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Al riparo dal nulla
Racconto tratto da
Il sapore del pane
di Massimo Folador
Edizioni Angelo Guerini e Associati SpA
Di tanto in tanto devi voltarti attorno per evitare di sentirti schiacciato
da voci e pensieri che si accavallano, urlano, corrono su e giù per le
grondaie, tra le crepe dei muri, fin dentro ai tombini, capaci di
insinuarsi anche là dove vorresti trovare un angolo di pace. Sei solo,
eppure da ogni finestra della stanza pare debbano sempre affacciarsi
da un momento all’altro due occhi stralunati e cattivi; occhi di fuoco,
lucidi come la febbre.
Chissà perché finisci sempre per immaginarli così, anche se fino a oggi,
tutto sommato, non ti è mai parso di vedere persone maligne a spasso
tra i corridoi. Stralunati sì, tantissimi, gente buffa che veste in modo
strampalato e parla di continuo ad alta voce, uomini e donne per cui la
vita è finita già da tempo. Tutti però hanno gli occhi buoni e ti salutano
ogni volta che li incroci nelle corsie.
Nonostante la fatica e la rabbia accumulate in questi mesi, stasera,
forse per la prima volta, avverti la sensazione di aver trovato un
angolo di quiete, proprio qui, dentro questa camera bianca e senza
spigoli, accovacciato fra letti e comodini; è una camera senza nome, né
suono o colore, un luogo che non ti appartiene ma esiste e ti protegge.
Da anni non ti accadeva di farti accarezzare dal silenzio, quello buono
che sa mettere al posto giusto ogni cosa e si diverte a gettare in un
angolo i rumori.
Nulla a che vedere con il senso di atonia che compare talvolta a fianco
della solitudine, quel silenzio assordante che sfianca le menti abusate e
si intrufola là dove c’è rabbia e dolore. Oggi ti rendi conto di quanto sia
diverso perché il respiro è pacato, così come i pensieri; non puoi
sbagliarti, visto che purtroppo sai bene cosa significhi provare il
contrario.
Dentro a questa calma apparente riesci a ricordare senza rabbia
persino i tuoi capi, preoccupati soltanto alla fine di avvertirti che forse
stavi eccedendo o, peggio ancora, che avevi già varcato la soglia da un
pezzo.
Esiste per ciascuno una misura, un giusto equilibrio nel fare le cose e
quando quest’ultimo si logora per troppo tempo, non è semplice
tornare indietro; te ne rendi conto ora che galleggi per questi corridoi
infiniti e aspetti la sera come una medicina. In effetti bastava poco ad
accorgersi verso quale baratro stavi correndo, fra giornate che
arrancavano e si trascinavano fin dove è possibile e la notte tenuta
assieme dai caffè. In ogni momento ti sfilavano davanti cose e persone
senza volto e poi rumori, dappertutto: sorrisi, incontri, riunioni. Ti sei
trovato in fondo al pozzo senza neppure accorgertene, una notte
insonne, poi un’altra, tua moglie che non parla, i figli che ti squadrano
come fossi uno sconosciuto e la mattina ti lasciano sul tavolo dei
biglietti sibillini. Per non parlare del lavoro che diventa ogni giorno di
più improba fatica, sempre più difficile da allontanare.
Pensare che all’inizio sembrava tutto così semplice e fattibile, quasi un
gioco le cui regole sono da imparare in fretta ma lasciano il tempo di
sbagliare. I colleghi attorno ti sorridono sereni, il tempo trascorre
scandito dagli impegni e dai soldi. Invece improvvisamente ti accorgi
che tutto si sta trasformando in un gran casino; i giorni si
sovrappongono, tutti diversi ma tutti tremendamente uguali e dentro
alle ore vivi un deserto di emozioni e la sensazione di una strada
perennemente in salita.
Provi allora a mettere ordine, a rallentare, ma ti rendi conto di quanto
sia inutile farlo mentre la macchina è in moto. Le novità e i pensieri su
ciò che è giusto fare richiedono tempo e tu ne hai sempre meno, ormai
sei costretto a rintuzzare le urgenze, nella speranza che per un po’ ti
lascino in pace. Così non resta altro da fare che osservare la corsa da un
finestrino e sperare che rallenti. Anche tua moglie, finché ha potuto, è
rimasta a guardare, col fare corrucciato di chi fatica a capire; poi
finalmente ha deciso di lasciarti andare per la tua strada ed è stata la
prima di una lunga serie.
Di buono oggi c’è la stanza che ti accoglie, così vasta e scarna da dare
l’idea di un simulacro composto da un letto al centro, un armadio
bianco e i comodini con sopra una pila di libri. Gli infermieri
continuano a prometterti la televisione ma per ora tutto tace e ti fanno
compagnia soltanto i pensieri e poche emozioni fuggevoli. Il luogo
dove ti hanno costretto a riposare è strano, vi regna un odore perenne
di candeggina che rasenta i muri e impregna le lenzuola; tappeti
consunti sono sparsi dappertutto e alle pareti sono appesi quadri
orribili. Le ore sembrano buttate qua e là, quasi fossero monili di creta,
tutte diverse e nel contempo tutte scandite dalla stessa noia.
Soltanto sui tavoli c’è traccia di vita: i vassoi colorati di cibo, i piatti
sporchi e qualche bicchiere rosso di un vino acido e caldo. Sei rintanato
qui dentro da poco tempo ma già ti escono dagli occhi le minestre
mezze fredde che hai dovuto trangugiare, il pane raffermo e l’eterno
purè di patate, quello che secondo gli infermieri fa bene ma a te
sembra raggrumare gli scarti della settimana.
Una clinica è sempre una clinica, anche se a loro piace chiamarla in un
modo diverso perché i nomi esotici camuffano la verità e aiutano chi li
ha inventati a mettersi il cuore in pace; non servono nemmeno a chi
dietro a quei nomi vive da mattina a sera, tanto più se si tratta di una
persona esaurita o di un matto, come a qualcuno verrebbe voglia di
chiamarti. La vita è proprio strana quando presenta conti che mai
avresti pensato di pagare; hai fatto migliaia di chilometri e riunioni per
salire in alto e oggi non sei neppure certo di aver toccato il fondo. Chi
ti viene a trovare usa parole buone e piene di compiacimento, racconta
di futuro, di viaggi e di un nuovo lavoro. Non sanno però quanto pesa
il rimorso e quanto costa oggi sentirsi una mezza persona; forse
conoscono le disillusioni ma non quelle che bruciano fino a bloccare il
respiro e lasciano un uomo senza nome. Te ne eri reso conto da un
pezzo, certo, quando la notte faticavi a dormire o la mattina riuscivi
giusto a trovare la forza di alzarti ma non quella di urlare, ma è
proprio questo che con il passare del tempo ti frega. Quando si è
arrivati al capolinea scatta istintiva la necessità di sentirsi vivi, ed è
questa presunzione che spesso non permette di ascoltare fino in fondo
il dolore, quello stesso che, prima o poi, ti costringe a toccare il fondo.
Non hai scelto tu di finire dentro questo posto, ti ci hanno messo a
forza quando si sono resi conto che vaneggiavi, quando d’un tratto
tutto il mondo attorno è crollato, come dopo un terremoto che lascia
intatto ciò che appare ma squarcia il resto nel profondo. Per chi ti
osserva da lontano nulla è cambiato, se non lo sguardo più astruso e
triste mentre tu sai di essere divenuto un altro, una figura esile e senza
forza, un pivello guidato da paure e illusioni. Soltanto i bambini
parevano aver intuito qualcosa e ti guardavano docili in attesa di
comprendere il resto. Così quando ti hanno ricoverato di forza in
questa clinica hai tirato un respiro di sollievo, un poco ancora e avresti
perso perfino la forza di pensare.
Da allora è trascorso un tempo strano, senza nome e dal futuro incerto.
È perfida la malattia che cattura chi non ha più la forza di lottare; forse
sai da dove arriva ma non verso quale direzione poterla allontanare, la
puoi definire nei dettagli ma non basta per poterla camuffare. Eppure
proprio oggi, per la prima volta dopo tanti mesi, ti sembra di respirare
e persino questo luogo, così inospitale e oscuro, pare più accogliente
del solito. Guardi i muri imbiancati da poco, le finestre con i vetri
appannati, le piante finte lungo il corridoio; non hanno nulla a che
vedere con gli ambienti raffinati ed eleganti che hai frequentato per
anni, con i lustrini e i profumi inebrianti a cui tenevi tanto. Però dietro
a quelle finestre ora ti sembra di riassaporare il gelo di un nuovo
inverno, l’aria fine e tenace, la luce sfuggente di novembre. Li puoi
toccare con mano e accarezzarli quasi, come sapevi fare un tempo,
quando la solitudine era il tuo luogo protetto e ti divertiva sfidarla
quasi fosse un’amica.
Oggi la sfida è un’altra: tornerai ad aspettare l’inverno o finirai per
accucciarti impaurito dentro a queste stanze? Ti farà da cornice la
primavera o potrai solo annusarla da dietro i vetri? Quando hai
iniziato a sentirti male stavi chiuso in ufficio per ore, tra numeri e
persone che faticavi a capire; finché hai potuto, hai deciso di barare,
ma qui non puoi nasconderti ai pensieri. Se in quei giorni la
disperazione ha placato la paura, qui te la senti addosso a ogni ora e fai
bene ad ascoltarla, mentre rimbalza tra i tappeti e le voci monotone
degli infermieri; forse proprio guardandola negli occhi ti riuscirà di
capire.
Ti alzi di nuovo e torni verso la finestra. L’inverno è già negli alberi, tra
i viottoli del parco e nei silenzi che gravitano attorno. Da dietro il vetro
ti sembra di sfiorare con il naso l’aria gelida e di sentire sulla pelle un
pezzo di quel sole fioco; d’inverno la vita si rannicchia dove è più
comodo trovare riposo e dentro a quei rifugi si ostina a palpitare,
spesso nelle crepe profonde delle case, talvolta nelle stanze di un
ospedale. Lì puoi incontrarla, se sai guardare in faccia il tuo male,
proprio nel momento in cui ogni ora racconta di un tempo gravido di
abbandono, quando ti senti stanco morto e senza la forza di
ricominciare.
Per questo ti ostini a fissare l’inverno dalla finestra e la sua morte
apparente dentro una vita che riposa. È quello che ti sembra d’essere
ora: un recluso, qualcuno che non è certo di fuggire; eppure se provi ad
ascoltarti, trovi solo briciole di paura ma non la camicia di forza che ti
hanno regalato come benvenuto.
Forse è stata così tanta la fatica di vivere negli ultimi mesi che adesso
serve soltanto riposare, lasciare i pensieri liberi di aggrovigliarsi e
tornare a volare, annusare adagio quel po’ di vita assurda che questo
luogo ti concede di avere, sentirsi ancora chiamato per nome e contare
i giorni di un nuovo destino. Se ti fossi accorto prima di quanta vita
esiste nel silenzio forse avresti evitato tanto dolore, innanzitutto a te
stesso e alle persone care che non hanno saputo attenderti, poi a quelle
sconosciute che si stanno chiedendo ancora come tu possa essere finito
così in basso.
Così vanno spesso le cose e così probabilmente devono andare; c’è un
tempo giusto per ogni cosa sotto il sole, dice una scrittura antica, un
tempo per nascondersi e forse uno per tornare, per riprovare a vivere
qui, adesso, tra queste quattro mura che sembrano costruite per
accogliere soltanto tristezza. Così guardi ancora fuori verso gli alberi
del viale, le fronde spoglie, i rami contorti e scuri; domani con un po’
di pazienza imparerai a contarli uno a uno, a coltivare in silenzio la
loro compagnia, giorno dopo giorno, per non strafare.
Guai usare oggi il silenzio come hai adoperato la vita per anni; servono
invece labbra sottili e poca voglia di parlare, occorre una preghiera,
ecco sì, una preghiera.Chissà che così facendo quest’anno la primavera
non arrivi prima del previsto.
!
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Askesis | "Al riparo dal nulla" di Massimo Folador

  • 1. Al riparo dal nulla Racconto tratto da Il sapore del pane di Massimo Folador Edizioni Angelo Guerini e Associati SpA
  • 2. Di tanto in tanto devi voltarti attorno per evitare di sentirti schiacciato da voci e pensieri che si accavallano, urlano, corrono su e giù per le grondaie, tra le crepe dei muri, fin dentro ai tombini, capaci di insinuarsi anche là dove vorresti trovare un angolo di pace. Sei solo, eppure da ogni finestra della stanza pare debbano sempre affacciarsi da un momento all’altro due occhi stralunati e cattivi; occhi di fuoco, lucidi come la febbre. Chissà perché finisci sempre per immaginarli così, anche se fino a oggi, tutto sommato, non ti è mai parso di vedere persone maligne a spasso tra i corridoi. Stralunati sì, tantissimi, gente buffa che veste in modo strampalato e parla di continuo ad alta voce, uomini e donne per cui la vita è finita già da tempo. Tutti però hanno gli occhi buoni e ti salutano ogni volta che li incroci nelle corsie. Nonostante la fatica e la rabbia accumulate in questi mesi, stasera, forse per la prima volta, avverti la sensazione di aver trovato un angolo di quiete, proprio qui, dentro questa camera bianca e senza spigoli, accovacciato fra letti e comodini; è una camera senza nome, né suono o colore, un luogo che non ti appartiene ma esiste e ti protegge.
  • 3. Da anni non ti accadeva di farti accarezzare dal silenzio, quello buono che sa mettere al posto giusto ogni cosa e si diverte a gettare in un angolo i rumori. Nulla a che vedere con il senso di atonia che compare talvolta a fianco della solitudine, quel silenzio assordante che sfianca le menti abusate e si intrufola là dove c’è rabbia e dolore. Oggi ti rendi conto di quanto sia diverso perché il respiro è pacato, così come i pensieri; non puoi sbagliarti, visto che purtroppo sai bene cosa significhi provare il contrario. Dentro a questa calma apparente riesci a ricordare senza rabbia persino i tuoi capi, preoccupati soltanto alla fine di avvertirti che forse stavi eccedendo o, peggio ancora, che avevi già varcato la soglia da un pezzo. Esiste per ciascuno una misura, un giusto equilibrio nel fare le cose e quando quest’ultimo si logora per troppo tempo, non è semplice tornare indietro; te ne rendi conto ora che galleggi per questi corridoi infiniti e aspetti la sera come una medicina. In effetti bastava poco ad accorgersi verso quale baratro stavi correndo, fra giornate che arrancavano e si trascinavano fin dove è possibile e la notte tenuta assieme dai caffè. In ogni momento ti sfilavano davanti cose e persone senza volto e poi rumori, dappertutto: sorrisi, incontri, riunioni. Ti sei trovato in fondo al pozzo senza neppure accorgertene, una notte insonne, poi un’altra, tua moglie che non parla, i figli che ti squadrano come fossi uno sconosciuto e la mattina ti lasciano sul tavolo dei biglietti sibillini. Per non parlare del lavoro che diventa ogni giorno di più improba fatica, sempre più difficile da allontanare.
  • 4. Pensare che all’inizio sembrava tutto così semplice e fattibile, quasi un gioco le cui regole sono da imparare in fretta ma lasciano il tempo di sbagliare. I colleghi attorno ti sorridono sereni, il tempo trascorre scandito dagli impegni e dai soldi. Invece improvvisamente ti accorgi che tutto si sta trasformando in un gran casino; i giorni si sovrappongono, tutti diversi ma tutti tremendamente uguali e dentro alle ore vivi un deserto di emozioni e la sensazione di una strada perennemente in salita. Provi allora a mettere ordine, a rallentare, ma ti rendi conto di quanto sia inutile farlo mentre la macchina è in moto. Le novità e i pensieri su ciò che è giusto fare richiedono tempo e tu ne hai sempre meno, ormai sei costretto a rintuzzare le urgenze, nella speranza che per un po’ ti lascino in pace. Così non resta altro da fare che osservare la corsa da un finestrino e sperare che rallenti. Anche tua moglie, finché ha potuto, è rimasta a guardare, col fare corrucciato di chi fatica a capire; poi finalmente ha deciso di lasciarti andare per la tua strada ed è stata la prima di una lunga serie. Di buono oggi c’è la stanza che ti accoglie, così vasta e scarna da dare l’idea di un simulacro composto da un letto al centro, un armadio bianco e i comodini con sopra una pila di libri. Gli infermieri continuano a prometterti la televisione ma per ora tutto tace e ti fanno compagnia soltanto i pensieri e poche emozioni fuggevoli. Il luogo dove ti hanno costretto a riposare è strano, vi regna un odore perenne di candeggina che rasenta i muri e impregna le lenzuola; tappeti consunti sono sparsi dappertutto e alle pareti sono appesi quadri orribili. Le ore sembrano buttate qua e là, quasi fossero monili di creta, tutte diverse e nel contempo tutte scandite dalla stessa noia.
  • 5. Soltanto sui tavoli c’è traccia di vita: i vassoi colorati di cibo, i piatti sporchi e qualche bicchiere rosso di un vino acido e caldo. Sei rintanato qui dentro da poco tempo ma già ti escono dagli occhi le minestre mezze fredde che hai dovuto trangugiare, il pane raffermo e l’eterno purè di patate, quello che secondo gli infermieri fa bene ma a te sembra raggrumare gli scarti della settimana. Una clinica è sempre una clinica, anche se a loro piace chiamarla in un modo diverso perché i nomi esotici camuffano la verità e aiutano chi li ha inventati a mettersi il cuore in pace; non servono nemmeno a chi dietro a quei nomi vive da mattina a sera, tanto più se si tratta di una persona esaurita o di un matto, come a qualcuno verrebbe voglia di chiamarti. La vita è proprio strana quando presenta conti che mai avresti pensato di pagare; hai fatto migliaia di chilometri e riunioni per salire in alto e oggi non sei neppure certo di aver toccato il fondo. Chi ti viene a trovare usa parole buone e piene di compiacimento, racconta di futuro, di viaggi e di un nuovo lavoro. Non sanno però quanto pesa il rimorso e quanto costa oggi sentirsi una mezza persona; forse conoscono le disillusioni ma non quelle che bruciano fino a bloccare il respiro e lasciano un uomo senza nome. Te ne eri reso conto da un pezzo, certo, quando la notte faticavi a dormire o la mattina riuscivi giusto a trovare la forza di alzarti ma non quella di urlare, ma è proprio questo che con il passare del tempo ti frega. Quando si è arrivati al capolinea scatta istintiva la necessità di sentirsi vivi, ed è questa presunzione che spesso non permette di ascoltare fino in fondo il dolore, quello stesso che, prima o poi, ti costringe a toccare il fondo.
  • 6. Non hai scelto tu di finire dentro questo posto, ti ci hanno messo a forza quando si sono resi conto che vaneggiavi, quando d’un tratto tutto il mondo attorno è crollato, come dopo un terremoto che lascia intatto ciò che appare ma squarcia il resto nel profondo. Per chi ti osserva da lontano nulla è cambiato, se non lo sguardo più astruso e triste mentre tu sai di essere divenuto un altro, una figura esile e senza forza, un pivello guidato da paure e illusioni. Soltanto i bambini parevano aver intuito qualcosa e ti guardavano docili in attesa di comprendere il resto. Così quando ti hanno ricoverato di forza in questa clinica hai tirato un respiro di sollievo, un poco ancora e avresti perso perfino la forza di pensare. Da allora è trascorso un tempo strano, senza nome e dal futuro incerto. È perfida la malattia che cattura chi non ha più la forza di lottare; forse sai da dove arriva ma non verso quale direzione poterla allontanare, la puoi definire nei dettagli ma non basta per poterla camuffare. Eppure proprio oggi, per la prima volta dopo tanti mesi, ti sembra di respirare e persino questo luogo, così inospitale e oscuro, pare più accogliente del solito. Guardi i muri imbiancati da poco, le finestre con i vetri appannati, le piante finte lungo il corridoio; non hanno nulla a che vedere con gli ambienti raffinati ed eleganti che hai frequentato per anni, con i lustrini e i profumi inebrianti a cui tenevi tanto. Però dietro a quelle finestre ora ti sembra di riassaporare il gelo di un nuovo inverno, l’aria fine e tenace, la luce sfuggente di novembre. Li puoi toccare con mano e accarezzarli quasi, come sapevi fare un tempo, quando la solitudine era il tuo luogo protetto e ti divertiva sfidarla quasi fosse un’amica.
  • 7. Oggi la sfida è un’altra: tornerai ad aspettare l’inverno o finirai per accucciarti impaurito dentro a queste stanze? Ti farà da cornice la primavera o potrai solo annusarla da dietro i vetri? Quando hai iniziato a sentirti male stavi chiuso in ufficio per ore, tra numeri e persone che faticavi a capire; finché hai potuto, hai deciso di barare, ma qui non puoi nasconderti ai pensieri. Se in quei giorni la disperazione ha placato la paura, qui te la senti addosso a ogni ora e fai bene ad ascoltarla, mentre rimbalza tra i tappeti e le voci monotone degli infermieri; forse proprio guardandola negli occhi ti riuscirà di capire. Ti alzi di nuovo e torni verso la finestra. L’inverno è già negli alberi, tra i viottoli del parco e nei silenzi che gravitano attorno. Da dietro il vetro ti sembra di sfiorare con il naso l’aria gelida e di sentire sulla pelle un pezzo di quel sole fioco; d’inverno la vita si rannicchia dove è più comodo trovare riposo e dentro a quei rifugi si ostina a palpitare, spesso nelle crepe profonde delle case, talvolta nelle stanze di un ospedale. Lì puoi incontrarla, se sai guardare in faccia il tuo male, proprio nel momento in cui ogni ora racconta di un tempo gravido di abbandono, quando ti senti stanco morto e senza la forza di ricominciare. Per questo ti ostini a fissare l’inverno dalla finestra e la sua morte apparente dentro una vita che riposa. È quello che ti sembra d’essere ora: un recluso, qualcuno che non è certo di fuggire; eppure se provi ad ascoltarti, trovi solo briciole di paura ma non la camicia di forza che ti hanno regalato come benvenuto.
  • 8. Forse è stata così tanta la fatica di vivere negli ultimi mesi che adesso serve soltanto riposare, lasciare i pensieri liberi di aggrovigliarsi e tornare a volare, annusare adagio quel po’ di vita assurda che questo luogo ti concede di avere, sentirsi ancora chiamato per nome e contare i giorni di un nuovo destino. Se ti fossi accorto prima di quanta vita esiste nel silenzio forse avresti evitato tanto dolore, innanzitutto a te stesso e alle persone care che non hanno saputo attenderti, poi a quelle sconosciute che si stanno chiedendo ancora come tu possa essere finito così in basso. Così vanno spesso le cose e così probabilmente devono andare; c’è un tempo giusto per ogni cosa sotto il sole, dice una scrittura antica, un tempo per nascondersi e forse uno per tornare, per riprovare a vivere qui, adesso, tra queste quattro mura che sembrano costruite per accogliere soltanto tristezza. Così guardi ancora fuori verso gli alberi del viale, le fronde spoglie, i rami contorti e scuri; domani con un po’ di pazienza imparerai a contarli uno a uno, a coltivare in silenzio la loro compagnia, giorno dopo giorno, per non strafare. Guai usare oggi il silenzio come hai adoperato la vita per anni; servono invece labbra sottili e poca voglia di parlare, occorre una preghiera, ecco sì, una preghiera.Chissà che così facendo quest’anno la primavera non arrivi prima del previsto.
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