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Racconti
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INDICE
Introduzione
La Fine del Giorno
(Anilda Ibrahimi )
So Tutto
(Marcello Fois)
La Luna e le Malve
(Nadia Terranova)
Tra Adesso e Forse
(Paolo Di Paolo)
La Felicità a Matera
(Antonio Pascale)
Resurrection
(Mariolina Venezia)
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INTRODUZIONE
Quando, nel 2006, è stato pubblicato per Einaudi il mio romanzo Mille anni che sto qui,
ambientato in Basilicata, mi chiedevo come sarebbe stato accolto dagli abitanti della
regione.
Non sempre si ha piacere nel vedersi ritratti, e ci si riconosce nello sguardo dell’altro. Al di
là di ogni mia aspettativa, l’accoglienza è stata entusiastica.
Era come se i lucani aspettassero di essere raccontati, con uno sguardo contemporaneo,
diverso da quello di Levi e del Cristo si è fermato a Eboli, per tanti decenni immagine della
regione nel mondo. I tempi erano maturi.
Presto sono arrivate altre narrazioni, come Basilicata coast to coast, che hanno
drasticamente trasformato la percezione dei luoghi. Sono arrivate nuove avventure,
culminate con l’elezione di Matera a Capitale della Cultura.
La città, in piena trasformazione, e proiettata verso il futuro proprio grazie al recupero del
suo passato, ha oggi più che mai bisogno di narrazioni. Raccontare un luogo, dall’interno e
dall’esterno, contribuisce a creare la sua identità.
Di qui è nata l’idea di invitare cinque scrittori, alcuni italiani, di vari luoghi dell’Italia, una
albanese, in una breve residenza artistica a Matera, per poter raccontare la città.
All’iniziativa ho partecipato anch’io, per uno sguardo più dall’interno. Alla fine della
settimana di soggiorno sono stati prodotti sei racconti da “restituire” agli abitanti di Matera
e a coloro che frequentano la città. I sei racconti di Raccontamatera lasceranno un segno
nel suo immaginario....”
Mariolina Venezia
Direttore Artistico di “RaccontaMatera”
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LA FINE DEL GIORNO - Anilda Ibrahimi
Vivi nella grande casa abbandonata da tutti, Nausicaa mia. Non hai mai
saputo cosa fartene della sua grandezza. A te, poco spazio serviva. Un posto
dove raccogliere le tue stanche ossa alla fine. Un rifugio per l'immobile canto
dei tuoi dipinti di pietra.
E invece ti sei consumata poco a poco rintanata nelle sgombre stanze.
Guardando il mondo dalle tue finestre, le stesse cose Nausicaa, hai rimirato
giorno dopo giorno finché non arrivava la fine. Quando lo scirocco impazzava
nelle Murge come un rasoio affilato e le tempeste piovevano limpidi uccelli
morti sul Bradano.
Triste Nausica, armata di carni e di luci, bagnata dai raggi che
illuminano i sassi. Leggiadra ti fermi davanti ai grandi armadi dal legno opaco,
oh, Nausicaa, una volta erano lucidi, ricordi? Tu, con le tue mani giorno dopo
giorno hai tolto quell’ingannevole involucro che li avvolgeva. Non amavi i
colori, il loro uso sembrava aggravare il peso del mondo. A te piaceva il
bianco e le trasparenze dove si muoveva il tuo esile corpo.
Qui non c'è posto per i colori, dicevi sempre. Questo luogo non
permette sbavature.
Tacciono le rose rosse del tuo giardino. L’unico colore che hai tollerato.
A volte le portavi dentro casa. Tagliavi con cura le spine dai gambi e le
mettevi nel vaso bianco sul tuo comodino. Cantano all’amore stasera, ti dicevi
mentre dissolvevano il rosso dei petali, sognavi abbracci, teneri come l'erba,
bagnati di luna e pioggia.
Invece sei rimasta sola.
Il tuo bel brigante è solo un'ombra che si allontana nella notte mentre la
“tramnden” attraversa la Gravina.
Come riempire lo spazio?
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A volte bussano alla tua porta. Ti copri con un lungo velo fino alla punta
dei piedi. Apri la porta al garzone del pane. Lui barcolla ubriaco della tua
bellezza. Ha sempre spaventato questa, tua madre, le tue cugine, le donne
del paese. Si è sazi delle piogge, ma la bellezza non sazia, tutti ti avrebbero
guardata. Nessuno ti ha chiesta in moglie.
Il garzone ti allunga una pagnotta. Chissà il timbro di chi porta. Non te
lo chiedi più. Non vogliono che patisca la fame. Del resto, cosa prenderà la
morte quando giungerà?
Chiudi la porta al garzone e accogli l’aridità dell’aria con noncuranza,
aspettando la grande notte dove il tempo sarà immobile. Fusa con la terra
vivrai una nuova giovinezza, sentirai suonare le campane e vagherai per
sempre cercando il tuo bel brigante spogliata fino all'osso dal desiderio.
All’imbrunire accendi i ceri dentro le candeliere appese al muro. La luce
forte ti disturba, le altre presenze nella grande casa non gradiscono.
Finisce mai la condanna per chi rimane? Pensi mentre giri nella grande
casa. Avresti potuto andare. Liberare la tua follia in altri abissi, in terre di
nessuno. Portare il peso inerme dei tuoi Sassi all’orizzonte e spargere tutto
sul volo degli uccelli. Sulle loro ali incurvate e gli occhi scavati. Sui becchi
con i quali avrebbero bussato sulle finestre delle città vecchie e stanche
coperte dalla polvere.
E invece sei rimasta, Nausicaa dagli occhi chiari, affamati si muovono
in cerca di quello che sempre manca. Chiami il tuo nome in mezzo alle
statue che ti tengono compagnia. La tua voce echeggia sui comignoli della
città. Bianche colombe sospese nel vento.
Vorresti correre fuori e salire in quel groviglio di tetti, libera, scalza,
come avevi visto fare altri bambini. Tua madre non te lo lasciava fare, ora che
non c'è più potresti, Nausicaa. Tante cose potresti fare ora.
Ma il corpo non ti obbedisce. Cerca disperato gli arti scomposti nel letto.
I nodi delle mani, dei piedi, dove sono finiti? Come tradisce il corpo, il nostro
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corpo, Nausicaa. Grande tradimento questo, non è il più grande di tutti? Che
sarà mai il tradimento dell'uomo o della donna amata, il suo odore nel letto
altrui, il corpo raccolto come un pugno chiuso.
Inganna la sorte, Nausicaa dalle braccia bianche. Ognuno sotto la sua
stella, la tua non è stata buona con te.
Dopo, ti avevano detto di lasciare la casa, troppo grande per te.
Scuotevi la testa e non rispondevi mai. Come si fa a lasciare una casa? Cosa
prendi, cosa lasci?
Dove rimangono i ricordi? Come si fa a catturali? Chi giace sotto una
finestra, chi si nasconde dentro l’armadio opaco del corridoio, chi sul mosaico
della cucina e chi nei capelli mielati del dipinto all’ingresso. Ci si perde in una
vasta dissolvenza, senza speranza.
Hai sperato invece, che lui tornasse.
Tornerà, ti ripetevi mentre seppellivi i tuoi morti. Confusa dal dolore
rivivi quel momento all'infinito. La torcia illuminava i loro volti senza vita e tu
sei uscita dal tuo nascondiglio.
Ti sei messa accanto a tua madre aspettando la fine. Lui, si è chinato e
ti ha preso per il braccio. Non hai avuto tempo di guardarlo bene, dalla porta
giungevano voci e passi. Nasconditi, ti ha detto. Hai visto il tremore che
percorreva il suo corpo. Aveva freddo? Ti ha spinto dentro l'armadio. Aspetta,
hai detto tu. Lui si è girato e ha visto qualcosa nelle tue mani. Tiene caldo, hai
detto. Ti piace pensarlo mentre galoppa verso l'orizzonte mischiato ai colori
del giorno nascente e con il maglione che tua madre aveva fatto per te.
Ricordi tua madre, Nausicaa?
Ha il colore del cielo, aveva detto la donna. Mentre lavorava ai ferri.
Esistono cieli finti ? Avevi risposto tu. Il filo di lana passava velocemente dalle
sue mani e il gomitolo per terra, diminuiva in fretta. Quel maglione, non l’avevi
mai messo. Rimasto a lungo dentro l'armadio, ha trovato il modo per venire
fuori dalla sua prigionia, in quella lunga notte.
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Dopo, sei tornata ad occuparti dei tuoi morti.
E dopo ancora hai continuato a vivere come se nulla fosse cambiato.
Apparecchiavi per la tua famiglia. Il rumore delle stoviglie attraversava i vetri
per arrivare fino alla strada. I pochi passanti alzavano la testa e poi
proseguivano verso il buio con quel triste sorriso di tutti i solitari del mondo.
E tu Nausica, avresti voluto correre per strada e portarli su, attorno alla
grande tavola in sala. Guardavi oltre il vetro e contavi i comignoli senza fumo
delle case in città.
Pensavi al mondo oltre i Sassi. Sei rimasta, qui. La solitudine si è
attaccata alla tua pelle come una malattia. Ci vuole pazienza Nausicaa, le
malattie del mondo nei volti di quelli che tanto abbiamo amato. Ti alzi già
stanca, al mattino... Attendi la visita del passero che si ferma per le briciole
quotidiane.
Ti specchi e conti con calma gli anni rifugiati nelle pieghe della pelle. Le
spalle ossute sono incurvate dal peso che hai dovuto tenere. I lunghi capelli
d’argento ti arrivano fino ai piedi come un velo grigio.
Nulla copre la tua bellezza. La vecchiaia, il decadimento delle carni e
della pelle, il dolore delle ossa che sfregano in silenzio. Sei ancora bella,
Nausicaa. Trasparente, inafferrabile custodisci nel tuo petto i singhiozzi delle
lune piene. La disperazione dei sassi che non mutano in nulla ma indifferenti
obbediscono al silenzio.
Sei ancora qui, Nausicaa. Nella tua grande casa. Nella terra dei tuoi
morti che non hai voluto abbandonare. Quando le luci si spegneranno
continuerai a camminare leggera, dipingendo di bianco i resti della notte.
Tutto viaggia, ciò che viene oscurato dal tramonto albeggia altrove con
il brusio del mare. Con ogni fiume che segue il suo letto placando l’ansia del
contadino in aride terre. Con il cielo che si versa sulla terra alleviando la
solitudine dell’erba. E con le foglie degli alberi portati dal vento che si
poggiano sui Sassi insegnandoci ad accogliere la fine, la fine del giorno.
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SO TUTTO – Marcello Fois
Matera 1882, Ottobre.
– Posso restare? Vizziello Mario. Io ascolto e basta…
…Certo, a Mario piace ascoltare.
In paese dicono che è ricco, ma non porta le scarpe esattamente come
quelli di cui dicono che sono poveri. E’ ricco perché suo padre è ancora vivo;
la guerra, le malattie, non se lo sono preso e adesso fa il bracciante da
qualche signore locale e può garantire la sopravvivenza alla sua famiglia,
Mario compreso.
Ecco, Mario, nei suoi dodici, tredici anni, mi fa pensare a me. Al giorno
in cui sono partito, alla trepidazione, alla vaga tristezza, ma anche
all’eccitazione, di lasciare i posti noti, il calore della famiglia, per intraprendere
questo viaggio ai confini del mondo.
Quando arrivo a Matera, saranno state le due di notte, in fondo al cortile
della casa, che mi è stata assegnata in piazza, al lato di una piccola chiesa
stupenda, vedo una luce.
Quella luce è Mario che regge una lampada.
Gli altri erano andati a letto e ora, col trambusto delle pariglie, si
affrettano a scendere per scaricare i bagagli del “professore”. Mario no. Lui è
rimasto lì con la sua lampada. Come la vergine saggia della parabola.
Certo Mario mi ha fatto pensare a me: guardingo e attento. Ma lui è
ricco di suo padre mentre a me quella ricchezza è stata sottratta. In qualche
minuto il cortile si illumina di varie luci. Mi accompagnano in un appartamento
modesto, ma spazioso. Sono distrutto dai tre giorni di viaggio che è stato un
susseguirsi impressionante di trabalzamenti della vettura e di soste, cambi,
locande, letti scomodi, spesso sporchi.
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In quella notte tutto mi sorprende perché non mi aspettavo tanta
nitidezza di linee in questo confine estremo. Alla luce della luna la via dove mi
trovo è bianca e lucente, come una scia astrale.
Nella stanza da letto preparata per me c’è un vago profumo d’incenso,
come fosse stata teatro di una veglia funebre, ma è probabile che questo
sentimento derivi dall’improvviso senso di solitudine che mi prende: sono le
tre di notte, sono a Matera, alla fine del mondo, e sono solo. Ida e Maria a
quest’ora sicuramente non dormono. La mia sorella maggiore sicuramente
tiene un lume sul mio comodino affianco al letto vuoto e sospira.
Dico a Mario che può andare a dormire, che lo ringrazio per avermi
atteso.
Dice che si sistemerà di sotto pronto ad accompagnarmi al Regio Liceo
non appena si sarà fatto giorno. Gli chiedo se avrò tempo di vedere la città.
Dice che il tempo si troverà. Poi mi dice che bisogna riposare.
Ho più del doppio dei suoi anni, ma pare che sia lui a stabilire le regole.
Il sole è già alto e lui è già in piedi da un pezzo. Alla luce piena posso
guardarlo per bene: dimostra di più dei suoi anni e veste un’antiquata e
sobria foggia contadina.
Per la via mi precede di due passi almeno, devo sembrare un gran
signore in questo luogo fermo nel tempo. E’ una bella cittadina tutto
sommato, ma piuttosto mal tenuta, al contrario della gente che ha un’aria
assolutamente linda. Il mio nuovo Liceo è in cima ad un falso piano che si
apre verso un paesaggio inquietante e primordiale.
I “sassi” chiarisce Mario. E me lo dice spingendomi a guardare altrove,
in fondo alla via dove si sta costruendo una bella e ampia piazza. E’
esattamente come se la città nuova sorgesse sovrastando quell’agglomerato
di caverne maleodoranti senza riuscire a cancellarle.
Chiedo a Mario se ancora in quelle caverne abitino delle persone.
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Mario mi guarda, quasi gli scappa una risata: certo che ci abitano delle
persone, mi dice. “Persone e bestie” aggiunge. Poi mi indica il palazzetto con
l’orologio in cima in cui è situato il mio primo Liceo da professore.
E’ stato un convento, poi un Seminario. Consumiamo un’ampia
scalinata per entrare. Il corridoio d’ingresso è enorme, altissimo ma stretto
stretto, costruito quando gli uomini dovevano apparire immensamente più
piccoli dello spazio destinato al divino. Che risultasse chiarissima la distanza
tra il calpestare questa terra e il determinarne i destini.
Mario come sempre, mi precede lungo il corridoio e si ferma davanti
alla porta del Preside.
Questi mi guarda come si guarderebbe un soldato che è finito là per
punizione: non sa proprio nulla. E magari verrebbe da spiegargli quale atroce
sacrificio è stato per me obbedire, piegarmi per la necessità di trovare i mezzi
di sussistenza. Necessità che ci ha attanagliato fin da quando eravamo
ragazzi, io e le mie sorelle e mio fratello maggiore, ed eravamo rimasti “soli
soli”. Privati di un padre, privati di tutto. Mi chiama “Professor Pascoli” con
sussiego quel Preside, e mi assicura che per quanto riguarda la disciplina
dovrò farmi valere soprattutto col suo ausilio. Mi vede giovane, ma non
capisce che il fanciullo che ero è morto da millenni.
– Questo è posto di briganti. – M’informa con l’aria di chi voglia
spaventare un moccioso.
– Vengo da un posto di briganti, Signore. – Rispondo perché sia
chiaro che “alla fine del mondo” ognuno di noi ci giunge esattamente dalla
fine del proprio mondo. Qualche volta dichiararsi inferiori è un modo per
apparire superiori, penso.
Il Preside controlla in silenzio i miei incartamenti e pare voglia prendersi
del tempo per cambiare idea. “Carducci” sussurra tra sé, “niente di meno”,
sembrano dire i suoi occhi quasi che mi accusasse di millantare quanto
affermano gli attestati.
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– Dovrà farsi valere anche con i colleghi. – M’informa. – Che sono
insegnanti esperti, ottime persone anche se per lo più del luogo. – Aggiunge.
Faccio cenno di sì, che capisco fino a che punto questa terra, e questo
primo incarico, possano essere spazio e luogo di rivalsa. Anche dalla forra da
cui provengo ogni estraneo è visto con diffidenza: deve lavorare il doppio, o
anche di più, per dimostrare che vale davvero qualcosa. – Insegnerò e
imparerò. – Dico. Il Preside mi guarda con un vago compatimento dipinto in
volto, quindi mi porge i miei documenti e un registro intonso per congedarmi.
Finito il colloquio Mario è ancora lì fuori, pronto ad accompagnarmi in
classe.
L’aula è grande, gli arredi semplici. Gli alunni sono più o meno una
decina, bravi ragazzi sobri paiono, mi guardano come se fossi uno di loro. Mi
avvio alla cattedra e apro il registro.
– Antezza Nunzio. – Inizio cercando di tenere una voce ferma
nonostante le “z” che atrocemente non ho mai saputo pronunciare. Nelle
Romagne le “z” non esistono. Un mormorio di risata trattenuta di sparge in
classe. Poi si quieta.
– Presente.
– Barberio Vincenzo. – Continuo. Non è presente. – D’Amore
Pasquale. – C’è, in fondo, accenna. – Demitria Salvatore. – Eccolo, quello
piccolo piccolo. – Guerricchio Giuseppe. – Rosso di capelli. – Ortolani
Gaetano. – Secondo banco, allampanato. – Padovani Vincenzo. – Assente,
“sempre assente” chiariscono. – Polini Antonio. – E’ quello torvo, zazzeruto,
in ultimo banco. – Pugliese Giuseppe. – Eccolo lì proprio davanti a me, col
ciuffo impomatato, come un piccolo adulto. – Rossi Alfredo. – L’ultimo, pallido
e pensoso. Lui mi è caro da subito perché a fianco del nome di suo padre, nel
registro, tra parentesi, c’è scritto “fu”. Proprio come a fianco del nome di mio
padre, nei miei documenti.
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Mario, che mi ha preceduto all’interno della classe, è andato a sedersi
per terra in fondo all’aula.
Vorrei dirgli qualcosa ma lui mi precede:
– Io ascolto e basta… Posso restare? Vizziello Mario. – Chiarisce.
Lo guardo, mi guarda. E’ come me.
Dovrei essere sorpreso dalla sua richiesta, ma non lo sono. Io so tutto
di lui e della sua fame che non è in nulla quella del corpo. Dovevo
aspettarmelo.
Faccio cenno che può restare.
Poi mi volto verso la lavagna e, per presentarmi alla classe, scrivo il mio
nome…
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LA LUNA E LE MALVE- Nadia Terranova
No, hai ragione, non ti avevo preso sul serio quando mi avevi detto: ti
porto sulla luna. Ma che m’importava della luna? La conoscevo a memoria, ci
avevo fatto l’abitudine nelle notti sul mare, in barca con mio padre,
spaccandomi le braccia per la fatica, “Non vedi che è una femmina, la vuoi
lasciare in pace?”, gli urlava contro mia madre, “Ma se questa è un
masculazzo”, rideva, e io con lui. La mia famiglia era sempre stata ricca,
mentre ora ci toccava giocare a carte con una nuova e sconosciuta povertà.
Dalla vita di rendita all’affanno della pescheria: che brutto salto per una come
me, cresciuta a libri e a non saper far niente, attaccata alle gonne di una balia
messa alla porta senza complimenti dopo il fallimento della ditta di famiglia.
Ci eravamo dovuti togliere tutti i vizi, e anch’io mi ero fatta passare la smania
di gonne complicate e scarpe da femmina, tanto si usavano zatteroni così
brutti che era meglio girare scalza. Con mio padre avevo imparato a pescare
totani e “neonata”, pesci piccoli che si impastano e si mangiano a polpette.
Lui però non c’entrava niente con i miei guai ed era innocente anche la barca,
che, sopravvissuta alla decadenza, ci dava da mangiare; non era colpa di mio
padre se la ditta era fallita. Non erano colpa di nessuno, i miei vent’anni:
capita di averli, poi finisce lì.
Sapevo che eri tornato in paese e sapevo anche che mi volevi, ti avevo
spiato mentre mi fissavi le gambe, la schiena, le caviglie e saltavo su e giù
dalla barca; appena mi giravo ti giravi dall’altra parte. Certo che mi ricordavo
di te: l’amico di papà che se n’era andato a fare il giornalista ed era diventato
famoso. Ti sei avvicinato un paio di volte con qualche scusa, non so cosa
volessi regalarmi, un gelato, dei cioccolatini. Ho rifiutato. Non che non mi
piacessi, semplicemente non volevo debiti con nessuno, tantomeno con te.
Tu i soldi ce li avevi, anche più di quand’eri partito, quindi perché provavi
gusto a umiliarmi? A me nessuno doveva regalare niente. La sera in cui ti ho
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dato il bacio che volevi è cambiato tutto, hai preso sicurezza. Alla fine ti sei
piazzato davanti a mio padre con gli occhiali storti sul naso e il tuo quotidiano
di sinistra sotto il braccio: “La sposo”, hai detto, “senti, davvero, io la voglio
sposare”. Lui ha provato a farti ragionare, ti voleva bene come un fratello, gli
piaceva onorare l’amicizia di una vita: “Ma che dici, guarda che non ti posso
dare niente”. Ti sei fatto rosso per l’offesa, “Che mi frega, ho soldi a
sufficienza per tutti e due”, trattenevi male la rabbia, “… se lei vuole”, hai
aggiunto, ricordandoti che adesso eri un comunista, andava di moda il
femminismo, dovevi essere all’altezza di quella tua aria da emigrato non
conforme. “Che dici, te ne vuoi andare con lui?” mi aveva interpellato mio
padre. “Dove?”, come se non lo sapessi. “Dove non c’è il mare”. Mi ero girata
a guardare la barca, il pescato che riempiva le reti a metà, le mie scarpe
rosse da femmina invecchiate e sporche di catrame. “Sì, ci voglio andare”, e
l’attimo dopo non avevo più vent’anni.
No, non ti avevo creduto quando mi avevi promesso la luna. “La vedi, è
Matera”, hai detto arrivando in macchina e io come una bambina la indicavo
da lontano. Continuavi, per chiudermi la bocca spalancata di meraviglia: “Sì,
ma a parte tutto questo bianco non c’è niente”. L’importante, per me, era che
non ci fosse la fatica del mare. C’erano il bianco e il verde, c’era bestiame
ovunque, bianco pure quello, c’erano il silenzio e una vita da inventare,
soprattutto c’eri tu. “Ti porto sulla luna”, mi avevi promesso, e incredibilmente
eri stato onesto: mi ci avevi portato per davvero. Mi spostavo fuori città per
guardarla dalle murge: altro che la luna oltraggiata dagli americani, poveri
americani contro cui inveivi dagli articoli che mandavi al tuo giornale,
“Imperialisti!”, tuonavi senza pietà, colpevoli invasori persino della luna. Ma
tanto era quella finta. La nostra città bianca e immobile, nascosta e
silenziosa, lei sì che era la luna.
Era il 1977 e un gruppo di compagni occupava il rione Malve, a me
piaceva metterci l’articolo e lo storpiavo: Le Malve. I figli del proletariato e
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soprattutto quelli della borghesia affermavano il diritto alla casa. Tu avevi il
doppio dei loro e dei miei anni ed eri lì per raccontarli, te l’aveva chiesto il
giornale, non avevi voglia di fare l’inviato ma ormai non eri più solo, dovevi
pensare per due e temevi che portandomi subito a Roma sarei morta di
malinconia. Sulla luna, invece, mi sarei divertita. “Non ti diverti?”, insistevi tutti
i giorni. Avevi accettato quel lavoro per me, perché avevo vent’anni e non
volevi togliermeli, ma se c’era un’appartenenza di cui non m’importava era
l’età. Ero abituata al silenzio e me lo andavo a cercare di continuo. Giravo da
sola in campagna, camminavo per ore nel deserto umano e mi sedevo a
pensare, mi passavano davanti pastori e braccianti, quello sì mi piaceva:
gente muta che non faceva domande, abituata a lavorare com’ero stata
abituata io. Certi pomeriggi, seduta sulle pietre bianche, sentivo solo il vento.
Il frastuono dei ventenni mi innervosiva, gli occupanti condividevano troppo:
cucinavano insieme, mangiavano insieme, dormivano insieme, erano giovani
insieme, che modi erano? Eravamo nel ’77, va bene, ma ero stata cresciuta
in un’altra maniera. A te piuttosto la gente è sempre piaciuta, con la scusa
delle interviste te ne stavi tutto il giorno fuori, l’età ti si era dimezzata, la sera
tornavi tardi cantando. I miei vent’anni li avevo regalati a te: del resto, non
avrei saputo che farmene.
La vicina mi aveva insegnato a cucinare gli asfodeli, all’antica: a cena
mangiavamo frittata di fiori. Per il resto, non mi chiedevi niente. Nella nostra
casa in affitto, a ridosso dei Sassi, non mettevo a posto neanche un mestolo.
Certo, rimanevi male quando la sera trovavi il letto sfatto come l’avevi lasciato
la mattina. Però la svogliatezza la legavi alla mia età, e poi eri comunista e
amico dei giovani occupanti rivoluzionari, con che coraggio avresti potuto
chiedermi di fare la casalinga? La frittata di fiori bastava a entrambi.
Poi un giorno l’hai finito, il tuo pezzo sugli occupanti che facevano
rivivere i Sassi con un nuovo spirito dei tempi. Hai scritto dell’importanza del
recupero delle origini e della necessità di fare la rivoluzione. Gli asfodeli non li
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hai nominati. Abbiamo fatto le valigie e siamo andati a Roma. Non mi sono
girata nemmeno una volta.
È passata una vita, sempre insieme. Perfetti come quei giorni non ne
abbiamo più vissuti. Siamo stati bene, ma sulla luna era un’altra cosa. Lì
avevi avuto i tuoi vent’anni: ti avevo portato i miei in dote, visto che soldi non
ne avevo, e ti avevo fatto felice. Certo, a Roma abbiamo avuto tre figli e
cambiato due case, del tuo giornale comunista sei diventato direttore e poi
cassaintegrato, la vita si è presa quello che ha potuto e qualcosa ci ha dato in
cambio. Dei giorni di luna non abbiamo più parlato. Avremmo litigato di
sicuro, perché i ricordi delle coppie non si somigliano mai.
Ho prenotato una matrimoniale e precisato che mio marito tiene molto a
una bella vista, mi hanno chiesto se era la prima volta che andavamo a
Matera, ho risposto di sì, mi hanno assicurato che ci piacerà. Una volta che
mi vedranno arrivare da sola qualcosa inventerò. Vedova è una così brutta
parola.
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TRA ADESSO E FORSE – Paolo DI Paolo
La seconda cosa che pensò arrivando a Matera era che non ne sapeva
niente. La prima non se la ricorda bene, ma c’entrava con lo stupore – il
vento era forte, quasi ostile, lui si voltò e vide tutto raccolto il cuore della città:
millenaria e grigia, antica e nodosa e grigia come il tronco di quegli ulivi
giganteschi che ignorano le epoche, le sfidano. Passano Napoleone e
Mussolini e non importa, è stato solo un minuto più lungo nel tempo
infinitamente vasto. Pensò anche, come la prima volta a Roma, che sapere
troppo di un luogo, saperlo prima, non serve a molto, come preparare la
valigia per un viaggio che hai già deciso di non fare. Per il resto, si sarebbe
messo ad aspettare le notizie, come era giusto che facesse un cronista
locale. Più che notizie – lo capì in fretta – c’erano storie, bastava prendere un
caffè o fermarsi a un angolo di strada più del dovuto, per essere quasi
assaliti, arrivavano a folate, con la stessa intemperanza del vento in un tratto
di salita verso il Duomo. Ma di storie un giornale locale non sa che farsene,
erano peraltro storie lontane, vicende che i narratori casuali collocavano in un
calendario senza anni: sembravano di ieri, e magari era il ’56. È proprio
necessario che io resti qui? Domandava speranzoso a un datore di lavoro
che nascondeva la propria stessa inadeguatezza con l’entusiasmo. È
necessario sì, rispondeva perfino stizzito il datore, se vogliamo essere
alternativi ai grandi quotidiani già radicati al Sud, dobbiamo catturare nel
ronzio anche le notizie che nessuno cattura, quelle che proprio si fa fatica a
cogliere, a sentire, così che alla gente sembri, leggendo, di ascoltare un
vicino di casa più pettegolo e più – più competente, ecco.
Competente in cosa?
Competente e basta, competente nelle vite altrui. Poi, dio santo, non
vedi? Questo è un anno di notizie grosse, guardati indietro: quanta gente
hanno ammazzato in pochi mesi. Piersanti Mattarella: era gennaio. Vittorio
Bachelet: era febbraio. Le scale dell’Università di Roma macchiate di rosso.
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Walter Tobagi: era maggio. La gente morta alla stazione di Bologna. Quelli
spariti a Ustica, sul volo per Palermo. Questo stupido, feroce anno bisestile.
Manca poco, disse d’istinto.
Manca poco a cosa?
Manca poco alla fine.
Sei superstizioso?
No, rispose, ma le cose, le cose, a volte ti costringono a esserlo, a
pensare che una serie troppo fitta di coincidenze diventa una prova.
Una prova di che? Il punto era sempre questo.
E comunque, riprese il datore, nel mare delle notizie grosse la gente ha
bisogno di quelle piccole. Sono rassicuranti. Anche quando ti dicono che il
vicino di casa ha sgozzato sua moglie, tu – dopo il primo salto, dopo lo
sgomento – pensi che in fondo sì, li avevi sentiti urlare come due ossessi,
urlare più di una volta anche troppo, i due stronzi. Mentre se ammazzano
Mattarella, Bachelet, o Tobagi, c’è un disegno, lo senti, un disegno oscuro e,
dietro il buio della tua ignoranza, preciso. La cronacaccia nera, quella di
paese, è solo, solo brutale e sordida, brutale e sordida come la vita.
Fatto è che le storie gli restavano in testa, le notizie no. A chi gli raccontava di
essere nato nei Sassi, di essere andato via e poi tornato – “tornato adesso,
da qualche giorno, in questo posto che era stato mio, duro, umido, e senza
luce come l’istante in cui venivo al mondo, ero il bambino Gesù dell’anno
1957 dopo Cristo, uno dei tanti, disgraziati cristi scaldati dal fiato dell’asino
che non stava fuori, ma dentro casa, e puzzava, sì, per carità, ma teneva
caldo e dava sicurezza, maestoso nella sua innocenza, nella resa a uno
squallore che per lui, per l’asino di casa, non era una fra le possibilità
dell’esistere, ma la sola” – a chi gli raccontava questo, avrebbe voluto
chiedere: ma allora perché sei tornato? La risposta, di solito, era un silenzio,
uno sguardo vuoto oppure stupito. Come se potesse davvero esserci una
risposta a una domanda simile. Come se ci fosse qualcos’altro di urgente da
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fare, a un certo punto della vita di tutti, proprio di tutti, che non sia tornare a
casa. Nell’autunno inoltrato, quando il buio crollava su Matera prima delle sei
del pomeriggio, e nessuna notizia gli sembrava fosse arrivata – aveva
sbagliato lui? dove e come si era distratto? – quando era costretto a dire che
no, non c’era proprio niente da scrivere, gli sembrava di essere il personaggio
di un romanzo che lo aveva insieme annoiato e sedotto. C’è un uomo che
aspetta i Tartari, aspetta, aspetta, con un’estenuazione che lo faceva
sbadigliare sulla pagina, ma i Tartari non arrivano.
Possibile che non ci sia niente? Era il datore che chiamava verso le
sette di sera.
Sì, è possibile.
No, non lo è, dappertutto – in ventiquattr’ore che ci mette questo mondo
a fare un giro – dappertutto accade qualcosa.
Qui no.
Anche un funerale può essere una notizia, a saperlo raccontare. Chi è il
morto, perché è morto.
Di che vuoi che muoiano i più? Di vecchiaia, per fortuna. Oggi, in
Basilicata, morti 2 e nati 3.
Vedi, già è qualcosa! Un nato in più rispetto ai morti… Qualcosa
dev’esserci, sforzati, pensaci, in questa giornata di novembre, qualcosa che
domattina la gente possa leggere sul nostro giornale, senza pentirsi di averlo
acquistato.
Qualcosa forse c’è.
Lo vedi? Dimmi.
Mah, una cosa da niente.
Avanti, qualunque cosa sia.
In diverse edicole di Matera oggi sono state sequestrate riviste
pornografiche. 150 copie di pubblicazioni ritenute oscene ritirate dalla polizia
per decisione del giudice istruttore Bartolomei, Tribunale dell’Aquila.
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E ti pare poco?
Sì, mi pare pochissimo.
C’è materia per indagare. I poliziotti che hanno sequestrato le riviste
erano uomini?
Perché, che differenza fa?
Beh, se erano uomini devono essersi divertiti a fare incetta di riviste
piene di donne nude.
No, pare che i giornali siano stati ritirati dalla polizia femminile.
Bene! Bisogna approfondire. Sentire queste poliziotte, sondare le loro
reazioni, i loro pensieri, mentre avevano per le mani i sollazzi tipografici dei
loro mariti. Ce la fai a scrivere cinquanta righe?
Cinquanta righe? E che dico, in cinquanta righe?
Che ne so, inventa, fai colore, alludi. Le conoscerai le riviste porno, no?
Sì che le conosci.
Pensandoci meglio, potremmo dare risalto a una lettera di denuncia dei
viaggiatori del pullman Matera-Irsina.
E che dicono i viaggiatori del pullman Matera-Irsina?
Dicono che rischiano la vita ogni giorno, che arrivare a Matera è
un’angoscia quotidiana, e che il pullman all’improvviso trema tutto, ogni santo
giorno, tremano lo sterzo e le ruote, e l’autista riesce a guidarlo a stento.
Mah, non so, questa mettiamola nella pagina delle lettere, la gente
esagera sempre, i pericoli veri sono altri. C’è ancora qualcosa?
No, mi pare proprio di no.
Sicuro?
Oddio, un’altra cosa forse ci sarebbe, è una storia strana, un tizio di
Genzano di Lucania, tale Oronzo M., aveva organizzato una fuga d’amore a
Matera con una ragazzina, gli hanno dato tre anni di galera.
Per una fuga d’amore?
Sì, perché lei è minorenne e pare che lui volesse indurla a prostituirsi.
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Abbiamo dettagli su questo Oronzo M.? Chi è? Che fa?
Poco e niente.
Allora indaga, scava, chiedi, telefona, fai per una volta il tuo mestiere, ci
vuole un tocco di epica in questi casi. Fallo diventare l’insospettabile bravo
ragazzo di cui qualunque ragazza si sarebbe fidata. Ti saluto, amico mio.
Aspetto entro un’ora il pezzo sulle riviste porno.
Sì, ma dove le trovo le poliziotte a quest’ora di domenica?
Arrangiati.
Direttore?
Sì.
Facciamo una cosa. Su Oronzo M. torniamo quando avrò più materiale.
Io domani, al posto dei giornali porno, metterei una notizia di pubblica utilità.
Sentiamo.
Che finalmente stanno per partire i lavori di restauro su un gruppo di
case di via Fiorentini, nel Sasso Barisano.
Un po’ grigia come notizia, ma va bene. Quanti alloggi entrano nel
piano di restauro?
Una decina, ma il progetto è di recuperare totalmente due rioni.
Quando pensano di concludere i lavori?
Entro la fine del 1981.
Cioè di qui a un anno? Sì, buonanotte!
Abbassando la cornetta, giusto il tempo di avere davanti agli occhi,
come una visione o un ricordo preso in prestito, la casa di quel signore nato
nel ’57 nel Sasso Barisano, proprio dalle parti di via Fiorentini, aveva detto, si
accorse – erano le 19.37 – che il telefono davanti a lui stava tremando, e
tremava la scrivania e tremava la sedia, e tremavano i libri sulle mensole e
tremava tutto. Tremavano i piedi e la terra sotto ai piedi, in un tempo che, al
contrario di quello degli ulivi, è un minuto che diventa un secolo, e non sai
nemmeno più chi sei né dove, perché è come sentire che ogni cosa, sotto e
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intorno, potrebbe sbriciolarsi, si sbriciola, e tu con tutto. E che mentre la terra
si muove la vita si ferma, congelata in una porzione di mondo che potrebbe
essere un continente, una regione, o soltanto Matera, e le poliziotte, Oronzo
M. e i geometri e gli addetti al piano di restauro, tutti fermi, immobili come i
sassi che resistono alla scossa, come animali senza più un nome e un futuro,
come l’asino che scaldava casa nell’inverno del ’56 arreso a tutta quella neve
uniforme e gelida quanto il suo destino, tutti insieme, centinaia, migliaia di
viventi tenuti in sospeso, tra adesso e forse, tra ora e ancora, tutti senza più
notizie, con le loro storie a metà. Fino all’istante in cui, se arriverà,
prenderanno badili e torce e picconi, ma soprattutto fiato, e le mani
smetteranno di tremare come la crosta terrestre e ritroveranno forza e cura
per aggrapparsi, stringere, impastare quintali di pane, quaranta quintali al
giorno da portare fino a Potenza; fino all’istante in cui si sentiranno, e
potranno dirsi, ancora una volta salvi, ancora per un po’, vivi.
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LA FELICITA’ A MATERA – Antonio Pascale
Questo racconto inizia da lontano, dagli anni ’70. Allora frequentavo le
medie ai salesiani e con tutta la classe venimmo in ritiro spirituale, a Matera,
prima della pasqua. Eravamo tutti maschi e ho ora ho ricordi confusi, in
bianco e nero.
Anziane silenziose e sfuggenti con lunghi scialli neri e vecchi
accovacciati contro i muri, tanti cani. L’interno di una casa, o di una grotta,
comunque un unico ambiente buio, sul muro tante pentole di rame, accanto,
tante immagini di madonne e santi.
Insomma, le orazioni, le preghiere, il silenzio. Però, sapete com’è a 13
anni, i primi impulsi sessuali, le pratiche faccio da me, e infatti, un mio amico
in un momento di solitudine- il buio, l’ombra, le grotte, e i pensieri, le
tentazioni- ecco questo mio amico ebbe un impulso - tipico di quell’età- e va
bene, capita, ma purtroppo fu beccato da un prete, Don del Pozzo.
Che preoccupato per l'andazzo, temendo che si diffondesse, prese me
e altri in disparte e ci ammonì: vi taglio le mani e ricordatevi – ci disse – che
un minuto di piacere non vale l'eternità passata all'inferno.
Dopo l'avvertimento, tornando a casa, in pullman il mio amico mi
chiese: ma come si fa a farlo durare un minuto?
Siccome ricordo la città che si allontanava, le gravine, i sassi, qualcosa
di rudimentale e di essenziale insieme, Matera per me è diventata, negli anni
il luogo dell’imprinting: come prolungare il piacere, anzi come orientarlo,
trasformarlo in sentimento di calma e pace oceanica, o un unguento che
rilassi il corpo e spalanchi i miei sensi verso panorami immensi?
Dopo l’esame di terza media con tutta la famiglia e gli amici di famiglia,
da Caserta, prendemmo la Basentana diretti a Metaponto e qualcuno disse,
andiamo a mangiare a Matera.
Ho ricordi confusi, anche lì, in bianco e nero, mi ricordo che
ascoltavano Julio Iglesias e Nicola di Bari e ricordo che stavo su un muretto
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e un attimo dopo a terra: braccio destro, radio e ulna, rotti, frattura scomposta
– sarà stata la maledizione di Don del Pozzo.
Ospedale vecchio di Matera, e niente non riuscivano ad aggiustarmelo
e così dovetti subire la mia prima operazione. L’anestesia, il risveglio, quel
senso di malessere, tutto questo andava bene, quello che mi faceva soffrire,
invece era la degenza, cioè mi fecero stare tre giorni, dopo di che mi dissero:
potrai uscire.
Io volevo uscire, volevo raggiungere gli altri al mare, e poi dalla finestra
della stanza d’ospedale, non vedevo niente: era tutto buio. E arrivò il terzo
giorno e i medici cambiarono idea: altri due giorni, per controlli.
Credo che piansi disperato per ore un senso di prostrazione così non
l’ho mai provato, tanto che alla fine, mi addormentai.
Quando mi svegliai c’era mio padre che mi disse: dai, veloce, che
andiamo via.
Pensavo di sognare: dai, ho firmato, mi sono preso io la responsabilità,
andiamo. Non mi vestii nemmeno, me ne andai in pigiama, era estate, e
ricordo bene una parte del tragitto dall’ospedale a fuori Matera, rivedo alcune
grotte, le chiese, le croce e le vecchie con gli scialli neri, i vecchi accovacciati
ai muri, i cani, delle vacche, i muli e mi sembrò bellissimo e non solo, per
molti giorni, mi sentii felice.
Erano gli anni ’70 e di quel decennio mi sono rimaste due cose: la
presa di posizione di mio padre, aveva capito che stavo soffrendo e dunque
doveva far qualcosa per me, e l’idea che senza un periodo di sofferenza non
si può essere felici.
Queste due concezioni, saldate insieme mi hanno rovinato il successivo
decennio.
Perché arrivarono le ragazze, e cominciai a pensare che tutte le
ragazze soffrivano ed esigevano qualcuno che si prendesse una
responsabilità e che le portasse fuori da quella valle di lacrime.
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Quello ero io. Cristina, la mia fidanzata storica. Bellissima, bionda,
camminava sul Corso e lasciava una scia dietro di sé.
Il problema era che Cristina soffriva e non sapeva il perché. Non c’era
una condizione di sofferenza, al contrario era proprio una vocazione.
A Caserta si faceva l’amore tutti insieme, un amore collettivo, lungo una
strada. Si fermavano le macchine, si mettevano i giornali ai vetri e si
procedeva. Io e Cristina no, cioè, mettevo i giornali e spesso lei cominciava a
piangere. Non credo fossero i titoli tragici della provincia casertana a
inquietarla.
Nel 1987 facemmo un viaggio a Matera e ci inoltrammo per i sassi:
litigammo tantissimo. Eppure era una giornata splendida, tra cielo e sassi
solo luce, in cielo qualche cirro arricciato e colorato di rosa. Ma il percorso ci
scombussolò. Un momento eravamo sulle scale, il momento dopo sui tetti di
una casa, e qualcosa dentro di noi si mescolò, perdemmo l’orientamento e
litigammo: Ma perché soffri? le chiesi. Lei mi rispose: Mah? forse non
c’amiamo.
Non so se a volte l’essenzialità, appunto rocce e sassi, questi elementi
primordiali possono favorire l’amore, tipo: non ci manca niente, è tutto qui,
oppure al contrario, possono far fallire l’amore: è tutto qui? denudati, avvolti
dalla luce, senza fronzoli e orpelli, beh, c’è solo dolore e l’amore non è
amore.
Ci lasciammo e siamo al decennio successivo. Avevo capito che non
dovevo provarci più di tanto a cambiare con l’amore le persone, a prendersi
delle responsabilità, come mio padre aveva fatto con me.
Gli anni novanta sono stati più allegri, ho cominciato ad associare
l’amore al sesso e il sesso al sonno.
Non che dorma, no. Far bene l’amore e dunque cercare di prolungare il
piacere, aveva stretti punti di contatto con il dormiveglia, essere vigili ma non
troppo, avere la vista sfocata, le membra flaccide. Cadere nel sonno non
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dopo aver fatto l’amore, ma anche prima di fare l’amore, era diventata una
specie di pratica, tutta nuova per me: non posso asciugare il pianto, però un
momento di pausa, una lunga dormita, prima o dopo, diciamo così, il pasto,
bè, quella sì, la potevo offrire.
Sono tornato a Matera, con delle fidanzate, negli anni successivi e sì:
ho dormito tanto. Ormai, l’amore, per me corrispondeva a una dichiarazione
di debolezza, siamo una gravina d’argilla, da un momento all’altro scivoliamo
giù e non resteranno che sassi e macerie.
E siamo al 2014. Di nuovo qui a Matera, per lavoro ministeriale.
Alloggiavo in un buon albergo, con bel panorama. Ma non riuscivo a dormire,
e sono sceso. Ho fatto tante fotografie ai Sassi di notte e forse il languore non
so, i ricordi, ho pensato: chissà se il problema delle felicità non sia tutto qui.
Non vogliamo morire.
Forse la nostra idea di felicità esiste solo per ingannare la morte.
L'evoluzione c'ha insegnato delle strategie. Una è: non pensare al
futuro: siamo qui e ora, e ci divertiamo, ridiamo, ci abbandoniamo davanti a
un tramonto o tra le braccia di una donna e tutto questo solo per allontanare
la paura.
Mi è venuta allora voglia di passeggiare per i Sassi, da solo di notte. E
ho pensato: sì, d’accordo: ma questo non risolve il problema. Ci sono molti
libri intitolati: cose bellissime e indimenticabili da fare prima di morire.
Indimenticabili.... Il problema è che una volta morti dimenticheremo tutto.
Anche questo spettacolo dei Sassi di notte. E per questo allora che
cerchiamo di sopravvivere a noi stessi? È la seconda strategia per essere
felici, fare figli, moltiplicarsi, creare opere d'arte, il ricordo di noi sopravviverà
in quelli che restano, nella nostra comunità, nella famiglia, nel clan.
Ma nemmeno questo funziona, non completamente.
Come dice Woody Allen, io non voglio sopravvivere nei cuori della
gente, io non voglio proprio morire.
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Mi sono fermato accanto a una chiese rupestre, semplice, nuda,
essenziale. Mi sono detto: è questa la soluzione? Credere nell'anima. Lo
spirito che ci sottragga al nostro destino mortale, che ci porti da un'altra parte,
ma così come siamo, con il nostro corpo, i nostri pensieri e i nostri ricordi?
Questa strategia è buona, ha solo un difetto, affinché funzioni devi
crederci, e tanto anche. E io non ci credo, sì, sono belle queste chiese,
appunto, semplici e rudi, ma non ci credo.
Cosa mi resta per la felicità?
Forse c’è un’ultima cosa da dire: il racconto di un esperimento che ha
soddisfatto infine la domanda del mio amico: come si fa a far durare il piacere
più di un minuto.
C’è questo studio del 1972, uno studio criminale. C'era un paziente gay
e lo si voleva curare... era pure depresso, insomma, per farla breve gli hanno
impiantato degli elettrodi in una zona del cervello, uno nell'area settale che
quella che si pensava destinata al piacere. Ebbene, si permise al paziente di
premere il bottone e stimolarsi da solo, ebbene sapete cosa successe?
Diventò etero? No, cioè, pare di sì, gli facevano guardare dei porno etero,
insomma, era veramente uno studio criminale, ma poi ha aperto una strada
per la scoperta delle dinamiche del piacere.... praticamente quello come un
bambino premeva sempre il bottone ed entrava in uno stato di gioia euforica
incontenibile, però, tra una seduta e un'altra, chiedeva, per favore di essere
scollegato, ma quando premeva il bottone: era così felice che non pensava
più a niente. La felicità è una dimensione solitaria, riuscite a capire il
tormento di quel povero uomo? Implorava di non essere felice, perché
quando lo era, era solo. Incapace di relazioni, di guardare il mondo, le pietre
e le stelle, non poteva godersi lo spettacolo degli sassi, per esempio.
Messa cosa possiamo dire due cose: non abbiamo diritto alla felicità,
meglio l’inquietudine e quel sentimento che ci fa alzare lo sguardo verso le
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stelle, ci fa sentire piccoli e proprio per questo fragili e bisognosi: è
l’inquietudine che ci fa saldi negli sradicamenti quotidiani
La seconda cosa, la gioia che ci annoda, l’uno con l’altro, in alcune notti
come queste, è in stretta relazione al dolore che ci inchioda qui a queste
pietre, da un’infinità di tempo: forse la felicità è tragica.
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RESURRECTION – di Mariolina Venezia
La notte era soffocante, o forse a essere soffocante era l’atmosfera
nella camera che Laura aveva prenotato per il fine settimana. Aveva trovato
un’offerta speciale e si era affrettata a bloccarla, attratta dalla spa, dalle foto
suggestive e dalla promessa di due notti indimenticabili, un viaggio nel tempo
protetti dall’abbraccio avvolgente della roccia. O qualcosa del genere, come
diceva il depliant. La prima sera, appena arrivati, risalendo dal ristorante
dell’albergo, anzi del resort, come lo chiama lei, ci siamo addormentati di
colpo sul letto king size. Io senza neanche spogliarmi, sdraiato sul copriletto,
aspettando che lei uscisse dal bagno. Credo che Laura sia emersa dalla
grotta con vasca idromassaggio indossando una sottoveste di seta bianca e
scivolosa, che non le avevo mai visto. Lo ricordo come un sogno,
un’apparizione intuita attraverso le palpebre socchiuse. Ho allungato una
mano per toccarla, quando si è infilata sotto le lenzuola. Dev’essere crollata
subito anche lei. Abbiamo trascorso la notte come narcotizzati. Al mattino ci
siamo detti che nei Sassi di Matera si dorme come sassi. Ma non abbiamo
riso.
La seconda notte nella terza città più antica del mondo è successa la
cosa opposta. Dopo una giornata per scalette e vicinati, i piccoli slarghi dove
si affacciano le case, visitando conventi che scavano i fianchi dell’altopiano e
chiese rupestri con gli affreschi bizantini, dopo gli aperitivi sul terrazzo del bar
con vista mozzafiato e i paesaggi preistorici dall’altra parte del torrente, la
Gravina, in un’armonia troppo perfetta per poterci credere, una volta usciti dal
bagno termale nella penombra tufacea delle cisterne rischiarata a lume di
candela, è venuto il momento.
In quindici anni di matrimonio il mio amore per Laura è rimasto
immutato, forse anzi è più profondo di prima, ma è come se continuasse a
vivere in un luogo o in un tempo irraggiungibile. Qui e ora mi diventa sempre
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più estranea. E io a lei, probabilmente. Tutto ciò di cui siamo ancora capaci
uno verso l’altro è una tenerezza che ci umilia.
Alle tre del mattino eravamo entrambi svegli. Io mi rigiravo fra le
lenzuola, Laura stava immobile, costringendosi a un respiro regolare, che
simulava il sonno. Avrebbe convinto chiunque. Forse anche me, se non
avessimo avuto alle spalle troppe notti come quella. Per tacito accordo, da
più di un anno evitavamo di esporci al fallimento. Ci trascinavamo in una
promiscuità fraterna, fingendo che tutto andasse bene. Vivevamo persino
momenti di precaria felicità. E ora la tregua era stata rotta.
Ho messo giù un piede, silenziosamente mi sono diretto verso il bagno.
Mi sono infilato i vestiti. Contavo sul fatto che quando avrebbe capito cosa
stavo facendo sarebbe stato troppo tardi. In ogni caso, speravo, non avrebbe
rinunciato alla copertura del sonno per fermarmi.
La notte era chiarissima. La prima cosa che ho visto uscendo è stata
una luna enorme sospesa sulla sagoma massiccia della Murgia, acquattata al
di là della Gravina come un mastodonte paleolitico.
Mi sono avviato lungo la discesa col batticuore di un evaso. L’aria calda
mi accarezzava la pelle, il respiro riprendeva a fluire. Libero. Ero libero. Ho
raggiunto la strada principale, quella asfaltata che affianca il dirupo sul
torrente. Sopra di me anche i Sassi, finalmente privi del via vai colorato dei
turisti, del chiacchiericcio delle guide, affrancati dal design e dalle definizioni
accattivanti, sembravano respirare. Esalavano un odore di tufo sgretolato, di
muschi, di erbe selvatiche e di parietaria, che mi faceva starnutire. Più avanti,
nel Caveoso, gli occhi ciechi delle grotte si popolavano di ombre, forse i
fantasmi degli antichi abitanti scacciati dalle loro case, che tornavano a
visitarle. La città abbandonata, momentaneamente restituita al silenzio, nel
bianco e nero del plenilunio ritrovava il ricordo di una fierezza persa.
Quando ho riportato lo sguardo sulla strada, due donne camminavano
avvolte in lunghi scialli neri. Ho accelerato per raggiungerle, imboccando
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anch’io la scala poco più avanti e mi sono trovato in una piazzetta con una
chiesa rupestre dalla facciata barocca. Di loro, nessuna traccia. Nel silenzio,
in qualche strada adiacente, si sentiva il battere ritmato degli zoccoli di un
mulo. E l’eco di un pianto, o una risata.
In quel momento nel cielo si è diffuso un chiarore forte e innaturale. Da
lontano, al di là della Civita, un tramestio, un vociare, l’affaccendarsi di
un’intera città che trasloca, mi arrivava a intermittenza, con lunghe pause che
mi facevano dubitare di averlo sentito. Dimenticando finalmente Laura, la
camera del resort e le decisioni che non riuscivamo a prendere, mi sono
mosso in quella direzione. Salivo, scendevo, attraversavo slarghi,
arrampicandomi e inoltrandomi senza accorgermene nel cuore del labirinto di
pietra.
“E ‘nnamo. Er brutooo!!!”
Improvvisamente vicino, il grido mi aveva fatto sobbalzare. Da ogni
vicolo sbucavano adolescenti, poco più che bambine. Correvano
ridacchiando ed emettendo gridolini isterici. Le ho seguite fino ai bordi di una
grande piazza che sovrastava lo strapiombo, tutta transennata e invasa da
mezzi pesanti. Schivando un asino che batteva lo zoccolo per terra e si
scaricava sul lastricato, uomini in tuta mimetica e giubbotto fluorescente la
percorrevano in tutti i sensi. Montava un’euforia carica. Sospeso su uno
spiazzo, in alto, mi è apparso un piccolo monte di roccia, con una spelonca
incastonata, che in quel momento si è illuminata a giorno. L’imbocco della
caverna era a metà ostruito da un enorme masso dal quale si è affacciato un
giovane coi capelli lunghi, alto, biondo, vestito di azzurro. Si è scatenato il
delirio. Le ragazzine urlavano un nome che non capivo, mandandogli baci.
Uomini col transistor respingevano le scalmanate oltre le transenne, qualcuno
smatassava cavi e tutto si accelerava, quando una voce al megafono ha
gridato qualcosa in inglese. Ogni rumore si è interrotto.
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In un silenzio carico di tensione il biondo ha attaccato a cantare
aprendo le braccia e alzandole al cielo. “Happy, happy, happy in the sky…”
Una donna intabarrata di nero, e un’altra dai lunghi capelli sciolti sulle spalle
facevano coro con le loro voci acute, danzando e liberandosi dai vestiti fino a
restare in bikini di paillettes. “Resurrection resurrection resurrection”. Come
galleggiando nel vuoto, avanzava verso di loro un’enorme telecamera, e con
triplo salto mortale un giovane efebico in guaina di raso bianco ornata di
piume piombava sulla grotta, poi sul masso, e nello spazio antistante,
esibendosi in acrobazie che ogni tanto interrompeva per cantare in falsetto.
“Resurrection”. Due centurioni si alzavano da terra e scrollandosi la polvere
dalle armature muovevano pesantemente qualche passo, intonando con voci
baritonali “Resurrection, resurrecion”.
Il Messia americano, mani aperte al cielo, lanciava il suo assolo.
“Father oh father... Le ragazzine erano in trance e dietro di me ne portavano
via una svenuta, quando piombò il buio. Da sotto, non si capiva cosa stesse
succedendo, se non che crollavano le scene di cartapesta, le torrette, i
tralicci, i pannelli e i riflettori. Il biondo era sparito, gli uomini della security
impazzavano, quando si sentì tuonare: “Portate via queste cose e non fate
della casa di mio padre un luogo di mercato”. Sulla cima della Madonna
dell’Idris, nel cono di luce di un proiettore rimasto in piedi, una delle comparse
locali fin lì assiepate ai bordi della scena, un uomo di mezza età vestito di
stracci, forse perché ubriaco, forse per un’originale forma di rivendicazione
salariale, brandendo la frusta gridava nel megafono. “Questa non è la
Palestina. E neanche l’America. Tornatevene alle case vostre. Non lo sapete
cosa sta scritto? La casa mia sarà chiamata casa di preghiera, ma voi ne fate
una spelonca di ladri.”.
Prima che gli uomini della security riuscissero ad afferrarlo era
scomparso.
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Rimasi dov’ero ancora qualche istante per raccapezzarmi, poi mi avviai.
Non so quanto tempo era passato, il cielo si stava schiarendo. Mentre la luna
impallidiva, i Sassi prendevano pian piano una tinta rosata e si alzava un
venticello fresco, che mi faceva rabbrividire. Attaccava un concerto appena
abbozzato di uccelli. Nella città millenaria tutto appariva nuovo, quel mattino.
In albergo, Laura stava facendo le valigie. Non mi chiese nulla, né io le
dissi da dove venivo, ma tornando a Milano, nei giorni successivi scoprimmo
che avevamo ritrovato il coraggio di guardare in faccia le cose e chiamarle col
loro nome. Più che un week end rilassante, Matera ci aveva regalato una
nuova visione del tempo, e delle sue infinite possibilità. Il tempo dove un
mortale sconfisse la morte abbracciandola. Il tempo dove tutto si perde e tutto
ritorna. Dove l’inizio e la fine non sono che un incidente di percorso.
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GLI SCRITTORI PROTAGONISTI DEL FESTIVAL
Anilda Ibrahimi: nata a Valona nel 1972. Ha studiato letteratura a
Tirana. Nel 1994 ha lasciato l'Albania, trasferendosi prima in Svizzera e poi,
dal 1997, in Italia. Il suo primo romanzo Rosso come una sposa è uscito
presso Einaudi nel 2008 e ha vinto i premi Edoardo Kihlgren - Città di Milano,
Corrado Alvaro, Città di Penne, Giuseppe Antonio Arena. Per Einaudi ha
pubblicato anche il suo secondo romanzo L'amore e gli stracci del tempo ..
Nel 2012 ha pubblicato, sempre per Einaudi, Non c'è dolcezza. I suoi romanzi
sono tradotti in sei Paesi.
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Marcello Fois: nato a Nuoro nel 1960, vincitore del Premio Italo
Calvino 1992, vive e lavora a Bologna. Ha pubblicato molti libri, tra cui: Falso
gotico nuorese (Condaghes, 1993), Picta (Premio Calvino, 1992), Gente del
libro (Marcos y Marcos, 1995-96), Il silenzio abitato delle case(Mobydick,
1996), Nulla (Il Maestrale, 1997), Sheol (Hobby&Work, 1997 e L'Arcipelago
Einaudi, 2004 ), Sempre caro (Frassinelli e Il Maestrale, 1998 e Einaudi,
2009), Gap e Sangue dal cielo (Frassinelli, 1999 e Einaudi, 2010), Ferro
Recente e Meglio morti (usciti negli Einaudi Tascabili nel 1999 e nel 2000, già
precedentemente pubblicati da Granata Press), Dura madre (Einaudi, I
coralli, 2001 ed Einaudi Tascabili, 2003 ), Piccole storie nere (L'Arcipelago
Einaudi, 2002 e ET Scrittori, 2010), Memoria del vuoto (premio Super
Grinzane Cavour 2007, premio Volponi 2007 e premio Alassio 2007), Stirpe
(Einaudi, 2009 e 2011), Nel tempo di mezzo (Supercoralli, 2012 e Super ET,
2013) e L'importanza dei luoghi comuni (L'Arcipelago Einaudi, 2013). Ha
scritto due racconti per le antologie Crimini (Einaudi Stile libero, 2005),
Crimini italiani (Einaudi Stile libero, 2008) e L'altro mondo (ET, 2011). Nel
2006 ha pubblicato la raccolta di poesie L'ultima volta che sono rinato. Con Il
tempo di mezzo nel 2012 è stato finalista al Premio Campiello e al Premio
Strega.
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Nadia Terranova: nata a Messina nel 1978 e vive a Roma. Tra i suoi
libri, Bruno. Il bambino che imparò a volare (Orecchio Acerbo 2012,
illustrazioni di Ofra Amit) che ha vinto il Premio Napoli e il Premio Laura
Orvieto ed è stato tradotto in Spagna. Gli anni al contrario (Einaudi Stile
Libero 2015) è il suo primo romanzo.
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Paolo di Paolo: Nato a Roma nel 1983, nel 2003 entra in finale al
Premio Italo Calvino, con i racconti "Nuovi cieli, nuove carte". Ha pubblicato
libri-intervista con scrittori italiani come Antonio Debenedetti, Raffaele La
Capria e Dacia Maraini. È autore di Ogni viaggio è un romanzo. Libri,
partenze, arrivi (2007), Raccontami la notte in cui sono nato (2008). Nel 2011
pubblica Dove eravate tutti (Feltrinelli, vincitore del premio Mondello,
Superpremio Vittorini e finalista al premio Zocca Giovani), nel 2012 nella
collana di ebook "Zoom" Feltrinelli La miracolosa stranezza di essere vivi. Nel
2013 con Mandami tanta vita (Feltrinelli), è finalista al Premio Strega 2013
39
Antonio Pascale: nato a Napoli nel 1966, ha pubblicato La città
distratta(Edizioni l'Ancora, 1999 ed Einaudi, 2001); La manutenzione degli
affetti («L'Arcipelago Einaudi», 2003); Passa la bellezza(Einaudi, 2005);
Scienza e sentimento (Vele 2008); Tre terzi, con Diego De Silva e Valeria
Parrella (Einaudi, 2009); Le attenuanti sentimentali(Einaudi, 2013). È fra gli
autori di Scena padre (Einaudi 2013) eFiguracce (Einaudi Stile Libero 2014).
È stato l'«intellettuale di servizio» delle Invasioni barbariche di Daria
Bignardi.
40
Mariolina Venezia: Nata a Matera, vive a Roma dopo aver trascorso
diversi anni in Francia, dove ha pubblicato alcune raccolte di poesie. Nel
2007 ha vinto il premio Campiello con il romanzo Mille anni che sto qui, edito
da Einaudi, saga familiare ambientata a Grottole, piccolo comune della
Basilicata. Nel 2009 ha pubblicato per Einaudi Come piante tra i sassi,
ambientato a Matera, e poi Da Dove Viene il vento e Maltempo, che ha come
protagonista Imma Tataranni, la stessa PM conosciuta in Come piante tra i
sassi. Nel 2014 pubblica La volpe meccanica edito da Bompiani.
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Antologia RaccontaMatera

  • 1. 1
  • 3. 3 INDICE Introduzione La Fine del Giorno (Anilda Ibrahimi ) So Tutto (Marcello Fois) La Luna e le Malve (Nadia Terranova) Tra Adesso e Forse (Paolo Di Paolo) La Felicità a Matera (Antonio Pascale) Resurrection (Mariolina Venezia)
  • 4. 4 INTRODUZIONE Quando, nel 2006, è stato pubblicato per Einaudi il mio romanzo Mille anni che sto qui, ambientato in Basilicata, mi chiedevo come sarebbe stato accolto dagli abitanti della regione. Non sempre si ha piacere nel vedersi ritratti, e ci si riconosce nello sguardo dell’altro. Al di là di ogni mia aspettativa, l’accoglienza è stata entusiastica. Era come se i lucani aspettassero di essere raccontati, con uno sguardo contemporaneo, diverso da quello di Levi e del Cristo si è fermato a Eboli, per tanti decenni immagine della regione nel mondo. I tempi erano maturi. Presto sono arrivate altre narrazioni, come Basilicata coast to coast, che hanno drasticamente trasformato la percezione dei luoghi. Sono arrivate nuove avventure, culminate con l’elezione di Matera a Capitale della Cultura. La città, in piena trasformazione, e proiettata verso il futuro proprio grazie al recupero del suo passato, ha oggi più che mai bisogno di narrazioni. Raccontare un luogo, dall’interno e dall’esterno, contribuisce a creare la sua identità. Di qui è nata l’idea di invitare cinque scrittori, alcuni italiani, di vari luoghi dell’Italia, una albanese, in una breve residenza artistica a Matera, per poter raccontare la città. All’iniziativa ho partecipato anch’io, per uno sguardo più dall’interno. Alla fine della settimana di soggiorno sono stati prodotti sei racconti da “restituire” agli abitanti di Matera e a coloro che frequentano la città. I sei racconti di Raccontamatera lasceranno un segno nel suo immaginario....” Mariolina Venezia Direttore Artistico di “RaccontaMatera”
  • 5. 5 LA FINE DEL GIORNO - Anilda Ibrahimi Vivi nella grande casa abbandonata da tutti, Nausicaa mia. Non hai mai saputo cosa fartene della sua grandezza. A te, poco spazio serviva. Un posto dove raccogliere le tue stanche ossa alla fine. Un rifugio per l'immobile canto dei tuoi dipinti di pietra. E invece ti sei consumata poco a poco rintanata nelle sgombre stanze. Guardando il mondo dalle tue finestre, le stesse cose Nausicaa, hai rimirato giorno dopo giorno finché non arrivava la fine. Quando lo scirocco impazzava nelle Murge come un rasoio affilato e le tempeste piovevano limpidi uccelli morti sul Bradano. Triste Nausica, armata di carni e di luci, bagnata dai raggi che illuminano i sassi. Leggiadra ti fermi davanti ai grandi armadi dal legno opaco, oh, Nausicaa, una volta erano lucidi, ricordi? Tu, con le tue mani giorno dopo giorno hai tolto quell’ingannevole involucro che li avvolgeva. Non amavi i colori, il loro uso sembrava aggravare il peso del mondo. A te piaceva il bianco e le trasparenze dove si muoveva il tuo esile corpo. Qui non c'è posto per i colori, dicevi sempre. Questo luogo non permette sbavature. Tacciono le rose rosse del tuo giardino. L’unico colore che hai tollerato. A volte le portavi dentro casa. Tagliavi con cura le spine dai gambi e le mettevi nel vaso bianco sul tuo comodino. Cantano all’amore stasera, ti dicevi mentre dissolvevano il rosso dei petali, sognavi abbracci, teneri come l'erba, bagnati di luna e pioggia. Invece sei rimasta sola. Il tuo bel brigante è solo un'ombra che si allontana nella notte mentre la “tramnden” attraversa la Gravina. Come riempire lo spazio?
  • 6. 6 A volte bussano alla tua porta. Ti copri con un lungo velo fino alla punta dei piedi. Apri la porta al garzone del pane. Lui barcolla ubriaco della tua bellezza. Ha sempre spaventato questa, tua madre, le tue cugine, le donne del paese. Si è sazi delle piogge, ma la bellezza non sazia, tutti ti avrebbero guardata. Nessuno ti ha chiesta in moglie. Il garzone ti allunga una pagnotta. Chissà il timbro di chi porta. Non te lo chiedi più. Non vogliono che patisca la fame. Del resto, cosa prenderà la morte quando giungerà? Chiudi la porta al garzone e accogli l’aridità dell’aria con noncuranza, aspettando la grande notte dove il tempo sarà immobile. Fusa con la terra vivrai una nuova giovinezza, sentirai suonare le campane e vagherai per sempre cercando il tuo bel brigante spogliata fino all'osso dal desiderio. All’imbrunire accendi i ceri dentro le candeliere appese al muro. La luce forte ti disturba, le altre presenze nella grande casa non gradiscono. Finisce mai la condanna per chi rimane? Pensi mentre giri nella grande casa. Avresti potuto andare. Liberare la tua follia in altri abissi, in terre di nessuno. Portare il peso inerme dei tuoi Sassi all’orizzonte e spargere tutto sul volo degli uccelli. Sulle loro ali incurvate e gli occhi scavati. Sui becchi con i quali avrebbero bussato sulle finestre delle città vecchie e stanche coperte dalla polvere. E invece sei rimasta, Nausicaa dagli occhi chiari, affamati si muovono in cerca di quello che sempre manca. Chiami il tuo nome in mezzo alle statue che ti tengono compagnia. La tua voce echeggia sui comignoli della città. Bianche colombe sospese nel vento. Vorresti correre fuori e salire in quel groviglio di tetti, libera, scalza, come avevi visto fare altri bambini. Tua madre non te lo lasciava fare, ora che non c'è più potresti, Nausicaa. Tante cose potresti fare ora. Ma il corpo non ti obbedisce. Cerca disperato gli arti scomposti nel letto. I nodi delle mani, dei piedi, dove sono finiti? Come tradisce il corpo, il nostro
  • 7. 7 corpo, Nausicaa. Grande tradimento questo, non è il più grande di tutti? Che sarà mai il tradimento dell'uomo o della donna amata, il suo odore nel letto altrui, il corpo raccolto come un pugno chiuso. Inganna la sorte, Nausicaa dalle braccia bianche. Ognuno sotto la sua stella, la tua non è stata buona con te. Dopo, ti avevano detto di lasciare la casa, troppo grande per te. Scuotevi la testa e non rispondevi mai. Come si fa a lasciare una casa? Cosa prendi, cosa lasci? Dove rimangono i ricordi? Come si fa a catturali? Chi giace sotto una finestra, chi si nasconde dentro l’armadio opaco del corridoio, chi sul mosaico della cucina e chi nei capelli mielati del dipinto all’ingresso. Ci si perde in una vasta dissolvenza, senza speranza. Hai sperato invece, che lui tornasse. Tornerà, ti ripetevi mentre seppellivi i tuoi morti. Confusa dal dolore rivivi quel momento all'infinito. La torcia illuminava i loro volti senza vita e tu sei uscita dal tuo nascondiglio. Ti sei messa accanto a tua madre aspettando la fine. Lui, si è chinato e ti ha preso per il braccio. Non hai avuto tempo di guardarlo bene, dalla porta giungevano voci e passi. Nasconditi, ti ha detto. Hai visto il tremore che percorreva il suo corpo. Aveva freddo? Ti ha spinto dentro l'armadio. Aspetta, hai detto tu. Lui si è girato e ha visto qualcosa nelle tue mani. Tiene caldo, hai detto. Ti piace pensarlo mentre galoppa verso l'orizzonte mischiato ai colori del giorno nascente e con il maglione che tua madre aveva fatto per te. Ricordi tua madre, Nausicaa? Ha il colore del cielo, aveva detto la donna. Mentre lavorava ai ferri. Esistono cieli finti ? Avevi risposto tu. Il filo di lana passava velocemente dalle sue mani e il gomitolo per terra, diminuiva in fretta. Quel maglione, non l’avevi mai messo. Rimasto a lungo dentro l'armadio, ha trovato il modo per venire fuori dalla sua prigionia, in quella lunga notte.
  • 8. 8 Dopo, sei tornata ad occuparti dei tuoi morti. E dopo ancora hai continuato a vivere come se nulla fosse cambiato. Apparecchiavi per la tua famiglia. Il rumore delle stoviglie attraversava i vetri per arrivare fino alla strada. I pochi passanti alzavano la testa e poi proseguivano verso il buio con quel triste sorriso di tutti i solitari del mondo. E tu Nausica, avresti voluto correre per strada e portarli su, attorno alla grande tavola in sala. Guardavi oltre il vetro e contavi i comignoli senza fumo delle case in città. Pensavi al mondo oltre i Sassi. Sei rimasta, qui. La solitudine si è attaccata alla tua pelle come una malattia. Ci vuole pazienza Nausicaa, le malattie del mondo nei volti di quelli che tanto abbiamo amato. Ti alzi già stanca, al mattino... Attendi la visita del passero che si ferma per le briciole quotidiane. Ti specchi e conti con calma gli anni rifugiati nelle pieghe della pelle. Le spalle ossute sono incurvate dal peso che hai dovuto tenere. I lunghi capelli d’argento ti arrivano fino ai piedi come un velo grigio. Nulla copre la tua bellezza. La vecchiaia, il decadimento delle carni e della pelle, il dolore delle ossa che sfregano in silenzio. Sei ancora bella, Nausicaa. Trasparente, inafferrabile custodisci nel tuo petto i singhiozzi delle lune piene. La disperazione dei sassi che non mutano in nulla ma indifferenti obbediscono al silenzio. Sei ancora qui, Nausicaa. Nella tua grande casa. Nella terra dei tuoi morti che non hai voluto abbandonare. Quando le luci si spegneranno continuerai a camminare leggera, dipingendo di bianco i resti della notte. Tutto viaggia, ciò che viene oscurato dal tramonto albeggia altrove con il brusio del mare. Con ogni fiume che segue il suo letto placando l’ansia del contadino in aride terre. Con il cielo che si versa sulla terra alleviando la solitudine dell’erba. E con le foglie degli alberi portati dal vento che si poggiano sui Sassi insegnandoci ad accogliere la fine, la fine del giorno.
  • 9. 9 SO TUTTO – Marcello Fois Matera 1882, Ottobre. – Posso restare? Vizziello Mario. Io ascolto e basta… …Certo, a Mario piace ascoltare. In paese dicono che è ricco, ma non porta le scarpe esattamente come quelli di cui dicono che sono poveri. E’ ricco perché suo padre è ancora vivo; la guerra, le malattie, non se lo sono preso e adesso fa il bracciante da qualche signore locale e può garantire la sopravvivenza alla sua famiglia, Mario compreso. Ecco, Mario, nei suoi dodici, tredici anni, mi fa pensare a me. Al giorno in cui sono partito, alla trepidazione, alla vaga tristezza, ma anche all’eccitazione, di lasciare i posti noti, il calore della famiglia, per intraprendere questo viaggio ai confini del mondo. Quando arrivo a Matera, saranno state le due di notte, in fondo al cortile della casa, che mi è stata assegnata in piazza, al lato di una piccola chiesa stupenda, vedo una luce. Quella luce è Mario che regge una lampada. Gli altri erano andati a letto e ora, col trambusto delle pariglie, si affrettano a scendere per scaricare i bagagli del “professore”. Mario no. Lui è rimasto lì con la sua lampada. Come la vergine saggia della parabola. Certo Mario mi ha fatto pensare a me: guardingo e attento. Ma lui è ricco di suo padre mentre a me quella ricchezza è stata sottratta. In qualche minuto il cortile si illumina di varie luci. Mi accompagnano in un appartamento modesto, ma spazioso. Sono distrutto dai tre giorni di viaggio che è stato un susseguirsi impressionante di trabalzamenti della vettura e di soste, cambi, locande, letti scomodi, spesso sporchi.
  • 10. 10 In quella notte tutto mi sorprende perché non mi aspettavo tanta nitidezza di linee in questo confine estremo. Alla luce della luna la via dove mi trovo è bianca e lucente, come una scia astrale. Nella stanza da letto preparata per me c’è un vago profumo d’incenso, come fosse stata teatro di una veglia funebre, ma è probabile che questo sentimento derivi dall’improvviso senso di solitudine che mi prende: sono le tre di notte, sono a Matera, alla fine del mondo, e sono solo. Ida e Maria a quest’ora sicuramente non dormono. La mia sorella maggiore sicuramente tiene un lume sul mio comodino affianco al letto vuoto e sospira. Dico a Mario che può andare a dormire, che lo ringrazio per avermi atteso. Dice che si sistemerà di sotto pronto ad accompagnarmi al Regio Liceo non appena si sarà fatto giorno. Gli chiedo se avrò tempo di vedere la città. Dice che il tempo si troverà. Poi mi dice che bisogna riposare. Ho più del doppio dei suoi anni, ma pare che sia lui a stabilire le regole. Il sole è già alto e lui è già in piedi da un pezzo. Alla luce piena posso guardarlo per bene: dimostra di più dei suoi anni e veste un’antiquata e sobria foggia contadina. Per la via mi precede di due passi almeno, devo sembrare un gran signore in questo luogo fermo nel tempo. E’ una bella cittadina tutto sommato, ma piuttosto mal tenuta, al contrario della gente che ha un’aria assolutamente linda. Il mio nuovo Liceo è in cima ad un falso piano che si apre verso un paesaggio inquietante e primordiale. I “sassi” chiarisce Mario. E me lo dice spingendomi a guardare altrove, in fondo alla via dove si sta costruendo una bella e ampia piazza. E’ esattamente come se la città nuova sorgesse sovrastando quell’agglomerato di caverne maleodoranti senza riuscire a cancellarle. Chiedo a Mario se ancora in quelle caverne abitino delle persone.
  • 11. 11 Mario mi guarda, quasi gli scappa una risata: certo che ci abitano delle persone, mi dice. “Persone e bestie” aggiunge. Poi mi indica il palazzetto con l’orologio in cima in cui è situato il mio primo Liceo da professore. E’ stato un convento, poi un Seminario. Consumiamo un’ampia scalinata per entrare. Il corridoio d’ingresso è enorme, altissimo ma stretto stretto, costruito quando gli uomini dovevano apparire immensamente più piccoli dello spazio destinato al divino. Che risultasse chiarissima la distanza tra il calpestare questa terra e il determinarne i destini. Mario come sempre, mi precede lungo il corridoio e si ferma davanti alla porta del Preside. Questi mi guarda come si guarderebbe un soldato che è finito là per punizione: non sa proprio nulla. E magari verrebbe da spiegargli quale atroce sacrificio è stato per me obbedire, piegarmi per la necessità di trovare i mezzi di sussistenza. Necessità che ci ha attanagliato fin da quando eravamo ragazzi, io e le mie sorelle e mio fratello maggiore, ed eravamo rimasti “soli soli”. Privati di un padre, privati di tutto. Mi chiama “Professor Pascoli” con sussiego quel Preside, e mi assicura che per quanto riguarda la disciplina dovrò farmi valere soprattutto col suo ausilio. Mi vede giovane, ma non capisce che il fanciullo che ero è morto da millenni. – Questo è posto di briganti. – M’informa con l’aria di chi voglia spaventare un moccioso. – Vengo da un posto di briganti, Signore. – Rispondo perché sia chiaro che “alla fine del mondo” ognuno di noi ci giunge esattamente dalla fine del proprio mondo. Qualche volta dichiararsi inferiori è un modo per apparire superiori, penso. Il Preside controlla in silenzio i miei incartamenti e pare voglia prendersi del tempo per cambiare idea. “Carducci” sussurra tra sé, “niente di meno”, sembrano dire i suoi occhi quasi che mi accusasse di millantare quanto affermano gli attestati.
  • 12. 12 – Dovrà farsi valere anche con i colleghi. – M’informa. – Che sono insegnanti esperti, ottime persone anche se per lo più del luogo. – Aggiunge. Faccio cenno di sì, che capisco fino a che punto questa terra, e questo primo incarico, possano essere spazio e luogo di rivalsa. Anche dalla forra da cui provengo ogni estraneo è visto con diffidenza: deve lavorare il doppio, o anche di più, per dimostrare che vale davvero qualcosa. – Insegnerò e imparerò. – Dico. Il Preside mi guarda con un vago compatimento dipinto in volto, quindi mi porge i miei documenti e un registro intonso per congedarmi. Finito il colloquio Mario è ancora lì fuori, pronto ad accompagnarmi in classe. L’aula è grande, gli arredi semplici. Gli alunni sono più o meno una decina, bravi ragazzi sobri paiono, mi guardano come se fossi uno di loro. Mi avvio alla cattedra e apro il registro. – Antezza Nunzio. – Inizio cercando di tenere una voce ferma nonostante le “z” che atrocemente non ho mai saputo pronunciare. Nelle Romagne le “z” non esistono. Un mormorio di risata trattenuta di sparge in classe. Poi si quieta. – Presente. – Barberio Vincenzo. – Continuo. Non è presente. – D’Amore Pasquale. – C’è, in fondo, accenna. – Demitria Salvatore. – Eccolo, quello piccolo piccolo. – Guerricchio Giuseppe. – Rosso di capelli. – Ortolani Gaetano. – Secondo banco, allampanato. – Padovani Vincenzo. – Assente, “sempre assente” chiariscono. – Polini Antonio. – E’ quello torvo, zazzeruto, in ultimo banco. – Pugliese Giuseppe. – Eccolo lì proprio davanti a me, col ciuffo impomatato, come un piccolo adulto. – Rossi Alfredo. – L’ultimo, pallido e pensoso. Lui mi è caro da subito perché a fianco del nome di suo padre, nel registro, tra parentesi, c’è scritto “fu”. Proprio come a fianco del nome di mio padre, nei miei documenti.
  • 13. 13 Mario, che mi ha preceduto all’interno della classe, è andato a sedersi per terra in fondo all’aula. Vorrei dirgli qualcosa ma lui mi precede: – Io ascolto e basta… Posso restare? Vizziello Mario. – Chiarisce. Lo guardo, mi guarda. E’ come me. Dovrei essere sorpreso dalla sua richiesta, ma non lo sono. Io so tutto di lui e della sua fame che non è in nulla quella del corpo. Dovevo aspettarmelo. Faccio cenno che può restare. Poi mi volto verso la lavagna e, per presentarmi alla classe, scrivo il mio nome…
  • 14. 14 LA LUNA E LE MALVE- Nadia Terranova No, hai ragione, non ti avevo preso sul serio quando mi avevi detto: ti porto sulla luna. Ma che m’importava della luna? La conoscevo a memoria, ci avevo fatto l’abitudine nelle notti sul mare, in barca con mio padre, spaccandomi le braccia per la fatica, “Non vedi che è una femmina, la vuoi lasciare in pace?”, gli urlava contro mia madre, “Ma se questa è un masculazzo”, rideva, e io con lui. La mia famiglia era sempre stata ricca, mentre ora ci toccava giocare a carte con una nuova e sconosciuta povertà. Dalla vita di rendita all’affanno della pescheria: che brutto salto per una come me, cresciuta a libri e a non saper far niente, attaccata alle gonne di una balia messa alla porta senza complimenti dopo il fallimento della ditta di famiglia. Ci eravamo dovuti togliere tutti i vizi, e anch’io mi ero fatta passare la smania di gonne complicate e scarpe da femmina, tanto si usavano zatteroni così brutti che era meglio girare scalza. Con mio padre avevo imparato a pescare totani e “neonata”, pesci piccoli che si impastano e si mangiano a polpette. Lui però non c’entrava niente con i miei guai ed era innocente anche la barca, che, sopravvissuta alla decadenza, ci dava da mangiare; non era colpa di mio padre se la ditta era fallita. Non erano colpa di nessuno, i miei vent’anni: capita di averli, poi finisce lì. Sapevo che eri tornato in paese e sapevo anche che mi volevi, ti avevo spiato mentre mi fissavi le gambe, la schiena, le caviglie e saltavo su e giù dalla barca; appena mi giravo ti giravi dall’altra parte. Certo che mi ricordavo di te: l’amico di papà che se n’era andato a fare il giornalista ed era diventato famoso. Ti sei avvicinato un paio di volte con qualche scusa, non so cosa volessi regalarmi, un gelato, dei cioccolatini. Ho rifiutato. Non che non mi piacessi, semplicemente non volevo debiti con nessuno, tantomeno con te. Tu i soldi ce li avevi, anche più di quand’eri partito, quindi perché provavi gusto a umiliarmi? A me nessuno doveva regalare niente. La sera in cui ti ho
  • 15. 15 dato il bacio che volevi è cambiato tutto, hai preso sicurezza. Alla fine ti sei piazzato davanti a mio padre con gli occhiali storti sul naso e il tuo quotidiano di sinistra sotto il braccio: “La sposo”, hai detto, “senti, davvero, io la voglio sposare”. Lui ha provato a farti ragionare, ti voleva bene come un fratello, gli piaceva onorare l’amicizia di una vita: “Ma che dici, guarda che non ti posso dare niente”. Ti sei fatto rosso per l’offesa, “Che mi frega, ho soldi a sufficienza per tutti e due”, trattenevi male la rabbia, “… se lei vuole”, hai aggiunto, ricordandoti che adesso eri un comunista, andava di moda il femminismo, dovevi essere all’altezza di quella tua aria da emigrato non conforme. “Che dici, te ne vuoi andare con lui?” mi aveva interpellato mio padre. “Dove?”, come se non lo sapessi. “Dove non c’è il mare”. Mi ero girata a guardare la barca, il pescato che riempiva le reti a metà, le mie scarpe rosse da femmina invecchiate e sporche di catrame. “Sì, ci voglio andare”, e l’attimo dopo non avevo più vent’anni. No, non ti avevo creduto quando mi avevi promesso la luna. “La vedi, è Matera”, hai detto arrivando in macchina e io come una bambina la indicavo da lontano. Continuavi, per chiudermi la bocca spalancata di meraviglia: “Sì, ma a parte tutto questo bianco non c’è niente”. L’importante, per me, era che non ci fosse la fatica del mare. C’erano il bianco e il verde, c’era bestiame ovunque, bianco pure quello, c’erano il silenzio e una vita da inventare, soprattutto c’eri tu. “Ti porto sulla luna”, mi avevi promesso, e incredibilmente eri stato onesto: mi ci avevi portato per davvero. Mi spostavo fuori città per guardarla dalle murge: altro che la luna oltraggiata dagli americani, poveri americani contro cui inveivi dagli articoli che mandavi al tuo giornale, “Imperialisti!”, tuonavi senza pietà, colpevoli invasori persino della luna. Ma tanto era quella finta. La nostra città bianca e immobile, nascosta e silenziosa, lei sì che era la luna. Era il 1977 e un gruppo di compagni occupava il rione Malve, a me piaceva metterci l’articolo e lo storpiavo: Le Malve. I figli del proletariato e
  • 16. 16 soprattutto quelli della borghesia affermavano il diritto alla casa. Tu avevi il doppio dei loro e dei miei anni ed eri lì per raccontarli, te l’aveva chiesto il giornale, non avevi voglia di fare l’inviato ma ormai non eri più solo, dovevi pensare per due e temevi che portandomi subito a Roma sarei morta di malinconia. Sulla luna, invece, mi sarei divertita. “Non ti diverti?”, insistevi tutti i giorni. Avevi accettato quel lavoro per me, perché avevo vent’anni e non volevi togliermeli, ma se c’era un’appartenenza di cui non m’importava era l’età. Ero abituata al silenzio e me lo andavo a cercare di continuo. Giravo da sola in campagna, camminavo per ore nel deserto umano e mi sedevo a pensare, mi passavano davanti pastori e braccianti, quello sì mi piaceva: gente muta che non faceva domande, abituata a lavorare com’ero stata abituata io. Certi pomeriggi, seduta sulle pietre bianche, sentivo solo il vento. Il frastuono dei ventenni mi innervosiva, gli occupanti condividevano troppo: cucinavano insieme, mangiavano insieme, dormivano insieme, erano giovani insieme, che modi erano? Eravamo nel ’77, va bene, ma ero stata cresciuta in un’altra maniera. A te piuttosto la gente è sempre piaciuta, con la scusa delle interviste te ne stavi tutto il giorno fuori, l’età ti si era dimezzata, la sera tornavi tardi cantando. I miei vent’anni li avevo regalati a te: del resto, non avrei saputo che farmene. La vicina mi aveva insegnato a cucinare gli asfodeli, all’antica: a cena mangiavamo frittata di fiori. Per il resto, non mi chiedevi niente. Nella nostra casa in affitto, a ridosso dei Sassi, non mettevo a posto neanche un mestolo. Certo, rimanevi male quando la sera trovavi il letto sfatto come l’avevi lasciato la mattina. Però la svogliatezza la legavi alla mia età, e poi eri comunista e amico dei giovani occupanti rivoluzionari, con che coraggio avresti potuto chiedermi di fare la casalinga? La frittata di fiori bastava a entrambi. Poi un giorno l’hai finito, il tuo pezzo sugli occupanti che facevano rivivere i Sassi con un nuovo spirito dei tempi. Hai scritto dell’importanza del recupero delle origini e della necessità di fare la rivoluzione. Gli asfodeli non li
  • 17. 17 hai nominati. Abbiamo fatto le valigie e siamo andati a Roma. Non mi sono girata nemmeno una volta. È passata una vita, sempre insieme. Perfetti come quei giorni non ne abbiamo più vissuti. Siamo stati bene, ma sulla luna era un’altra cosa. Lì avevi avuto i tuoi vent’anni: ti avevo portato i miei in dote, visto che soldi non ne avevo, e ti avevo fatto felice. Certo, a Roma abbiamo avuto tre figli e cambiato due case, del tuo giornale comunista sei diventato direttore e poi cassaintegrato, la vita si è presa quello che ha potuto e qualcosa ci ha dato in cambio. Dei giorni di luna non abbiamo più parlato. Avremmo litigato di sicuro, perché i ricordi delle coppie non si somigliano mai. Ho prenotato una matrimoniale e precisato che mio marito tiene molto a una bella vista, mi hanno chiesto se era la prima volta che andavamo a Matera, ho risposto di sì, mi hanno assicurato che ci piacerà. Una volta che mi vedranno arrivare da sola qualcosa inventerò. Vedova è una così brutta parola.
  • 18. 18 TRA ADESSO E FORSE – Paolo DI Paolo La seconda cosa che pensò arrivando a Matera era che non ne sapeva niente. La prima non se la ricorda bene, ma c’entrava con lo stupore – il vento era forte, quasi ostile, lui si voltò e vide tutto raccolto il cuore della città: millenaria e grigia, antica e nodosa e grigia come il tronco di quegli ulivi giganteschi che ignorano le epoche, le sfidano. Passano Napoleone e Mussolini e non importa, è stato solo un minuto più lungo nel tempo infinitamente vasto. Pensò anche, come la prima volta a Roma, che sapere troppo di un luogo, saperlo prima, non serve a molto, come preparare la valigia per un viaggio che hai già deciso di non fare. Per il resto, si sarebbe messo ad aspettare le notizie, come era giusto che facesse un cronista locale. Più che notizie – lo capì in fretta – c’erano storie, bastava prendere un caffè o fermarsi a un angolo di strada più del dovuto, per essere quasi assaliti, arrivavano a folate, con la stessa intemperanza del vento in un tratto di salita verso il Duomo. Ma di storie un giornale locale non sa che farsene, erano peraltro storie lontane, vicende che i narratori casuali collocavano in un calendario senza anni: sembravano di ieri, e magari era il ’56. È proprio necessario che io resti qui? Domandava speranzoso a un datore di lavoro che nascondeva la propria stessa inadeguatezza con l’entusiasmo. È necessario sì, rispondeva perfino stizzito il datore, se vogliamo essere alternativi ai grandi quotidiani già radicati al Sud, dobbiamo catturare nel ronzio anche le notizie che nessuno cattura, quelle che proprio si fa fatica a cogliere, a sentire, così che alla gente sembri, leggendo, di ascoltare un vicino di casa più pettegolo e più – più competente, ecco. Competente in cosa? Competente e basta, competente nelle vite altrui. Poi, dio santo, non vedi? Questo è un anno di notizie grosse, guardati indietro: quanta gente hanno ammazzato in pochi mesi. Piersanti Mattarella: era gennaio. Vittorio Bachelet: era febbraio. Le scale dell’Università di Roma macchiate di rosso.
  • 19. 19 Walter Tobagi: era maggio. La gente morta alla stazione di Bologna. Quelli spariti a Ustica, sul volo per Palermo. Questo stupido, feroce anno bisestile. Manca poco, disse d’istinto. Manca poco a cosa? Manca poco alla fine. Sei superstizioso? No, rispose, ma le cose, le cose, a volte ti costringono a esserlo, a pensare che una serie troppo fitta di coincidenze diventa una prova. Una prova di che? Il punto era sempre questo. E comunque, riprese il datore, nel mare delle notizie grosse la gente ha bisogno di quelle piccole. Sono rassicuranti. Anche quando ti dicono che il vicino di casa ha sgozzato sua moglie, tu – dopo il primo salto, dopo lo sgomento – pensi che in fondo sì, li avevi sentiti urlare come due ossessi, urlare più di una volta anche troppo, i due stronzi. Mentre se ammazzano Mattarella, Bachelet, o Tobagi, c’è un disegno, lo senti, un disegno oscuro e, dietro il buio della tua ignoranza, preciso. La cronacaccia nera, quella di paese, è solo, solo brutale e sordida, brutale e sordida come la vita. Fatto è che le storie gli restavano in testa, le notizie no. A chi gli raccontava di essere nato nei Sassi, di essere andato via e poi tornato – “tornato adesso, da qualche giorno, in questo posto che era stato mio, duro, umido, e senza luce come l’istante in cui venivo al mondo, ero il bambino Gesù dell’anno 1957 dopo Cristo, uno dei tanti, disgraziati cristi scaldati dal fiato dell’asino che non stava fuori, ma dentro casa, e puzzava, sì, per carità, ma teneva caldo e dava sicurezza, maestoso nella sua innocenza, nella resa a uno squallore che per lui, per l’asino di casa, non era una fra le possibilità dell’esistere, ma la sola” – a chi gli raccontava questo, avrebbe voluto chiedere: ma allora perché sei tornato? La risposta, di solito, era un silenzio, uno sguardo vuoto oppure stupito. Come se potesse davvero esserci una risposta a una domanda simile. Come se ci fosse qualcos’altro di urgente da
  • 20. 20 fare, a un certo punto della vita di tutti, proprio di tutti, che non sia tornare a casa. Nell’autunno inoltrato, quando il buio crollava su Matera prima delle sei del pomeriggio, e nessuna notizia gli sembrava fosse arrivata – aveva sbagliato lui? dove e come si era distratto? – quando era costretto a dire che no, non c’era proprio niente da scrivere, gli sembrava di essere il personaggio di un romanzo che lo aveva insieme annoiato e sedotto. C’è un uomo che aspetta i Tartari, aspetta, aspetta, con un’estenuazione che lo faceva sbadigliare sulla pagina, ma i Tartari non arrivano. Possibile che non ci sia niente? Era il datore che chiamava verso le sette di sera. Sì, è possibile. No, non lo è, dappertutto – in ventiquattr’ore che ci mette questo mondo a fare un giro – dappertutto accade qualcosa. Qui no. Anche un funerale può essere una notizia, a saperlo raccontare. Chi è il morto, perché è morto. Di che vuoi che muoiano i più? Di vecchiaia, per fortuna. Oggi, in Basilicata, morti 2 e nati 3. Vedi, già è qualcosa! Un nato in più rispetto ai morti… Qualcosa dev’esserci, sforzati, pensaci, in questa giornata di novembre, qualcosa che domattina la gente possa leggere sul nostro giornale, senza pentirsi di averlo acquistato. Qualcosa forse c’è. Lo vedi? Dimmi. Mah, una cosa da niente. Avanti, qualunque cosa sia. In diverse edicole di Matera oggi sono state sequestrate riviste pornografiche. 150 copie di pubblicazioni ritenute oscene ritirate dalla polizia per decisione del giudice istruttore Bartolomei, Tribunale dell’Aquila.
  • 21. 21 E ti pare poco? Sì, mi pare pochissimo. C’è materia per indagare. I poliziotti che hanno sequestrato le riviste erano uomini? Perché, che differenza fa? Beh, se erano uomini devono essersi divertiti a fare incetta di riviste piene di donne nude. No, pare che i giornali siano stati ritirati dalla polizia femminile. Bene! Bisogna approfondire. Sentire queste poliziotte, sondare le loro reazioni, i loro pensieri, mentre avevano per le mani i sollazzi tipografici dei loro mariti. Ce la fai a scrivere cinquanta righe? Cinquanta righe? E che dico, in cinquanta righe? Che ne so, inventa, fai colore, alludi. Le conoscerai le riviste porno, no? Sì che le conosci. Pensandoci meglio, potremmo dare risalto a una lettera di denuncia dei viaggiatori del pullman Matera-Irsina. E che dicono i viaggiatori del pullman Matera-Irsina? Dicono che rischiano la vita ogni giorno, che arrivare a Matera è un’angoscia quotidiana, e che il pullman all’improvviso trema tutto, ogni santo giorno, tremano lo sterzo e le ruote, e l’autista riesce a guidarlo a stento. Mah, non so, questa mettiamola nella pagina delle lettere, la gente esagera sempre, i pericoli veri sono altri. C’è ancora qualcosa? No, mi pare proprio di no. Sicuro? Oddio, un’altra cosa forse ci sarebbe, è una storia strana, un tizio di Genzano di Lucania, tale Oronzo M., aveva organizzato una fuga d’amore a Matera con una ragazzina, gli hanno dato tre anni di galera. Per una fuga d’amore? Sì, perché lei è minorenne e pare che lui volesse indurla a prostituirsi.
  • 22. 22 Abbiamo dettagli su questo Oronzo M.? Chi è? Che fa? Poco e niente. Allora indaga, scava, chiedi, telefona, fai per una volta il tuo mestiere, ci vuole un tocco di epica in questi casi. Fallo diventare l’insospettabile bravo ragazzo di cui qualunque ragazza si sarebbe fidata. Ti saluto, amico mio. Aspetto entro un’ora il pezzo sulle riviste porno. Sì, ma dove le trovo le poliziotte a quest’ora di domenica? Arrangiati. Direttore? Sì. Facciamo una cosa. Su Oronzo M. torniamo quando avrò più materiale. Io domani, al posto dei giornali porno, metterei una notizia di pubblica utilità. Sentiamo. Che finalmente stanno per partire i lavori di restauro su un gruppo di case di via Fiorentini, nel Sasso Barisano. Un po’ grigia come notizia, ma va bene. Quanti alloggi entrano nel piano di restauro? Una decina, ma il progetto è di recuperare totalmente due rioni. Quando pensano di concludere i lavori? Entro la fine del 1981. Cioè di qui a un anno? Sì, buonanotte! Abbassando la cornetta, giusto il tempo di avere davanti agli occhi, come una visione o un ricordo preso in prestito, la casa di quel signore nato nel ’57 nel Sasso Barisano, proprio dalle parti di via Fiorentini, aveva detto, si accorse – erano le 19.37 – che il telefono davanti a lui stava tremando, e tremava la scrivania e tremava la sedia, e tremavano i libri sulle mensole e tremava tutto. Tremavano i piedi e la terra sotto ai piedi, in un tempo che, al contrario di quello degli ulivi, è un minuto che diventa un secolo, e non sai nemmeno più chi sei né dove, perché è come sentire che ogni cosa, sotto e
  • 23. 23 intorno, potrebbe sbriciolarsi, si sbriciola, e tu con tutto. E che mentre la terra si muove la vita si ferma, congelata in una porzione di mondo che potrebbe essere un continente, una regione, o soltanto Matera, e le poliziotte, Oronzo M. e i geometri e gli addetti al piano di restauro, tutti fermi, immobili come i sassi che resistono alla scossa, come animali senza più un nome e un futuro, come l’asino che scaldava casa nell’inverno del ’56 arreso a tutta quella neve uniforme e gelida quanto il suo destino, tutti insieme, centinaia, migliaia di viventi tenuti in sospeso, tra adesso e forse, tra ora e ancora, tutti senza più notizie, con le loro storie a metà. Fino all’istante in cui, se arriverà, prenderanno badili e torce e picconi, ma soprattutto fiato, e le mani smetteranno di tremare come la crosta terrestre e ritroveranno forza e cura per aggrapparsi, stringere, impastare quintali di pane, quaranta quintali al giorno da portare fino a Potenza; fino all’istante in cui si sentiranno, e potranno dirsi, ancora una volta salvi, ancora per un po’, vivi.
  • 24. 24 LA FELICITA’ A MATERA – Antonio Pascale Questo racconto inizia da lontano, dagli anni ’70. Allora frequentavo le medie ai salesiani e con tutta la classe venimmo in ritiro spirituale, a Matera, prima della pasqua. Eravamo tutti maschi e ho ora ho ricordi confusi, in bianco e nero. Anziane silenziose e sfuggenti con lunghi scialli neri e vecchi accovacciati contro i muri, tanti cani. L’interno di una casa, o di una grotta, comunque un unico ambiente buio, sul muro tante pentole di rame, accanto, tante immagini di madonne e santi. Insomma, le orazioni, le preghiere, il silenzio. Però, sapete com’è a 13 anni, i primi impulsi sessuali, le pratiche faccio da me, e infatti, un mio amico in un momento di solitudine- il buio, l’ombra, le grotte, e i pensieri, le tentazioni- ecco questo mio amico ebbe un impulso - tipico di quell’età- e va bene, capita, ma purtroppo fu beccato da un prete, Don del Pozzo. Che preoccupato per l'andazzo, temendo che si diffondesse, prese me e altri in disparte e ci ammonì: vi taglio le mani e ricordatevi – ci disse – che un minuto di piacere non vale l'eternità passata all'inferno. Dopo l'avvertimento, tornando a casa, in pullman il mio amico mi chiese: ma come si fa a farlo durare un minuto? Siccome ricordo la città che si allontanava, le gravine, i sassi, qualcosa di rudimentale e di essenziale insieme, Matera per me è diventata, negli anni il luogo dell’imprinting: come prolungare il piacere, anzi come orientarlo, trasformarlo in sentimento di calma e pace oceanica, o un unguento che rilassi il corpo e spalanchi i miei sensi verso panorami immensi? Dopo l’esame di terza media con tutta la famiglia e gli amici di famiglia, da Caserta, prendemmo la Basentana diretti a Metaponto e qualcuno disse, andiamo a mangiare a Matera. Ho ricordi confusi, anche lì, in bianco e nero, mi ricordo che ascoltavano Julio Iglesias e Nicola di Bari e ricordo che stavo su un muretto
  • 25. 25 e un attimo dopo a terra: braccio destro, radio e ulna, rotti, frattura scomposta – sarà stata la maledizione di Don del Pozzo. Ospedale vecchio di Matera, e niente non riuscivano ad aggiustarmelo e così dovetti subire la mia prima operazione. L’anestesia, il risveglio, quel senso di malessere, tutto questo andava bene, quello che mi faceva soffrire, invece era la degenza, cioè mi fecero stare tre giorni, dopo di che mi dissero: potrai uscire. Io volevo uscire, volevo raggiungere gli altri al mare, e poi dalla finestra della stanza d’ospedale, non vedevo niente: era tutto buio. E arrivò il terzo giorno e i medici cambiarono idea: altri due giorni, per controlli. Credo che piansi disperato per ore un senso di prostrazione così non l’ho mai provato, tanto che alla fine, mi addormentai. Quando mi svegliai c’era mio padre che mi disse: dai, veloce, che andiamo via. Pensavo di sognare: dai, ho firmato, mi sono preso io la responsabilità, andiamo. Non mi vestii nemmeno, me ne andai in pigiama, era estate, e ricordo bene una parte del tragitto dall’ospedale a fuori Matera, rivedo alcune grotte, le chiese, le croce e le vecchie con gli scialli neri, i vecchi accovacciati ai muri, i cani, delle vacche, i muli e mi sembrò bellissimo e non solo, per molti giorni, mi sentii felice. Erano gli anni ’70 e di quel decennio mi sono rimaste due cose: la presa di posizione di mio padre, aveva capito che stavo soffrendo e dunque doveva far qualcosa per me, e l’idea che senza un periodo di sofferenza non si può essere felici. Queste due concezioni, saldate insieme mi hanno rovinato il successivo decennio. Perché arrivarono le ragazze, e cominciai a pensare che tutte le ragazze soffrivano ed esigevano qualcuno che si prendesse una responsabilità e che le portasse fuori da quella valle di lacrime.
  • 26. 26 Quello ero io. Cristina, la mia fidanzata storica. Bellissima, bionda, camminava sul Corso e lasciava una scia dietro di sé. Il problema era che Cristina soffriva e non sapeva il perché. Non c’era una condizione di sofferenza, al contrario era proprio una vocazione. A Caserta si faceva l’amore tutti insieme, un amore collettivo, lungo una strada. Si fermavano le macchine, si mettevano i giornali ai vetri e si procedeva. Io e Cristina no, cioè, mettevo i giornali e spesso lei cominciava a piangere. Non credo fossero i titoli tragici della provincia casertana a inquietarla. Nel 1987 facemmo un viaggio a Matera e ci inoltrammo per i sassi: litigammo tantissimo. Eppure era una giornata splendida, tra cielo e sassi solo luce, in cielo qualche cirro arricciato e colorato di rosa. Ma il percorso ci scombussolò. Un momento eravamo sulle scale, il momento dopo sui tetti di una casa, e qualcosa dentro di noi si mescolò, perdemmo l’orientamento e litigammo: Ma perché soffri? le chiesi. Lei mi rispose: Mah? forse non c’amiamo. Non so se a volte l’essenzialità, appunto rocce e sassi, questi elementi primordiali possono favorire l’amore, tipo: non ci manca niente, è tutto qui, oppure al contrario, possono far fallire l’amore: è tutto qui? denudati, avvolti dalla luce, senza fronzoli e orpelli, beh, c’è solo dolore e l’amore non è amore. Ci lasciammo e siamo al decennio successivo. Avevo capito che non dovevo provarci più di tanto a cambiare con l’amore le persone, a prendersi delle responsabilità, come mio padre aveva fatto con me. Gli anni novanta sono stati più allegri, ho cominciato ad associare l’amore al sesso e il sesso al sonno. Non che dorma, no. Far bene l’amore e dunque cercare di prolungare il piacere, aveva stretti punti di contatto con il dormiveglia, essere vigili ma non troppo, avere la vista sfocata, le membra flaccide. Cadere nel sonno non
  • 27. 27 dopo aver fatto l’amore, ma anche prima di fare l’amore, era diventata una specie di pratica, tutta nuova per me: non posso asciugare il pianto, però un momento di pausa, una lunga dormita, prima o dopo, diciamo così, il pasto, bè, quella sì, la potevo offrire. Sono tornato a Matera, con delle fidanzate, negli anni successivi e sì: ho dormito tanto. Ormai, l’amore, per me corrispondeva a una dichiarazione di debolezza, siamo una gravina d’argilla, da un momento all’altro scivoliamo giù e non resteranno che sassi e macerie. E siamo al 2014. Di nuovo qui a Matera, per lavoro ministeriale. Alloggiavo in un buon albergo, con bel panorama. Ma non riuscivo a dormire, e sono sceso. Ho fatto tante fotografie ai Sassi di notte e forse il languore non so, i ricordi, ho pensato: chissà se il problema delle felicità non sia tutto qui. Non vogliamo morire. Forse la nostra idea di felicità esiste solo per ingannare la morte. L'evoluzione c'ha insegnato delle strategie. Una è: non pensare al futuro: siamo qui e ora, e ci divertiamo, ridiamo, ci abbandoniamo davanti a un tramonto o tra le braccia di una donna e tutto questo solo per allontanare la paura. Mi è venuta allora voglia di passeggiare per i Sassi, da solo di notte. E ho pensato: sì, d’accordo: ma questo non risolve il problema. Ci sono molti libri intitolati: cose bellissime e indimenticabili da fare prima di morire. Indimenticabili.... Il problema è che una volta morti dimenticheremo tutto. Anche questo spettacolo dei Sassi di notte. E per questo allora che cerchiamo di sopravvivere a noi stessi? È la seconda strategia per essere felici, fare figli, moltiplicarsi, creare opere d'arte, il ricordo di noi sopravviverà in quelli che restano, nella nostra comunità, nella famiglia, nel clan. Ma nemmeno questo funziona, non completamente. Come dice Woody Allen, io non voglio sopravvivere nei cuori della gente, io non voglio proprio morire.
  • 28. 28 Mi sono fermato accanto a una chiese rupestre, semplice, nuda, essenziale. Mi sono detto: è questa la soluzione? Credere nell'anima. Lo spirito che ci sottragga al nostro destino mortale, che ci porti da un'altra parte, ma così come siamo, con il nostro corpo, i nostri pensieri e i nostri ricordi? Questa strategia è buona, ha solo un difetto, affinché funzioni devi crederci, e tanto anche. E io non ci credo, sì, sono belle queste chiese, appunto, semplici e rudi, ma non ci credo. Cosa mi resta per la felicità? Forse c’è un’ultima cosa da dire: il racconto di un esperimento che ha soddisfatto infine la domanda del mio amico: come si fa a far durare il piacere più di un minuto. C’è questo studio del 1972, uno studio criminale. C'era un paziente gay e lo si voleva curare... era pure depresso, insomma, per farla breve gli hanno impiantato degli elettrodi in una zona del cervello, uno nell'area settale che quella che si pensava destinata al piacere. Ebbene, si permise al paziente di premere il bottone e stimolarsi da solo, ebbene sapete cosa successe? Diventò etero? No, cioè, pare di sì, gli facevano guardare dei porno etero, insomma, era veramente uno studio criminale, ma poi ha aperto una strada per la scoperta delle dinamiche del piacere.... praticamente quello come un bambino premeva sempre il bottone ed entrava in uno stato di gioia euforica incontenibile, però, tra una seduta e un'altra, chiedeva, per favore di essere scollegato, ma quando premeva il bottone: era così felice che non pensava più a niente. La felicità è una dimensione solitaria, riuscite a capire il tormento di quel povero uomo? Implorava di non essere felice, perché quando lo era, era solo. Incapace di relazioni, di guardare il mondo, le pietre e le stelle, non poteva godersi lo spettacolo degli sassi, per esempio. Messa cosa possiamo dire due cose: non abbiamo diritto alla felicità, meglio l’inquietudine e quel sentimento che ci fa alzare lo sguardo verso le
  • 29. 29 stelle, ci fa sentire piccoli e proprio per questo fragili e bisognosi: è l’inquietudine che ci fa saldi negli sradicamenti quotidiani La seconda cosa, la gioia che ci annoda, l’uno con l’altro, in alcune notti come queste, è in stretta relazione al dolore che ci inchioda qui a queste pietre, da un’infinità di tempo: forse la felicità è tragica.
  • 30. 30 RESURRECTION – di Mariolina Venezia La notte era soffocante, o forse a essere soffocante era l’atmosfera nella camera che Laura aveva prenotato per il fine settimana. Aveva trovato un’offerta speciale e si era affrettata a bloccarla, attratta dalla spa, dalle foto suggestive e dalla promessa di due notti indimenticabili, un viaggio nel tempo protetti dall’abbraccio avvolgente della roccia. O qualcosa del genere, come diceva il depliant. La prima sera, appena arrivati, risalendo dal ristorante dell’albergo, anzi del resort, come lo chiama lei, ci siamo addormentati di colpo sul letto king size. Io senza neanche spogliarmi, sdraiato sul copriletto, aspettando che lei uscisse dal bagno. Credo che Laura sia emersa dalla grotta con vasca idromassaggio indossando una sottoveste di seta bianca e scivolosa, che non le avevo mai visto. Lo ricordo come un sogno, un’apparizione intuita attraverso le palpebre socchiuse. Ho allungato una mano per toccarla, quando si è infilata sotto le lenzuola. Dev’essere crollata subito anche lei. Abbiamo trascorso la notte come narcotizzati. Al mattino ci siamo detti che nei Sassi di Matera si dorme come sassi. Ma non abbiamo riso. La seconda notte nella terza città più antica del mondo è successa la cosa opposta. Dopo una giornata per scalette e vicinati, i piccoli slarghi dove si affacciano le case, visitando conventi che scavano i fianchi dell’altopiano e chiese rupestri con gli affreschi bizantini, dopo gli aperitivi sul terrazzo del bar con vista mozzafiato e i paesaggi preistorici dall’altra parte del torrente, la Gravina, in un’armonia troppo perfetta per poterci credere, una volta usciti dal bagno termale nella penombra tufacea delle cisterne rischiarata a lume di candela, è venuto il momento. In quindici anni di matrimonio il mio amore per Laura è rimasto immutato, forse anzi è più profondo di prima, ma è come se continuasse a vivere in un luogo o in un tempo irraggiungibile. Qui e ora mi diventa sempre
  • 31. 31 più estranea. E io a lei, probabilmente. Tutto ciò di cui siamo ancora capaci uno verso l’altro è una tenerezza che ci umilia. Alle tre del mattino eravamo entrambi svegli. Io mi rigiravo fra le lenzuola, Laura stava immobile, costringendosi a un respiro regolare, che simulava il sonno. Avrebbe convinto chiunque. Forse anche me, se non avessimo avuto alle spalle troppe notti come quella. Per tacito accordo, da più di un anno evitavamo di esporci al fallimento. Ci trascinavamo in una promiscuità fraterna, fingendo che tutto andasse bene. Vivevamo persino momenti di precaria felicità. E ora la tregua era stata rotta. Ho messo giù un piede, silenziosamente mi sono diretto verso il bagno. Mi sono infilato i vestiti. Contavo sul fatto che quando avrebbe capito cosa stavo facendo sarebbe stato troppo tardi. In ogni caso, speravo, non avrebbe rinunciato alla copertura del sonno per fermarmi. La notte era chiarissima. La prima cosa che ho visto uscendo è stata una luna enorme sospesa sulla sagoma massiccia della Murgia, acquattata al di là della Gravina come un mastodonte paleolitico. Mi sono avviato lungo la discesa col batticuore di un evaso. L’aria calda mi accarezzava la pelle, il respiro riprendeva a fluire. Libero. Ero libero. Ho raggiunto la strada principale, quella asfaltata che affianca il dirupo sul torrente. Sopra di me anche i Sassi, finalmente privi del via vai colorato dei turisti, del chiacchiericcio delle guide, affrancati dal design e dalle definizioni accattivanti, sembravano respirare. Esalavano un odore di tufo sgretolato, di muschi, di erbe selvatiche e di parietaria, che mi faceva starnutire. Più avanti, nel Caveoso, gli occhi ciechi delle grotte si popolavano di ombre, forse i fantasmi degli antichi abitanti scacciati dalle loro case, che tornavano a visitarle. La città abbandonata, momentaneamente restituita al silenzio, nel bianco e nero del plenilunio ritrovava il ricordo di una fierezza persa. Quando ho riportato lo sguardo sulla strada, due donne camminavano avvolte in lunghi scialli neri. Ho accelerato per raggiungerle, imboccando
  • 32. 32 anch’io la scala poco più avanti e mi sono trovato in una piazzetta con una chiesa rupestre dalla facciata barocca. Di loro, nessuna traccia. Nel silenzio, in qualche strada adiacente, si sentiva il battere ritmato degli zoccoli di un mulo. E l’eco di un pianto, o una risata. In quel momento nel cielo si è diffuso un chiarore forte e innaturale. Da lontano, al di là della Civita, un tramestio, un vociare, l’affaccendarsi di un’intera città che trasloca, mi arrivava a intermittenza, con lunghe pause che mi facevano dubitare di averlo sentito. Dimenticando finalmente Laura, la camera del resort e le decisioni che non riuscivamo a prendere, mi sono mosso in quella direzione. Salivo, scendevo, attraversavo slarghi, arrampicandomi e inoltrandomi senza accorgermene nel cuore del labirinto di pietra. “E ‘nnamo. Er brutooo!!!” Improvvisamente vicino, il grido mi aveva fatto sobbalzare. Da ogni vicolo sbucavano adolescenti, poco più che bambine. Correvano ridacchiando ed emettendo gridolini isterici. Le ho seguite fino ai bordi di una grande piazza che sovrastava lo strapiombo, tutta transennata e invasa da mezzi pesanti. Schivando un asino che batteva lo zoccolo per terra e si scaricava sul lastricato, uomini in tuta mimetica e giubbotto fluorescente la percorrevano in tutti i sensi. Montava un’euforia carica. Sospeso su uno spiazzo, in alto, mi è apparso un piccolo monte di roccia, con una spelonca incastonata, che in quel momento si è illuminata a giorno. L’imbocco della caverna era a metà ostruito da un enorme masso dal quale si è affacciato un giovane coi capelli lunghi, alto, biondo, vestito di azzurro. Si è scatenato il delirio. Le ragazzine urlavano un nome che non capivo, mandandogli baci. Uomini col transistor respingevano le scalmanate oltre le transenne, qualcuno smatassava cavi e tutto si accelerava, quando una voce al megafono ha gridato qualcosa in inglese. Ogni rumore si è interrotto.
  • 33. 33 In un silenzio carico di tensione il biondo ha attaccato a cantare aprendo le braccia e alzandole al cielo. “Happy, happy, happy in the sky…” Una donna intabarrata di nero, e un’altra dai lunghi capelli sciolti sulle spalle facevano coro con le loro voci acute, danzando e liberandosi dai vestiti fino a restare in bikini di paillettes. “Resurrection resurrection resurrection”. Come galleggiando nel vuoto, avanzava verso di loro un’enorme telecamera, e con triplo salto mortale un giovane efebico in guaina di raso bianco ornata di piume piombava sulla grotta, poi sul masso, e nello spazio antistante, esibendosi in acrobazie che ogni tanto interrompeva per cantare in falsetto. “Resurrection”. Due centurioni si alzavano da terra e scrollandosi la polvere dalle armature muovevano pesantemente qualche passo, intonando con voci baritonali “Resurrection, resurrecion”. Il Messia americano, mani aperte al cielo, lanciava il suo assolo. “Father oh father... Le ragazzine erano in trance e dietro di me ne portavano via una svenuta, quando piombò il buio. Da sotto, non si capiva cosa stesse succedendo, se non che crollavano le scene di cartapesta, le torrette, i tralicci, i pannelli e i riflettori. Il biondo era sparito, gli uomini della security impazzavano, quando si sentì tuonare: “Portate via queste cose e non fate della casa di mio padre un luogo di mercato”. Sulla cima della Madonna dell’Idris, nel cono di luce di un proiettore rimasto in piedi, una delle comparse locali fin lì assiepate ai bordi della scena, un uomo di mezza età vestito di stracci, forse perché ubriaco, forse per un’originale forma di rivendicazione salariale, brandendo la frusta gridava nel megafono. “Questa non è la Palestina. E neanche l’America. Tornatevene alle case vostre. Non lo sapete cosa sta scritto? La casa mia sarà chiamata casa di preghiera, ma voi ne fate una spelonca di ladri.”. Prima che gli uomini della security riuscissero ad afferrarlo era scomparso.
  • 34. 34 Rimasi dov’ero ancora qualche istante per raccapezzarmi, poi mi avviai. Non so quanto tempo era passato, il cielo si stava schiarendo. Mentre la luna impallidiva, i Sassi prendevano pian piano una tinta rosata e si alzava un venticello fresco, che mi faceva rabbrividire. Attaccava un concerto appena abbozzato di uccelli. Nella città millenaria tutto appariva nuovo, quel mattino. In albergo, Laura stava facendo le valigie. Non mi chiese nulla, né io le dissi da dove venivo, ma tornando a Milano, nei giorni successivi scoprimmo che avevamo ritrovato il coraggio di guardare in faccia le cose e chiamarle col loro nome. Più che un week end rilassante, Matera ci aveva regalato una nuova visione del tempo, e delle sue infinite possibilità. Il tempo dove un mortale sconfisse la morte abbracciandola. Il tempo dove tutto si perde e tutto ritorna. Dove l’inizio e la fine non sono che un incidente di percorso.
  • 35. 35 GLI SCRITTORI PROTAGONISTI DEL FESTIVAL Anilda Ibrahimi: nata a Valona nel 1972. Ha studiato letteratura a Tirana. Nel 1994 ha lasciato l'Albania, trasferendosi prima in Svizzera e poi, dal 1997, in Italia. Il suo primo romanzo Rosso come una sposa è uscito presso Einaudi nel 2008 e ha vinto i premi Edoardo Kihlgren - Città di Milano, Corrado Alvaro, Città di Penne, Giuseppe Antonio Arena. Per Einaudi ha pubblicato anche il suo secondo romanzo L'amore e gli stracci del tempo .. Nel 2012 ha pubblicato, sempre per Einaudi, Non c'è dolcezza. I suoi romanzi sono tradotti in sei Paesi.
  • 36. 36 Marcello Fois: nato a Nuoro nel 1960, vincitore del Premio Italo Calvino 1992, vive e lavora a Bologna. Ha pubblicato molti libri, tra cui: Falso gotico nuorese (Condaghes, 1993), Picta (Premio Calvino, 1992), Gente del libro (Marcos y Marcos, 1995-96), Il silenzio abitato delle case(Mobydick, 1996), Nulla (Il Maestrale, 1997), Sheol (Hobby&Work, 1997 e L'Arcipelago Einaudi, 2004 ), Sempre caro (Frassinelli e Il Maestrale, 1998 e Einaudi, 2009), Gap e Sangue dal cielo (Frassinelli, 1999 e Einaudi, 2010), Ferro Recente e Meglio morti (usciti negli Einaudi Tascabili nel 1999 e nel 2000, già precedentemente pubblicati da Granata Press), Dura madre (Einaudi, I coralli, 2001 ed Einaudi Tascabili, 2003 ), Piccole storie nere (L'Arcipelago Einaudi, 2002 e ET Scrittori, 2010), Memoria del vuoto (premio Super Grinzane Cavour 2007, premio Volponi 2007 e premio Alassio 2007), Stirpe (Einaudi, 2009 e 2011), Nel tempo di mezzo (Supercoralli, 2012 e Super ET, 2013) e L'importanza dei luoghi comuni (L'Arcipelago Einaudi, 2013). Ha scritto due racconti per le antologie Crimini (Einaudi Stile libero, 2005), Crimini italiani (Einaudi Stile libero, 2008) e L'altro mondo (ET, 2011). Nel 2006 ha pubblicato la raccolta di poesie L'ultima volta che sono rinato. Con Il tempo di mezzo nel 2012 è stato finalista al Premio Campiello e al Premio Strega.
  • 37. 37 Nadia Terranova: nata a Messina nel 1978 e vive a Roma. Tra i suoi libri, Bruno. Il bambino che imparò a volare (Orecchio Acerbo 2012, illustrazioni di Ofra Amit) che ha vinto il Premio Napoli e il Premio Laura Orvieto ed è stato tradotto in Spagna. Gli anni al contrario (Einaudi Stile Libero 2015) è il suo primo romanzo.
  • 38. 38 Paolo di Paolo: Nato a Roma nel 1983, nel 2003 entra in finale al Premio Italo Calvino, con i racconti "Nuovi cieli, nuove carte". Ha pubblicato libri-intervista con scrittori italiani come Antonio Debenedetti, Raffaele La Capria e Dacia Maraini. È autore di Ogni viaggio è un romanzo. Libri, partenze, arrivi (2007), Raccontami la notte in cui sono nato (2008). Nel 2011 pubblica Dove eravate tutti (Feltrinelli, vincitore del premio Mondello, Superpremio Vittorini e finalista al premio Zocca Giovani), nel 2012 nella collana di ebook "Zoom" Feltrinelli La miracolosa stranezza di essere vivi. Nel 2013 con Mandami tanta vita (Feltrinelli), è finalista al Premio Strega 2013
  • 39. 39 Antonio Pascale: nato a Napoli nel 1966, ha pubblicato La città distratta(Edizioni l'Ancora, 1999 ed Einaudi, 2001); La manutenzione degli affetti («L'Arcipelago Einaudi», 2003); Passa la bellezza(Einaudi, 2005); Scienza e sentimento (Vele 2008); Tre terzi, con Diego De Silva e Valeria Parrella (Einaudi, 2009); Le attenuanti sentimentali(Einaudi, 2013). È fra gli autori di Scena padre (Einaudi 2013) eFiguracce (Einaudi Stile Libero 2014). È stato l'«intellettuale di servizio» delle Invasioni barbariche di Daria Bignardi.
  • 40. 40 Mariolina Venezia: Nata a Matera, vive a Roma dopo aver trascorso diversi anni in Francia, dove ha pubblicato alcune raccolte di poesie. Nel 2007 ha vinto il premio Campiello con il romanzo Mille anni che sto qui, edito da Einaudi, saga familiare ambientata a Grottole, piccolo comune della Basilicata. Nel 2009 ha pubblicato per Einaudi Come piante tra i sassi, ambientato a Matera, e poi Da Dove Viene il vento e Maltempo, che ha come protagonista Imma Tataranni, la stessa PM conosciuta in Come piante tra i sassi. Nel 2014 pubblica La volpe meccanica edito da Bompiani.
  • 41. 41