabili in due rate all'inizio
del 1799. Più di metà di tutto il patrimonio cittadino.
Concluse la narrazione dicendo:
− … e, visto che c'è l'armistizio. La gente vorrà
scordarsi ciò che accade al di fuori del loro
piccolo mondo. Quale migliore occasione per
venire a teatro? Abbiamo fatto partire la stampa
di nuovi manifesti dove, a caratteri cubitali, il
pubblico troverà queste parole: “TUTTI I
BIGLIETTI A METÀ PREZZO PER
LASCIARE LA POLITICA E LA GUERRA
FUORI DAL TEMPIO DELL'ARTE”. Il
pubblico accorrerà ancora più numeroso. Lo
spettacolo continua! -
− Evviva! - gridarono i convenuti.
− Però, … però … devo chiedervi un piccolo
sacrificio … -
In teatro tornò il silenzio. Tutti gli astanti rimasero
in attesa di sapere in cosa consistesse questo “piccolo
sacrificio”. Cajafa riprese:
− Se il pubblico paga metà prezzo, lo capirete da
soli che tutti noi … dico “tutti noi” accettiamo di
lavorare per mezza paga finché tutto non torni
alla normalità -.
Non c'era alternativa … del resto, chiunque, in
qualunque epoca della storia, abbia deciso di votare la
propria vita all'arte, non si è mai fatto illusioni. Tutti gli
artisti sanno di vendere un bene superfluo all'umanità,
qualcosa di cui l'essere umano può fare a meno.
Eppure, se l'arte ha resistito alla barbarie
dell'animale “umano” è stato solo perché, pur non salvando
la specie umana dalla propria “piccolezza”, l'arte è stata
capace di innalzare l'umanità a “civiltà”!
Passò capodanno, passò anche l'epifania, finirono le
repliche dell'”Artemisia, Regina di Caria” con
soddisfazione di Cajafa che c'aveva visto lungo.
L'orchestra ebbe la concessione di un breve periodo
di riposo. Non una vera e propria vacanza ma una piccola
pausa prima di cominciare a lavorare a una nuova
produzione.
Nessuno prevedeva che, di lì a poco, sarebbe
scoppiato l'inferno a Napoli.
La sera del 14 gennaio 1799 l'esercito francese si
presentò nella capitale del regno per ricevere il denaro
pattuito.
I soldi non c'erano … anche perché i Borboni,
scappando in Sicilia, s'erano portati la maggior parte
dell'oro della corona e i denari dei banchi.
Quella sera il popolo napoletano insorse. I cittadini
assalirono i francesi e li cacciarono dalla città.
Capitanati dal principe Girolamo Pignatelli di
Moliterno e il duca Lucio Caracciolo di Roccaromana, due
ufficiali borbonici che si erano battuti valorosamente
contro i Francesi, il giorno 15 gennaio, i napoletani
assalirono tutte le fortezze della città: Castel Sant'Elmo,
Castel dell'Ovo, Maschio Angioino e il Castello del
Carmine.
Dopo essersi impadroniti delle armi, assaltarono
anche le carceri, liberando detenuti politici e, con loro,
anche i detenuti comuni.
Il 16 gennaio il vicario del Re, Francesco Pignatelli
Strongoli fuggì da Napoli e raggiunse il suo sovrano a
Palermo.
Napoli, liberata dai francesi ma senza un vero capo
politico, cadde in preda alla più totale anarchia.
Probabilmente era proprio ciò in cui speravano i
francesi.
Ora non avevano più un referente politico in città,
non erano stati pagati e non erano più vincolati
dall'armistizio.
Il 23 gennaio 1799 il generale Championnet entrava
trionfalmente a Napoli alla testa della sua armata.
Il Re era caduto, i Borboni erano stati cacciati,
nasceva la Repubblica Napoletana.
I francesi, conquistatori del regno, adottarono una
politica basata sulla repressione. Vi furono centinaia di
incarcerazioni, ergastoli ed esecuzioni capitali.
Malgrado tutto ciò, i napoletani, il popolo, quello
vero, quello non interessato alla politica, essendo
composto da gente unica nel suo genere, riprese la propria
vita di tutti i giorni come se niente fosse mai accaduto.
Chiunque abbia dominato i napoletani (e sono stati
in tanti), ha dovuto fare i conti con un popolo che, se lo
lasciavi continuare a vivere la sua vita alla propria
maniera, poteva dimostrarsi il popolo più mansueto al
mondo. Soltanto chi ha provato a sconvolgere gli equilibri
vitali di un microcosmo autosufficiente ne ha pagato le
conseguenze.
La nascita della Repubblica Napoletana non creò
danni al San Carlo. Dopo un primo momento di stasi, gli
orchestrali furono richiamati a fare il loro lavoro.
Unica differenza.
Ora si eseguivano solo lavori di Giovanni Paisiello.
Il maestro, infatti, aveva conquistato, con la sua
simpatia e con il suo talento, anche i capi della repubblica
cosicché le alte cariche del nuovo governo gli avevano
lasciato carta bianca sulla gestione del teatro.
Cajafa c'era ancora ma non aveva più alcun potere
decisionale.
Il pubblico, per fortuna, non disertava il San Carlo
né gli altri teatri partenopei.
Anche per Giacomo non fu un grande problema
adattarsi a suonare il repertorio di un unico compositore.
In fondo, lo conosceva bene e poi … Paisiello era,
in effetti, un grande compositore.
La repubblica napoletana, purtroppo per Paisiello,
ebbe vita breve.
Il 22 di giugno, si chiuse la parentesi di dominio
francese della città (non era la prima parentesi e non
sarebbe stata nemmeno l'ultima) e fu riconsegnato il regno
ai Borboni.
Conseguenze per il San Carlo? Nessuna.
Conseguenze per Paisiello?
Durante l'assenza dei Borbone, il compositore, che
dai Borbone era stato già nominato maestro di cappella del
Duomo, ora aveva assunto il titolo di maestro di cappella
della repubblica e, sebbene non vi furono ritorsioni da
parte della famiglia reale quando tornò a governare il
regno e la città di Napoli, i rapporti tra lui e la casa Reale
si raffreddarono e Paisiello perse molti degli appoggi che
potevano giovare al suo prestigio cittadino.
Lui non era, in cuor suo, un rivoluzionario anti
monarchico. Egli era semplicemente certo che il proprio
talento bastasse a fargli avere i favori tanto dei monarchi
quanto dei repubblicani.
Un pomeriggio, davanti a un vassoio di sfogliatelle,
il maestro disse a Giacomo.
− Giacomino, ho commesso un errore -
− Quale, maestro? -
− Mi sono illuso che il mio talento potesse servire
a qualcosa -
− Maestro! Ma che dite? Il vostro talento serve a
rendere più bella la musica … vi pare poco? -
− Grazie Giacomi' ma, l'errore mio è stato quello
di accettare onori dalla repubblica e, ora che
sono tornati i Borbone, sono sicuro che me la
faranno pagare … questi non ci mettono niente a
far tagliare la testa alla gente -
− Nun sia mai, Mae'! (Speriamo di no, maestro),
… secondo voi di cosa possono accusarvi? -
− Di averli traditi … ti pare cosa da poco? -
− Uhm! … e voi non potete dire che siete stato
costretto ad accettare se non volevate essere
giustiziato come nemico della repubblica? -
− Ci posso provare ma penso che il Re avrebbe
preferito innalzare un monumento alla mia
memoria anziché vedermi tra le fila dei suoi
nemici -
− Ma quali nemici e nemici, Mae'? Mica avete
combattuto contro di lui? Voi non avete fatto
niente! -
− Niente! … infatti, ho sentito dire che il Re c'é
rimasto male del fatto che non l'ho seguito in
Sicilia -
− E voi ditegli che eravate già pronto a seguirlo
ma che vostra moglie s'era ammalata e non
potevate lasciarla da sola con una città in mano
al nemico -.
− Beh! È un idea … ci proverò -.
Risultato?
I Reali non se la bevvero e lo rimossero da tutti i
suoi prestigiosi incarichi.
La routine del San Carlo, intanto, riprese da dove
s'era fermata ...
… e venne l'estate.
CAPITOLO XXIX
L'agguato
Napoli 26 di agosto del 1799
Il Giacomo e Michele erano stati a bere giù al porto.
Era mezzanotte. S'erano salutati da poco e il giovane
Fiorenza si avviava verso i quartieri di via Toledo, dove
aveva casa.
Già da tre anni e mezzo, non abitava più con la
suocera e il cognato. All'epoca aveva già due figli e,
quando scoprì che Emma aspettava il terzo, gli fu chiaro
che 'o quartino d'a gnora (l'appartamento della suocera)
non poteva ospitare tanta gente.
Per sua fortuna, trovò a prezzo accessibile una casa
di tre stanze.
Quella sera di fine agosto, aveva tagliato per i vicoli
del teatro dei Fiorentini perché non gli andava di passare
davanti al San Carlo. Gli era già sufficiente frequentarlo
per tutto l'anno.
Con la coda dell'occhio vide un movimento strano
in un vicoletto laterale.
Era conscio dei rischi di imboscate ad opera di
marijuoli e tagliagole ma l'alcool l'aveva reso più spavaldo.
Ruppe gli indugi quando vide che c'era un uomo a
terra che chiedeva aiuto a mezza voce.
S'avvicinò. Era buio per vedergli il volto.
− Signore, che è successo? Chi vi ha fatto del
male? Io … -
Giacomo non riuscì a finire la frase perché
sbucarono due uomini da un portone alle sue spalle e gli
calarono un cappuccio in testa.
Provò a divincolarsi menando calci e pugni.
Qualcuno andò anche a segno perché fu condito da
colorate bestemmie ma alla fine i due uomini e il complice
che s'era finto in ambasce ebbero la meglio su di lui.
Ora si trovava a terra.
Gli avevano sfilato il cappuccio. Un uomo era
seduto sulle sue gambe, uno gli teneva le braccia e il terzo
era in piedi con un piede appoggiato sul suo volto.
− Ci vuole pacienza (pazienza) ma, prima o poi …
quello che si deve pagare, … si paga -. Col poco
spazio che aveva per muovere la bocca, a causa
del piede in faccia, Giacomo disse:
− Che vulite? Chi site? (Cosa volete? Chi siete?) -
− Siamo la punizione che meriti -.
− Ma forze me avite scagnato pe n'ato! (forse
m'avete preso per qualcun altro) -
− Nessuno scambio, … t'ammo aspettato pe'
parecchio tiempo (ti abbiamo atteso per molto
tempo) … ma, alla fine, avrai quello che ti
meriti – Giacomo era certo che si trattasse di
uno scambio di persona.
− Non so per “chi” mi avete scambiato. Io sono un
musicista. Mi chiamo Giacomo Fio … - L'uomo
gli tolse il piede dalla faccia solo per potergli
dare un cazzotto.
− Giacomi', 'o sapimmo chi si' (Giacomino,
sappiamo chi sei) … però, mi dispiace per te, …
ma non si dicono bugie … non sei un musicista
… sei un ex musicista -
Dopo queste parole, tirò un martello da sotto il
mantello. Giacomo, malgrado questi assalitori indossassero
un fazzoletto davanti alla bocca, ebbe la sensazione di
riconoscerli … anzi! Nella sua mente, quella sensazione
diventava sempre più certezza. Dalla fisionomia dei tre,
dal fatto che lo conoscessero e dalla voce di colui che gli
rivolgeva la parola, per quanto alterata dal fazzoletto,
potevano essere soltanto Bossolo, Laido e Mappaluna.
Giacomo capì che i tre avevano, probabilmente,
usufruito a loro vantaggio della liberazione delle carceri ad
opera della repubblica.
Mentre rifletteva su questi pensieri, l'uomo che
parlava alzò il martello
Bastò la prima martellata sulla mano perché
Giacomo perdesse i sensi.
Si riebbe.
Non sapeva quanto tempo fosse passato ma era
ancora buio.
Il dolore alle mani era terribile, lancinante. S'alzò
appoggiandosi sui gomiti e, piegato in due, fece ritorno a
casa.
Non avrebbe voluto svegliare Emma ma, entrando
in casa, non riuscì a non fare rumore. E poi, sentiva un
lamento provenire da chissà dove. Il rumore che produsse
fu sufficiente affinché Emma s'alzasse dal letto, accendesse
una candela e gli andasse incontro.
− Giacomo, cosa … ? ... oh! Dio mio! -
Solo in quel momento, Giacomo Fiorenza, che
sentiva un lontano lamento, capì che la voce lamentosa era
la propria.
Il giorno seguente, il dolore alle mani divenne
fortissimo.
A casa Fiorenza c'erano tutti.
Quella notte, le urla di preoccupazione di Emma e i
lamenti di Giacomo avevano svegliato tutto il vicinato.
C'erano mamma Luisa e papà Nino, Nanninella la
suocera, Ciccio, Michele e il dottore.
Aveva parecchie fratture ad entrambe le mani.
Secondo il parere del medico, non avrebbe mai più
potuto suonare.
Quando il medico espresse la propria diagnosi,
Giacomo si rannicchiò su sé stesso e non parlò più. Le
donne e i bambini cominciarono a piangere. Gli uomini
tacquero senza avere nemmeno la forza di guardarsi in
faccia o di dire qualcosa che potesse consolare Giacomo.
Non c'era al mondo alcuna parola che potesse
servire.
Dopo alcuni minuti di silenzio, Giacomo parlò:
− Via -
− Cosa? - chiesero alcuni dei presenti.
− Andate via, via, VIA! - Urlò lui.
Da quel giorno, Giacomo si chiuse in casa e
s'attaccò alla bottiglia. Nei primi tempi, beveva per non
sentire il dolore insopportabile alle mani. Dopo, quando il
dolore fu passato e le ossa s'erano saldate, continuò a bere
e a non reagire al duro colpo che la vita gli aveva inferto.
Le mani gli funzionavano quasi bene, a parte
l'anulare destro che s'era saldato male e il pollice sinistro
che non riusciva a distendersi del tutto.
Il problema era che Giacomo non riusciva, o non
voleva, guarire nella testa. Qualcosa s'era rotto.
Intanto, aveva perso il lavoro al San Carlo. Non
esisteva una cassa malattia.
Era il 22 di dicembre, s'avvicinava il Natale. In casa
non c'erano nemmeno i soldi per fare la spesa. Emma prese
coraggio e gli disse, spinta dall'esasperazione:
− Giacomi', nun putimmo ire annanzi accussì. Nun
tenimmo cchiù 'nu sordo (Giacomino, non
possiamo andar avanti così. Non abbiamo più un
soldo) – Lui tacque per qualche minuto, poi
disse:
− Vai al teatro San Carlo e trova coccheduno
(qualcuno) che se volesse accatta' 'o contrabasso
mio … -.
Emma avrebbe voluto urlargli che era un pazzo e
che doveva tentare, a tutti i costi, di rimettersi a suonare
ma era quasi Natale e la famiglia versava in uno stato
miserrimo.
Gli amici e i parenti avevano provato a fargli visita
in quel periodo ma lui li cacciava in malo modo.
Avevano provato anche a dargli dei soldi ma
Giacomo era troppo orgoglioso per accettarli.
A sua insaputa, Emma, che era l'unica a cui
potessero avvicinarsi le persone che avevano a cuore la sua
situazione, aveva accettato qualche denaro facendo in
modo, però, di non essere scoperta dal marito.
Furono la miseria profonda e i bisogni dei bambini a
spingere Emma a recarsi al San Carlo e mettere voce in
giro che il contrabasso di Giacomo Fiorenza era in vendita.
Il giorno seguente, il 23 dicembre 1799, arrivò sotto
casa Fiorenza uno scugnizzo.
− Maestro Fiorenza? Signora Fiorenza?
Affacciatevi! - Fu Emma ad affacciarsi.
− Che c'é, piccirillo (piccolino)? -
− Signo'! Tengo 'na cosa pe vuje – fece lo
scugnizzo.
− Aspetta, mo scendo -.
Quando Emma tornò su, lanciò il sacchetto sul
tavolo dove Giacomo stava seduto tracannando vino.
− Che d'è 'sta cosa che m'hai jettatto 'ncoppo 'a
tavula? (Cos'è questa cosa che m'hai gettato sul
tavolo?) - chiese lui.
− I soldi del contrabasso. Se lo sono comprato
subito -. Giacomo ebbe una contrazione del viso.
Poi abbassò gli occhi e raccolse la busta sul
tavolo.
− Ah! Bene! Tienili tu – e le rilanciò la busta
senza nemmeno contare il denaro.
Lei aveva contato il denaro. C'era a sufficienza per
farli vivere con quel minimo di dignità almeno fino a
Pasqua. Era molto di più del valore dello strumento.
Dopo aver infilato i soldi nel cassetto dell'armadio
nella camera da letto, Emma sbirciò verso la cucina.
Lui era ancora seduto al tavolo, aveva le braccia
incrociate su di esso e la fronte appoggiata alla piegatura
interna dei gomiti. Silenziosamente stava piangendo.
CAPITOLO XXX
Dragonetti
Napoli 7 Gennaio 1800
Era passato il Natale, era entrato l'anno nuovo, era
entrato il nuovo secolo.
Il 19 febbraio del 1800, si presentarono a casa di
Giacomo Michele Belcanto, Giovanni Stocco e Francesco
Fucci.
Col nuovo anno, le condizioni mentali di Giacomo
erano peggiorate. Era ingrassato, gonfio di alcool, si
disinteressava alla moglie e ai figli e s'era chiuso in un
ostinato mutismo.
Emma lo aveva confidato al suocero. Nino il bello
lo aveva detto a Michele col quale era rimasto in amicizia
dai tempi delle serenate in osteria.
Michele condivise la notizia coi suoi colleghi e fu
presa la decisione.
Quando entrarono in casa Fiorenza, Giacomo era
buttato sul letto. Li vide.
− Cosa volete? Chi vi ha invitato? - parlava con
voce biascicata.
− Nessuno. Perché? Ci voleva l'invito di vostra
maestà? – rispose ironicamente Francesco.
Giacomo non aveva alcuna voglia di ridere. Non
rideva da mesi.
− Bene! Allora andatevene da dove siete venuti –
fu la sua risposta.
− Non ce ne andiamo “manco pe 'a capa” (per
niente) – disse Michele, con dolcezza.
− Jatevenne o si no … (andatevene, altrimenti …)
- A quel punto, intervenne Giovanni. Giovanni
aveva un fisico possente e muscoloso e aveva
l'abitudine di portare ogni attrito allo scontro
fisico, conscio della propria forza.
− Altrimenti cosa? Hai rotto le palle! Alzati da
questo letto e fammi vedere cosa mi fai! Avanti!
Alzati! -
Giacomo, troppo ubriaco per intimorirsi, provò ad
alzarsi dal letto ma ricadde indietro in preda ad un forte
giramento di testa, uno dei tanti effetti collaterali
dell'ennesima sbornia quotidiana.
I tre amici si scambiarono uno sguardo d'intesa e si
lanciarono su di lui isoritmicamente.
Lo afferrarono per braccia e gambe e lo trascinarono
davanti a un grosso catino d'acqua fredda preparato in
precedenza da Emma, loro complice.
Gli infilarono più volte la testa nel catino. Ogni
volta per dieci secondi e, ogni qual volta estraevano la sua
testa dall'acqua, gli chiedevano: “Ne hai abbastanza?”.
La tortura finì quando Giacomo, dopo averli
riempiti d'improperi, rispose: “Va bene! Va bene! Ne ho
abbastanza”.
I tre amici abbandonarono la presa e lui si
rannicchiò su sé stesso e cominciò a singhiozzare come un
bambino.
I suoi torturatori aspettarono che lui smettesse di
piangere. Giovanni fu il primo a parlare.
− Ora che hai finito di frignare, vestiti e vieni con
noi -
− Non mi va – rispose lui. Stavolta fu Michele a
essere più duro.
− Giacomi', forse non hai capito. Questo non è un
invito – s'aggiunse Francesco.
− Devi venire e basta! -
Fu così che, dopo sei mesi da quando aveva subito il
pestaggio, Giacomo Fiorenza rimise piede fuori da casa
sua.
Lungo la strada, incontrarono un venditore
ambulante di caffè e lo costrinsero a berne tre.
Dopo un po' trovarono il maestro Buonomo. Era
chiaro che li stesse aspettando.
Senza dire una parola, si unì al quartetto.
Camminarono molto a lungo in direzione
Capodimonte e, all'altezza del ponte che passa sul
cimitero, si fermarono e condussero Giacomo in un bel
palazzo costruito da poco.
Salirono al primo piano e suonarono il campanello.
La porta s'aprì e comparve una specie di gigante. Un
uomo alto due metri, con lunghi capelli ondulati, occhi
azzurri come … come l'azzurro, mento squadrato e mani
… enormi.
Il dito medio di questo gigante era pari a tutto
l'avambraccio di Giacomo.
− Ah! Ce l'avete fatta a portarlo? Complimenti! -
Disse il gigante, sfoderando un sorriso cordiale.
Giacomo si accorse subito, dall'accento, che
quest'omone doveva essere sicuramente del
nord, probabilmente veneto. Ricordava il
dialetto di quella terra perché era passato di lì
per due volte nel suo viaggio a Vienna -. Rispose
il maestro Buonomo.
− Domenico caro. Sono quasi certo che questi
ragazzacci avrebbero preferito ucciderlo anzi
che lasciarlo in isolamento per un altro giorno
ancora -
− L'avremmo fatto! - sottolineò Giovanni.
− Ottimo! Gentile maestro Buonomo, mi usereste
la cortesia di accompagnarmi al cembalo? -
− Volentieri, maestro Dragonetti -.
I quattro giovani e i due maestri entrarono in un
ampio salone dove c'era un clavicembalo e un contrabasso.
Quel gigante si chiamava Domenico Dragonetti,
veneto, il più grande solista di contrabasso del suo tempo,
amico di Beethoven, Haydn e Muzio Clementi.
I quattro giovani maestri del San Carlo rimasero
ammirati dalla tecnica di quell'uomo.
Intanto, la sua enorme statura faceva sembrare che il
contrabasso fosse un violoncello.
Aveva un archetto col legno meno curvato verso
l'esterno e muoveva le sue enormi mani su quelle corde di
budello toccando posizioni inconsuete.
Tutti si resero conto che lo strumento aveva le tre
corde intonate a una distanza di quarta anziché di quinta,
com'era sempre stato fino ad allora.
Quando Domenico Carlo Maria Dragonetti finì di
suonare quello che, si scoprì poi, essere una sua
composizione, partì un applauso. Lo stesso Giacomo si
ritrovò ad applaudire suo malgrado.
− Ora parliamo di te, figliolo. Fammi vedere le tue
mani – Giacomo era riluttante ma, messo in
soggezione dall'omone, non poté rifiutarsi. Tese
le mani. Dragonetti le studiò in silenzio per tre
lunghi minuti. Infine, disse:
− Si può fare -
− Cosa “si può fare”? - chiese Giacomo. Gli
tremava la voce.
− Ti prenderò a lezione da me -.
− Lezione? Ma io non … - Giacomo stava per
rifiutarsi ma intervennero i suoi amici con vari
“Non provarci nemmeno, ti spacco la faccia, non
essere stupido” e altre frasi di questo tipo.
Dragonetti riprese la parola.
− Verrai da me tre volte alla settimana e, in sei
mesi, suonerai meglio di prima -
− Maestro. Ma io non ho soldi per pagarvi – disse
timidamente lui.
− Ti ho chiesto dei soldi? … - chiese il maestro
con tono alterato. Poi, con toni più dolci,
aggiunse - … ascoltami, Giacomo, mi hanno
parlato del tuo talento e della tua storia
musicale. Hai suonato addirittura con Mozart.
So che, addirittura, sei amico di una mia vecchia
amica, Brigida Giorgi Banti. Se è vero la metà di
quanto mi è stato raccontato sul tuo conto, tu
meriti le mie lezioni … e meriti di ricominciare
a suonare perché è “quella” la tua vita –
Giacomo era commosso, una singola lacrima gli
scorreva sul viso.
− Grazie, maestro … ma c'è un altro problema, un
grosso problema … -
− Quale? -
− Non ho più il contrabasso. L'ho venduto … – A
quel punto, intervenne Michele Belcanto.
− L'ho comprato io ma solo per metterlo da parte
aspettando che tu rinsavissi. L'ho comprato coi
soldi che mi hai dato, di nascosto per tanto
tempo, nel periodo in cui tu lavoravi ed io no.
Credevi che non l'avessi capito che non si
guadagna così tanto con la posteggia? Ricordi
cosa mi dicesti quando non mi presero al San
Carlo e venisti a trovarmi per la prima volta a
casa mia? -
− No, non ricordo – disse, timidamente, Giacomo.
− Ah, no? Allora te lo ricordo io. Dicesti: “vorrei
fare un patto di reciproco soccorso, ora, tra noi
due, sei tu quello in difficoltà economica ma, un
domani …” quel “domani” è oggi -. Giacomo
era basito e commosso.
− Cosa posso dire, allora? -
− Un semplice “grazie” potrà bastare - Rispose
Francesco.
− E nun rompere 'o sasiccio (non rompere …) -
aggiunse Giovanni. Il maestro Buonomo volle
dire la sua.
− E studia! -
− E quando guadagnerai i primi soldi quando avrai
ricominciato a suonare, portaci tutti a fare una
bella bevuta – concluse Domenico Dragonetti.
Da quel 19 febbraio, Giacomo Fiorenza riprese a
studiare il contrabasso. Le due dita malconce non furono
d'ostacolo a che lui si rimettesse in forma. Studiava otto
ore al giorno. Certo! Un contrabasso che suona per otto ore
al giorno è una bella tortura per le orecchie ma Emma era
talmente felice che il marito avesse ricominciato a vivere
(e smesso di bere) che lo avrebbe tollerato anche per
ventiquattr'ore al giorno.
Giacomo adottò l'accordatura e il tipo di arco alla
Dragonetti e, attraverso lo studio con quel grande maestro,
si rese conto che non aveva mai studiato veramente prima
di allora.
Dopo Pasqua, i soldi erano finiti.
Stavolta, Giacomo non fece storie nel ricevere soldi
dal padre, dalla suocera o dai suoi amici ma era,
comunque, imbarazzato.
Quando raccontò il tutto a Dragonetti, egli gli disse:
− Figliolo, ma non mi avevi detto che tuo padre
suona e canta nei ristoranti? -
− Si, maestro, ma cosa c'entra 'sta storia? -
− Te ne sei accorto che le mani hanno riacquistato
una muscolatura sufficiente a emettere un buon
suono? -
− Dite? -
− Dico! Chiedi a tuo padre di portarti a suonare
con lui. Fara bene anche al tuo morale e non
sarai costretto ad accettare donazioni che ti
mettono in imbarazzo -
Giacomo riprese a suonare in pubblico. I primi
giorni furono un po' dolorosi ma lo studio quotidiano e la
pratica di tutte le sere gli restituirono lo strumentista che
era prima dell'incidente di fine agosto dell'anno
precedente.
Durante i mesi estivi, Giacomo Fiorenza non solo
aveva riacquistato la sua solita forma ma, grazie alle
lezioni di Dragonetti, alla nuova accordatura e al nuovo
tipo di archetto, era testimone di un enorme miglioramento
della propria tecnica e del volume sonoro dello strumento.
CAPITOLO XXXI
Salotto D'Avalos
Napoli, teatro San Carlo 1 settembre 1800
Giacomo fu convocato al San Carlo.
Cajafa lo aspettava nel proprio ufficio:
− Maestro Fiorenza, come state? - La sua non era
una domanda di cortesia, infatti gli guardò le
mani. Giacomo se ne accorse e tese le braccia
verso il direttore.
− Benissimo, direttore … anzi! In gran forma! …
come potete vedere -. Cajafa passò subito oltre.
− Per me è un immenso piacere sapere che state
bene. Dunque, ieri sera, tutta la sezione dei
contrabassi è stata da me. Mi hanno detto che vi
hanno tenuto il posto nel periodo della vostra
assenza e che, per loro, voi rimanete il primo
contrabasso del San Carlo e che non torneranno
a suonare senza il loro capofila. Chi sono io del
resto per oppormi alla loro decisione? -
− Beh! Siete il direttore – rispose Giacomo.
− Infatti! … e mi ero opposto … ma poi, … beh!
Per farvela in breve, vi ho mandato a chiamare
dietro richiesta del maestro Marinelli -.
− Marinelli? È a Napoli? - Chiese Giacomo, con
eccitazione.
− Certo. Quest'anno cominceremo la stagione con
una sua vecchia opera, il “Lucio Papirio”. E
avremo l'onore di avere qui colei che ha cantato
per la prima volta quest'opera al San Carlo. Ora
lavora a Londra ma ce l'hanno concessa per due
settimane … - Giacomo disse a mezza voce:
− Brigida Giorgi Banti – Il direttore lo sentì.
− Esatto! -
Arrivò il giorno delle prove e il maestro Marinelli
fece il suo ingresso nella sala prove del teatro.
Cominciò la presentazione di sé stesso e dell'opera
agli orchestrali lanciando uno sguardo di saluto e d'intesa a
Giacomo che, il maestro, considerava un amico.
A un certo punto, gli chiese pure: “Come sta,
Emma? … e i bambini?”.
Finito il proprio discorso iniziale, Gaetano Marinelli
disse:
− Maestri cari, non lo credevo possibile ma, per
nostra fortuna, lo è stato. La più grande soprano
di tutti i tempi parteciperà, così come fece nella
sua “prima assoluta”, alla rappresentazione del
Lucio Papirio. Brigida Giorgi Banti! -
Dall'orchestra partì uno scroscio di applausi e la
divina fece il suo ingresso in sala prove.
Ora era una donna di quasi cinquant'anni. Aveva
acquistato peso ma, malgrado il suo imbolsimento, non
aveva perso fascino e avvenenza.
Come tutte le prime donne, non degnò di uno
sguardo gli orchestrali al suo ingresso in sala prove.
Cominciarono le arie.
Giacomo notò immediatamente un'incrinatura nel
suono della meravigliosa voce del soprano.
Di contro, la sezione dei contrabassi, grazie a
quattro fantastici strumentisti, aveva un suono talmente
armonioso e armonizzante col resto dell'orchestra che, alla
fine della prima aria, Marinelli disse:
− Giacomino? Che cosa hai combinato? - Lui,
arrossendo, rispose.
− Scusate maestro, cosa ho fatto di sbagliato? - Al
maestro scappò una risata.
− Di sbagliato? Ma stai scherzando. A me arriva
un suono bellissimo dalla vostra sezione … anzi,
vi chiederei di suonare un po' meno forte, se
potete … e … comunque, complimenti a te! -
− Grazie maestro ma, i complimenti li condivido
volentieri coi miei colleghi … e amici … va
bene! Suoneremo meno forte -.
− Perfetto … andiamo avanti … - e prepararono
l'aria successiva.
Brigida Giorgi Banti, intanto, aveva sentito dire
“Giacomino” dal maestro e, subito dopo aveva sentito il
riferimento alla sezione dei contrabassi.
Sebbene fossero passati circa dieci anni dall'ultima
volta che era stata al San Carlo e, sebbene avesse avuto
tanti altri amanti, compreso un grosso personaggio del
teatro lirico inglese col quale s'accompagnava tutt'ora, ella
ricordava con tenerezza il ragazzino che, senza volerlo,
aveva svezzato sessualmente.
Appena Giacomo alzò lo sguardo nella sua
direzione, la diva gli strizzò l'occhio e gli sorrise.
Vi furono solo due giorni di prove. Sarebbero stati
seguiti da dieci repliche per dare modo alla cantante di
tornare in Inghilterra in tempo utile per una grossa
produzione che sarebbe andata avanti per mesi.
La sera della prima, Giacomo bussò al camerino di
Brigida Giorgi Banti ed entrò. Lei era già vestita ma non
ancora truccata. Giacomo notò le ferite del tempo sul suo
volto e sul suo collo ma non lo fece notare.
− Signora Brigida, sono venuto a farvi gli auguri
per sta ... – Lei non gli diede il tempo di finire la
frase. Gli tirò giù le brache e lui non ebbe tempo
né capacità per sottrarsi al dazio dovutole per il
riscaldamento dello strumento vocale. Dopo
alcuni minuti, una volta fatto, lei disse:
− Mio caro, che piacere vederti. Sei diventato un
uomo – Lui, in virtù della galanteria imparata da
suo padre, disse:
− Signora, più tempo passa e più diventate bella -
− Bugiardo! … ma l'adulazione mi piace …
facciamo così … stasera, dopo lo spettacolo,
vieni con me e mio marito a cena a palazzo
d'Avalos. Voglio sapere tutto di te … ora va! …
ché devo truccarmi -.
Giacomo non poté sottrarsi all'invito al palazzo di
una delle famiglie più nobili e antiche di Napoli.
Imparentati con la famiglia reale e famosa per l'omicidio,
avvenuto più di due secoli prima, di una loro antenata per
mano di Carlo Gesualdo da Venosa, un grosso musicista,
madrigalista del periodo barocco.
La cena fu chiassosa e allegra ma, per Giacomo,
ascoltare le storie di viaggio del grande soprano, fu come
leggere un giornale narrante tutto il mondo musicale
europeo.
La Banti, infatti, aveva avuto un'esistenza nomade
in virtù del suo lavoro e questo le aveva permesso di
conoscere, direttamente o per sentito dire, tutto il mondo
musicale operistico ma anche sinfonico.
Si profuse in racconti e aneddoti su musicisti di cui,
a Napoli, non s'era mai sentito parlare.
Vista la sua fama, gli astanti tacevano e
l'ascoltavano. Di tanto in tanto, qualcuno le faceva una
domanda e lei, che amava tanto stare al centro
dell'attenzione, si prodigava in racconti dettagliati.
Fu il barone Capasso a porre la prima domanda di
quell'intervista collettiva:
− Gentile signora, voi che avete tanto girato, ci
sapreste dire quali sono le grandi novità della
musica nel resto d'Europa? -
− Beh! Signori … e signore, cosa posso dirvi?
Napoli è il centro del mondo musicale. È qui che
s'inventa il futuro … ciò non ostante, ci sono
grandi talenti anche in giro per l'Europa … e
anche bravi -.
− Per esempio? - chiese la marchesa Piscitelli.
− Vediamo un po'. Qualcuno di voi ha mai sentito
parlare di Wolfgang Amadeus Mozart? - al
sentire quel nome, intervenne il principe
Caracciolo.
− Certo! È stato anche qui a Napoli … ma mi
hanno detto che è morto qualche anno fa, o mi
sbaglio? … comunque, ricordo che tenne un
concerto privato qui, a Napoli. Molto bravo …
ma pare che la sua bravura fosse merito di un
anello magico che … - allora intervenne
Giacomo, interrompendo il principe.
− Nessun anello magico, principe. Mozart era un
vero e proprio genio … – il principe, indispettito
dall'interruzione, disse:
− E voi che ne sapete del genio di Mozart,
giovanotto? - a quel punto, intervenne il maestro
Marinelli, anch'egli invitato alla cena.
− Questo giovane conosce il genio di Mozart
perché quando aveva quattordici anni, il
giovanotto, ci ha suonato con Mozart -
− Davvero? - disse più di una persona. La Banti,
vedendo che il centro dell'attenzione pubblica
stava deviando da lei, intervenne subito per
riappropriarsi della scena.
− Sapete? In Germania c'è più di un musicista che
ha poco da invidiare a Mozart … per esempio,
Franz Joseph Haydn, un sinfonista straordinario
e poi … non dimentichiamoci il musicista del
futuro Ludwig Van Beethoven. Avrà circa
trent'anni. Nella sua musica si avverte che
qualcosa sta cambiando nel mondo. Mozart è un
classico ma, se sentiste Beethoven … -.
Giacomo ricordò di aver visto questo Beethoven
la sera del concerto per clarinetto di Mozart.
Glielo aveva indicato Gustav Brunner, dicendo
che quel giovane era l'erede di Mozart. Si
ricordò anche del suo brutto aspetto.
Istintivamente chiese:
− Chi? La scimmia? - Brigida era stupita ma anche
indispettita da questo giovane che le rubava la
scena.
− Non mi dirai che hai suonato anche con lui? -
− No, madame, l'ho solo visto per caso a Vienna –
Le bastarono queste parole di Giacomo per
trovare il modo di allontanarlo dal centro
dell'attenzione.
− Beh! Se non hai mai sentito la sua musica, non
puoi immaginare cosa è il futuro … certo che,
però, nel melodramma, Ludwig è un po' …
come dire … scarsino? - La Banti, nell'usare
quel termine “scarsino” fece un'espressione
talmente buffa arricciando il naso e impostando
un tono da bambina da suscitare una grossa
risata generale di accondiscendenza. La scena
era tutta sua.
− E chi altro c'è d'interessante nel panorama
artistico? - chiese la duchessa D'Angiò, dopo un
po'.
− Abbiamo anche due grossi talenti come
strumentisti, entrambi italiani. Il primo suonava
addirittura con me quand'ero una bambina. È un
contrabassista veneziano, davvero straordinario,
Domenico Dragonetti. È un bel po' che non lo si
vede in giro … - Giacomo evitò di dire che
Dragonetti era a Napoli e che lui ci andava a
lezione, intimorito dall'aggressività che il
soprano manifestava ogni qual volta qualcuno
minacciava il suo ego accentratore. La Banti
continuò - … Il secondo è un ragazzo di meno di
vent'anni. È un violinista genovese. Si chiama
Niccolò Paganini. Credo sia il più grande
violinista di tutti i tempi. Ha una tale maestria
col suo strumento che, quando suona, non si
vedono le dita, tanto che è veloce la sua
articolazione -.
− Avete incontrato personaggi strani in giro per
l'Europa? - chiese il barone Capasso.
− Strani in che senso? - chiese Brigida.
− Che ne so? Qualche musicista che vi ha
impressionato dicendo o facendo cose strambe -
− Mah! Mi viene in mente quel compositore
tedesco di lieder con cui ho cantato per un breve
periodo, in più di un salotto. Un personaggio
effettivamente strano. Magro al punto da
sembrare uno scheletro. Era sicuramente un
buon musicista ma, una volta mi disse una bugia
che non reggeva … ma lui era convinto che
fosse la verità … raccontava di essere il nipote
del più grande musicista mai nato -
− Un nipote di Mozart? Mozart era suo zio? -
chiese il principe Caracciolo.
− No, no. Non era parente di Mozart. Lui, il
compositore di Lied, faceva riferimento a suo
nonno … mi disse anche il nome di questo
nonno ma, sinceramente, non me lo ricordo …
lui, però, si chiamava Wilhelm Friedrich Ernst
Bach -.
− Bach! Mah! Mai sentito nominare – disse
Marinelli.
CAPITOLO XXXII
Albano Laziale (Roma) 30 aprile 1866
− Beh! Non si può certo dire che la vostra vita sia
stata senza grandi emozioni … e poi, avete
conosciuto Dragonetti, Cimarosa, Paisiello e …
- Giacomo interruppe Franz.
− Mio caro amico, è facile incontrare tanta bella
gente quando si fa il mio mestiere nel teatro più
importante della città che è stata il centro del
mondo … almeno fino a qualche anno fa -
− Giusto! Eppure a voi sfugge una verità molto
importante … -
− Quale? - chiese Giacomo Fiorenza.
− Ogni grande compositore esegue solo la propria
musica. Un orchestrale suona la musica di tutti.
E vi sembra poco? -
− No. In effetti, noi orchestrali siamo tenuti ad
avere una grande flessibilità. Ogni compositore
ha avuto esigenze diverse dell'altro per quanto
riguardava il modo in cui eseguire le sue note e
noi eravamo tenuti ad accontentarli -
− Visto? … - chiese Liszt. Dopo un minuto di
silenzio, l'ungherese disse: - … stavo pensando
al fatto che voi appellavate col nomignolo di
“scimmia” il più grande compositore di sinfonie
di questo secolo e volevo chiedervi se, oltre a
quell'incontro fugace a Vienna, avete più rivisto
il compianto Beethoven -
− Lui no ma … in maniera trasversale, le nostre
vite si sono incrociate ancora -
− In che modo, di grazia? -
CAPITOLO XXXIII
Beethoven
Napoli 30 ottobre 1803
Le stagioni teatrali al San Carlo si succedevano
incuranti del caos politico che si agitava intorno a una città
che era il centro del mondo culturale.
Giacomo fu ingaggiato fuori dalle mura sicure del
teatro San Carlo per suonare a un matrimonio.
Normalmente avrebbe rifiutato, non per superbia ma
perché, avendo già un lavoro, non voleva togliere
opportunità lavorative ad altri contrabassisti.
Fu l'anzianissimo maestro Casizzone, il suo primo
insegnante di musica, a chiedergli questa cortesia e
Giacomo non se la sentì di rifiutare.
La festa era a palazzo von Gallenberg, di proprietà
dello sposo.
Gli altri musicisti potevano arrivarci anche a piedi
al palazzo perché avevano strumenti meno ingombranti e
più leggeri.
Certo! Il clavicembalo pesava ben più di un
contrabasso ma in ogni casa che si rispettasse ce n'era uno
per cui, il clavicembalista era esentato dal lavoro di
facchinaggio.
Di questa esenzione, i contrabassisti erano … esenti.
Visto che palazzo von Gallenberg non era molto
distante da casa sua, Giacomo pensò di portare il
contrabasso in loco la mattina per darsi il tempo di tornare
a casa, lavarsi e abbigliarsi in maniera adeguata in modo
da evitare il puzzo di sudore tipico di chi fa facchinaggio.
Arrivò col carretto alle spalle del palazzo von
Gallenberg, dal lato dell'ingresso della servitù.
Fece quasi cento gradini per arrivare al salone delle
feste.
Non era ancora entrato nel salone quando sentì un
suono di pianoforte.
Quindi c'era il pianoforte, non il clavicembalo. I
volumi sarebbero stati più alti. Più fatica per lui.
Vide che lo strumento era un pianoforte verticale
“Southwell”. L'aveva già visto una volta al San Carlo. Uno
strumento meraviglioso, costruito per la prima volta, tre
anni addietro.
Al pianoforte era seduta una giovane donna.
Suonava molto bene, suonava con trasporto, era
totalmente assorbita dalla propria esibizione intima.
Suonava una melodia bellissima e triste nel
contempo, in tonalità di Do diesis minore, nella quale non
si capiva se fosse più incisiva la melodia o quell'arpeggio
trascinato dell'accompagnamento.
Giacomo evitò di far rumore e s'avvicinò di
soppiatto col contrabasso in spalla ma urtò una sedia con la
propria anca e la ragazza interruppe la propria esibizione e
si voltò di scatto.
− Oh! Che spavento! - esclamò.
− Vi chiedo scusa, signorina, io … non volevo
spaventarvi … cavolo! ... se non fossi stato così
maldestro da urtare una sedia, avrei poggiato lo
strumento in un angolo e me ne sarei andato
lasciandovi finire in pace l'esecuzione di quel
meraviglioso brano – lei gli sorrise.
− Giovanotto, con un contrabasso sulle spalle è
difficile non essere maldestri … beh? … -
− Beh? - le fece eco Giacomo.
− Lo volete posare, o no, quel contrabasso in un
angolo? Cosa aspettate? - Sebbene la ragazza
parlasse un italiano privo di accenti Giacomo
capì che non era napoletana. Probabilmente era
cresciuta in Germania, aveva la medesima
pronuncia dell'impresario Brunner.
− Ah, già! Scusate, signorina – e pose lo
strumento in un angolo della grande sala poi, si
volse verso questa ragazza e rimase immobile.
La ragazza, più incuriosita che seccata, disse:
− Allora? Vi siete trasformato in una statua di
sale? Avevate detto che sareste andato… - lui la
interruppe.
− Posso riascoltarlo? -
− Cosa? -
− Quel brano che stavate suonando -
− Vi piaceva? - lei era più che lusingata …
− Moltissimo! - rispose Giacomo. Lei abbassò il
volume della voce e gli si avvicinò.
− È stato composto per dedicarlo a me … lo ha
composto il mio maestro … - … era orgogliosa
di potersi vantare della dedica personalizzata.
Non si fece pregare - … va bene! Vi offro questo
concerto privato! -
… e riprese a suonare il brano dal principio.
Giacomo s'accorse subito che quel brano era la
contrapposizione di un arpeggio che sembrava riprodurre
le onde del mare e una melodia composta con note di lunga
durata che spingevano l'ascoltatore a chiedersi, nota dopo
nota, quale sarebbe stata la direzione successiva di quel
tema.
In questo modo era impossibile distrarsi.
Inoltre, l'armonia di quegli accordi mischiava suoni
mai uditi prima di allora da Giacomo.
Quando la ragazza smise di suonare, Giacomo
aveva le lacrime agli occhi. Lei disse:
− Spero non stiate piangendo per la mia pessima
esibizione – Giacomo si asciugò le lacrime e
rispose:
− L'esibizione era impeccabile, signorina. Il vostro
maestro è un genio. Questo brano ha un'energia
melodica che mi ricorda quella del grande
Mozart ma l'armonia è molto più moderna …
chi è il vostro maestro? Come si chiama? -.
− È un tedesco di origine olandese. Si chiama
Ludwig van Beethoven -
− Beethoven? La scimmia? - Giacomo si lasciò
scappare la sua personale idea estetica del
musicista. La ragazza scattò in piedi dal
seggiolino del pianoforte.
− Come vi permettete? Come osate prendervi
gioco di un genio come Ludwig? - Giacomo si
rese conto d'aver esagerato e corse ai ripari.
− Vi chiedo scusa, signorina, avete ragione! Non
dovevo dire ciò che ho detto. Il fatto è … che io
conobbi il vostro maestro tanti anni fa e gli misi
questo nomignolo in modo scherzoso. Eravamo
più giovani. In fondo, un musicista che scrive
qualcosa di così sublime come ciò che mi avete
fatto ascoltare poco fa, è al di sopra di noi
comuni mortali … altro che scimmia! -.
La ragazza avrebbe voluto tenergli ancora il broncio
ma i modi garbati e le scuse educate di Giacomo (degno
erede dell'eloquenza paterna) placarono la sua collera.
Rimase un attimo in silenzio poi … scoppiò a
ridere.
− Avete ragione! Ludwig ha l'aspetto, più che di
una scimmia, di un gorilla … - disse tra le risate.
Poi, tornò seria - … ma voi non chiamatelo mai
più con quest'appellativo. Promettete? -
− Promesso! … ma come mai lo chiamate per
nome? Ludwig, anziché maestro … eh? - Lei
arrossì.
− Ora state diventando sfacciato -
− Vi chiedo nuovamente scusa – e andò via.
Era ovvio che se Beethoven aveva dedicato un
brano così struggente alla propria allieva, un'allieva che lo
chiamava Ludwig, il loro rapporto esondava i margini
della mera didattica.
Giacomo tornò a palazzo Gallenberg quella sera e
rimase a bocca aperta quando fecero il loro ingresso gli
sposi.
Lui era il conte Wenzel Robert von Gallenberg,
proprietario del palazzo e futuro direttore dei balletti di
corte. Lei, la sposa, era Giulietta Guicciardi, la ragazza che
quella mattina stava seduta al pianoforte e con la quale
Giacomo aveva chiacchierato.
CAPITOLO XXXIV
Rossini
Napoli, estate del 1804
Giacomo, con la sua famiglia, era sulla spiaggia di
Santa Lucia a prendere il sole.
Con loro c'era anche la famiglia Belcanto, tranne il
capofamiglia. Michele era stato a Pesaro a suonare con
un'orchestra locale e, quel giorno, avrebbe fatto ritorno
nella capitale. Emma era diventata amica della moglie di
Michele. I loro bambini giocavano insieme.
Il San Carlo era chiuso per ferie estive. Il clima
fortemente afoso della città rendeva impossibile mettere in
scena spettacoli che non fossero all'aperto. L'afrore di
sudore proveniente dal palco e dalla buca, ma anche dalla
platea, sarebbe stato insopportabile anche per i nasi più
tolleranti.
Michele raggiunse i bagnanti e, prima ancora di
salutarli, si sfilò gli indumenti di dosso e si tuffò nelle
azzurre acque del golfo.
Dopo due bracciate e dopo che tutti i bambini gli
erano saltati addosso chiamandolo “papà” o “zio Michele”
pretendendo baci e carezze, lui tornò a riva, baciò
appassionatamente la moglie, baciò sulle guance Emma e
s'andò a sedere accanto a Giacomo.
− 'Hai fernuto 'e fa' 'a cummèria? (Hai finito di
fare la commedia?) - disse Giacomo.
− Pecché? C'aggio fatto? - rispose Michele.
− Ci vuole proprio tutto 'sto tempo per venire ad
omaggiare il tuo capo sezione? -
− Ah! Scusate signore. Ecco a voi i miei omaggi:
Prrr! - fu la pernacchia di risposta di Belcanto.
Entrambi scoppiarono a ridere. Giacomo gli
chiese.
− Allora? Com'è andata la tua esperienza con
l'orchestra di Pesaro? Ti sei divertito -.
− Mah! Cosa ti posso dire? … moltissimo! -
Michele aveva voglia di scherzare. Giacomo
voleva, invece, soddisfare tutta la propria
curiosità.
− Nun fa 'o zeza! (Non fare il buffone) dimmi
com'è andata -.
− Agli ordini, capo sezione! … mi hanno fatto un
sacco di complimenti … e si capisce! Il livello
di quell'orchestra era veramente infimo -
− Non ti sottovalutare. Tu sei veramente molto
bravo -.
− Grazie, Giacomi'! -
− Cosa avete suonato? -
− Tutte musiche composte da un musicista di lì …
mi devi credere! … un fenomeno … ti ricordi
quando leggemmo quelle partiture del tuo amico
Mozart qualche anno fa? -
− Si, mi ricordo. Ce le fece avere Marinelli …
embè? (ebbene?) -
− Ebbene, suonando le musiche composte da
questo pesarese, mi pareva di suonare Mozart -
− Mah! Non è che stai esagerando? -
− No, tutt'altro! -
− Vabbè! … può darsi che questo pesarese sia
stato un allievo di Wolfgang oppure che abbia
imparato a scrivere imitando lo stesso suo stile,
no? -
− Impossibile -
− Perché è impossibile? Mozart è stato molte volte
in Italia. Questo maestro può avere preso lezioni
da lui negli anni ottanta, magari è stato a Vienna
a studiare o, forse … - Michele lo interruppe.
− Niente di tutto questo! È del tutto impossibile
che 'sto maestro abbia mai conosciuto Mozart.
Quello che non ti ho detto è che il compositore
ha dodici anni -
− 'Nu criaturo! (un bambino) … beh! Certo che
non può aver studiato da Mozart. È nato dopo la
sua morte … e come si chiamerebbe questo
fenomeno? -
− Non “si chiamerebbe”. Si chiama Gioacchino
Rossini! -
Altri anni passarono.
Il teatro San Carlo era come un porto di mare.
Sbarcava arte da tutt'Europa. Ogni innovazione era
ritenuta di rilievo solo qualora avesse avuto il consenso
della città di Napoli, nel suo tempio dell'arte, motivo per
cui tutti volevano cimentarsi sul palcoscenico più
prestigioso al mondo: compositori, cantanti, registi,
coreografi, autori, ballerini.
L'unica bitta costante dove ormeggiare l'arte era
l'orchestra.
L'orchestra era come il popolo napoletano.
Continuava ad essere sé stessa indipendentemente da chi
fosse il compositore, la cantante, l'autore, il regista, il
coreografo o la ballerina di turno.
Anche il popolo napoletano rimaneva sé stesso,
malgrado i molti sconvolgimenti al vertice.
Dopo i Borbone venne Napoleone. I Borbone
ripresero il controllo della città ma solo per essere costretti
riconsegnarla, poco tempo dopo, a Napoleone, che insediò
Gioacchino Murat che attuò una politica basata sul terrore.
Ai napoletani non piace avere paura … infatti …
infine … nel 1815 tornarono i Borbone.
In tutta quest'alternanza di poteri forti, Giacomo fu
testimone degli alti e bassi del prestigio cittadino di
Giovanni Paisiello.
Lui si affannò per ingraziarsi ora l'uno ora l'altro dei
vertici di turno e il 19 marzo 1808, mise in scena “I
Pittagorici”, un dramma che parlava della repressione
borbonica del 1799.
I suoi lavori gli valsero molte onorificenze ma “I
pittagorici” invece, gli valsero la rottura totale dei suoi
rapporti coi Borbone al loro definitivo ritorno, nel 1815.
Eppure, malgrado le vicende politiche cittadine e le
vicissitudini di Giovanni Paisiello, ciò che più colpì al
cuore Giacomo Fiorenza fu la partenza definitiva da
Napoli di Domenico Dragonetti nel 1807.
Tanto lui quanto i suoi colleghi Belcanto, Stocco e
Fucci, erano andati regolarmente a lezione dal maestro in
tutti questi anni. Grazie a lui, avevano adottato
l'accordatura per “quarte” delle corde dello strumento in
contrapposizione alla vecchia concezione per “quinte”.
S'erano fatti costruire archetti più stabili, col legno
praticamente diritto abbandonando i vecchi archetti che
curvavano verso l'esterno (proprio come gli archi per le
frecce).
“'O lampione”, come il quartetto di contrabassisti
chiamava il maestro, annunciò la sua partenza per Londra
poco prima dell'estate del 1807.
Non vi fu verso di fargli cambiare idea.
Diventarono orfani di un punto di riferimento molto
importante.
CAPITOLO XXXV
Albano Laziale (Roma) 1 maggio 1866
− Sbaglio o poi arrivò Barbaja da voi? - chiese il
compositore ungherese al suo vecchio amico
contrabassista.
− Non sbagliate affatto - … rispose lui.
− Barbaja è stato davvero un grande impresario.
Vi posso assicurare che la sua fama in Europa è
stata pari a quella dei grandi artisti che ha
prodotto - commentò Liszt.
− Se il buon don Domenico potesse ascoltare le
vostre parole, ne sarebbe molto lieto – rispose
Giacomo.
− Avete suonato con tanti grandi artisti esordienti
che poi, col tempo sono diventati grandi maestri
in tutta Europa … però … intanto … almeno per
una volta è stato un altro contrabassista del San
Carlo, anziché voi, a suonare per primo con un
nuovo compositore -
− A chi alludete? -
− Il vostro amico … come si chiamava? … Bel …
Bel … -
− Il mio amico si chiamava Belcanto … intendevo
a quale nuovo compositore fate allusione? -
− A Gioacchino Rossini -
− Ah! già … -
Liszt si rese conto che Giacomo non sembrava
molto contento di ricordare Rossini. Gliene chiese la
ragione.
− Cosa vi turba, mio caro amico? Ho detto, forse,
qualcosa d'inopportuno? -
− No, Franz … anzi! Vi chiedo scusa. Il fatto è che
Rossini è stato un personaggio che, in me, ha
lasciato sempre grandi perplessità -
− Cioè? -
CAPITOLO XXXVI
Barbaja
Teatro San Carlo, 7 luglio 1809
Mattina.
Tutta l'orchestra fu convocata in teatro.
Doveva trattarsi di “qualcosa di grosso” visto che,
per le normali comunicazioni, il luogo adibito alle
comunicazioni era la sala prove.
Sul palco c'era il direttore Cajafa. Accanto a lui,
c'era un signore sconosciuto.
Doveva avere più o meno la stessa età di Giacomo
che, all'epoca, aveva trentadue anni.
Un tipo di corporatura normale, vestito alla moda,
due grossi favoriti, il viso rubicondo, labbra e sopracciglia
sottili, capelli neri lisci e unticci e due occhi … due occhi
come due saette.
Il suo sguardo scrutava tutto l'uditorio lanciando
dardi di malizia.
Cajafa cominciò a parlare:
− Cari amici, colleghi, compagni di viaggio. In
questi anni abbiamo condiviso esperienze
incredibili, nel bene e nel male … eppure …
siamo ancora qui … siamo ancora più forti di
quando abbiamo iniziato. Io vi ho visto crescere,
voi m'avete visto invecchiare … ora sono
vecchio e stanco e … vado via -
Cajafa si asciugò una lacrima mentre dalla platea,
dov'era posizionato tutto il personale del teatro, partì un
coro di “Oh!”.
− Sento la vostra vicinanza, il vostro calore ma …
l'arte va avanti. Io appartengo al teatro di
Marinelli, di Cimarosa, di Paisiello. Ora devo
fare spazio al “nuovo” … vorrei presentarvi il
signore che è qui sul palco accanto a me. Si
tratta di un grande impresario, un visionario con
idee moderne e, a volte, futuristiche. Io mi
auspico che siate fedeli e leali con lui come lo
siete stati con me in tutti questi anni. Ecco a voi,
Domenico Barbaja -
Barbaja era effettivamente un impresario con
l'occhio lungo. Fiutava il talento, il successo e il guadagno
ovunque si presentasse.
La prima cosa che fece, fu rendere il San Carlo un
cantiere di lavoro. Aveva deciso che poteva essere
abbellito e ampliato. Fu una tortura per le compagnie
d'opera, per i compositori e i cantanti fare le prove con i
rumori dei carpentieri, le urla degli operai, la puzza di
vernici e la polvere e dopo due anni, quando ormai
avevano fatto l'abitudine a questa tortura, i lavori
terminarono.
Barbaja aveva ragione.
Era il 1811 quando il teatro si presentava con una
facciata in stile neoclassico e con arredamenti interni
molto confortevoli.
Inoltre, lui aveva creato alcuni “spazi di ristoro” per
il pubblico. L'aveva fatto con l'obiettivo di educare gli
utenti del teatro a fare silenzio durante le rappresentazioni
e sfogare le loro esuberanze in posti dove si poteva fumare
il sigaro bevendo una granita prima o dopo lo spettacolo.
L'astro di Paisiello perse progressivamente luce. Era
prossimo l'arrivo di una nuova generazione di compositori.
I Pittagorici fu l'ultima opera che compose per il
San Carlo.
Giacomo, però, gli rimase amico.
Gli portava sempre le sfogliatelle così come fece la
prima volta che si parlarono quasi vent'anni prima, gli
teneva casa pulita nei periodi in cui il maestro se ne andava
a Parigi o in altri luoghi della penisola o dell'Europa,
luoghi dove il buon Fiorenza si premurava di spedirgli la
corrispondenza che gli veniva recapitata alla casa di
Napoli.
Cominciava la stagione teatrale 1815.
L'orchestra fu convocata alla fine dell'estate.
Barbaja li volle in teatro anziché in sala prove.
Ormai tutta l'orchestra sapeva che, se la convocazione
avveniva in teatro, si trattava di una notizia di vitale
importanza, bella o brutta che fosse.
Quando l'orchestra fu lì riunita, l'impresario Barbaja
fece la sua comparsa sul palco.
Accanto a lui c'era un giovanotto di poco più di
vent'anni.
Era un giovanottone grasso, col naso lungo, sottile e
curvo. Aveva due occhi da triglia delimitati da palpebre
cascanti. Aveva i capelli morbidi e grossi favoriti. Labbra
sottili e mento a punta su un collo ampio e a balzi.
Insomma … era tutt'altro che una bellezza.
Sembrava un valletto dell'impresario. Barbaja parlò:
− Cari maestri, vi ho convocato per mettervi al
corrente delle importanti novità di quest'anno.
Quest'anno si instaurerà una nuova figura
artistica nel teatro, il direttore artistico. Questo
tempio dell'arte ha avuto il piacere di far esibire
i più grandi compositori del mondo ma, mai
prima d'ora, s'era avvalso della collaborazione di
un autentico genio della musica … -
Per Giacomo era inevitabile che, ogni qual volta
sentisse la parola “genio” il suo pensiero correva
immediatamente a Mozart. Barbaja continuò.
− … avete già sentito parlare di lui. La sua
presenza al San Carlo è dovuta ai suoi
innumerevoli successi a Venezia, Roma e
Milano. Potevamo mai farcelo sfuggire? Perciò,
lasciate che io vi presenti … Gioacchino Rossini
da Pesaro -.
Dalla platea, composta da tutto il personale del
teatro, partì un fragoroso applauso. Lo stesso Giacomo fu
commosso e coinvolto dalla presenza di quel musicista di
cui aveva sentito parlare già da quando quest'ultimo era
ancora un ragazzino.
Andarono immediatamente in sala prove perché il
maestro voleva provare qualcosa con l'orchestra.
Giacomo s'aspettava che il copista del maestro
mettesse le parti sui leggii invece fu lo stesso maestro,
aiutato dal Barbaja a consegnare le singole parti.
La prima prova fu strepitosa. Ciò che leggevano,
suonava subito bene, alla prima lettura.
Alla fine della prova, gli orchestrali applaudirono
spontaneamente il maestro. Quando si spense l'applauso,
quest'ultimo parlò:
− Grazie, grazie … troppo buoni ma, … sono io
che devo applaudire voi. Malgrado la mia
giovane età, ho già portato i miei lavori in molti
teatri e collaborato con tante orchestre ma, mai
prima d'ora, m'era capitato d'imbattermi in un
così alto livello di professionalità e talento. Sono
certo che la nostra collaborazione sarà di
reciproco beneficio … ora lascio la parola al
nostro impresario … -. Barbaja l'affiancò e prese
la parola.
− Cari maestri, domani la prova sarà, come al
solito dalle ore dieci in poi. Nel pomeriggio
arriveranno i cantanti. Avremo l'onore di far
esibire sul nostro palcoscenico il più grande
soprano al mondo. Ella è una bellezza esotica,
viene da Madrid … la divina Isabella Colbran -
Anche in questo caso, l'orchestra non poté esimersi
dall'applaudire.
Giacomo pensò che si prospettava un futuro roseo
per il San Carlo.
Mentre poggiava a terra il suo contrabasso,
distrattamente, buttò un occhio sul leggio di Michele
Belcanto, suo secondo contrabasso di fila, e vide qualcosa
che, pur senza capire cosa fosse, creò in lui un turbamento.
Avrebbe potuto lasciar correre ma, alla fine, decise
di dare un'occhiata.
In effetti, sullo spartito posto sul leggio di Michele,
c'erano scritte le stesse note che c'erano sul suo ma … la
grafia era indubbiamente diversa.
Era se come due diversi copisti si fossero incaricati
di copiare quelle parti. Decise di farsi un giro tra tutti i
leggii dell'orchestra ed ebbe la conferma che due diverse
mani s'erano incaricate del lavoro di copista.
“In fondo cosa c'è di strano?” pensò tra sé e sé.
Capitava spesso che, in mancanza di tempo, un
maestro usufruisse di più copisti per la trascrizione delle
singole parti … eppure … qualcosa di strano c'era.
Giacomo lo capì guardando il modo di come
venivano posizionate le stanghette sotto le singole note.
Lui aveva già visto quella grafia e, se colui che scriveva in
quel modo non fosse morto da quasi un quarto di secolo,
avrebbe giurato che quella era la grafia di Mozart.
CAPITOLO XXXVII
Il misterioso copista
Napoli, gennaio 1816
La suggestione è qualcosa d'incredibile.
Da quella sera della prima prova con Rossini, e per
alcuni mesi, Giacomo prese l'abitudine che, quando usciva
dal teatro, si guardava intorno. Ogni tanto, tornava indietro
sui suoi passi.
Quanti anni avrebbe avuto ora Wolfgang? Quasi
sessanta.
Una volta, a Giacomo capitò addirittura di vedere in
lontananza un tipo anziano con una fronte sporgente,
caratteristica somatica molto peculiare di Mozart.
Prese a inseguirlo mentre costui svoltava in un
vicoletto ma, appena Giacomo svoltò a sua volta, vide che
la stradina era deserta.
Una mano gli si appoggiò sulla spalla.
− Complimenti, maestro – Giacomo si voltò. “Da
dov'è sbucato?” si chiese. Era Rossini.
− Ah! Maestro Rossini … complimenti? …
perché? -
− Non crediate che io non presti ascolto ai singoli
elementi di questa meravigliosa orchestra. Vi ho
sentito … sapete? Siete molto bravo … in
effetti, tutta la sezione dei contrabassi suona
benissimo. La migliore sezione che io abbia mai
sentito – Giacomo non capiva se Gioacchino
parlava per creargli una distrazione dal suo
intento di fare il segugio o stesse dicendo sul
serio. Ovviamente, la buona educazione ebbe il
sopravvento sui sospetti, peraltro non avvalorati
dai fatti.
− Grazie, maestro. Porterò i vostri complimenti al
resto della sezione -.
− Ne sarei lieto. Vi va di andare a bere un
bicchiere di vino? Stasera mi hanno lasciato da
solo e, sapete? Bere da soli non è molto
divertente. È tacito che offro io -.
− Impossibile, maestro. Voi siete ospite nella mia
città. Tocca a me offrire e ne sarei onorato -
− Va bene. Lungi da me l'idea di disonorarvi
altrimenti sarò costretto a sposarvi … ah ah ah!-
Andarono a bere a Santa Lucia in una cantina di
fronte al mare. Il vento fresco che arrivava a terra dal largo
sollevava i capelli di Rossini che, sebbene fossero lunghi
quasi fino al collo, erano più sottili e leggeri dei fili di
cotone.
Coi capelli sollevati e il viso in mostra, venivano
messe in risalto ancor di più le guance piene e il naso
adunco di Gioacchino.
− Maestro Rossini, voglio approfittarne per
complimentarvi con voi per la vostra scrittura
così, … come dire … intensa – disse Giacomo
per aprire un dialogo.
− Alludi al fatto che io curi in modo maniacale le
parti dei cantanti? - chiese lui, con un sorrisetto.
− Appunto. Ciò che scrivete è particolarmente
difficile da cantare – Gioacchino ci rifletté un
attimo, poi disse:
− In effetti, scrivo in questo modo per non dare il
tempo ai cantanti di infiorettare il canto a loro
piacimento. Del resto, lo sapete meglio di me
che la maggior parte di questi cialtroni, se
avesse linee melodiche semplici, le riempirebbe
di melismi fino al punto di cambiare la melodia
originale a favore di un proprio tornaconto
vocale -.
− Vero, verissimo. Oggi avete messo in difficoltà
anche la signora Colbran. Quando le avete
chiesto di cantare le note scritte, la poverina è
diventata viola -
− Isabella? Dite? Mi spiace che quell'angelo debba
ricevere imbarazzo dalla mia scrittura. Farei di
tutto per non ledere la bella spagnola … di tutto
tranne che cambiare la mia musica -.
− Ho la sensazione che la signora Colbran vi
piaccia … e non poco … dico bene? -
− Colbran … - Gioacchino sospirò - … ah! La
Colbran! Se potessi … ma, pare che, anche il
Barbaja stia sbavando per lei. È un affare
delicato … -
− Beh! Solo fino a un certo punto, maestro -.
− In che senso? - Rossini si avvicinò a Giacomo
con interesse. Giacomo si spiegò.
− Barbaja è un abile impresario indubbiamente ma
è legato mani e piedi al San Carlo. Cosa può
offrire a lei? Voi, invece, siete solo relativamente
legato al nostro teatro. Nulla vi vieta di portare
la vostra musica negli altri prestigiosi teatri
europei. Sicuramente, avete molto più fascino e
molte più cose allettanti da offrire a una cantante
come lei -.
− Dite? - Gioacchino tratteneva a stento un
sorriso.
− Ne sono certo. Inoltre, ho dato un'occhiata alle
vostre partiture. Voi siete il futuro. La vostra
musica è pura avanguardia. Cosa può desiderare
di meglio una cantante se non essere la
principale interprete di una musica del futuro?
Rispetto a voi, Barbaja parte già sconfitto -.
− Voglia il cielo ascoltarvi … dunque, avete letto
le mie partiture e avete anche un'idea critica del
mio stile di composizione … cavolo! Vi faccio i
miei complimenti, maestro Fiorenza. È raro che,
chi sta in orchestra, ascolti l'insieme anziché
solo la propria parte o quella della propria
sezione di strumenti -
− In effetti, ascolto in questo modo perché ho
anche un passato da copista. Ho collaborato
parecchio col maestro Marinelli … a questo
proposito, volevo chiedervi … chi sono i due
copisti che lavorano per voi -.
− Due … copisti … non capisco … - Rossini
contrasse leggermente la sua fronte avvicinando
le sopracciglia. Giacomo lo incalzò.
− Si, sicuramente due. Ho visto che ci sono due
diverse calligrafie negli spartiti dell'orchestra.
Uno dei due copisti ha addirittura le stesse
caratteristiche di scrittura che aveva un grande
compositore che conobbi a Vienna tanto tempo
fa … - Gioacchino interruppe Giacomo. Tutta la
sua giovialità era sparita in un solo colpo. Si
vedeva che tratteneva a stento la rabbia.
− Scusatemi, maestro Fiorenza, ma il vino buono
di quest'osteria mi sta facendo girare un po' la
testa. Col vostro permesso, farei ritorno a casa.
Buonanotte! -
… e, senza aspettare risposta, s'alzò dal tavolino e,
con passo spedito, andò via.
CAPITOLO XXXVIII
Albano Laziale (Roma) 2 maggio 1866
− Riusciste ad arrivare a scoprire qualcosa? -
chiese Franz, all'improvviso, mentre i due
uomini erano seduti nello studio dell'abate a
bere una tisana.
− Riguardo cosa, caro Franz? -
− A proposito del misterioso copista di Rossini,
mio buon Giacomo -
− Ah! … mah! La faccenda del misterioso copista,
come voi l'avete definito, ebbe lunghi strascichi
ma, al San Carlo avemmo altro di cui doverci
preoccupare -
− Di cosa? -
− Ora ci arrivo. Prima, però, volevo riallacciarmi
a un argomento che abbiamo affrontato qualche
giorno fa -
− A cosa fate riferimento? -
− Agli orchestrali. È vero che la nostra duttilità ci
consente di suonare ora con quel compositore
ora con quell'altro ma, se ci riflettete bene, per
un orchestrale suonare con Marinelli, Mozart o
con voi, non fa alcuna differenza -.
− Beh! A parte il fatto che vi ringrazio per avermi
accostato a Mozart, io penso che ci sia molta
differenza tra l'uno e l'altro … - Giacomo lo
fermò.
− Ovvio che c'è differenza ma questa differenza è
dovuta al periodo storico o al pubblico -
− Il pubblico? Cosa c'entra il pubblico -
− Il pubblico è l'unico artista oltre a chi compone.
Noi orchestrali siamo la manovalanza dell'arte.
Se ci pensate bene, ognuno di noi fa la sua
piccola parte dell'insieme. È solo il pubblico
che, non disponendo di elementi di conoscenza
in grado di analizzare le singole parti, sente
solo l'insieme … e dà il senso artistico al
“tutto”. Il pubblico è l'unica forza capace di
emozionarsi di fronte all'idea di un compositore
o di un librettista -
− Mah! Non so … è una riflessione molto
profonda alla quale non avevo mai pensato -
− Maestro Franz, noi orchestrali siamo il tramite
tra l'ispirazione di partenza e l'emozione finale -
Liszt tacque per molto tempo assorto in questo
nuovo pensiero poi, disse:
− Beh! Cosa successe di così importante al San
Carlo da distogliervi nella vostra ricerca della
verità nel caso “Rossini”? -
− Ah! Questa è “storia”. Ora vi racconto … -
CAPITOLO XXXIX
L'incendio
Napoli, febbraio 1816
Lentamente Giacomo, decidendo di non insistere
più con le domande, fece l'abitudine a quell'insolita doppia
grafia e fece cadere nell'oblio i suoi sospetti.
Ciò non di meno si accorse che, di tanto in tanto,
quando usciva dal teatro aveva preso l'abitudine di
guardarsi intorno. Lo faceva distrattamente, senza uno
scopo ben preciso.
Fu così che, in più di un'occasione, notò in
lontananza tre loschi figuri che bighellonavano spesso nei
pressi del San Carlo, tutti e tre col capo coperto da una
coppola.
Era il 12 febbraio.
Quel pomeriggio Giacomo aveva ricevuto notizia di
essere diventato nonno. A trentott'anni.
Amalia, la figlia mezzana, era corsa in teatro per
avvisare suo padre che la moglie di Gaetano, il suo
primogenito, aveva partorito.
Quello stesso pomeriggio avrebbero chiamato Padre
Peppino, il parroco di quartiere, per battezzare il nascituro
col nome di Giacomo. Era tradizione dare al primo figlio
maschio del primogenito il nome del nonno.
Giacomo chiese un permesso al lavoro, si caricò in
spalla il contrabasso e corse con Amalia verso casa.
Il contrabasso gli serviva per suonare insieme
all'anziano Nino, ormai bisnonno, alla festa improvvisata
per il battesimo.
Uscendo dal San Carlo, Giacomo vide le tre sagome
ormai familiari appostate all'angolo dove il teatro
diventava tutt'uno col palazzo reale.
Stavolta non portavano la coppola e lui poté,
fugacemente, guardarli in viso il tempo necessario perché
essi si voltassero di spalle.
In quel momento, anche a causa della fretta di
correre a casa e del fardello che aveva sulle spalle, non
realizzò chi fossero quei tre, sebbene i volti gli fossero
familiari.
Il bambino, Giacomino, era bellissimo, tre chili e
duecento grammi, roseo, sano.
Nonno Giacomo e nonna Emma piansero di
commozione. Chi piangeva di più, però, erano la bisnonna
Luisa e il bisnonno Gaetano.
Quella sera, in casa del figlio di Giacomo c'erano
tutti. Genitori, nonni, bisnonni, le sorelle di Gaetano,
Amalia, non ancora sposata ma fidanzata con un
commerciante e Luisa, gia sposata e già col pancione
(motivo per cui era già sposata).
C'erano anche Ciccio, il fratello più grande di
Emma, purtroppo vedovo e senza figli e Nanninella 'a
levatrice, la mamma di Emma. Era stata lei, seppur anziana
a prendere il parto.
Più tardi, in casa Fiorenza si aggiunsero anche
Belcanto, Stocco e Fucci con le rispettive famiglie.
Era già scesa la notte e a casa Fiorenza si
festeggiava ancora quando si sentirono urla provenienti
dalla strada.
Nanninella, pur essendo la più anziana in quella
casa, fu la prima a correre al balcone per sincerarsi di cosa
fosse accaduto.
Rientrò in casa con la stessa velocità con cui s'era
affacciata ed esclamò.
− Se sta appiccianno 'o triato! (Sta andando a
fuoco il teatro!) -
Come quando attaccavano a suonare un passo
orchestrale, i quattro amici di sezione scattarono
isoritmicamente e si precipitarono in strada.
Davanti al San Carlo s'erano radunate un migliaio di
persone che, passandosi i secchi d'acqua, cercavano di
spegnere l'enorme incendio mentre altrettante persone
erano accorse lì solo per poter dire poi “io c'ero”.
L'incendio era scoppiato dall'interno del teatro.
All'alba il rogo fu, finalmente, domato ma ormai …
erano rovinati.
Tutto ciò che si trovava entro le mura del teatro era
ridotto in cenere. Arredi, documenti, scene, costumi,
attrezzeria e strumenti musicali.
Il contrabasso di atelier tedesco di Giacomo era
l'unico strumento ad essersi salvato. Era stato salvato dalla
nascita del suo nipotino.
CAPITOLO XL
La fine dei nemici
Napoli 19 febbraio 1816
Una settimana dopo l'avvenimento di questo tragico
incendio, Michele Belcanto e Francesco Fucci erano seduti
su uno sperone di roccia di fronte al mare, silenziosi e
mesti. Giacomo, accanto a loro, non trovava parole per
consolarli. Giovanni Stocco, il più intraprendente di tutti,
era andato a teatro per avere notizie e, in quel momento,
fece ritorno.
− Novità? - chiese Giacomo. Giovanni, con un po'
di affanno, rispose:
− Sono riuscito ad entrare in teatro. Tutto bruciato.
Gli strumenti sono ridotti in cenere. Al posto di
quella che era la buca, c'è un ammasso di
fuliggine – Michele aprì bocca.
− Mannaggia la … - Francesco l'interruppe.
− Non bestemmiare! - Giovanni riprese la parola.
− Non ci sono solo brutte notizie -.
− Ah davvero? … - fece Michele - … e qual'è la
buona? Che con la cenere dei nostri strumenti ci
faranno il sapone? -
− Lascialo parlare, Miche'! - disse Giacomo.
Giovanni continuò.
− Il Re non accetta l'idea di perdere il suo teatro.
Ha dato ordine che venga ricostruito tutto
quanto è andato perso con l'incendio. Ho visto
Barbaja che parlava co 'o schiavuttiello de 'o Re
(“Lo schiavetto del Re” letteralmente per
indicare il messo reale) … è un genio -
− Chi? 'O schiavuttiello? - fece Francesco.
− No, Barbaja. Pensate, lo ha convinto che la
strumentazione è necessaria e urgente. Ha detto:
“I musicisti hanno bisogno degli strumenti al più
presto perché, senza gli strumenti, questi non si
possono esercitare e, se perdono l'allenamento,
dopo suonano come una qualunque orchestra di
Roma, Milano, Vienna o Parigi. Smetterebbero
di dare lustro alla nostra maestà Re Ferdinando,
che Dio lo protegga” -.
− E cosa gli ha risposto quello? -
− Era insofferente perché era solo la centesima
cosa che gli chiedeva il nostro impresario ma
poi, s'è voltato verso un signore che aveva penna
e fogli e gli ha detto: “Annotate, contabile!” e, a
quel punto, Barbaja ha avuto anche la faccia
tosta di aggiungere: “Mi raccomando, metteteci
vicino la parola urgente”. A breve, sarete
convocati per andare a Porta Alba a visionare la
costruzione dei vostri nuovi strumenti. Appena
forniranno tutta la strumentazione all'orchestra,
faremo i nostri spettacoli in altri teatri finché
non sarà pronto il nostro. Che ne dite? -.
Il sorriso tornò sul volto di Michele e di Francesco
con qualche “Evviva!” di contorno offerto da Giacomo.
Giovanni riprese la parola.
− E ora tenetevi forte! Ho lasciato la notizia
migliore per ultima -
− Che altro c'è? - chiese Francesco
− In teatro, tra le macerie, sono stati trovati tre
corpi carbonizzati. Sospettano che siano gli
artefici dell'incendio. Io sono riuscito a vederli.
Sono irriconoscibili … ma solo per chi non se
l'immagina da vivi … e io ho capito di chi si
tratta -
− Forza! I nomi di questi tre pezzi di merda muort'
e bbuoni (malgrado siano morti) – disse
Francesco.
− Vediamo un po' … di uno ho riconosciuto il
capoccione, di un altro ho visto un occhio e del
terzo ho visto che era alto e che aveva grandi
mani -
− Mannaggia 'a miseria … - esclamò Giacomo -
… ecco chi erano quei tre che ho intravisto ieri
pomeriggio … era già da un po' di tempo che
gironzolavano intorno al San Carlo … non ci
posso credere … 'sti figli 'e cantero (figli di vasi
da notte) -
− Mo pure tu? … - sbottò Michele - … ce li dici
'sti nomi o mi devo incazzare? -
− Volentieri: Bossolo, Laido e Mappaluna … -
disse Giacomo. Poi, rivolto a Giovanni - … ho
indovinato? -
− Si! - rispose lui.
− Ma so' muort' pure 'a strunz! (Ma sono morti
pure da stupidi!) … - disse Francesco - … hanno
appiccato l'incendio e non sono scappati? -. A
quel punto, Giovanni spiegò cosa fosse,
presumibilmente, accaduto.
− Ho sentito il capo dei gendarmi che lo spiegava
a Barbaja. Hanno appiccato l'incendio poco
prima della mezzanotte e, quando stavano per
uscire devono aver visto i gendarmi fuori dal
teatro. Probabilmente era proprio l'ora in cui
girava la ronda notturna. Devono aver scelto di
scappare dall'uscita secondaria ma, la quantità di
drappi del sipario e dei palchi doveva aver preso
fuoco molto più velocemente di quanto si erano
aspettati, bloccando quell'andito. Quando hanno
deciso di tentare la sortita dall'uscita artisti, dove
poi i gendarmi hanno trovato i loro cadaveri, il
fumo doveva aver già invaso completamente
quell'ambiente e, probabilmente, i tre hanno
perso i sensi. Il fuoco ha fatto il resto -.
Francesco commentò.
− Allora mi devo correggere. Sono morti da
“strunz' sfurtunati”-. Michele, che aveva
ascoltato il racconto, commentò.
− Che bastardi! Ma come si può contemplare l'idea
di distruggere il più bel teatro del mondo?
Quanto bisogna essere marci dal di dentro per
pianificare questo delitto? - A Michele fu
Giacomo a rispondere.
− Non ti dimenticare quanto mi hanno fatto. Farò
peccato e chiedo scusa a Nostro Signore ma
l'idea che quei tre delinquenti ora stiano
marcendo all'inferno mi mette di buonumore -.
Giovanni ne approfittò immediatamente.
− Allora, pizza? -
− Pizza! - risposero gli altri tre.
CAPITOLO XLI
L'ultimo applauso
Napoli, 16 aprile 1816
I due mesi successivi all'incendio del teatro furono
frenetici.
Tutti i musicisti del San Carlo, escluso Giacomo, si
recarono dai liutai più in vista della città per farsi costruire
i nuovi strumenti.
Barbaja, un uomo che sapeva badare al centesimo,
aveva già fatto il giro di tutte le botteghe.
Ad ognuno dei liutai che contattava diceva che un
suo concorrente commerciale gli aveva fatto prezzi più
vantaggiosi, di quelli che lui gli stava proponendo.
In tal modo, riuscì ad avere i prezzi più vantaggiosi
dai migliori liutai della città.
Ci fu chi comprò un Gagliano, chi un Vinaccia, un
Ventapane o uno Jorio.
Alla consegna dei loro strumenti, tutti costruiti da
Gagliano, i tre amici contrabassisti Fucci, Stocco e
Belcanto, accompagnati da Giacomo, entrarono nella
bottega del maestro liutaio e li provarono a turno facendo
affacciare i passanti incuriositi dai muggiti di questi mobili
suonanti.
Quel giorno Giacomo compiva trentanove anni.
All'uscio della bottega del maestro Gagliano,
s'affacciò un uomo anziano di circa ottant'anni (almeno gli
anni che dimostrava). Giacomo fu il primo a riconoscerlo.
− Maestro Paisiello! -
− Chi … ? Ah! Giacomi', stai qua? … ci siete tutti
… buongiorno, maestri -.
Il maestro non aveva più sul viso quel sorriso
gioviale che lo accompagnava dacché Giacomo lo
conosceva. Aveva, piuttosto, un'espressione vacua e
leggermente assente. Giacomo se n'accorse subito. Mollò
lo strumento che stava provando, quello di Michele, tra le
mani del futuro proprietario e gli andò incontro.
− Maestro Paisiello, che piacere vedervi. Come
state? - gli chiese.
− Eh, che ti devo dire? Sto come stanno i vecchi,
uno schifo -
− Ma che dite? Vi trovo in forma perfetta – mentì
lui.
Fenesta vascia (pt2)
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  • 1. − Ma si tratta di una lettera anonima. Come mai? - − Signor giudice, davanti ad ogni comando delle gendarmerie sua maestà Re Ferdinando ha fatto mettere delle cassette dove chiunque può denunciare qualunque misfatto senza che il suo nome compaia negli atti. Sapete come vanno le cose … ci sono molti sovversivi e … - Il giudice l'interruppe. − Lo sappiamo, lo sappiamo … ma sappiamo anche che questo è un ottimo sistema usato da chiunque per vendicarsi di qualsiasi persona che gli stia antipatica - − Signorsì, signor Giudice … e, proprio per questo motivo, siamo tenuti a fare un controllo - − Va bene … dunque … leggerò questa lettera pubblicamente affinché tutti i presenti si facciano un'idea di cosa contenga … uhm! … vediamo “ Vi inviamo quezta … “ quezta? … ah! Voleva dire “questa”! “ ... quezta lettera perché abbiamo zcoperto … “ Zcoperto? … ma come scrive questo? Mette tutte le esse al contrario? Mah! Andiamo avanti “ … abbiamo zcoperto che il zignor Giacomo Fiorenza, muzicista al teatro Zan Carlo, è un ladro. Ha rubato, e nazcosto nel zuo armadietto, oggetti appartenenti ad altri. Ha rubato perzino l'orologio d'oro con la catena del direttore
  • 2. Cajafa”. Comandante, mi confermate che è questo il contenuto della lettera? - − Signorsì, signor Giudice -. − E confermate che questa missiva non reca firma? - − Signorsì, signor Giudice -. − Ora, … io ho, qua davanti, l'elenco di tutti gli oggetti rubati in teatro: “ 3 ciprie e 4 rossetti di scena, 8 involti di pece per gli archetti, 2 metronomi, 1 panno di raso per coprire i tasti del clavicembalo, 12 matite, 6 candele, 1 piatto musicale e un orologio d'oro con catena”. Tenente, rispondete, di grazia, avete trovato tutte queste cose nell'armadietto del Fiorenza? - − Non tutte, eccellenza! Sono stati ritrovati nell'armadietto le ciprie, i rossetti, il panno di raso, le candele e l'orologio - − Quindi … vediamo … mancano … la pece, i metronomi, le matite e il piatto musicale … interessante … sono tutti oggetti che fanno gola solo a chi fa il suonatore … e … si? - In quel momento, Giacomo che aveva taciuto ed ascoltato fino ad allora, aveva alzato la mano come a chiedere la parola. − Eccellenza, chiedo scusa ma … credo di sapere chi ha veramente rubato nel teatro – in sala ci fu un sommesso borbottio.
  • 3. − Silenzio! … - disse il giudice - … e chi sarebbe costui? -. − Ecco, non so se ha agito da solo o in combutta con altri ma, sono certo che sia stato Francesco Bossolo! - In sala vi fu un'esplosione di stupore da parte dei presenti. Su tutto quel tumultuoso vociare, si sentì l'urlo dell'accusato. − Come ti permetti, ladruncolo che non sei altro? - Allora intervenne papà Gaetano. − Nun te permettere proprio cu figliemo, scurnacchiato! (pieno di corna) – e si lanciò addosso a Bossolo. Immediatamente, intervennero Laido e Mappaluna a difesa del loro compare. Vedendolo da solo contro tre, Michele Belcanto e Ciccio, il fratello di Emma, si lanciarono nella mischia. − Guardie, divideteli immediatamente! - fu l'urlo del giudice che sovrastò anche le urla delle donne e dei bambini spaventati. Dopo due minuti di caos, era tornata la calma in aula. Ora sei persone erano legate e affiancate dai gendarmi. Il giudice tornò a parlare rivolto a Giacomo: − Signor Fiorenza, ora che abbiamo finito di assistere agli Orazi e Curiazi, mi potete spiegare perché avete mosso quest'accusa? Avete le prove di quanto dite? - − Signorsì, eccellenza … la lettera anonima -.
  • 4. − In che senso, di grazia? - − Mentre la leggevate, avete notato che tutte le “esse” sono state scritte al contrario, giusto, signor giudice? - − Le “esse”? Ah! Già, … ebbene? - − Francesco Bossolo ha questo strano vizio grafico -. − Ah, si! E con ciò? Non credo sia l'unico ad avere questo difetto - − Ah! … vero … - Giacomo non ci aveva pensato. Stava per deprimersi ma poi si riprese - … però avete pure notato che le cose che non c'erano nel mio armadietto erano le uniche cose che potevano far gola a un musicista e … - il giudice l'interruppe. − Certo ma, vendendo un orologio d'oro con catenina, si possono comprare chili di pece, matite a iosa e un'enorme quantità di piatti e metronomi -. A quel punto, Giacomo non aveva più argomenti per accusare Bossolo per cui, tacque e abbassò la testa. Fu il giudice a riprendere la parola: − Purtuttavia, colui che ha spedito la lettera anonima dev'essere necessariamente persona interna al teatro … anzi! Dirò di più, un musicista e, … sebbene non ci siano prove sufficienti a confutare le accuse del signor
  • 5. Fiorenza, … comandante Montieri! - − Comandate pure signor giudice, eccellenza! - rispose prontamente l'alfiere. − Tornate al San Carlo e trovate modo di aprire l'armadietto del signor … ehm! … - − BOSSOLO! - Urlarono isoritmicamente tutti i parenti e gli amici di Giacomo. − Giusto! Montieri, aprite l'armadietto del signor Bossolo … e, visto che siete lì, vi consiglio di dare un'occhiata anche agli armadietti degli altri due signori che sono con lui … signori, fornite al comandante i vostri nomi e cognomi ZITTI GLI ALTRI! Non mi serve il vostro corale suggerimento. Saranno i gendarmi a prendere le loro generalità … Montieri, quanto tempo vi occorre per questa operazione? - − Circa un'ora e mezza, signor giudice - − Bene! Ci rivediamo qui fra un'ora e mezza. Guardie! Non fate uscire nessuno da quest'aula … nemmeno le persone che sono venute a vedere -. Con queste parole, il giudice s'allontanò dall'aula. Fu un'ora e mezza terribile per tutti, sebbene per motivi diversi. I sei uomini che avevano partecipato alla rissa furono raggruppati dalle guardie i due insiemi da tre individui, divisi per fazioni avverse.
  • 6. Tutti e sei avevano il volto teso sebbene per motivi differenti. Mamma Luisa, Emma e i bambini, piangevano silenziosamente. L'unico chiacchiericcio, che si sentiva in aula, proveniva dai gendarmi e dai curiosi che erano stati bloccati in aula, dietro ordine del giudice. Giacomo rimase al centro dell'aula incatenato sforzandosi di sorridere per tranquillizzare moglie e figli. Sapeva di aver mosso serie accuse contro Bossolo. Ora, le parole del giudice gli avevano insinuato un ragionevole dubbio. E se non fosse stato Bossolo a incastrarlo e lui aveva accusato un innocente? E se, invece, fosse stato effettivamente il collega a cercare di mandarlo in prigione ma, nel suo armadietto, il comandante Montieri non avesse trovato nulla? Novanta lunghi, interminabili minuti che, infine, passarono. Rientrò il giudice e prese posto alla sua poltrona. − Seduti! … - urlò, poi, rivolto al cancelliere - … è tornato Montieri? - − Non ancora, eccelle … - − Eccomi! - Il comandante aveva con sé un sacco di iuta. − Jammo bello, comanda'! (Diamoci una mossa, comandante) Avete trovato qualcosa? -
  • 7. − Signorsì signore! La refurtiva era equamente distribuita in tutti e tre gli armadietti. In quello del signor Francesco Bossolo abbiamo rinvenuto quattro involti di pece, un metronomo e quattro matite. In quello del signor Carmine Laido c'erano due involti di pece, quattro matite e un metronomo. Infine, nell'armadietto personale del signor Pasquale Mappaluna, c'erano gli ultimi due involti di pece per gli archetti, quattro matite e il piatto musicale - − EVVIVA! - gridò il pubblico. La voce del giudice sovrastò quel giubilante tripudio. − ZITTI! Signori Bessolo, Laido e Mappaluna! Cosa mi raccontate ora? - Il primo a parlare fu Mappaluna. Indicando Bossolo, disse: − È stato lui ad organizzare il furto -. Al ché, Laido intervenne. − Davvero? E chi ha rubato le chiavi del cretinetto? - Mappaluna si difese. − Parli proprio tu che hai preso l'orologio di Cajafa? - − Basta cosi! … - disse il giudice - … ho sentito abbastanza. Guardie! Arrestate questi tre signori! Vi condanno a un anno di prigione … e liberate subito quest'innocente! Buona giornata a tutti … Gaeta', nce lo vedimmo! (Gaetano, arrivederci) - Fine veloce di un processo.
  • 8. Quella sera, Giacomino andò a mangiare la pizza con tutti i suoi amici. In pizzeria fu messo al corrente del triste fatto che aveva perso il lavoro al San Carlo ma era troppo felice per pensare al domani. L'indomani decise di rimanere a letto più del dovuto. Nel pomeriggio sarebbe andato a ritirare il contrabasso che era rimasto nella buca del teatro.
  • 9. CAPITOLO XXVI Cimarosa Napoli 13 Ottobre 1798 Erano quasi le 11,00 quando una voce dal vicolo lo strappò dal caldo giaciglio. − Maestro Fiorenza! Mae'! Affacciatevi! - Lui uscì fuori al balcone e vide uno scugnizzo giù in strada. − Che vvuo'? (cosa vuoi?) - − Maestro, scusatemi tanto ma, dovete andare immediatamente a teatro! - − Je nun lavoro cchiù, llà! (Io non ci lavoro più, lì!) - − E che ne saccio io? Sto venenno proprio da 'o triato! Me hanno mannato loro! (Non ne so nulla, vengo dal teatro, mi ci hanno mandato loro) -
  • 10. Giacomo si lavò e si vestì in tutta fretta e corse al San Carlo. Appena entrò dall'ingresso artisti, Aniello lo aspettava. − Maestro! Che piacere vedervi di nuovo qui! Addò jate? (dove andate?) … non dovete andare agli uffici. Vi aspettano in teatro - Giacomo ridiscese la scala che portava agli uffici di direzione del teatro e percorse il corridoio che portava quanto più vicino alla buca orchestrale. Quando entrò. L'orchestra stava provando un intermezzo. Il primo orchestrale, che s'accorse della sua presenza, smise di suonare. Pian piano si fermarono tutti. Il maestro seguì con lo sguardo la direzione in cui guardavano i suoi orchestrali e smise di dirigere. Sul palco comparve il direttore Cajafa. − Bentornato, maestro Fiorenza – Accolse Giacomo con un caldo sorriso. − Io, … io … non capisco … - Lui era basito. − Non c'è proprio nulla da capire, maestro. In quest'organico di strumentisti, come potete vedere, manca tutta la sezione di contrabassi - − Non me ne stupisco. Uno lo avete licenziato e altri tre stanno in carcere -. − Esatto! Noi, come voi, siamo stati vittime di tre delinquenti - − Vero! Ma soltanto io sono stato in galera per una settimana e ho perso il posto di lavoro –
  • 11. Giacomo era troppo risentito col direttore per non fargli pesare quanto avesse patito. − Ah, ah, ah, … vedo che ci state arrivando -. − Direttore Cajafa, col dovuto rispetto, a me 'sto fatto non mi fa ridere … io … - Il direttore smise di sorridere e alzò la voce. − E lasciatemi finire! … dunque, visto che l'unico ad aver ricevuto un vero dànno siete stato voi, è giusto anche che voi abbiate un adeguato risarcimento … quindi … a nome del regio teatro San Carlo, vogliate ricevere le nostre più sentite scuse nell'unica forma che ci è concessa. Vi offriamo il reintegro immediato nell'organico di quest'orchestra … col ruolo e la paga di primo contrabasso … che ne dite? - Il sorriso ricomparve sul volto di Cajafa ma non su quello di Giacomo. − Ah! - Fu la risposta del giovane. − Beh? Non mi direte che non vi fa piacere? - Stavolta era Cajafa ad essere basito. − Direttore, chi saranno gli altri tre? - − Gli altri … ? Ah! Non lo so … forse dovremmo fare delle audizioni - − E io sarò presente alle audizioni? E avrò l'ultima parola? - − Io non so … non sarebbe la prassi … ci dovrà essere una commissione … - Si vedeva
  • 12. chiaramente che Cajafa non sapeva cosa rispondere. − Certo! Una commissione nella quale ci sarò io, voi e tutti quelli che vi pare ma … ma, visto che alla fine sarò io a tenere in fila con me questi strumentisti, chiedo di poter avere l'ultima parola … altrimenti – Cajafa, sebbene in tono spazientito, diede a Giacomo la risposta che quest'ultimo voleva. − E va bene! Come volete voi! - − Allora, accetto ma … - − C'è ancora un “ma”? - Il direttore era agli sgoccioli della propria pazienza. Giacomo se ne rese conto e minimizzò. − 'Na cosa 'e niente (una sciocchezza!). Vi chiedo la cortesia di farmi cominciare domani - − E perché? - − Scusatemi, non mi aspettavo questa onorevole proposta e … ecco … oggi mi devo togliere tutti gli impegni che m'ero preso e … - − Va bene, va bene! Non voglio sapere altro. A domani. Maestri! Fate un applauso al vostro collega -. Giacomo uscì di corsa dal teatro ma, prima di andare a casa, si diresse alle baracche del porto. Michele era fuori all'uscio della sua abitazione. Vedendolo tutto trafelato, gli chiese:
  • 13. − Giacomi'! E che cos'è tutta sta fretta? È succieso coccheccosa? (è successo qualcosa?) - L'amico lo tranquillizzò. − Si, ma una bella cosa! Cercati una casa più decente per la tua famiglia, datti una ripulita e dammi una mano a mettere voce in giro che ci sono le audizioni per contrabasso di fila al San Carlo – Quest'ultimo periodo aveva reso Michele Belcanto tutt'altro che fiducioso. − Non ti pare di essere troppo ottimista? Tu ci partecipi? - − No, io no! - − Ma sei scemo? E perché? Può essere che ti ripigliano. Hanno visto che non c'entravi niente coi marijuoli (ladri) … forse … - Giacomo lo fermò. − Perché io sono il primo contrabasso. M'hanno già ripreso ... e … sarò io a scegliere chi farà parte della fila … allora? - Michele non riuscì a nascondere il sorriso che s'accese sul suo volto. − Aspetta che mi preparo e vengo con te! … - e corse in casa. Giacomo gli sentì urlare alla moglie - … Maria, t'aggia dicere 'na cosa … 'na bbella cosa! (Maria, ti devo dire una cosa, una bella cosa) - Per fare tutte le cose secondo regola, si tennero i provini. Era il 16 ottobre 1798.
  • 14. In commissione c'erano, oltre a Giacomo e il direttore Cajafa, che doveva esserci per forza, il notaio Spezzaferri, che curava da anni tutti i contratti artistici del teatro, il maestro Buonomo, che aveva insegnato alla maggior parte dei candidati e Giovanni Paisiello che, ormai, aveva dimora fissa a Napoli. Si presentarono quattordici candidati. Tutti erano di buona scuola e con ottimi strumenti. Alla fine, l'organico dei tre elementi di fila della sezione contrabassi fu così decisa dalla commissione: Michele Belcanto. Giacomo avrebbe fatto carte false pur di averlo nuovamente con sé ma non ce ne fu bisogno. L'amico Michele suonò divinamente. Di gran lunga meglio degli altri candidati e la sua assunzione fu per scelta unanime. Giovanni Stocco. Allievo del maestro Buonomo. Più giovane di Giacomo. Molto muscoloso e abbronzato come chi è abituato a vivere all'aria aperta. Un suono meno potente di Belcanto e meno melodioso di Giacomo ma una tecnica straordinaria e uno sguardo fiero e leale. Francesco Fucci. Aveva cinque anni in più a Giacomo ed era, quindi, il più anziano della sezione. Non aveva studiato dal maestro Buonomo ma dal maestro Calzolari, il vecchio primo contrabasso del San Carlo al tempo degli esordi di Giacomo. Su di lui, i giudizi furono discordanti. Non aveva nessuna delle caratteristiche peculiari degli altri tre suoi colleghi ma aveva un paio di
  • 15. particolarità che solo Giacomo Fiorenza colse. Prima particolarità: Era uno capace di miscelare il suono. In orchestra, la capacità di miscelare il suono è legata al carattere del musicista e crea un vantaggio incommensurabile all'insieme. Un musicista con queste caratteristiche è una specie di “imitatore” ossia, cambia il timbro della propria voce (in questo caso del proprio strumento) a seconda di “cosa” suona, di “dove” suona e di “con chi” suona. La seconda particolarità di Fucci era quella di essere “buono” cioè di avere un grande cuore. A giacomo bastava. A metà novembre partirono le prove per una seconda edizione di repliche dell'”Artemisia, Regina di Caria” opera seria di Domenico Cimarosa su libretto dell'avvocato Marcello Marchesini. Lo spettacolo era andato in scena già l'anno precedente con enorme successo anche perché era stato confezionato in occasione delle Nozze delle di Francesco Borbone e Maria Clementina Arciduchessa d'Austria. Cimarosa era stato a Vienna, poco dopo la morte di Mozart e lì aveva scritto il capolavoro che lo aveva reso famoso: “Il matrimonio segreto”. Tornato a Napoli, lo spettacolo aveva tenuto ben 110 repliche al teatro dei Fiorentini. Probabilmente, fu per questo motivo che fu scelto dai sovrani al posto di Paisiello per scrivere l'”Artemisia,
  • 16. Regina di Caria” suscitando l'invidia del collega. Visto che l'anno precedente s'era tenuta una sola replica, giusto per le nozze borboniche, era giusto mettere lo spettacolo in cartellone. Anche perché Cajafa non era uno stupido. Sapeva che il nome di Domenico Cimarosa avrebbe fatto da richiamo a un folto pubblico. In occasione dell'inizio delle prove, per la prima volta, Giacomo Fiorenza vide un aspetto caratteriale di Giovanni Paisiello che non gli piacque per niente. Quando fece il suo ingresso in sala prove, Domenico Cimarosa fu accolto da un calorosissimo applauso da parte di tutta l'orchestra. Lui, tanto per i tratti somatici quanto per la dolcezza che emanava e per il tipo di musica che componeva, era molto simile a Paisiello. Aveva labbra carnose, aspetto pingue. Aveva poco meno di cinquant'anni. Era nato ad Aversa, vicino Napoli, ma aveva girato tutta l'Europa. L'applauso tributato al maestro fu interrotto da Giovanni Paisiello che era presente in quanto responsabile musicale del teatro. − Forza! Non perdiamo tempo ché qui abbiamo da fare! - Giacomo, e non solo lui, era basito dalla reazione di Paisiello. Era sintomo di buona educazione, come s'era sempre fatto in passato, lasciare che il compositore si presentasse all'orchestra e spiegasse loro il lavoro che di lì a poco avrebbero messo in scena.
  • 17. Lo stesso Cimarosa guardò in tralice il collega. Provò a prendere il controllo. − Giovanni, lascia che mi presenti all'orchestra – disse con voce ferma ma educatamente. Paisiello scoppiò a ridere. Una risata finta. − Ah, ah, ah! E ce n'è bisogno? Qui tutti ti conoscono, Domenico - − Si ma … io … - Paisiello lo interruppe. − Lascia stare! Siamo gente pratica noi … o no? - Cimarosa capì che era inutile stare lì a insistere. L'orchestra l'aveva già visto soccombere e non voleva dare altra soddisfazione al collega. − Bene! Hai ragione tu. Signori, prendete l'ouverture! - Paisiello non abbandonò la sala prove per tutto il giorno. Accanto a lui c'era il suo assistente copista e, di tanto in tanto, li si sentiva scoppiare a ridere. Questo atteggiamento innervosiva non poco Domenico Cimarosa. Lui era un abile cantante, molto più bravo di Paisiello. Aveva studiato tecnica vocale da un famoso castrato napoletano. Per la prima prova non aveva convocato i cantanti. Cantava egli stesso e in un'occasione, alla fine di un'Aria del soprano che Cimarosa aveva cantato in maniera magistrale scatenando l'ennesimo applauso dei suoi orchestrali, Paisiello gli urlò:
  • 18. − Mimì! (Domenico!) … ma sei sicuro che non t'hanno castrato? Io ti vedrei benissimo sul palco … in abiti femminili Ah! Ah! Ah! - Quando iniziarono le repliche, queste confermarono la lungimiranza del direttore del teatro. Furono un successo, il successo previsto e auspicato da Cajafa.
  • 19. CAPITOLO XXVII Albano Laziale (Roma) 29 aprile 1866 − Ah! ah! Stavo ripensando a ciò che ha saputo fare vostro padre col giudice – gli disse Liszt mentre i due uomini passeggiavano nei giardini vaticani di Albano Laziale. − Eh si! In effetti, papà era molto scaltro – rispose Giacomo sorridendo nostalgico al pensiero del padre. − Ma, probabilmente, prima o poi si sarebbe scoperta la vostra innocenza - − Non so. Non ho mai avuto molta fiducia nella cosiddetta giustizia. Nelle aule dei tribunali si applica la legge e la legge non è nemmeno lontana parente della giustizia - − Parole sante, Giacomo. Per fortuna, le cose si misero per il meglio. Ora avevate un ruolo di prestigio. Un ruolo che, tra l'altro, avete conservato fino a pochi anni fa. Avevate una fila di tutto rispetto … cos'è accaduto dopo? - − Quell'epoca fu portatrice di grandi cambiamenti al vertice del governo cittadino - − Ah, già! L'avvicendarsi di Borbone e dei francesi, vero? -
  • 20. − Verissimo. Furono incarcerati molti innocenti … comunque non più colpevoli di quanto lo fossi stato io con la faccenda dei furti. Furono eseguiti molti arresti a sfondo politico e, alla fine di tanto subbuglio politico, parecchi furono scarcerati … anche coloro che poco c'entravano con le varie rivolte … indirettamente, queste scarcerazioni crearono seri problemi al San Carlo … e a me! - − Non capisco … - − Ora vi racconto … -
  • 21. CAPITOLO XXVIII Il governo a Napoli Napoli, teatro San Carlo 21 dicembre del 1798 A metà della replica, entrò un uomo in teatro gridando: − 'O Re se n'è fujuto! (il Re è fuggito) - S'interruppe immediatamente la replica. Tutto il pubblico fece ritorno a casa. Davanti al San Carlo s'accalcarono decine di carrozze. Il tanfo di escrementi divenne insopportabile. Gli orchestrali presero i loro strumenti e fecero per abbandonare la buca ma Cajafa salì sul palco e disse: − Fermi! Tutti gli strumenti ingombranti come il clavicembalo, i timpani, l'arpa e i contrabassi, dovranno essere trasportati al deposito del teatro e messi in custodia. Tutti gli strumenti leggeri seguiranno i loro proprietari a casa. Fra tre giorni, la mattina della vigilia di Natale, alle
  • 22. 10,30 ci vediamo tutti qui, attori, ballerine, musicisti, maestro Cimarosa e personale del teatro … solo allora, potremo decidere cosa fare. Forza! Sbrighiamoci -. L'indomani, alle 10,30, il direttore raccontò alla compagnia gli ultimi avvenimenti politici. Il Re Ferdinando, con tutta la famiglia reale, s'era rifugiato in Sicilia perché i francesi erano alle porte di Napoli. Per non lasciare la città senza guida politica, aveva nominato, quale suo vicario, il conte Francesco Pignatelli Strongoli. Pignatelli, non avendo avuto ordini precisi da Ferdinando di Borbone e, per evitare un attacco alla sua città, chiese un armistizio ai francesi. Si accordò col generale Championnet e, in cambio di una tregua, il Regno di Napoli si impegnò a richiamare in patria le truppe ancora stanziate in Romagna e a cedere ai francesi la fortezza di Capua più le città di Benevento, Ariano Irpino, Acerra, Arienzo, e Arpaia. Inoltre, la cittadinanza si impegnò al versamento di due milioni e mezzo di ducati, pagabili in due rate all'inizio del 1799. Più di metà di tutto il patrimonio cittadino. Concluse la narrazione dicendo: − … e, visto che c'è l'armistizio. La gente vorrà scordarsi ciò che accade al di fuori del loro piccolo mondo. Quale migliore occasione per
  • 23. venire a teatro? Abbiamo fatto partire la stampa di nuovi manifesti dove, a caratteri cubitali, il pubblico troverà queste parole: “TUTTI I BIGLIETTI A METÀ PREZZO PER LASCIARE LA POLITICA E LA GUERRA FUORI DAL TEMPIO DELL'ARTE”. Il pubblico accorrerà ancora più numeroso. Lo spettacolo continua! - − Evviva! - gridarono i convenuti. − Però, … però … devo chiedervi un piccolo sacrificio … - In teatro tornò il silenzio. Tutti gli astanti rimasero in attesa di sapere in cosa consistesse questo “piccolo sacrificio”. Cajafa riprese: − Se il pubblico paga metà prezzo, lo capirete da soli che tutti noi … dico “tutti noi” accettiamo di lavorare per mezza paga finché tutto non torni alla normalità -. Non c'era alternativa … del resto, chiunque, in qualunque epoca della storia, abbia deciso di votare la propria vita all'arte, non si è mai fatto illusioni. Tutti gli artisti sanno di vendere un bene superfluo all'umanità, qualcosa di cui l'essere umano può fare a meno. Eppure, se l'arte ha resistito alla barbarie dell'animale “umano” è stato solo perché, pur non salvando la specie umana dalla propria “piccolezza”, l'arte è stata capace di innalzare l'umanità a “civiltà”!
  • 24. Passò capodanno, passò anche l'epifania, finirono le repliche dell'”Artemisia, Regina di Caria” con soddisfazione di Cajafa che c'aveva visto lungo. L'orchestra ebbe la concessione di un breve periodo di riposo. Non una vera e propria vacanza ma una piccola pausa prima di cominciare a lavorare a una nuova produzione. Nessuno prevedeva che, di lì a poco, sarebbe scoppiato l'inferno a Napoli. La sera del 14 gennaio 1799 l'esercito francese si presentò nella capitale del regno per ricevere il denaro pattuito. I soldi non c'erano … anche perché i Borboni, scappando in Sicilia, s'erano portati la maggior parte dell'oro della corona e i denari dei banchi. Quella sera il popolo napoletano insorse. I cittadini assalirono i francesi e li cacciarono dalla città. Capitanati dal principe Girolamo Pignatelli di Moliterno e il duca Lucio Caracciolo di Roccaromana, due ufficiali borbonici che si erano battuti valorosamente contro i Francesi, il giorno 15 gennaio, i napoletani assalirono tutte le fortezze della città: Castel Sant'Elmo, Castel dell'Ovo, Maschio Angioino e il Castello del Carmine. Dopo essersi impadroniti delle armi, assaltarono anche le carceri, liberando detenuti politici e, con loro, anche i detenuti comuni.
  • 25. Il 16 gennaio il vicario del Re, Francesco Pignatelli Strongoli fuggì da Napoli e raggiunse il suo sovrano a Palermo. Napoli, liberata dai francesi ma senza un vero capo politico, cadde in preda alla più totale anarchia. Probabilmente era proprio ciò in cui speravano i francesi. Ora non avevano più un referente politico in città, non erano stati pagati e non erano più vincolati dall'armistizio. Il 23 gennaio 1799 il generale Championnet entrava trionfalmente a Napoli alla testa della sua armata. Il Re era caduto, i Borboni erano stati cacciati, nasceva la Repubblica Napoletana. I francesi, conquistatori del regno, adottarono una politica basata sulla repressione. Vi furono centinaia di incarcerazioni, ergastoli ed esecuzioni capitali. Malgrado tutto ciò, i napoletani, il popolo, quello vero, quello non interessato alla politica, essendo composto da gente unica nel suo genere, riprese la propria vita di tutti i giorni come se niente fosse mai accaduto. Chiunque abbia dominato i napoletani (e sono stati in tanti), ha dovuto fare i conti con un popolo che, se lo lasciavi continuare a vivere la sua vita alla propria maniera, poteva dimostrarsi il popolo più mansueto al mondo. Soltanto chi ha provato a sconvolgere gli equilibri vitali di un microcosmo autosufficiente ne ha pagato le
  • 26. conseguenze. La nascita della Repubblica Napoletana non creò danni al San Carlo. Dopo un primo momento di stasi, gli orchestrali furono richiamati a fare il loro lavoro. Unica differenza. Ora si eseguivano solo lavori di Giovanni Paisiello. Il maestro, infatti, aveva conquistato, con la sua simpatia e con il suo talento, anche i capi della repubblica cosicché le alte cariche del nuovo governo gli avevano lasciato carta bianca sulla gestione del teatro. Cajafa c'era ancora ma non aveva più alcun potere decisionale. Il pubblico, per fortuna, non disertava il San Carlo né gli altri teatri partenopei. Anche per Giacomo non fu un grande problema adattarsi a suonare il repertorio di un unico compositore. In fondo, lo conosceva bene e poi … Paisiello era, in effetti, un grande compositore. La repubblica napoletana, purtroppo per Paisiello, ebbe vita breve. Il 22 di giugno, si chiuse la parentesi di dominio francese della città (non era la prima parentesi e non sarebbe stata nemmeno l'ultima) e fu riconsegnato il regno ai Borboni. Conseguenze per il San Carlo? Nessuna. Conseguenze per Paisiello? Durante l'assenza dei Borbone, il compositore, che
  • 27. dai Borbone era stato già nominato maestro di cappella del Duomo, ora aveva assunto il titolo di maestro di cappella della repubblica e, sebbene non vi furono ritorsioni da parte della famiglia reale quando tornò a governare il regno e la città di Napoli, i rapporti tra lui e la casa Reale si raffreddarono e Paisiello perse molti degli appoggi che potevano giovare al suo prestigio cittadino. Lui non era, in cuor suo, un rivoluzionario anti monarchico. Egli era semplicemente certo che il proprio talento bastasse a fargli avere i favori tanto dei monarchi quanto dei repubblicani. Un pomeriggio, davanti a un vassoio di sfogliatelle, il maestro disse a Giacomo. − Giacomino, ho commesso un errore - − Quale, maestro? - − Mi sono illuso che il mio talento potesse servire a qualcosa - − Maestro! Ma che dite? Il vostro talento serve a rendere più bella la musica … vi pare poco? - − Grazie Giacomi' ma, l'errore mio è stato quello di accettare onori dalla repubblica e, ora che sono tornati i Borbone, sono sicuro che me la faranno pagare … questi non ci mettono niente a far tagliare la testa alla gente - − Nun sia mai, Mae'! (Speriamo di no, maestro), … secondo voi di cosa possono accusarvi? - − Di averli traditi … ti pare cosa da poco? -
  • 28. − Uhm! … e voi non potete dire che siete stato costretto ad accettare se non volevate essere giustiziato come nemico della repubblica? - − Ci posso provare ma penso che il Re avrebbe preferito innalzare un monumento alla mia memoria anziché vedermi tra le fila dei suoi nemici - − Ma quali nemici e nemici, Mae'? Mica avete combattuto contro di lui? Voi non avete fatto niente! - − Niente! … infatti, ho sentito dire che il Re c'é rimasto male del fatto che non l'ho seguito in Sicilia - − E voi ditegli che eravate già pronto a seguirlo ma che vostra moglie s'era ammalata e non potevate lasciarla da sola con una città in mano al nemico -. − Beh! È un idea … ci proverò -. Risultato? I Reali non se la bevvero e lo rimossero da tutti i suoi prestigiosi incarichi. La routine del San Carlo, intanto, riprese da dove s'era fermata ... … e venne l'estate.
  • 29. CAPITOLO XXIX L'agguato Napoli 26 di agosto del 1799 Il Giacomo e Michele erano stati a bere giù al porto. Era mezzanotte. S'erano salutati da poco e il giovane Fiorenza si avviava verso i quartieri di via Toledo, dove aveva casa. Già da tre anni e mezzo, non abitava più con la suocera e il cognato. All'epoca aveva già due figli e, quando scoprì che Emma aspettava il terzo, gli fu chiaro che 'o quartino d'a gnora (l'appartamento della suocera) non poteva ospitare tanta gente. Per sua fortuna, trovò a prezzo accessibile una casa di tre stanze. Quella sera di fine agosto, aveva tagliato per i vicoli del teatro dei Fiorentini perché non gli andava di passare davanti al San Carlo. Gli era già sufficiente frequentarlo
  • 30. per tutto l'anno. Con la coda dell'occhio vide un movimento strano in un vicoletto laterale. Era conscio dei rischi di imboscate ad opera di marijuoli e tagliagole ma l'alcool l'aveva reso più spavaldo. Ruppe gli indugi quando vide che c'era un uomo a terra che chiedeva aiuto a mezza voce. S'avvicinò. Era buio per vedergli il volto. − Signore, che è successo? Chi vi ha fatto del male? Io … - Giacomo non riuscì a finire la frase perché sbucarono due uomini da un portone alle sue spalle e gli calarono un cappuccio in testa. Provò a divincolarsi menando calci e pugni. Qualcuno andò anche a segno perché fu condito da colorate bestemmie ma alla fine i due uomini e il complice che s'era finto in ambasce ebbero la meglio su di lui. Ora si trovava a terra. Gli avevano sfilato il cappuccio. Un uomo era seduto sulle sue gambe, uno gli teneva le braccia e il terzo era in piedi con un piede appoggiato sul suo volto. − Ci vuole pacienza (pazienza) ma, prima o poi … quello che si deve pagare, … si paga -. Col poco spazio che aveva per muovere la bocca, a causa del piede in faccia, Giacomo disse: − Che vulite? Chi site? (Cosa volete? Chi siete?) - − Siamo la punizione che meriti -.
  • 31. − Ma forze me avite scagnato pe n'ato! (forse m'avete preso per qualcun altro) - − Nessuno scambio, … t'ammo aspettato pe' parecchio tiempo (ti abbiamo atteso per molto tempo) … ma, alla fine, avrai quello che ti meriti – Giacomo era certo che si trattasse di uno scambio di persona. − Non so per “chi” mi avete scambiato. Io sono un musicista. Mi chiamo Giacomo Fio … - L'uomo gli tolse il piede dalla faccia solo per potergli dare un cazzotto. − Giacomi', 'o sapimmo chi si' (Giacomino, sappiamo chi sei) … però, mi dispiace per te, … ma non si dicono bugie … non sei un musicista … sei un ex musicista - Dopo queste parole, tirò un martello da sotto il mantello. Giacomo, malgrado questi assalitori indossassero un fazzoletto davanti alla bocca, ebbe la sensazione di riconoscerli … anzi! Nella sua mente, quella sensazione diventava sempre più certezza. Dalla fisionomia dei tre, dal fatto che lo conoscessero e dalla voce di colui che gli rivolgeva la parola, per quanto alterata dal fazzoletto, potevano essere soltanto Bossolo, Laido e Mappaluna. Giacomo capì che i tre avevano, probabilmente, usufruito a loro vantaggio della liberazione delle carceri ad opera della repubblica. Mentre rifletteva su questi pensieri, l'uomo che
  • 32. parlava alzò il martello Bastò la prima martellata sulla mano perché Giacomo perdesse i sensi. Si riebbe. Non sapeva quanto tempo fosse passato ma era ancora buio. Il dolore alle mani era terribile, lancinante. S'alzò appoggiandosi sui gomiti e, piegato in due, fece ritorno a casa. Non avrebbe voluto svegliare Emma ma, entrando in casa, non riuscì a non fare rumore. E poi, sentiva un lamento provenire da chissà dove. Il rumore che produsse fu sufficiente affinché Emma s'alzasse dal letto, accendesse una candela e gli andasse incontro. − Giacomo, cosa … ? ... oh! Dio mio! - Solo in quel momento, Giacomo Fiorenza, che sentiva un lontano lamento, capì che la voce lamentosa era la propria. Il giorno seguente, il dolore alle mani divenne fortissimo. A casa Fiorenza c'erano tutti. Quella notte, le urla di preoccupazione di Emma e i lamenti di Giacomo avevano svegliato tutto il vicinato. C'erano mamma Luisa e papà Nino, Nanninella la suocera, Ciccio, Michele e il dottore. Aveva parecchie fratture ad entrambe le mani. Secondo il parere del medico, non avrebbe mai più
  • 33. potuto suonare. Quando il medico espresse la propria diagnosi, Giacomo si rannicchiò su sé stesso e non parlò più. Le donne e i bambini cominciarono a piangere. Gli uomini tacquero senza avere nemmeno la forza di guardarsi in faccia o di dire qualcosa che potesse consolare Giacomo. Non c'era al mondo alcuna parola che potesse servire. Dopo alcuni minuti di silenzio, Giacomo parlò: − Via - − Cosa? - chiesero alcuni dei presenti. − Andate via, via, VIA! - Urlò lui. Da quel giorno, Giacomo si chiuse in casa e s'attaccò alla bottiglia. Nei primi tempi, beveva per non sentire il dolore insopportabile alle mani. Dopo, quando il dolore fu passato e le ossa s'erano saldate, continuò a bere e a non reagire al duro colpo che la vita gli aveva inferto. Le mani gli funzionavano quasi bene, a parte l'anulare destro che s'era saldato male e il pollice sinistro che non riusciva a distendersi del tutto. Il problema era che Giacomo non riusciva, o non voleva, guarire nella testa. Qualcosa s'era rotto. Intanto, aveva perso il lavoro al San Carlo. Non esisteva una cassa malattia. Era il 22 di dicembre, s'avvicinava il Natale. In casa non c'erano nemmeno i soldi per fare la spesa. Emma prese coraggio e gli disse, spinta dall'esasperazione:
  • 34. − Giacomi', nun putimmo ire annanzi accussì. Nun tenimmo cchiù 'nu sordo (Giacomino, non possiamo andar avanti così. Non abbiamo più un soldo) – Lui tacque per qualche minuto, poi disse: − Vai al teatro San Carlo e trova coccheduno (qualcuno) che se volesse accatta' 'o contrabasso mio … -. Emma avrebbe voluto urlargli che era un pazzo e che doveva tentare, a tutti i costi, di rimettersi a suonare ma era quasi Natale e la famiglia versava in uno stato miserrimo. Gli amici e i parenti avevano provato a fargli visita in quel periodo ma lui li cacciava in malo modo. Avevano provato anche a dargli dei soldi ma Giacomo era troppo orgoglioso per accettarli. A sua insaputa, Emma, che era l'unica a cui potessero avvicinarsi le persone che avevano a cuore la sua situazione, aveva accettato qualche denaro facendo in modo, però, di non essere scoperta dal marito. Furono la miseria profonda e i bisogni dei bambini a spingere Emma a recarsi al San Carlo e mettere voce in giro che il contrabasso di Giacomo Fiorenza era in vendita. Il giorno seguente, il 23 dicembre 1799, arrivò sotto casa Fiorenza uno scugnizzo. − Maestro Fiorenza? Signora Fiorenza? Affacciatevi! - Fu Emma ad affacciarsi.
  • 35. − Che c'é, piccirillo (piccolino)? - − Signo'! Tengo 'na cosa pe vuje – fece lo scugnizzo. − Aspetta, mo scendo -. Quando Emma tornò su, lanciò il sacchetto sul tavolo dove Giacomo stava seduto tracannando vino. − Che d'è 'sta cosa che m'hai jettatto 'ncoppo 'a tavula? (Cos'è questa cosa che m'hai gettato sul tavolo?) - chiese lui. − I soldi del contrabasso. Se lo sono comprato subito -. Giacomo ebbe una contrazione del viso. Poi abbassò gli occhi e raccolse la busta sul tavolo. − Ah! Bene! Tienili tu – e le rilanciò la busta senza nemmeno contare il denaro. Lei aveva contato il denaro. C'era a sufficienza per farli vivere con quel minimo di dignità almeno fino a Pasqua. Era molto di più del valore dello strumento. Dopo aver infilato i soldi nel cassetto dell'armadio nella camera da letto, Emma sbirciò verso la cucina. Lui era ancora seduto al tavolo, aveva le braccia incrociate su di esso e la fronte appoggiata alla piegatura interna dei gomiti. Silenziosamente stava piangendo.
  • 36. CAPITOLO XXX Dragonetti Napoli 7 Gennaio 1800 Era passato il Natale, era entrato l'anno nuovo, era entrato il nuovo secolo. Il 19 febbraio del 1800, si presentarono a casa di Giacomo Michele Belcanto, Giovanni Stocco e Francesco Fucci. Col nuovo anno, le condizioni mentali di Giacomo erano peggiorate. Era ingrassato, gonfio di alcool, si disinteressava alla moglie e ai figli e s'era chiuso in un ostinato mutismo. Emma lo aveva confidato al suocero. Nino il bello lo aveva detto a Michele col quale era rimasto in amicizia dai tempi delle serenate in osteria.
  • 37. Michele condivise la notizia coi suoi colleghi e fu presa la decisione. Quando entrarono in casa Fiorenza, Giacomo era buttato sul letto. Li vide. − Cosa volete? Chi vi ha invitato? - parlava con voce biascicata. − Nessuno. Perché? Ci voleva l'invito di vostra maestà? – rispose ironicamente Francesco. Giacomo non aveva alcuna voglia di ridere. Non rideva da mesi. − Bene! Allora andatevene da dove siete venuti – fu la sua risposta. − Non ce ne andiamo “manco pe 'a capa” (per niente) – disse Michele, con dolcezza. − Jatevenne o si no … (andatevene, altrimenti …) - A quel punto, intervenne Giovanni. Giovanni aveva un fisico possente e muscoloso e aveva l'abitudine di portare ogni attrito allo scontro fisico, conscio della propria forza. − Altrimenti cosa? Hai rotto le palle! Alzati da questo letto e fammi vedere cosa mi fai! Avanti! Alzati! - Giacomo, troppo ubriaco per intimorirsi, provò ad alzarsi dal letto ma ricadde indietro in preda ad un forte giramento di testa, uno dei tanti effetti collaterali dell'ennesima sbornia quotidiana. I tre amici si scambiarono uno sguardo d'intesa e si
  • 38. lanciarono su di lui isoritmicamente. Lo afferrarono per braccia e gambe e lo trascinarono davanti a un grosso catino d'acqua fredda preparato in precedenza da Emma, loro complice. Gli infilarono più volte la testa nel catino. Ogni volta per dieci secondi e, ogni qual volta estraevano la sua testa dall'acqua, gli chiedevano: “Ne hai abbastanza?”. La tortura finì quando Giacomo, dopo averli riempiti d'improperi, rispose: “Va bene! Va bene! Ne ho abbastanza”. I tre amici abbandonarono la presa e lui si rannicchiò su sé stesso e cominciò a singhiozzare come un bambino. I suoi torturatori aspettarono che lui smettesse di piangere. Giovanni fu il primo a parlare. − Ora che hai finito di frignare, vestiti e vieni con noi - − Non mi va – rispose lui. Stavolta fu Michele a essere più duro. − Giacomi', forse non hai capito. Questo non è un invito – s'aggiunse Francesco. − Devi venire e basta! - Fu così che, dopo sei mesi da quando aveva subito il pestaggio, Giacomo Fiorenza rimise piede fuori da casa sua. Lungo la strada, incontrarono un venditore ambulante di caffè e lo costrinsero a berne tre.
  • 39. Dopo un po' trovarono il maestro Buonomo. Era chiaro che li stesse aspettando. Senza dire una parola, si unì al quartetto. Camminarono molto a lungo in direzione Capodimonte e, all'altezza del ponte che passa sul cimitero, si fermarono e condussero Giacomo in un bel palazzo costruito da poco. Salirono al primo piano e suonarono il campanello. La porta s'aprì e comparve una specie di gigante. Un uomo alto due metri, con lunghi capelli ondulati, occhi azzurri come … come l'azzurro, mento squadrato e mani … enormi. Il dito medio di questo gigante era pari a tutto l'avambraccio di Giacomo. − Ah! Ce l'avete fatta a portarlo? Complimenti! - Disse il gigante, sfoderando un sorriso cordiale. Giacomo si accorse subito, dall'accento, che quest'omone doveva essere sicuramente del nord, probabilmente veneto. Ricordava il dialetto di quella terra perché era passato di lì per due volte nel suo viaggio a Vienna -. Rispose il maestro Buonomo. − Domenico caro. Sono quasi certo che questi ragazzacci avrebbero preferito ucciderlo anzi che lasciarlo in isolamento per un altro giorno ancora - − L'avremmo fatto! - sottolineò Giovanni.
  • 40. − Ottimo! Gentile maestro Buonomo, mi usereste la cortesia di accompagnarmi al cembalo? - − Volentieri, maestro Dragonetti -. I quattro giovani e i due maestri entrarono in un ampio salone dove c'era un clavicembalo e un contrabasso. Quel gigante si chiamava Domenico Dragonetti, veneto, il più grande solista di contrabasso del suo tempo, amico di Beethoven, Haydn e Muzio Clementi. I quattro giovani maestri del San Carlo rimasero ammirati dalla tecnica di quell'uomo. Intanto, la sua enorme statura faceva sembrare che il contrabasso fosse un violoncello. Aveva un archetto col legno meno curvato verso l'esterno e muoveva le sue enormi mani su quelle corde di budello toccando posizioni inconsuete. Tutti si resero conto che lo strumento aveva le tre corde intonate a una distanza di quarta anziché di quinta, com'era sempre stato fino ad allora. Quando Domenico Carlo Maria Dragonetti finì di suonare quello che, si scoprì poi, essere una sua composizione, partì un applauso. Lo stesso Giacomo si ritrovò ad applaudire suo malgrado. − Ora parliamo di te, figliolo. Fammi vedere le tue mani – Giacomo era riluttante ma, messo in soggezione dall'omone, non poté rifiutarsi. Tese le mani. Dragonetti le studiò in silenzio per tre lunghi minuti. Infine, disse:
  • 41. − Si può fare - − Cosa “si può fare”? - chiese Giacomo. Gli tremava la voce. − Ti prenderò a lezione da me -. − Lezione? Ma io non … - Giacomo stava per rifiutarsi ma intervennero i suoi amici con vari “Non provarci nemmeno, ti spacco la faccia, non essere stupido” e altre frasi di questo tipo. Dragonetti riprese la parola. − Verrai da me tre volte alla settimana e, in sei mesi, suonerai meglio di prima - − Maestro. Ma io non ho soldi per pagarvi – disse timidamente lui. − Ti ho chiesto dei soldi? … - chiese il maestro con tono alterato. Poi, con toni più dolci, aggiunse - … ascoltami, Giacomo, mi hanno parlato del tuo talento e della tua storia musicale. Hai suonato addirittura con Mozart. So che, addirittura, sei amico di una mia vecchia amica, Brigida Giorgi Banti. Se è vero la metà di quanto mi è stato raccontato sul tuo conto, tu meriti le mie lezioni … e meriti di ricominciare a suonare perché è “quella” la tua vita – Giacomo era commosso, una singola lacrima gli scorreva sul viso. − Grazie, maestro … ma c'è un altro problema, un grosso problema … -
  • 42. − Quale? - − Non ho più il contrabasso. L'ho venduto … – A quel punto, intervenne Michele Belcanto. − L'ho comprato io ma solo per metterlo da parte aspettando che tu rinsavissi. L'ho comprato coi soldi che mi hai dato, di nascosto per tanto tempo, nel periodo in cui tu lavoravi ed io no. Credevi che non l'avessi capito che non si guadagna così tanto con la posteggia? Ricordi cosa mi dicesti quando non mi presero al San Carlo e venisti a trovarmi per la prima volta a casa mia? - − No, non ricordo – disse, timidamente, Giacomo. − Ah, no? Allora te lo ricordo io. Dicesti: “vorrei fare un patto di reciproco soccorso, ora, tra noi due, sei tu quello in difficoltà economica ma, un domani …” quel “domani” è oggi -. Giacomo era basito e commosso. − Cosa posso dire, allora? - − Un semplice “grazie” potrà bastare - Rispose Francesco. − E nun rompere 'o sasiccio (non rompere …) - aggiunse Giovanni. Il maestro Buonomo volle dire la sua. − E studia! - − E quando guadagnerai i primi soldi quando avrai ricominciato a suonare, portaci tutti a fare una
  • 43. bella bevuta – concluse Domenico Dragonetti. Da quel 19 febbraio, Giacomo Fiorenza riprese a studiare il contrabasso. Le due dita malconce non furono d'ostacolo a che lui si rimettesse in forma. Studiava otto ore al giorno. Certo! Un contrabasso che suona per otto ore al giorno è una bella tortura per le orecchie ma Emma era talmente felice che il marito avesse ricominciato a vivere (e smesso di bere) che lo avrebbe tollerato anche per ventiquattr'ore al giorno. Giacomo adottò l'accordatura e il tipo di arco alla Dragonetti e, attraverso lo studio con quel grande maestro, si rese conto che non aveva mai studiato veramente prima di allora. Dopo Pasqua, i soldi erano finiti. Stavolta, Giacomo non fece storie nel ricevere soldi dal padre, dalla suocera o dai suoi amici ma era, comunque, imbarazzato. Quando raccontò il tutto a Dragonetti, egli gli disse: − Figliolo, ma non mi avevi detto che tuo padre suona e canta nei ristoranti? - − Si, maestro, ma cosa c'entra 'sta storia? - − Te ne sei accorto che le mani hanno riacquistato una muscolatura sufficiente a emettere un buon suono? - − Dite? - − Dico! Chiedi a tuo padre di portarti a suonare con lui. Fara bene anche al tuo morale e non
  • 44. sarai costretto ad accettare donazioni che ti mettono in imbarazzo - Giacomo riprese a suonare in pubblico. I primi giorni furono un po' dolorosi ma lo studio quotidiano e la pratica di tutte le sere gli restituirono lo strumentista che era prima dell'incidente di fine agosto dell'anno precedente. Durante i mesi estivi, Giacomo Fiorenza non solo aveva riacquistato la sua solita forma ma, grazie alle lezioni di Dragonetti, alla nuova accordatura e al nuovo tipo di archetto, era testimone di un enorme miglioramento della propria tecnica e del volume sonoro dello strumento.
  • 45. CAPITOLO XXXI Salotto D'Avalos Napoli, teatro San Carlo 1 settembre 1800 Giacomo fu convocato al San Carlo. Cajafa lo aspettava nel proprio ufficio: − Maestro Fiorenza, come state? - La sua non era una domanda di cortesia, infatti gli guardò le mani. Giacomo se ne accorse e tese le braccia verso il direttore. − Benissimo, direttore … anzi! In gran forma! … come potete vedere -. Cajafa passò subito oltre. − Per me è un immenso piacere sapere che state bene. Dunque, ieri sera, tutta la sezione dei contrabassi è stata da me. Mi hanno detto che vi hanno tenuto il posto nel periodo della vostra assenza e che, per loro, voi rimanete il primo contrabasso del San Carlo e che non torneranno
  • 46. a suonare senza il loro capofila. Chi sono io del resto per oppormi alla loro decisione? - − Beh! Siete il direttore – rispose Giacomo. − Infatti! … e mi ero opposto … ma poi, … beh! Per farvela in breve, vi ho mandato a chiamare dietro richiesta del maestro Marinelli -. − Marinelli? È a Napoli? - Chiese Giacomo, con eccitazione. − Certo. Quest'anno cominceremo la stagione con una sua vecchia opera, il “Lucio Papirio”. E avremo l'onore di avere qui colei che ha cantato per la prima volta quest'opera al San Carlo. Ora lavora a Londra ma ce l'hanno concessa per due settimane … - Giacomo disse a mezza voce: − Brigida Giorgi Banti – Il direttore lo sentì. − Esatto! - Arrivò il giorno delle prove e il maestro Marinelli fece il suo ingresso nella sala prove del teatro. Cominciò la presentazione di sé stesso e dell'opera agli orchestrali lanciando uno sguardo di saluto e d'intesa a Giacomo che, il maestro, considerava un amico. A un certo punto, gli chiese pure: “Come sta, Emma? … e i bambini?”. Finito il proprio discorso iniziale, Gaetano Marinelli disse: − Maestri cari, non lo credevo possibile ma, per nostra fortuna, lo è stato. La più grande soprano
  • 47. di tutti i tempi parteciperà, così come fece nella sua “prima assoluta”, alla rappresentazione del Lucio Papirio. Brigida Giorgi Banti! - Dall'orchestra partì uno scroscio di applausi e la divina fece il suo ingresso in sala prove. Ora era una donna di quasi cinquant'anni. Aveva acquistato peso ma, malgrado il suo imbolsimento, non aveva perso fascino e avvenenza. Come tutte le prime donne, non degnò di uno sguardo gli orchestrali al suo ingresso in sala prove. Cominciarono le arie. Giacomo notò immediatamente un'incrinatura nel suono della meravigliosa voce del soprano. Di contro, la sezione dei contrabassi, grazie a quattro fantastici strumentisti, aveva un suono talmente armonioso e armonizzante col resto dell'orchestra che, alla fine della prima aria, Marinelli disse: − Giacomino? Che cosa hai combinato? - Lui, arrossendo, rispose. − Scusate maestro, cosa ho fatto di sbagliato? - Al maestro scappò una risata. − Di sbagliato? Ma stai scherzando. A me arriva un suono bellissimo dalla vostra sezione … anzi, vi chiederei di suonare un po' meno forte, se potete … e … comunque, complimenti a te! - − Grazie maestro ma, i complimenti li condivido volentieri coi miei colleghi … e amici … va
  • 48. bene! Suoneremo meno forte -. − Perfetto … andiamo avanti … - e prepararono l'aria successiva. Brigida Giorgi Banti, intanto, aveva sentito dire “Giacomino” dal maestro e, subito dopo aveva sentito il riferimento alla sezione dei contrabassi. Sebbene fossero passati circa dieci anni dall'ultima volta che era stata al San Carlo e, sebbene avesse avuto tanti altri amanti, compreso un grosso personaggio del teatro lirico inglese col quale s'accompagnava tutt'ora, ella ricordava con tenerezza il ragazzino che, senza volerlo, aveva svezzato sessualmente. Appena Giacomo alzò lo sguardo nella sua direzione, la diva gli strizzò l'occhio e gli sorrise. Vi furono solo due giorni di prove. Sarebbero stati seguiti da dieci repliche per dare modo alla cantante di tornare in Inghilterra in tempo utile per una grossa produzione che sarebbe andata avanti per mesi. La sera della prima, Giacomo bussò al camerino di Brigida Giorgi Banti ed entrò. Lei era già vestita ma non ancora truccata. Giacomo notò le ferite del tempo sul suo volto e sul suo collo ma non lo fece notare. − Signora Brigida, sono venuto a farvi gli auguri per sta ... – Lei non gli diede il tempo di finire la frase. Gli tirò giù le brache e lui non ebbe tempo né capacità per sottrarsi al dazio dovutole per il riscaldamento dello strumento vocale. Dopo
  • 49. alcuni minuti, una volta fatto, lei disse: − Mio caro, che piacere vederti. Sei diventato un uomo – Lui, in virtù della galanteria imparata da suo padre, disse: − Signora, più tempo passa e più diventate bella - − Bugiardo! … ma l'adulazione mi piace … facciamo così … stasera, dopo lo spettacolo, vieni con me e mio marito a cena a palazzo d'Avalos. Voglio sapere tutto di te … ora va! … ché devo truccarmi -. Giacomo non poté sottrarsi all'invito al palazzo di una delle famiglie più nobili e antiche di Napoli. Imparentati con la famiglia reale e famosa per l'omicidio, avvenuto più di due secoli prima, di una loro antenata per mano di Carlo Gesualdo da Venosa, un grosso musicista, madrigalista del periodo barocco. La cena fu chiassosa e allegra ma, per Giacomo, ascoltare le storie di viaggio del grande soprano, fu come leggere un giornale narrante tutto il mondo musicale europeo. La Banti, infatti, aveva avuto un'esistenza nomade in virtù del suo lavoro e questo le aveva permesso di conoscere, direttamente o per sentito dire, tutto il mondo musicale operistico ma anche sinfonico. Si profuse in racconti e aneddoti su musicisti di cui, a Napoli, non s'era mai sentito parlare. Vista la sua fama, gli astanti tacevano e
  • 50. l'ascoltavano. Di tanto in tanto, qualcuno le faceva una domanda e lei, che amava tanto stare al centro dell'attenzione, si prodigava in racconti dettagliati. Fu il barone Capasso a porre la prima domanda di quell'intervista collettiva: − Gentile signora, voi che avete tanto girato, ci sapreste dire quali sono le grandi novità della musica nel resto d'Europa? - − Beh! Signori … e signore, cosa posso dirvi? Napoli è il centro del mondo musicale. È qui che s'inventa il futuro … ciò non ostante, ci sono grandi talenti anche in giro per l'Europa … e anche bravi -. − Per esempio? - chiese la marchesa Piscitelli. − Vediamo un po'. Qualcuno di voi ha mai sentito parlare di Wolfgang Amadeus Mozart? - al sentire quel nome, intervenne il principe Caracciolo. − Certo! È stato anche qui a Napoli … ma mi hanno detto che è morto qualche anno fa, o mi sbaglio? … comunque, ricordo che tenne un concerto privato qui, a Napoli. Molto bravo … ma pare che la sua bravura fosse merito di un anello magico che … - allora intervenne Giacomo, interrompendo il principe. − Nessun anello magico, principe. Mozart era un vero e proprio genio … – il principe, indispettito
  • 51. dall'interruzione, disse: − E voi che ne sapete del genio di Mozart, giovanotto? - a quel punto, intervenne il maestro Marinelli, anch'egli invitato alla cena. − Questo giovane conosce il genio di Mozart perché quando aveva quattordici anni, il giovanotto, ci ha suonato con Mozart - − Davvero? - disse più di una persona. La Banti, vedendo che il centro dell'attenzione pubblica stava deviando da lei, intervenne subito per riappropriarsi della scena. − Sapete? In Germania c'è più di un musicista che ha poco da invidiare a Mozart … per esempio, Franz Joseph Haydn, un sinfonista straordinario e poi … non dimentichiamoci il musicista del futuro Ludwig Van Beethoven. Avrà circa trent'anni. Nella sua musica si avverte che qualcosa sta cambiando nel mondo. Mozart è un classico ma, se sentiste Beethoven … -. Giacomo ricordò di aver visto questo Beethoven la sera del concerto per clarinetto di Mozart. Glielo aveva indicato Gustav Brunner, dicendo che quel giovane era l'erede di Mozart. Si ricordò anche del suo brutto aspetto. Istintivamente chiese: − Chi? La scimmia? - Brigida era stupita ma anche indispettita da questo giovane che le rubava la
  • 52. scena. − Non mi dirai che hai suonato anche con lui? - − No, madame, l'ho solo visto per caso a Vienna – Le bastarono queste parole di Giacomo per trovare il modo di allontanarlo dal centro dell'attenzione. − Beh! Se non hai mai sentito la sua musica, non puoi immaginare cosa è il futuro … certo che, però, nel melodramma, Ludwig è un po' … come dire … scarsino? - La Banti, nell'usare quel termine “scarsino” fece un'espressione talmente buffa arricciando il naso e impostando un tono da bambina da suscitare una grossa risata generale di accondiscendenza. La scena era tutta sua. − E chi altro c'è d'interessante nel panorama artistico? - chiese la duchessa D'Angiò, dopo un po'. − Abbiamo anche due grossi talenti come strumentisti, entrambi italiani. Il primo suonava addirittura con me quand'ero una bambina. È un contrabassista veneziano, davvero straordinario, Domenico Dragonetti. È un bel po' che non lo si vede in giro … - Giacomo evitò di dire che Dragonetti era a Napoli e che lui ci andava a lezione, intimorito dall'aggressività che il soprano manifestava ogni qual volta qualcuno
  • 53. minacciava il suo ego accentratore. La Banti continuò - … Il secondo è un ragazzo di meno di vent'anni. È un violinista genovese. Si chiama Niccolò Paganini. Credo sia il più grande violinista di tutti i tempi. Ha una tale maestria col suo strumento che, quando suona, non si vedono le dita, tanto che è veloce la sua articolazione -. − Avete incontrato personaggi strani in giro per l'Europa? - chiese il barone Capasso. − Strani in che senso? - chiese Brigida. − Che ne so? Qualche musicista che vi ha impressionato dicendo o facendo cose strambe - − Mah! Mi viene in mente quel compositore tedesco di lieder con cui ho cantato per un breve periodo, in più di un salotto. Un personaggio effettivamente strano. Magro al punto da sembrare uno scheletro. Era sicuramente un buon musicista ma, una volta mi disse una bugia che non reggeva … ma lui era convinto che fosse la verità … raccontava di essere il nipote del più grande musicista mai nato - − Un nipote di Mozart? Mozart era suo zio? - chiese il principe Caracciolo. − No, no. Non era parente di Mozart. Lui, il compositore di Lied, faceva riferimento a suo nonno … mi disse anche il nome di questo
  • 54. nonno ma, sinceramente, non me lo ricordo … lui, però, si chiamava Wilhelm Friedrich Ernst Bach -. − Bach! Mah! Mai sentito nominare – disse Marinelli.
  • 55. CAPITOLO XXXII Albano Laziale (Roma) 30 aprile 1866 − Beh! Non si può certo dire che la vostra vita sia stata senza grandi emozioni … e poi, avete conosciuto Dragonetti, Cimarosa, Paisiello e … - Giacomo interruppe Franz. − Mio caro amico, è facile incontrare tanta bella gente quando si fa il mio mestiere nel teatro più importante della città che è stata il centro del mondo … almeno fino a qualche anno fa - − Giusto! Eppure a voi sfugge una verità molto importante … - − Quale? - chiese Giacomo Fiorenza. − Ogni grande compositore esegue solo la propria musica. Un orchestrale suona la musica di tutti. E vi sembra poco? - − No. In effetti, noi orchestrali siamo tenuti ad avere una grande flessibilità. Ogni compositore ha avuto esigenze diverse dell'altro per quanto riguardava il modo in cui eseguire le sue note e noi eravamo tenuti ad accontentarli - − Visto? … - chiese Liszt. Dopo un minuto di silenzio, l'ungherese disse: - … stavo pensando al fatto che voi appellavate col nomignolo di
  • 56. “scimmia” il più grande compositore di sinfonie di questo secolo e volevo chiedervi se, oltre a quell'incontro fugace a Vienna, avete più rivisto il compianto Beethoven - − Lui no ma … in maniera trasversale, le nostre vite si sono incrociate ancora - − In che modo, di grazia? -
  • 57. CAPITOLO XXXIII Beethoven Napoli 30 ottobre 1803 Le stagioni teatrali al San Carlo si succedevano incuranti del caos politico che si agitava intorno a una città che era il centro del mondo culturale. Giacomo fu ingaggiato fuori dalle mura sicure del teatro San Carlo per suonare a un matrimonio. Normalmente avrebbe rifiutato, non per superbia ma perché, avendo già un lavoro, non voleva togliere opportunità lavorative ad altri contrabassisti. Fu l'anzianissimo maestro Casizzone, il suo primo insegnante di musica, a chiedergli questa cortesia e Giacomo non se la sentì di rifiutare. La festa era a palazzo von Gallenberg, di proprietà dello sposo.
  • 58. Gli altri musicisti potevano arrivarci anche a piedi al palazzo perché avevano strumenti meno ingombranti e più leggeri. Certo! Il clavicembalo pesava ben più di un contrabasso ma in ogni casa che si rispettasse ce n'era uno per cui, il clavicembalista era esentato dal lavoro di facchinaggio. Di questa esenzione, i contrabassisti erano … esenti. Visto che palazzo von Gallenberg non era molto distante da casa sua, Giacomo pensò di portare il contrabasso in loco la mattina per darsi il tempo di tornare a casa, lavarsi e abbigliarsi in maniera adeguata in modo da evitare il puzzo di sudore tipico di chi fa facchinaggio. Arrivò col carretto alle spalle del palazzo von Gallenberg, dal lato dell'ingresso della servitù. Fece quasi cento gradini per arrivare al salone delle feste. Non era ancora entrato nel salone quando sentì un suono di pianoforte. Quindi c'era il pianoforte, non il clavicembalo. I volumi sarebbero stati più alti. Più fatica per lui. Vide che lo strumento era un pianoforte verticale “Southwell”. L'aveva già visto una volta al San Carlo. Uno strumento meraviglioso, costruito per la prima volta, tre anni addietro. Al pianoforte era seduta una giovane donna. Suonava molto bene, suonava con trasporto, era
  • 59. totalmente assorbita dalla propria esibizione intima. Suonava una melodia bellissima e triste nel contempo, in tonalità di Do diesis minore, nella quale non si capiva se fosse più incisiva la melodia o quell'arpeggio trascinato dell'accompagnamento. Giacomo evitò di far rumore e s'avvicinò di soppiatto col contrabasso in spalla ma urtò una sedia con la propria anca e la ragazza interruppe la propria esibizione e si voltò di scatto. − Oh! Che spavento! - esclamò. − Vi chiedo scusa, signorina, io … non volevo spaventarvi … cavolo! ... se non fossi stato così maldestro da urtare una sedia, avrei poggiato lo strumento in un angolo e me ne sarei andato lasciandovi finire in pace l'esecuzione di quel meraviglioso brano – lei gli sorrise. − Giovanotto, con un contrabasso sulle spalle è difficile non essere maldestri … beh? … - − Beh? - le fece eco Giacomo. − Lo volete posare, o no, quel contrabasso in un angolo? Cosa aspettate? - Sebbene la ragazza parlasse un italiano privo di accenti Giacomo capì che non era napoletana. Probabilmente era cresciuta in Germania, aveva la medesima pronuncia dell'impresario Brunner. − Ah, già! Scusate, signorina – e pose lo strumento in un angolo della grande sala poi, si
  • 60. volse verso questa ragazza e rimase immobile. La ragazza, più incuriosita che seccata, disse: − Allora? Vi siete trasformato in una statua di sale? Avevate detto che sareste andato… - lui la interruppe. − Posso riascoltarlo? - − Cosa? - − Quel brano che stavate suonando - − Vi piaceva? - lei era più che lusingata … − Moltissimo! - rispose Giacomo. Lei abbassò il volume della voce e gli si avvicinò. − È stato composto per dedicarlo a me … lo ha composto il mio maestro … - … era orgogliosa di potersi vantare della dedica personalizzata. Non si fece pregare - … va bene! Vi offro questo concerto privato! - … e riprese a suonare il brano dal principio. Giacomo s'accorse subito che quel brano era la contrapposizione di un arpeggio che sembrava riprodurre le onde del mare e una melodia composta con note di lunga durata che spingevano l'ascoltatore a chiedersi, nota dopo nota, quale sarebbe stata la direzione successiva di quel tema. In questo modo era impossibile distrarsi. Inoltre, l'armonia di quegli accordi mischiava suoni mai uditi prima di allora da Giacomo. Quando la ragazza smise di suonare, Giacomo
  • 61. aveva le lacrime agli occhi. Lei disse: − Spero non stiate piangendo per la mia pessima esibizione – Giacomo si asciugò le lacrime e rispose: − L'esibizione era impeccabile, signorina. Il vostro maestro è un genio. Questo brano ha un'energia melodica che mi ricorda quella del grande Mozart ma l'armonia è molto più moderna … chi è il vostro maestro? Come si chiama? -. − È un tedesco di origine olandese. Si chiama Ludwig van Beethoven - − Beethoven? La scimmia? - Giacomo si lasciò scappare la sua personale idea estetica del musicista. La ragazza scattò in piedi dal seggiolino del pianoforte. − Come vi permettete? Come osate prendervi gioco di un genio come Ludwig? - Giacomo si rese conto d'aver esagerato e corse ai ripari. − Vi chiedo scusa, signorina, avete ragione! Non dovevo dire ciò che ho detto. Il fatto è … che io conobbi il vostro maestro tanti anni fa e gli misi questo nomignolo in modo scherzoso. Eravamo più giovani. In fondo, un musicista che scrive qualcosa di così sublime come ciò che mi avete fatto ascoltare poco fa, è al di sopra di noi comuni mortali … altro che scimmia! -. La ragazza avrebbe voluto tenergli ancora il broncio
  • 62. ma i modi garbati e le scuse educate di Giacomo (degno erede dell'eloquenza paterna) placarono la sua collera. Rimase un attimo in silenzio poi … scoppiò a ridere. − Avete ragione! Ludwig ha l'aspetto, più che di una scimmia, di un gorilla … - disse tra le risate. Poi, tornò seria - … ma voi non chiamatelo mai più con quest'appellativo. Promettete? - − Promesso! … ma come mai lo chiamate per nome? Ludwig, anziché maestro … eh? - Lei arrossì. − Ora state diventando sfacciato - − Vi chiedo nuovamente scusa – e andò via. Era ovvio che se Beethoven aveva dedicato un brano così struggente alla propria allieva, un'allieva che lo chiamava Ludwig, il loro rapporto esondava i margini della mera didattica. Giacomo tornò a palazzo Gallenberg quella sera e rimase a bocca aperta quando fecero il loro ingresso gli sposi. Lui era il conte Wenzel Robert von Gallenberg, proprietario del palazzo e futuro direttore dei balletti di corte. Lei, la sposa, era Giulietta Guicciardi, la ragazza che quella mattina stava seduta al pianoforte e con la quale Giacomo aveva chiacchierato.
  • 63. CAPITOLO XXXIV Rossini Napoli, estate del 1804 Giacomo, con la sua famiglia, era sulla spiaggia di Santa Lucia a prendere il sole. Con loro c'era anche la famiglia Belcanto, tranne il capofamiglia. Michele era stato a Pesaro a suonare con un'orchestra locale e, quel giorno, avrebbe fatto ritorno nella capitale. Emma era diventata amica della moglie di Michele. I loro bambini giocavano insieme. Il San Carlo era chiuso per ferie estive. Il clima fortemente afoso della città rendeva impossibile mettere in scena spettacoli che non fossero all'aperto. L'afrore di sudore proveniente dal palco e dalla buca, ma anche dalla platea, sarebbe stato insopportabile anche per i nasi più tolleranti.
  • 64. Michele raggiunse i bagnanti e, prima ancora di salutarli, si sfilò gli indumenti di dosso e si tuffò nelle azzurre acque del golfo. Dopo due bracciate e dopo che tutti i bambini gli erano saltati addosso chiamandolo “papà” o “zio Michele” pretendendo baci e carezze, lui tornò a riva, baciò appassionatamente la moglie, baciò sulle guance Emma e s'andò a sedere accanto a Giacomo. − 'Hai fernuto 'e fa' 'a cummèria? (Hai finito di fare la commedia?) - disse Giacomo. − Pecché? C'aggio fatto? - rispose Michele. − Ci vuole proprio tutto 'sto tempo per venire ad omaggiare il tuo capo sezione? - − Ah! Scusate signore. Ecco a voi i miei omaggi: Prrr! - fu la pernacchia di risposta di Belcanto. Entrambi scoppiarono a ridere. Giacomo gli chiese. − Allora? Com'è andata la tua esperienza con l'orchestra di Pesaro? Ti sei divertito -. − Mah! Cosa ti posso dire? … moltissimo! - Michele aveva voglia di scherzare. Giacomo voleva, invece, soddisfare tutta la propria curiosità. − Nun fa 'o zeza! (Non fare il buffone) dimmi com'è andata -. − Agli ordini, capo sezione! … mi hanno fatto un sacco di complimenti … e si capisce! Il livello
  • 65. di quell'orchestra era veramente infimo - − Non ti sottovalutare. Tu sei veramente molto bravo -. − Grazie, Giacomi'! - − Cosa avete suonato? - − Tutte musiche composte da un musicista di lì … mi devi credere! … un fenomeno … ti ricordi quando leggemmo quelle partiture del tuo amico Mozart qualche anno fa? - − Si, mi ricordo. Ce le fece avere Marinelli … embè? (ebbene?) - − Ebbene, suonando le musiche composte da questo pesarese, mi pareva di suonare Mozart - − Mah! Non è che stai esagerando? - − No, tutt'altro! - − Vabbè! … può darsi che questo pesarese sia stato un allievo di Wolfgang oppure che abbia imparato a scrivere imitando lo stesso suo stile, no? - − Impossibile - − Perché è impossibile? Mozart è stato molte volte in Italia. Questo maestro può avere preso lezioni da lui negli anni ottanta, magari è stato a Vienna a studiare o, forse … - Michele lo interruppe. − Niente di tutto questo! È del tutto impossibile che 'sto maestro abbia mai conosciuto Mozart. Quello che non ti ho detto è che il compositore
  • 66. ha dodici anni - − 'Nu criaturo! (un bambino) … beh! Certo che non può aver studiato da Mozart. È nato dopo la sua morte … e come si chiamerebbe questo fenomeno? - − Non “si chiamerebbe”. Si chiama Gioacchino Rossini! - Altri anni passarono. Il teatro San Carlo era come un porto di mare. Sbarcava arte da tutt'Europa. Ogni innovazione era ritenuta di rilievo solo qualora avesse avuto il consenso della città di Napoli, nel suo tempio dell'arte, motivo per cui tutti volevano cimentarsi sul palcoscenico più prestigioso al mondo: compositori, cantanti, registi, coreografi, autori, ballerini. L'unica bitta costante dove ormeggiare l'arte era l'orchestra. L'orchestra era come il popolo napoletano. Continuava ad essere sé stessa indipendentemente da chi fosse il compositore, la cantante, l'autore, il regista, il coreografo o la ballerina di turno. Anche il popolo napoletano rimaneva sé stesso, malgrado i molti sconvolgimenti al vertice. Dopo i Borbone venne Napoleone. I Borbone ripresero il controllo della città ma solo per essere costretti riconsegnarla, poco tempo dopo, a Napoleone, che insediò
  • 67. Gioacchino Murat che attuò una politica basata sul terrore. Ai napoletani non piace avere paura … infatti … infine … nel 1815 tornarono i Borbone. In tutta quest'alternanza di poteri forti, Giacomo fu testimone degli alti e bassi del prestigio cittadino di Giovanni Paisiello. Lui si affannò per ingraziarsi ora l'uno ora l'altro dei vertici di turno e il 19 marzo 1808, mise in scena “I Pittagorici”, un dramma che parlava della repressione borbonica del 1799. I suoi lavori gli valsero molte onorificenze ma “I pittagorici” invece, gli valsero la rottura totale dei suoi rapporti coi Borbone al loro definitivo ritorno, nel 1815. Eppure, malgrado le vicende politiche cittadine e le vicissitudini di Giovanni Paisiello, ciò che più colpì al cuore Giacomo Fiorenza fu la partenza definitiva da Napoli di Domenico Dragonetti nel 1807. Tanto lui quanto i suoi colleghi Belcanto, Stocco e Fucci, erano andati regolarmente a lezione dal maestro in tutti questi anni. Grazie a lui, avevano adottato l'accordatura per “quarte” delle corde dello strumento in contrapposizione alla vecchia concezione per “quinte”. S'erano fatti costruire archetti più stabili, col legno praticamente diritto abbandonando i vecchi archetti che curvavano verso l'esterno (proprio come gli archi per le frecce). “'O lampione”, come il quartetto di contrabassisti
  • 68. chiamava il maestro, annunciò la sua partenza per Londra poco prima dell'estate del 1807. Non vi fu verso di fargli cambiare idea. Diventarono orfani di un punto di riferimento molto importante.
  • 69. CAPITOLO XXXV Albano Laziale (Roma) 1 maggio 1866 − Sbaglio o poi arrivò Barbaja da voi? - chiese il compositore ungherese al suo vecchio amico contrabassista. − Non sbagliate affatto - … rispose lui. − Barbaja è stato davvero un grande impresario. Vi posso assicurare che la sua fama in Europa è stata pari a quella dei grandi artisti che ha prodotto - commentò Liszt. − Se il buon don Domenico potesse ascoltare le vostre parole, ne sarebbe molto lieto – rispose Giacomo. − Avete suonato con tanti grandi artisti esordienti che poi, col tempo sono diventati grandi maestri in tutta Europa … però … intanto … almeno per una volta è stato un altro contrabassista del San Carlo, anziché voi, a suonare per primo con un nuovo compositore - − A chi alludete? - − Il vostro amico … come si chiamava? … Bel … Bel … - − Il mio amico si chiamava Belcanto … intendevo a quale nuovo compositore fate allusione? -
  • 70. − A Gioacchino Rossini - − Ah! già … - Liszt si rese conto che Giacomo non sembrava molto contento di ricordare Rossini. Gliene chiese la ragione. − Cosa vi turba, mio caro amico? Ho detto, forse, qualcosa d'inopportuno? - − No, Franz … anzi! Vi chiedo scusa. Il fatto è che Rossini è stato un personaggio che, in me, ha lasciato sempre grandi perplessità - − Cioè? -
  • 71. CAPITOLO XXXVI Barbaja Teatro San Carlo, 7 luglio 1809 Mattina. Tutta l'orchestra fu convocata in teatro. Doveva trattarsi di “qualcosa di grosso” visto che, per le normali comunicazioni, il luogo adibito alle comunicazioni era la sala prove. Sul palco c'era il direttore Cajafa. Accanto a lui, c'era un signore sconosciuto. Doveva avere più o meno la stessa età di Giacomo che, all'epoca, aveva trentadue anni. Un tipo di corporatura normale, vestito alla moda, due grossi favoriti, il viso rubicondo, labbra e sopracciglia sottili, capelli neri lisci e unticci e due occhi … due occhi come due saette. Il suo sguardo scrutava tutto l'uditorio lanciando
  • 72. dardi di malizia. Cajafa cominciò a parlare: − Cari amici, colleghi, compagni di viaggio. In questi anni abbiamo condiviso esperienze incredibili, nel bene e nel male … eppure … siamo ancora qui … siamo ancora più forti di quando abbiamo iniziato. Io vi ho visto crescere, voi m'avete visto invecchiare … ora sono vecchio e stanco e … vado via - Cajafa si asciugò una lacrima mentre dalla platea, dov'era posizionato tutto il personale del teatro, partì un coro di “Oh!”. − Sento la vostra vicinanza, il vostro calore ma … l'arte va avanti. Io appartengo al teatro di Marinelli, di Cimarosa, di Paisiello. Ora devo fare spazio al “nuovo” … vorrei presentarvi il signore che è qui sul palco accanto a me. Si tratta di un grande impresario, un visionario con idee moderne e, a volte, futuristiche. Io mi auspico che siate fedeli e leali con lui come lo siete stati con me in tutti questi anni. Ecco a voi, Domenico Barbaja - Barbaja era effettivamente un impresario con l'occhio lungo. Fiutava il talento, il successo e il guadagno ovunque si presentasse. La prima cosa che fece, fu rendere il San Carlo un cantiere di lavoro. Aveva deciso che poteva essere
  • 73. abbellito e ampliato. Fu una tortura per le compagnie d'opera, per i compositori e i cantanti fare le prove con i rumori dei carpentieri, le urla degli operai, la puzza di vernici e la polvere e dopo due anni, quando ormai avevano fatto l'abitudine a questa tortura, i lavori terminarono. Barbaja aveva ragione. Era il 1811 quando il teatro si presentava con una facciata in stile neoclassico e con arredamenti interni molto confortevoli. Inoltre, lui aveva creato alcuni “spazi di ristoro” per il pubblico. L'aveva fatto con l'obiettivo di educare gli utenti del teatro a fare silenzio durante le rappresentazioni e sfogare le loro esuberanze in posti dove si poteva fumare il sigaro bevendo una granita prima o dopo lo spettacolo. L'astro di Paisiello perse progressivamente luce. Era prossimo l'arrivo di una nuova generazione di compositori. I Pittagorici fu l'ultima opera che compose per il San Carlo. Giacomo, però, gli rimase amico. Gli portava sempre le sfogliatelle così come fece la prima volta che si parlarono quasi vent'anni prima, gli teneva casa pulita nei periodi in cui il maestro se ne andava a Parigi o in altri luoghi della penisola o dell'Europa, luoghi dove il buon Fiorenza si premurava di spedirgli la corrispondenza che gli veniva recapitata alla casa di Napoli.
  • 74. Cominciava la stagione teatrale 1815. L'orchestra fu convocata alla fine dell'estate. Barbaja li volle in teatro anziché in sala prove. Ormai tutta l'orchestra sapeva che, se la convocazione avveniva in teatro, si trattava di una notizia di vitale importanza, bella o brutta che fosse. Quando l'orchestra fu lì riunita, l'impresario Barbaja fece la sua comparsa sul palco. Accanto a lui c'era un giovanotto di poco più di vent'anni. Era un giovanottone grasso, col naso lungo, sottile e curvo. Aveva due occhi da triglia delimitati da palpebre cascanti. Aveva i capelli morbidi e grossi favoriti. Labbra sottili e mento a punta su un collo ampio e a balzi. Insomma … era tutt'altro che una bellezza. Sembrava un valletto dell'impresario. Barbaja parlò: − Cari maestri, vi ho convocato per mettervi al corrente delle importanti novità di quest'anno. Quest'anno si instaurerà una nuova figura artistica nel teatro, il direttore artistico. Questo tempio dell'arte ha avuto il piacere di far esibire i più grandi compositori del mondo ma, mai prima d'ora, s'era avvalso della collaborazione di un autentico genio della musica … - Per Giacomo era inevitabile che, ogni qual volta sentisse la parola “genio” il suo pensiero correva immediatamente a Mozart. Barbaja continuò.
  • 75. − … avete già sentito parlare di lui. La sua presenza al San Carlo è dovuta ai suoi innumerevoli successi a Venezia, Roma e Milano. Potevamo mai farcelo sfuggire? Perciò, lasciate che io vi presenti … Gioacchino Rossini da Pesaro -. Dalla platea, composta da tutto il personale del teatro, partì un fragoroso applauso. Lo stesso Giacomo fu commosso e coinvolto dalla presenza di quel musicista di cui aveva sentito parlare già da quando quest'ultimo era ancora un ragazzino. Andarono immediatamente in sala prove perché il maestro voleva provare qualcosa con l'orchestra. Giacomo s'aspettava che il copista del maestro mettesse le parti sui leggii invece fu lo stesso maestro, aiutato dal Barbaja a consegnare le singole parti. La prima prova fu strepitosa. Ciò che leggevano, suonava subito bene, alla prima lettura. Alla fine della prova, gli orchestrali applaudirono spontaneamente il maestro. Quando si spense l'applauso, quest'ultimo parlò: − Grazie, grazie … troppo buoni ma, … sono io che devo applaudire voi. Malgrado la mia giovane età, ho già portato i miei lavori in molti teatri e collaborato con tante orchestre ma, mai prima d'ora, m'era capitato d'imbattermi in un così alto livello di professionalità e talento. Sono
  • 76. certo che la nostra collaborazione sarà di reciproco beneficio … ora lascio la parola al nostro impresario … -. Barbaja l'affiancò e prese la parola. − Cari maestri, domani la prova sarà, come al solito dalle ore dieci in poi. Nel pomeriggio arriveranno i cantanti. Avremo l'onore di far esibire sul nostro palcoscenico il più grande soprano al mondo. Ella è una bellezza esotica, viene da Madrid … la divina Isabella Colbran - Anche in questo caso, l'orchestra non poté esimersi dall'applaudire. Giacomo pensò che si prospettava un futuro roseo per il San Carlo. Mentre poggiava a terra il suo contrabasso, distrattamente, buttò un occhio sul leggio di Michele Belcanto, suo secondo contrabasso di fila, e vide qualcosa che, pur senza capire cosa fosse, creò in lui un turbamento. Avrebbe potuto lasciar correre ma, alla fine, decise di dare un'occhiata. In effetti, sullo spartito posto sul leggio di Michele, c'erano scritte le stesse note che c'erano sul suo ma … la grafia era indubbiamente diversa. Era se come due diversi copisti si fossero incaricati di copiare quelle parti. Decise di farsi un giro tra tutti i leggii dell'orchestra ed ebbe la conferma che due diverse mani s'erano incaricate del lavoro di copista.
  • 77. “In fondo cosa c'è di strano?” pensò tra sé e sé. Capitava spesso che, in mancanza di tempo, un maestro usufruisse di più copisti per la trascrizione delle singole parti … eppure … qualcosa di strano c'era. Giacomo lo capì guardando il modo di come venivano posizionate le stanghette sotto le singole note. Lui aveva già visto quella grafia e, se colui che scriveva in quel modo non fosse morto da quasi un quarto di secolo, avrebbe giurato che quella era la grafia di Mozart.
  • 78. CAPITOLO XXXVII Il misterioso copista Napoli, gennaio 1816 La suggestione è qualcosa d'incredibile. Da quella sera della prima prova con Rossini, e per alcuni mesi, Giacomo prese l'abitudine che, quando usciva dal teatro, si guardava intorno. Ogni tanto, tornava indietro sui suoi passi. Quanti anni avrebbe avuto ora Wolfgang? Quasi sessanta. Una volta, a Giacomo capitò addirittura di vedere in lontananza un tipo anziano con una fronte sporgente, caratteristica somatica molto peculiare di Mozart. Prese a inseguirlo mentre costui svoltava in un vicoletto ma, appena Giacomo svoltò a sua volta, vide che la stradina era deserta. Una mano gli si appoggiò sulla spalla. − Complimenti, maestro – Giacomo si voltò. “Da
  • 79. dov'è sbucato?” si chiese. Era Rossini. − Ah! Maestro Rossini … complimenti? … perché? - − Non crediate che io non presti ascolto ai singoli elementi di questa meravigliosa orchestra. Vi ho sentito … sapete? Siete molto bravo … in effetti, tutta la sezione dei contrabassi suona benissimo. La migliore sezione che io abbia mai sentito – Giacomo non capiva se Gioacchino parlava per creargli una distrazione dal suo intento di fare il segugio o stesse dicendo sul serio. Ovviamente, la buona educazione ebbe il sopravvento sui sospetti, peraltro non avvalorati dai fatti. − Grazie, maestro. Porterò i vostri complimenti al resto della sezione -. − Ne sarei lieto. Vi va di andare a bere un bicchiere di vino? Stasera mi hanno lasciato da solo e, sapete? Bere da soli non è molto divertente. È tacito che offro io -. − Impossibile, maestro. Voi siete ospite nella mia città. Tocca a me offrire e ne sarei onorato - − Va bene. Lungi da me l'idea di disonorarvi altrimenti sarò costretto a sposarvi … ah ah ah!- Andarono a bere a Santa Lucia in una cantina di fronte al mare. Il vento fresco che arrivava a terra dal largo sollevava i capelli di Rossini che, sebbene fossero lunghi
  • 80. quasi fino al collo, erano più sottili e leggeri dei fili di cotone. Coi capelli sollevati e il viso in mostra, venivano messe in risalto ancor di più le guance piene e il naso adunco di Gioacchino. − Maestro Rossini, voglio approfittarne per complimentarvi con voi per la vostra scrittura così, … come dire … intensa – disse Giacomo per aprire un dialogo. − Alludi al fatto che io curi in modo maniacale le parti dei cantanti? - chiese lui, con un sorrisetto. − Appunto. Ciò che scrivete è particolarmente difficile da cantare – Gioacchino ci rifletté un attimo, poi disse: − In effetti, scrivo in questo modo per non dare il tempo ai cantanti di infiorettare il canto a loro piacimento. Del resto, lo sapete meglio di me che la maggior parte di questi cialtroni, se avesse linee melodiche semplici, le riempirebbe di melismi fino al punto di cambiare la melodia originale a favore di un proprio tornaconto vocale -. − Vero, verissimo. Oggi avete messo in difficoltà anche la signora Colbran. Quando le avete chiesto di cantare le note scritte, la poverina è diventata viola - − Isabella? Dite? Mi spiace che quell'angelo debba
  • 81. ricevere imbarazzo dalla mia scrittura. Farei di tutto per non ledere la bella spagnola … di tutto tranne che cambiare la mia musica -. − Ho la sensazione che la signora Colbran vi piaccia … e non poco … dico bene? - − Colbran … - Gioacchino sospirò - … ah! La Colbran! Se potessi … ma, pare che, anche il Barbaja stia sbavando per lei. È un affare delicato … - − Beh! Solo fino a un certo punto, maestro -. − In che senso? - Rossini si avvicinò a Giacomo con interesse. Giacomo si spiegò. − Barbaja è un abile impresario indubbiamente ma è legato mani e piedi al San Carlo. Cosa può offrire a lei? Voi, invece, siete solo relativamente legato al nostro teatro. Nulla vi vieta di portare la vostra musica negli altri prestigiosi teatri europei. Sicuramente, avete molto più fascino e molte più cose allettanti da offrire a una cantante come lei -. − Dite? - Gioacchino tratteneva a stento un sorriso. − Ne sono certo. Inoltre, ho dato un'occhiata alle vostre partiture. Voi siete il futuro. La vostra musica è pura avanguardia. Cosa può desiderare di meglio una cantante se non essere la principale interprete di una musica del futuro?
  • 82. Rispetto a voi, Barbaja parte già sconfitto -. − Voglia il cielo ascoltarvi … dunque, avete letto le mie partiture e avete anche un'idea critica del mio stile di composizione … cavolo! Vi faccio i miei complimenti, maestro Fiorenza. È raro che, chi sta in orchestra, ascolti l'insieme anziché solo la propria parte o quella della propria sezione di strumenti - − In effetti, ascolto in questo modo perché ho anche un passato da copista. Ho collaborato parecchio col maestro Marinelli … a questo proposito, volevo chiedervi … chi sono i due copisti che lavorano per voi -. − Due … copisti … non capisco … - Rossini contrasse leggermente la sua fronte avvicinando le sopracciglia. Giacomo lo incalzò. − Si, sicuramente due. Ho visto che ci sono due diverse calligrafie negli spartiti dell'orchestra. Uno dei due copisti ha addirittura le stesse caratteristiche di scrittura che aveva un grande compositore che conobbi a Vienna tanto tempo fa … - Gioacchino interruppe Giacomo. Tutta la sua giovialità era sparita in un solo colpo. Si vedeva che tratteneva a stento la rabbia. − Scusatemi, maestro Fiorenza, ma il vino buono di quest'osteria mi sta facendo girare un po' la testa. Col vostro permesso, farei ritorno a casa.
  • 83. Buonanotte! - … e, senza aspettare risposta, s'alzò dal tavolino e, con passo spedito, andò via.
  • 84. CAPITOLO XXXVIII Albano Laziale (Roma) 2 maggio 1866 − Riusciste ad arrivare a scoprire qualcosa? - chiese Franz, all'improvviso, mentre i due uomini erano seduti nello studio dell'abate a bere una tisana. − Riguardo cosa, caro Franz? - − A proposito del misterioso copista di Rossini, mio buon Giacomo - − Ah! … mah! La faccenda del misterioso copista, come voi l'avete definito, ebbe lunghi strascichi ma, al San Carlo avemmo altro di cui doverci preoccupare - − Di cosa? - − Ora ci arrivo. Prima, però, volevo riallacciarmi a un argomento che abbiamo affrontato qualche giorno fa - − A cosa fate riferimento? - − Agli orchestrali. È vero che la nostra duttilità ci consente di suonare ora con quel compositore ora con quell'altro ma, se ci riflettete bene, per un orchestrale suonare con Marinelli, Mozart o con voi, non fa alcuna differenza -. − Beh! A parte il fatto che vi ringrazio per avermi
  • 85. accostato a Mozart, io penso che ci sia molta differenza tra l'uno e l'altro … - Giacomo lo fermò. − Ovvio che c'è differenza ma questa differenza è dovuta al periodo storico o al pubblico - − Il pubblico? Cosa c'entra il pubblico - − Il pubblico è l'unico artista oltre a chi compone. Noi orchestrali siamo la manovalanza dell'arte. Se ci pensate bene, ognuno di noi fa la sua piccola parte dell'insieme. È solo il pubblico che, non disponendo di elementi di conoscenza in grado di analizzare le singole parti, sente solo l'insieme … e dà il senso artistico al “tutto”. Il pubblico è l'unica forza capace di emozionarsi di fronte all'idea di un compositore o di un librettista - − Mah! Non so … è una riflessione molto profonda alla quale non avevo mai pensato - − Maestro Franz, noi orchestrali siamo il tramite tra l'ispirazione di partenza e l'emozione finale - Liszt tacque per molto tempo assorto in questo nuovo pensiero poi, disse: − Beh! Cosa successe di così importante al San Carlo da distogliervi nella vostra ricerca della verità nel caso “Rossini”? - − Ah! Questa è “storia”. Ora vi racconto … -
  • 86. CAPITOLO XXXIX L'incendio Napoli, febbraio 1816 Lentamente Giacomo, decidendo di non insistere più con le domande, fece l'abitudine a quell'insolita doppia grafia e fece cadere nell'oblio i suoi sospetti. Ciò non di meno si accorse che, di tanto in tanto, quando usciva dal teatro aveva preso l'abitudine di guardarsi intorno. Lo faceva distrattamente, senza uno scopo ben preciso. Fu così che, in più di un'occasione, notò in lontananza tre loschi figuri che bighellonavano spesso nei pressi del San Carlo, tutti e tre col capo coperto da una coppola. Era il 12 febbraio. Quel pomeriggio Giacomo aveva ricevuto notizia di essere diventato nonno. A trentott'anni.
  • 87. Amalia, la figlia mezzana, era corsa in teatro per avvisare suo padre che la moglie di Gaetano, il suo primogenito, aveva partorito. Quello stesso pomeriggio avrebbero chiamato Padre Peppino, il parroco di quartiere, per battezzare il nascituro col nome di Giacomo. Era tradizione dare al primo figlio maschio del primogenito il nome del nonno. Giacomo chiese un permesso al lavoro, si caricò in spalla il contrabasso e corse con Amalia verso casa. Il contrabasso gli serviva per suonare insieme all'anziano Nino, ormai bisnonno, alla festa improvvisata per il battesimo. Uscendo dal San Carlo, Giacomo vide le tre sagome ormai familiari appostate all'angolo dove il teatro diventava tutt'uno col palazzo reale. Stavolta non portavano la coppola e lui poté, fugacemente, guardarli in viso il tempo necessario perché essi si voltassero di spalle. In quel momento, anche a causa della fretta di correre a casa e del fardello che aveva sulle spalle, non realizzò chi fossero quei tre, sebbene i volti gli fossero familiari. Il bambino, Giacomino, era bellissimo, tre chili e duecento grammi, roseo, sano. Nonno Giacomo e nonna Emma piansero di commozione. Chi piangeva di più, però, erano la bisnonna Luisa e il bisnonno Gaetano.
  • 88. Quella sera, in casa del figlio di Giacomo c'erano tutti. Genitori, nonni, bisnonni, le sorelle di Gaetano, Amalia, non ancora sposata ma fidanzata con un commerciante e Luisa, gia sposata e già col pancione (motivo per cui era già sposata). C'erano anche Ciccio, il fratello più grande di Emma, purtroppo vedovo e senza figli e Nanninella 'a levatrice, la mamma di Emma. Era stata lei, seppur anziana a prendere il parto. Più tardi, in casa Fiorenza si aggiunsero anche Belcanto, Stocco e Fucci con le rispettive famiglie. Era già scesa la notte e a casa Fiorenza si festeggiava ancora quando si sentirono urla provenienti dalla strada. Nanninella, pur essendo la più anziana in quella casa, fu la prima a correre al balcone per sincerarsi di cosa fosse accaduto. Rientrò in casa con la stessa velocità con cui s'era affacciata ed esclamò. − Se sta appiccianno 'o triato! (Sta andando a fuoco il teatro!) - Come quando attaccavano a suonare un passo orchestrale, i quattro amici di sezione scattarono isoritmicamente e si precipitarono in strada. Davanti al San Carlo s'erano radunate un migliaio di persone che, passandosi i secchi d'acqua, cercavano di spegnere l'enorme incendio mentre altrettante persone
  • 89. erano accorse lì solo per poter dire poi “io c'ero”. L'incendio era scoppiato dall'interno del teatro. All'alba il rogo fu, finalmente, domato ma ormai … erano rovinati. Tutto ciò che si trovava entro le mura del teatro era ridotto in cenere. Arredi, documenti, scene, costumi, attrezzeria e strumenti musicali. Il contrabasso di atelier tedesco di Giacomo era l'unico strumento ad essersi salvato. Era stato salvato dalla nascita del suo nipotino.
  • 90. CAPITOLO XL La fine dei nemici Napoli 19 febbraio 1816 Una settimana dopo l'avvenimento di questo tragico incendio, Michele Belcanto e Francesco Fucci erano seduti su uno sperone di roccia di fronte al mare, silenziosi e mesti. Giacomo, accanto a loro, non trovava parole per consolarli. Giovanni Stocco, il più intraprendente di tutti, era andato a teatro per avere notizie e, in quel momento, fece ritorno. − Novità? - chiese Giacomo. Giovanni, con un po' di affanno, rispose: − Sono riuscito ad entrare in teatro. Tutto bruciato. Gli strumenti sono ridotti in cenere. Al posto di quella che era la buca, c'è un ammasso di fuliggine – Michele aprì bocca. − Mannaggia la … - Francesco l'interruppe.
  • 91. − Non bestemmiare! - Giovanni riprese la parola. − Non ci sono solo brutte notizie -. − Ah davvero? … - fece Michele - … e qual'è la buona? Che con la cenere dei nostri strumenti ci faranno il sapone? - − Lascialo parlare, Miche'! - disse Giacomo. Giovanni continuò. − Il Re non accetta l'idea di perdere il suo teatro. Ha dato ordine che venga ricostruito tutto quanto è andato perso con l'incendio. Ho visto Barbaja che parlava co 'o schiavuttiello de 'o Re (“Lo schiavetto del Re” letteralmente per indicare il messo reale) … è un genio - − Chi? 'O schiavuttiello? - fece Francesco. − No, Barbaja. Pensate, lo ha convinto che la strumentazione è necessaria e urgente. Ha detto: “I musicisti hanno bisogno degli strumenti al più presto perché, senza gli strumenti, questi non si possono esercitare e, se perdono l'allenamento, dopo suonano come una qualunque orchestra di Roma, Milano, Vienna o Parigi. Smetterebbero di dare lustro alla nostra maestà Re Ferdinando, che Dio lo protegga” -. − E cosa gli ha risposto quello? - − Era insofferente perché era solo la centesima cosa che gli chiedeva il nostro impresario ma poi, s'è voltato verso un signore che aveva penna
  • 92. e fogli e gli ha detto: “Annotate, contabile!” e, a quel punto, Barbaja ha avuto anche la faccia tosta di aggiungere: “Mi raccomando, metteteci vicino la parola urgente”. A breve, sarete convocati per andare a Porta Alba a visionare la costruzione dei vostri nuovi strumenti. Appena forniranno tutta la strumentazione all'orchestra, faremo i nostri spettacoli in altri teatri finché non sarà pronto il nostro. Che ne dite? -. Il sorriso tornò sul volto di Michele e di Francesco con qualche “Evviva!” di contorno offerto da Giacomo. Giovanni riprese la parola. − E ora tenetevi forte! Ho lasciato la notizia migliore per ultima - − Che altro c'è? - chiese Francesco − In teatro, tra le macerie, sono stati trovati tre corpi carbonizzati. Sospettano che siano gli artefici dell'incendio. Io sono riuscito a vederli. Sono irriconoscibili … ma solo per chi non se l'immagina da vivi … e io ho capito di chi si tratta - − Forza! I nomi di questi tre pezzi di merda muort' e bbuoni (malgrado siano morti) – disse Francesco. − Vediamo un po' … di uno ho riconosciuto il capoccione, di un altro ho visto un occhio e del terzo ho visto che era alto e che aveva grandi
  • 93. mani - − Mannaggia 'a miseria … - esclamò Giacomo - … ecco chi erano quei tre che ho intravisto ieri pomeriggio … era già da un po' di tempo che gironzolavano intorno al San Carlo … non ci posso credere … 'sti figli 'e cantero (figli di vasi da notte) - − Mo pure tu? … - sbottò Michele - … ce li dici 'sti nomi o mi devo incazzare? - − Volentieri: Bossolo, Laido e Mappaluna … - disse Giacomo. Poi, rivolto a Giovanni - … ho indovinato? - − Si! - rispose lui. − Ma so' muort' pure 'a strunz! (Ma sono morti pure da stupidi!) … - disse Francesco - … hanno appiccato l'incendio e non sono scappati? -. A quel punto, Giovanni spiegò cosa fosse, presumibilmente, accaduto. − Ho sentito il capo dei gendarmi che lo spiegava a Barbaja. Hanno appiccato l'incendio poco prima della mezzanotte e, quando stavano per uscire devono aver visto i gendarmi fuori dal teatro. Probabilmente era proprio l'ora in cui girava la ronda notturna. Devono aver scelto di scappare dall'uscita secondaria ma, la quantità di drappi del sipario e dei palchi doveva aver preso fuoco molto più velocemente di quanto si erano
  • 94. aspettati, bloccando quell'andito. Quando hanno deciso di tentare la sortita dall'uscita artisti, dove poi i gendarmi hanno trovato i loro cadaveri, il fumo doveva aver già invaso completamente quell'ambiente e, probabilmente, i tre hanno perso i sensi. Il fuoco ha fatto il resto -. Francesco commentò. − Allora mi devo correggere. Sono morti da “strunz' sfurtunati”-. Michele, che aveva ascoltato il racconto, commentò. − Che bastardi! Ma come si può contemplare l'idea di distruggere il più bel teatro del mondo? Quanto bisogna essere marci dal di dentro per pianificare questo delitto? - A Michele fu Giacomo a rispondere. − Non ti dimenticare quanto mi hanno fatto. Farò peccato e chiedo scusa a Nostro Signore ma l'idea che quei tre delinquenti ora stiano marcendo all'inferno mi mette di buonumore -. Giovanni ne approfittò immediatamente. − Allora, pizza? - − Pizza! - risposero gli altri tre.
  • 95. CAPITOLO XLI L'ultimo applauso Napoli, 16 aprile 1816 I due mesi successivi all'incendio del teatro furono frenetici. Tutti i musicisti del San Carlo, escluso Giacomo, si recarono dai liutai più in vista della città per farsi costruire i nuovi strumenti. Barbaja, un uomo che sapeva badare al centesimo, aveva già fatto il giro di tutte le botteghe. Ad ognuno dei liutai che contattava diceva che un suo concorrente commerciale gli aveva fatto prezzi più vantaggiosi, di quelli che lui gli stava proponendo. In tal modo, riuscì ad avere i prezzi più vantaggiosi dai migliori liutai della città.
  • 96. Ci fu chi comprò un Gagliano, chi un Vinaccia, un Ventapane o uno Jorio. Alla consegna dei loro strumenti, tutti costruiti da Gagliano, i tre amici contrabassisti Fucci, Stocco e Belcanto, accompagnati da Giacomo, entrarono nella bottega del maestro liutaio e li provarono a turno facendo affacciare i passanti incuriositi dai muggiti di questi mobili suonanti. Quel giorno Giacomo compiva trentanove anni. All'uscio della bottega del maestro Gagliano, s'affacciò un uomo anziano di circa ottant'anni (almeno gli anni che dimostrava). Giacomo fu il primo a riconoscerlo. − Maestro Paisiello! - − Chi … ? Ah! Giacomi', stai qua? … ci siete tutti … buongiorno, maestri -. Il maestro non aveva più sul viso quel sorriso gioviale che lo accompagnava dacché Giacomo lo conosceva. Aveva, piuttosto, un'espressione vacua e leggermente assente. Giacomo se n'accorse subito. Mollò lo strumento che stava provando, quello di Michele, tra le mani del futuro proprietario e gli andò incontro. − Maestro Paisiello, che piacere vedervi. Come state? - gli chiese. − Eh, che ti devo dire? Sto come stanno i vecchi, uno schifo - − Ma che dite? Vi trovo in forma perfetta – mentì lui.