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Nuda
Anna Salvaje
Independently published
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Codice ISBN: 9798580622804
Casa editrice: Independently published
In copertina:
Foto di Engin Akyurt da Pixabay
A noi due
Contents
Title Page
Copyright
Dedication
Capitolo Zero
Capitolo 1- Fuori dalla stanza
Capitolo 2- Valeria e la Primavera
Capitolo 3- Una proposta indecente
Capitolo 4 - L’aperitivo
Capitolo 5- A passo di danza
Capitolo 6 - La prima volta
Capitolo 7 - Dirottamenti
Capitolo 8 - Don Jon
Capitolo 9 - Quel giorno al parco
Capitolo 10 - Una nuova letizia
Capitolo 11 - Il suo odore
Capitolo 12 - Un giro di giostra
Capitolo 13 - Risvegli
Capitolo 14 - Natale
Capitolo 15 - Miele
Capitolo 16 - Julija sui tubi
Capitolo 17- Il bacio
Capitolo 18 - Patrizia
Capitolo 19 - La radiografia
Capitolo 20 - Palla di vetro
Capitolo 21- Gocce
Capitolo 22 - Profumo di troia
Capitolo 23 - Decisioni
Capitolo 24 - Fari d’estate
Capitolo 25 - Il ragno
Capitolo 26 - Mare e navigante
Capitolo 27 - Il violino
Capitolo 28 - Rafaela oltre la soglia
Capitolo 29 - Legata
Capitolo 30 - Un po’ pornodiva
Capitolo 31 - La camera bianca
Capitolo 32 - Favole
Capitolo 33 - In volo
Capitolo 34 - Nuda
RINGRAZIAMENTI
About The Author
Capitolo Zero
Benvenuta sul sito Numero Uno
di incontri tra persone sposate
Che tu stia cercando un'avventura extraconiugale vicino a te o un
amante a migliaia di chilometri durante i tuoi viaggi, ti proponiamo
uno spazio protetto per poter contattare gli infedeli di tutto il mondo
in totale sicurezza.
Desideri un incontro extraconiugale?
È arrivato il momento
Un sito di incontri. Dichiaratamente per clandestini. Mi
interessava? Forse. Di avventure extraconiugali ne avevo sempre
avute. Per una bella donna è facile. Eppure era da un po’ che non
succedeva. Mi avevano stancato l’inevitabilità del corteggiamento, la
gestione appiccicosa della fine e in fondo, lo confesso, il fastidio del
giudizio. Perché a qualsiasi uomo, anche al più infedele, piace
pensare che tu stia tradendo tuo marito per lui. Perché lui, maschio,
ti ha travolto e tu, femmina, avresti voluto resistere ma il suo fascino
ti ha fatta capitolare. Non possono farci niente, gli uomini. Quasi tutti
sono fatti così. Si beano della conquista. E quando si accorgono che
avevi deciso tutto tu, perché sei libera abbastanza da poter
scegliere, prima e al di là dell’ego al quale vivono aggrappati, ci
rimangono male. E giudicano.
Di ricorrere alla rete per un’avventura non avevo mai pensato.
Eppure, perché no? Un sito apposta. Giocare a carte scoperte, tutto
in chiaro e da subito, senza recite e ambiguità.
Pensato ogni giorno da un team 100% al femminile
Offriamo il potere alle donne sposate
in cerca di incontri extraconiugali
in totale discrezione
In totale discrezione… Mah. Pensato da un team femminile? Dai,
figurati se dietro non ci sta un uomo. Poi mi sono detta: “Che motivo
hai per non provare? Magari funziona. Certo, ti serve uno
pseudonimo… Che so, Anna Rosselli. No, Anna Rosselli non sa di
niente. Selvaggia Rosselli? Nemmeno questo. Anna Selvaggi va già
meglio. Anzi, Anna Selvaggia. Però sembrano due nomi, non va
bene. Aspetta aspetta, sì, ecco, ci sono. Anna Salvaje”.
È stato così che mi sono iscritta, per provare, senza aspettative né
pentimenti. Era un gioco, una scorciatoia. E devo ammettere che
funziona.
O meglio, ha funzionato. Con uomini come me. Sposati, tra i
quaranta e i cinquanta, affermati, eleganti, brillanti. Evasione e
complicità giocati seguendo il solito copione, con minime variazioni:
aperitivo, cena, gite in magnifici alberghi e scopate di ottimo livello.
Funzionava... Anche se è vero che tutto durava qualche
settimana, al massimo due o tre mesi. Poi, regolarmente, mi
stancavo. E quell’amante finiva nel dimenticatoio insieme agli altri,
tutta gente di cui ricordo vagamente il nome, ma non un’immagine,
un sogno, un’idea.
Nonostante questo, non posso negare che funzionasse. Ed è
andata bene, tra un’avventura e l’altra, per due anni.
Finché non è arrivato Andrea.
Capitolo 1- Fuori dalla stanza
Le donne sanno tutto dell’amore ma non capiscono gli uomini.
Fanno fatica ad accettare i meccanismi dei loro desideri. Peraltro,
tendono a rifiutare i propri: ogni donna se li trova addosso da
bambina, i desideri, cuciti in una tela ordinata, e ne è spaventata
tutte le volte che provano a far capolino fuori dal recinto.
Viviamo in una stanzetta avendo a disposizione una reggia. Anche
se il sesso ci piace, riusciamo a goderne senza ripensamenti solo
quando è santificato dalla coppia o, quanto meno, dall’amore.
“Vissero insieme felici e contenti”: ma quante se n’era scopate,
prima, il Principe Azzurro? E dopo? La storia mica lo racconta. Non
ne ha bisogno. Perché agli uomini, si sa, un divertissement può
sempre capitare, mentre alle donne appiccica addosso la lettera
scarlatta.
Ma come? Allevate e nutrite con mille “non si fa” e si permettono
di esplorare e accettare quelle parti di sé che dovevano tenere
spente e zitte? Senza nemmeno sentirsi in colpa?
Certo, nessuno le condanna più al rogo, ma in quanti si sentono
ancora disturbati dalle loro scelte quando sono visibili e “diverse”?
Neppure è un caso che a guardarle con malevola compassione
siano soprattutto le altre donne. Donne ingrugnite, livorose, che nel
chiuso della loro stanzetta giudicano, distinguono, sottolineano le
differenze che separano loro, quelle “per bene”, dalle altre, le
“streghe”, le donne “per male”, che hanno avuto il coraggio di aprire
le porte e scorrazzano nella reggia.
Cambierà mai? Cambierà, sì. Pianissimo, eppure sta cambiando.
Salta agli occhi esplorando il sito, è evidente nei numeri degli utenti
di sesso femminile. Professioniste del settore? E basta? Non è
credibile: le donne iscritte sono tantissime, troppe per pensare che
facciano tutte la puttana di mestiere…
Il sistema è facilissimo. Funziona così: sei iscritta tu e un sacco di
altra gente. Chiunque contatta qualunque altro utente, che decide se
rispondere o no. Insomma, si saltano i passaggi che solitamente
intercorrono tra il primo contatto e il sesso: approccio,
corteggiamento, resipiscenze, dubbi, equivoci. Ti scrive qualcuno e
se ti piace la sua scheda (foto, descrizione, frase di presentazione)
rispondi, sennò non rispondi e nessuno se la prende; o se pure se la
prende, pazienza. Vi sembra immorale? Cinico? Comunque la
pensiate, il sito un vantaggio innegabile lo offre: è comodo.
Ciascuno lo usa come gli pare, ma di solito perché ci si incontri
passano parecchie settimane. Prima di concordare un
appuntamento gli utenti chattano a lungo, raccontandosi segni
zodiacali e colori preferiti, insoddisfazioni coniugali e desideri segreti.
Io, da subito, avevo deciso di utilizzarlo senza perdite di tempo;
star lì a chattare non mi andava: preferivo incontrarlo il prima
possibile, l’uomo cui avevo deciso di rispondere. Ci vedevamo in un
caffè e lo sottoponevo a una sorta di esame. “Casting per il mio
letto”, così chiamavo quegli incontri preliminari descrivendoli a
Valeria, l’unica amica che sapeva della mia doppia vita.
Non puoi mai affidarti alla sola conoscenza virtuale, se vuoi
scopare. Se vuoi scopare con gusto, voglio dire. Ci si può filmare,
inviare foto, file vocali, telefonarsi, fare video chat. E la persona
all'altro capo del telefono o in foto può sembrarti pure
straordinariamente attraente, ma per quanto virtualmente ci si possa
raccontare, perfino con onestà e ricchezza di dettagli, resta
un’esperienza unilaterale; l'altro è solo una rappresentazione che ci
siamo fatti di lui, vive nella nostra mente. Perché non c'è strumento
in grado di sostituire lo sguardo fra due persone, o la voce che arriva
all’orecchio direttamente dalla bocca dell'altro, senza essere filtrata
da un microfono. Ma soprattutto, nel virtuale non c'è l'odore. E
l’odore, beh, quello sì che è tutta un’altra storia.
Un buon odore corrisponde quasi sempre a un buon sapore. Ma lo
stesso odore può non esser buono per tutti. Scopare una persona
sconosciuta non è come assaggiare un nuovo frutto? Io per esempio
del mango vado pazza, eppure conosco gente che avvicinandolo al
naso trova sentore di cherosene, e a mangiarlo non ci pensa
nemmeno. Lo capisco: chi metterebbe volentieri in bocca qualcosa
dall’odore sgradevole?
L'odore è sempre la prima cosa che deve piacermi di un uomo, se
voglio portarmelo a letto. Con il tempo e l’esperienza ho affinato un
certo talento: mi accorgo subito, dall'odore, dallo sguardo e dalla
voce se un uomo, per quanto esteticamente attraente, può essere o
no un buon compagno di giochi sessuali.
Ecco perché incontrarsi subito: se l’uomo non mi fosse piaciuto (e
accadeva spesso) avrei perso solo il tempo di un caffè, alla peggio di
un pranzo.
Del resto, quel sito si dichiarava non ipocrita. Allora che lo fossimo
anche noi, e del tutto. Che senso aveva star lì a menare storie prima
di annusarsi? Se le chiacchiere fossero state interessanti, sai la
delusione a non ritrovarsi con gli odori? Cercavo amanti, mica amici.
Quando l’uomo superava il casting, al secondo appuntamento
quasi sempre si scopava. Se il sesso era soddisfacente venivano
altri appuntamenti per qualche settimana o mese. Fino a quando mi
annoiavo. A quel punto bastava chiudere con quell’amante e
ricominciare.
In realtà mi ricollegavo al sito in anticipo, non appena la voglia si
affievoliva, e cominciavo a vedere altri uomini per il caffè o il pranzo
di prova, iniziando una nuova relazione prima ancora di chiudere la
precedente. Non mi si addicono le perdite di tempo. L’ho già detto.
Mi piacevano, le mie avventure. Ero arrivata a un’età tale da
sapere esattamente che cosa volevo e che cosa no. E in quel
momento della mia vita desideravo soltanto sesso. Sesso nudo.
Sesso entusiasta e spensierato, libero e senza legami, bello fin
quando durava. Scopate assaporate con calma, nella penombra di
una camera d'hotel, oppure consumate di fretta, in piedi, alla toilette
di un ristorante, con la voglia di mangiarsi più forte di quella di
mangiare. Scopate ripetute o episodiche.
Sesso senza complicazioni, senza problemi, senza intralci o
fraintendimenti. Solo piacere, nessuna paranoia di possesso o
sdilinquimenti amorosi. E la consapevolezza di potere, in qualunque
momento, alzarmi, rivestirmi e girare i tacchi, senza spiegare o dare
giustificazioni. Che gli uomini che incontravo fossero sposati era una
garanzia di sicurezza, rendeva tutto più semplice e fluido: potevo
accettare, rifiutare, rimandare e loro non facevano storie.
Aprivo e chiudevo relazioni quando volevo e quando mi andava.
Non sapevo resistere, o meglio, non volevo resistere alla smania
di provare emozioni nuove. Ero affamata di emozioni. E vi cedevo.
L'importante era stare attenta. Adottare le giuste precauzioni per
preservare la salute e le opportune cautele per proteggere il mio
reale quotidiano.
Evitare luoghi in cui potevo essere riconosciuta, non rivelare il mio
vero nome, indirizzo, numeri di telefono, usare un cellulare
"dedicato" e avere sempre l'accortezza di cancellare da quello
ufficiale la cronologia dei luoghi visitati (inoltre, e a questo non tutti
pensano, disattivare la ricerca automatica wifi: avere in elenco fra le
connessioni recenti quella di un Motel in periferia o un albergo in
centro risulta imbarazzante…)
Avevo di ché essere soddisfatta: il sito si era rivelato un’ottima
fonte di generosi amanti. Peraltro, chiarire da subito che non
nascondevo un fine diverso da quello di scopare mandava in orbita i
prescelti. Non solo. Il fatto che li avessi selezionati fra migliaia di
utenti li portava a impegnarsi per continuare ad apparirmi i più
desiderabili, i più seducenti, i più maschi. Di solito erano uomini con
un passato ricco di storielle varie, che conoscevano bene le donne
(difficilmente un uomo che nel proprio passato ha solo un paio di
fidanzate e la moglie si rivolge a un sito del genere), quasi tutti
maschi alfa che a un certo punto della loro vita avevano deciso di
sposare la fidanzata di sempre o comunque una “che non dà
problemi”, una di quelle cresciute giocando “a fare la mamma”, con
le casette da arredare e i bambolotti da vestire. Uomini ipocriti che
non sapevano rinunciare a una moglie con cui frequentare gli amici e
andare in vacanza, una buona madre per i figli, tranquilla, che
difficilmente avrebbe fatto portar loro le corna (beata presunzione!
Sapeste quante di quelle donne ho conosciuto nei privé…)
Ottimi amanti insoddisfatti sessualmente, sostanzialmente
indifferenti al fatto che la compagna delle loro esistenze non fosse
porca a letto. Pazienza: i nuovi culi e tette da toccare se li sarebbero
cercati altrove. Ecco, io ero l’altrove perfetto: una troia vera,
intrinsecamente priva della maligna tentazione di mettere a rischio la
loro situazione familiare.
Ottimi amanti, dicevamo, che di fastidioso in fondo avevano solo
una cosa, l’ego gonfio come un pallone, accompagnato da un
atteggiamento ridicolo di superiorità paternalistica (il vizio di
“spiegarmi le cose” o di chiamarmi “Piccola” per esempio, quasi a
dirmi “Vedi quanto ci so fare, quanto sei fortunata, bimba?”). Ma era
un dettaglio: se avevano un bel cazzo e lo sapevano usare, li
perdonavo volentieri. Cercavo amanti, non anime gemelle.
Peraltro, li guardavo e il pensiero mi faceva sorridere. Ero quasi
certa che molte di quelle mogli “per nulla porche”, con i figli cresciuti
e l’arrivo delle prime rughe, avrebbero cominciato a fantasticare
porcaggini a loro volta, e perché no, magari a viverle per conto
proprio.
Gli uomini navigati che dopo il matrimonio avevano provato a
“mettere la testa a posto” costringendosi a un lungo periodo di
fedeltà (ma, si sa, non si sfugge alla propria intima natura...) erano i
più generosi di parole, mi colmavano di attenzioni e complimenti, ma
anche loro restavano dei fanfaroni, del tutto scontati e prevedibili.
Capivo subito che cosa gli passava per la testa prima ancora che lo
dicessero o facessero. Non immaginavano nemmeno che “se” e per
quante volte li avrei rivisti dipendeva esclusivamente dalla loro abilità
di scopatori.
C’era pure una piccola percentuale di “timidoni”, uomini con meno
esperienze che avevano puntato tutto sulla carriera e ora si
ritrovavano all’affacciarsi della mezza età profondamente
insoddisfatti, ma incapaci o troppo timorosi di avventurarsi in un
corteggiamento o in un approccio vero. In genere, dopo avere
provato a distrarsi e appagarsi con gli hobby più variegati,
approdavano al sito sperando di evitare quei “due di picche” che nel
reale tanto li atterrivano e che, almeno da me, regolarmente
prendevano, perché raramente con loro andavo oltre il caffè. I
pochissimi che avevano superato il “casting” lo dovevano non tanto
alla prestanza fisica (che comunque doveva esserci, e tanta) quanto
al fatto che abitassero in un'altra regione. Avevano il vizio di
“attaccarsi”, di mandarmi “messaggini” di buongiorno e buonanotte,
di fingere una relazione stucchevole; insomma, di giocare ai
romantici, fare gli amanti anni ‘70, tipo “Buonasera dottore”. Tutta
roba inutile che, per quanto scopassero bene, potevo sopportare
solo le rare volte, una al mese e non di più, in cui passavano per
Milano.
E poi c’erano quelli che evitavo come la peste, i peggiori. Non solo
ipocriti ma anche cattivelli e piagnoni. Uomini che, con poche o tante
esperienze di tradimento, non conoscevano affatto le donne e
immediatamente ti parlavano – rigorosamente male – delle mogli.
I più adatti erano i miei simili, disinibiti e liberi (purtroppo non
esiste il termine “puttana” al maschile), che cercavano desiderio e
gioco senza il bisogno di recitare un rapporto amoroso né la voglia di
viverne uno per davvero. Uomini onesti, che mi scopavano con
gusto, senza raccontarsi o raccontarmi storie. Sesso appassionato,
attento e generoso. Piacere senza pudore. Erezione immediata e
prolungata. Qualcuno prendeva pasticche per tenerselo duro? A
tante donne il fatto crea imbarazzi e cali di stima, a me no. Il cazzo
barzotto non è allegro neppure se sei innamorata, figurarsi quando
lui ti è sentimentalmente indifferente: fa venire da piangere.
A quegli uomini mi davo col medesimo slancio, senza chiedere
altro se non la reciprocità. Ero la donna ideale, cui nulla davano
tranne delle grandi sbattute, ma dalla quale nulla potevano
pretendere, in un rapporto di assoluta parità.
In ogni caso, qualunque fosse la categoria dell’amante di turno, il
mio mondo segreto restava assolutamente distinto da quello della
vita quotidiana, come se una barriera impermeabile li dividesse e
nessuno dei due potesse contaminare l'altro. Così dormivo tranquilla
la notte, non avevo sensi di colpa, e nessun bisogno di analisti o
confessori. Transitavo fra i miei mondi paralleli come dal sonno alla
veglia, ma ero reale in entrambi. Uno sdoppiamento in due me
stesse, altrettanto vere e autentiche, tanto da non sapere quale delle
due sognasse l’altra.
Era andata bene per due anni quando una sera di fine maggio mi
scrisse Andrea. Non so perché lo fece e sinceramente nemmeno so
dire per quale motivo gli risposi: non corrispondeva affatto al target
che mi ero prefissata di frequentare. Anzi, un tipo del genere non
avrebbe neanche dovuto starci, in quel sito di sposati fedifraghi. Con
i diversi da te può essere difficile scopare anche una volta sola,
giusto? E Andrea era troppo giovane, venticinque anni, single,
studente. A quel tipo di utente non rispondevo mai…
Mi aveva scritto una battuta ingenua e io non avevo resistito alla
tentazione di sottolineare la banalità della sua osservazione. In
qualche modo, volevo mortificarlo. Invidiamo la gioventù, e quando
possiamo ci prendiamo gioco di lei. Ma lui si era scusato per la
battuta e lo aveva fatto in italiano corretto. Ah, l’italiano corretto...
Quanto è sexy l’italiano corretto. Dalla chat passammo ai messaggi
al telefono, quindi alle chiamate vocali.
Credetemi, non avevo nessuna intenzione di incontrarlo: troppo
fuori dai miei schemi. Però chiamarlo ogni tanto mi piaceva, mi
metteva allegria imbarazzarlo, inviargli qualche mia foto (la
scollatura, una caviglia, il dettaglio di una coscia). E lo invitavo a
mandarmi file vocali, frasi contenenti la lettera “r” (Andrea ha un
modo tutto suo di pronunciare la “r”). Gli dicevo di essere curiosa
della sua lingua mentre emetteva il suono della erre in quel modo.
Ora, generalmente Andrea dopo queste battutine restava zitto al
telefono. Capivo che non era abituato a conversazioni cariche di
doppi sensi (che io invece adoro) e allora per giocare alzavo il tiro.
Lo immaginavo diventare rosso quando intenzionalmente
equivocavo, adombrando significati sessuali in parole e circostanze
comuni. Insomma, mi divertivo.
Capitolo 2- Valeria e la Primavera
Valeria mi vuole bene da tanti anni. Abbastanza da potersi
permettere d’essere curiosa di me senza invidia né giudizio.
Eravamo al Martini di corso Venezia, sedute a un tavolo all’aperto,
nel cortile interno pieno di piante. Adoravo quel posto in primavera.
Sembrava di andare a trovarla, la primavera: indossavi un vestito
leggero, le gambe nude, senza calze, ti sedevi nella luce, fra quel
verde, con Milano appoggiata sull’asfalto grigio dell’inverno e tu già
cominciavi a vederla come sarebbe cambiata. Era solo uno spiraglio
attraverso il portone.
«Con chi ti stai incontrando adesso? Ancora con l'architetto?».
Uscivo. Pardon. Scopavo da un paio di mesi con Roberto,
architetto romano quarantasettenne, che si era trasferito a Milano
da qualche anno. Ci stavo bene. Uno dei migliori incontri che il
database del pec-cato, come lo chiamava Valeria, mi avesse
regalato.
«Sì. Certo».
«Fammelo vedere che non me lo ricordo», chiese indicando il mio
smart.
Valeria era stata il mio confessore di ogni scopata segreta degli
ultimi due anni, solo che, invece di darmi la penitenza da scontare, a
ogni nuovo peccato mi tranquillizzava. Una sorta di prete onesto.
«Sei stata bene? Ti ha fatto stare bene? Fottitene, ti assolvo».
Avevo aperto il cellulare per mostrarle una fotografia dell'architetto
quando arrivò un nuovo messaggio. Era il "buongiorno" del ragazzo.
«Guarda che dolce!», mi scappò di dire mostrandole la foto del
suo profilo nella messaggistica.
Lei aggrottò le sopracciglia.
«Ma gli fai doposcuola o viene a giocare la play con tuo figlio?».
Scoppiai a ridere.
«Chi è? Ma è maggiorenne?».
«Ha quasi ventisei anni e vive a Cremona. Ci cazzeggio solo al
telefono. Figurati se vedo i ragazzini!», ci tenni a specificare con un
finto tono da signora offesa.
Valeria mi prese il telefono, rimirò un altro po' la foto di Andrea e
aggiunse: «Però! È bello il giovane. Promette bene…».
«Sì. È bello».
«E allora dai!», fece lei. «Se è maggiorenne e non rischi la galera
perché non lo incontri?».
«Figurati! Mi diverte, ma non ci penso nemmeno. Non è il mio
target.», dissi riprendendo il telefono.
«Vorrei trovare il coraggio di iscrivermi pure io a ‘sto sito,
mannaggia quanto ti invidio. Ma lo sai, io se non amo non riesco a
farci niente con un uomo».
Valeria era infelicemente sposata da molti anni e da due viveva
una relazione clandestina ancora più infelice con un suo ex
compagno di scuola. Una storia che non la esaltava né
sessualmente né sentimentalmente. Era diventata noiosa e
problematica come un altro matrimonio.
«Quando vuoi ti dico come fare per iscriverti, così chiudi con
quella specie di amante morto che ti ritrovi… Se devi accontentarti di
un morto, tanto vale che ti trombi quello che tieni a casa».
Ridemmo complici. Sapevamo entrambe che Valeria non si
sarebbe iscritta mai: era di quelle convinte che il sesso si fa solo per
amore, pronte a raccontarsi continuamente la favola che sia giusto
così.
Io invece pensavo che il sesso dovesse praticarsi
fondamentalmente per due ragioni: orgasmi o soldi. E pazienza se il
mondo (almeno ovunque ci sia un Dio uomo) da sempre chiama
puttane le donne che lo fanno per questi motivi. Non che io
sottovalutassi la meraviglia di scopare per amore, ma pensateci
bene: quanto a lungo può essere ragionevole avere rapporti sessuali
che non portino in dote almeno una delle due cose?
Quante volte noi donne, a furia di ritrovarci con la bocca e la fica
piene di sborra senza avere avuto né piacere né soldi, accusiamo la
vita di averci usate e maltrattate, e diventiamo represse, astiose,
velenose? Anni e anni trascorsi a fare tutto quello che altri –
genitori, fidanzati, mariti, figli – si aspettano da noi, ad accontentare
il mondo facendo mille rinunce, solo per scoprire alla fine – quando
indietro non si torna e tempo non ce n’è più – che non ci sono premi
ad aspettarti, e nessun 10 in pagella.
È brutto dirlo, ma la nostra esistenza perbene, ordinata e
tranquilla, spesso non ce la fa a cancellare il retrogusto che resta in
bocca alla fine, quello amaro della routine di madri e nonne, e non
riusciamo nemmeno a riconoscerlo, perché farlo significherebbe
ammettere che invidiamo le altre, quelle che per una vita abbiamo
chiamato puttane, quelle che lo hanno fatto per soldi oppure, peggio,
guidate dal calore, come le cagne.
Valeria si alzò per andare alla toilette e io chiesi il conto. Poi,
facendo in modo che nessuno se ne accorgesse, scattai una foto
alle mie gambe nude accavallate sotto il tavolo. La inviai ad Andrea
con «Buongiorno ragazzo!» e rimasi a guardare il display. Poi sorrisi:
le spunte blu mi avvisavano che il messaggio, e la foto, erano stati
visualizzati.
Subito. Come sempre.
Guardai Valeria mentre tornava verso il tavolo. Aveva un
meraviglioso punto vita, stretto sopra il culo abbondante ma ancora
alto nonostante i quarant’anni passati da un pezzo. Quanto avrei
voluto saperla felice. Ci vuole un attimo perché la forza di gravità, il
metabolismo, la pigrizia, facciano il loro corso inevitabile, e dopo non
resta che rimpiangere tutte le volte che ci siamo arenate fra il
coraggio di osare e quello di rinunciare, che non ci siamo chieste
cosa davvero vogliamo, e illudendoci di essere belle solo se buone –
brave donne, donne perbene, assennate madri di famiglia –
dimentichiamo che siamo davvero belle solo nel coraggio di essere
noi stesse.
Uscendo, le feci l’occhiolino e la presi sottobraccio, mentre ci
incamminavamo verso San Babila. Ci mise un attimo a capire che
stavo per confessarle qualcos’altro.
«Non mi dire che ce ne sta un altro…»
Annuii sorridendo.
«Racconta» fece lei, eccitata come una bimba di fronte alla
prossima favola.
Le raccontai di Massimo. Un avvocato di Firenze che avevo
conosciuto la settimana prima. Intelligente, bello, di un’eleganza
raffinata, con ogni accessorio – orologio, cravatta, calzini – che ne
rivelava l’ottimo gusto.
«Pensa che ho studiato sui testi scritti da suo padre! Mi dà l’idea di
un uomo cui non è mancato mai nulla, né denaro, né appoggi, né
clientela, eppure non si è adagiato a vivere nel riflesso della fama
paterna. Anzi. Credo sia dominato dalla voglia di dimostrare di
essere il migliore. Ecco perché penso che anche a letto non si
risparmierà e ho deciso che domani pomeriggio me lo scopo».
«Ma non finiscono mai questi uomini del sito?» scherzò Valeria.
«Quando finiranno comincerò ad affidarmi a quel che il destino
metterà sulla mia strada. Sono certa che il sito degli infedeli non se
la prenderà, se diverrò infedele pure a lui».
Ridemmo insieme. Poi le schioccai un bacio sulla guancia e ci
salutammo.
Capitolo 3- Una proposta indecente
L’avevo raggiunto nell’hotel in centro dove era solito fermarsi
quando aveva udienze a Milano. Era davvero un bell’uomo. Lo
guardavo mentre stava nudo, bocconi sul letto, in silenzio. Lo
smartphone in versione aereo appoggiato sul comodino accanto
all’orologio: entrambi, nelle ultime due ore, non erano stati fatti
oggetto di uno sguardo.
Anche io ero nuda, con le spalle appoggiate alla spalliera, le
gambe distese sulle lenzuola mentre sfioravano quelle di un uomo
che conoscevo da pochi giorni. Fumavo e lo guardavo. Lui respirava
piano, rilassato. Aveva ottenuto quel che voleva e non aveva più
bisogno di fingere.
Gli uomini si comportano più o meno sempre allo stesso modo
quando vogliono assicurarsi qualcosa: fanno gli stessi discorsi,
assumono le stesse pose, seguono lo stesso schema. Del resto
sono loro che “spiegano le cose” alle donne, no? Credono di sapere
e ci spiegano persino quello che una donna vuole. Puoi conoscerli
su un sito di incontri, a un party, magari te li presenta un’amica: se
vogliono raggiungere il traguardo senza spendere soldi, mettono in
atto la loro recita interpretando, ciascuno a suo modo, lo stesso
copione. Solo dopo il sesso diventano sereni, distesi, contenti. Quasi
veri.
Tutto sommato, nel complesso era andata bene. Massimo si era
impegnato parecchio. Un po’ troppo concentrato, all’inizio, a seguire
il “Manuale del perfetto scopatore”, a proporre il ciclo delle posizioni
base di ogni buon porno che si rispetti (sopra lui, sopra io, di fianco,
a pecora, io di nuovo sopra, ma girata di spalle), tanto che aveva
finito diverse volte per farmi perdere la concentrazione, cambiando
coreografia proprio nel momento in cui stavo per venire. Insomma,
sembrava sotto tensione, più attento a mostrarmi le acrobazie di cui
era capace che a godersi la scopata. Più di una volta ero stata sul
punto di fermarlo e dirgli: “Guarda, carino, che non c’è un regista
nascosto nell’armadio che devi convincere a scritturarti”; oppure: “Se
gemo significa che mi piacerebbe continuare così, non è un modo
per chiederti di mostrarmi dell’altro”. Ma se lo avessi fatto il buon
cazzo che aveva fra le gambe – un arnese che peraltro avrebbe
potuto dare di più – si sarebbe irrimediabilmente ammosciato.
Per carità, lo conoscevo pochissimo, ma Massimo non aveva l’aria
di uno che ti lascia a bocca asciutta, e mi avrebbe portato alla meta
con la lingua o con le mani, però non era quello che volevo. Del
resto, non si può offrire un regalo di Natale splendidamente
impacchettato e poi impedire di scartarlo e goderselo, no?
Così, mentre stava scopandomi un’altra volta alla missionaria,
quando capii che stava per cambiare di nuovo posizione pensai:
“Vuole dimostrarmi che è bravo? Diciamoglielo…”. Lo serrai forte fra
le gambe e gli sussurrai un paio di oscenità all’orecchio. Un “Mi fai
sentire così troia” o “Quanto ce l’hai grosso” sono paroline magiche,
da evitare sicuramente con i tipi timidi e impacciati, ma dall’effetto
clamoroso per gli uomini come Massimo.
E difatti da quel momento cominciò a darci dentro perbene,
scordandosi copioni da seguire e registi immaginari da convincere,
mentre io gli mordevo ogni tanto il collo incoraggiandolo con altre
paroline magiche. Mi mise le mani sotto il culo conficcandomi le dita
nelle natiche e prese a stantuffarmi a lungo, nel modo che
desideravo e che anche lui voleva, libero di dirmi indecenze, libero di
farmele e di gustarsi l’effetto che producevano su di me, fino a
scavarmi un solco di piacere. Venni più volte. Poi venne anche lui e
sono certa che di tutto il repertorio di posizioni che mi aveva
riservato l’ultima missionaria era quella che gli era piaciuta di più.
Ora se ne stava lì in silenzio, finalmente rilassato. Adoro l’attimo di
verità che c’è nei silenzi. Me lo gustavo fumando piano, perché, lo
sapevo, sarebbe finito prima della mia sigaretta.
«Sei straordinaria», sussurrò Massimo con voce da seduttore,
allungando la mano ad accarezzarmi la pancia.
Ecco. Nella migliore delle ipotesi da lì a poco mi avrebbe chiesto
quando ci saremmo rivisti o, nella peggiore, avrebbe cominciato a
raccontarmi della sua vita, del suo bisogno di calore e colore (una
tiritera che, in pratica, si sarebbe potuta tradurre in: “Voglio succhiare
colore e calore dalla tua”).
Spensi la sigaretta e gli passai la mano fra i capelli, invitandolo a
mettersi supino.
«Ceni con me?», mi chiese.
Risposi di sì e gli montai sopra. Avremmo cenato insieme, certo,
poi non lo avrei più rivisto. Non ne avevo voglia, ma prima della cena
avrei scartato e mi sarei goduta almeno un’altra volta il suo regalo di
Natale.
Più tardi andammo a Brera. Il locale scelto da Massimo, il tono
della voce, i gesti gentili ma affettati, mi dicevano che era tornato in
modalità “conquistatore”. E naturalmente aveva preso a parlare di
sé. Non la verità sulla vita che viveva, ovviamente, ma la sua
interpretazione di essa. Una versione benevola che, a furia di
ripetersela, per lui poteva perfino essersi trasformata nell’immagine
del reale. Mi sarebbe toccato cenare sorbendomi i soliti argomenti: i
successi, il lavoro, i viaggi, la moglie che non lo comprendeva, il
bisogno di passione. Il tutto ovviamente condito da una serie di
considerazioni su quanto gli mancasse una donna come me.
Chissà che cosa gli prende, agli uomini. Credono di poterci
affascinare solleticando il nostro presunto desiderio di sentirci
fortunate solo perché un uomo tanto importante e speciale ci ha
scelte; e noi dovremmo sentirci uniche per averli fatti godere,
consentendo loro di sentirsi ancora più importanti e speciali…
Era un desiderio presunto. Appunto. Massimo non lo sapeva e si
crogiolava nel suo racconto narcisistico: era tornato il bell’uomo
attraente e elegante che non lasciava spazio al mistero,
all’immaginazio-ne, a un finale non scontato.
Meno male che non lo avrei più rivisto.
Parlava e parlava e io faticavo a seguirlo. Oltre tutto avevo un
leggero mal di testa, inesorabilmente in aumento. Poi di botto
realizzai: era della sua voce la colpa! Erano i discorsi infiniti che mi
stava propinando su sua moglie, con un accento e una cadenza
insopportabili. Stava straparlando da quasi mezzora di quanto fosse
un mostro di donna, un mostro di madre, un mostro di moglie.
Arricchiva il discorso raccontandomi dettagli della loro vita coniugale
e familiare. E non era attenta ai bambini. E non era attenta alla casa.
E non era attenta a lui. Fu un lampo. Pensai a lei, alla vita vuota che
doveva condurgli accanto, e mi divertì immaginare che potesse
essere “Nuvola79”, o qualunque altro nick femminile del mio sito di
incontri. Pensai che per l’esasperazione si fosse iscritta anche lei e
stesse scopando a destra e a manca. Trattenendo un risolino finsi di
dover andare.
«Oddio, mi dispiace, scusami tanto, non mi ero accorta di quanto
fosse tardi», dissi mentre lo salutavo.
«Ma che peccato, però dai, appena torno a Milano ti avverto.
Voglio rivederti. È stato bellissimo oggi», rispose mentre gli davo un
bacio sulla guancia.
«Certo, è stato bellissimo. Chiamami in settimana», feci mentre
andavo via.
Cinque minuti dopo, sul taxi che mi riportava a casa avevo già
bloccato il suo profilo nel sito e inserito il numero telefonico nella mia
lunga lista di “chiamate e messaggi da rifiutare in automatico”. Posai
il telefono in borsa, riflettendo su quanto quell'incontro mi avesse
infastidita e messo addosso voglia di freschezza. Poco dopo ripresi il
telefono e contattai il ragazzo. «E se ti facessi una proposta
indecente?» gli scrissi. «Accetterei» rispose senza aggiungere altro.
«Prendi una camera in un albergo domani sera. Scrivimi la via e il
numero della stanza. Io vengo da te e mi prometti che ti lasci
annusare tutto. Poi magari ci vediamo un film insieme». «Va bene.
Lo faccio».
Mi aveva sorpreso. Non credevo che fosse disposto ad
assecondare senza condizioni una proposta tanto folle, in qualche
modo perfino rischiosa (in fondo, ero una totale sconosciuta). Ma
siccome sorprendermi era tra le emozioni che preferivo e succedeva
raramente che qualcuno riuscisse a farlo, sorrisi al nuovo gioco che
avevo iniziato.
Capitolo 4 - L’aperitivo
Avevo indossato un vestitino elegante molto scollato, tacco 12,
capelli freschi di parrucchiere e mi ero abbondantemente truccata.
Appena scesa dal taxi di fronte all’albergo immaginai che il portiere
avrebbe potuto scambiarmi per una escort, ma il pensiero, invece di
imbarazzarmi o intimidirmi, mi accese.
“Se deve prendermi per una puttana, che almeno mi trovi una
puttana bellissima”, pensai. Mi misi un altro strato di rossetto,
allargai la scollatura del vestito ed entrai nella hall con passo liquido.
Dissi che dovevo andare alla stanza 110, che ero attesa da un
ragazzo e che avrei pagato io. Il pensiero “È una puttana” passò
senza dubbio nella mente del portiere, ma quell’indizio (mica ci
pensano le puttane a pagare la stanza, no?) insieme alla voce, al
vestito, alla fede al dito, gli stavano suggerendo che forse ero una
Signora... Una Signora? Adorai averlo imbarazzato. Non si trattano
nello stesso modo, le Signore e le puttane. Andrea guardava la
scena dal salotto antistante la reception. Si avvicinò, e con tono
interrogativo e la voce insicura chiese «Sei tu Anna?».
Il portiere trasalì. Quale donna dall’identità incerta viene attesa in
un albergo se non fa la puttana? Trovai l’equivoco in cui si dibatteva
il suo cervello dannatamente eccitante. E poi mi eccitava Andrea,
quel ragazzo tanto attraente, più bello di persona rispetto alle foto
che mi aveva inviato, così diverso dai miei soliti amanti. Giovane,
alto, un corpo magnifico, gli occhi intensi e intimiditi.
«Sono io», risposi.
Mi avvicinai con la bocca al suo orecchio, alzandomi leggermente
sui tacchi, strofinando appena il culo sul bancone quasi in faccia al
portiere.
«Prima di salire in camera voglio prendere un aperitivo nel bar qui
davanti», sussurrai.
Poi poggiai con sicurezza il documento sul banco della reception.
Il portiere lesse la mia età e lo stato civile di coniugata, guardò la
scollatura, non ci capì un cazzo, farfugliò qualcosa su fotocopie,
dopo, sì, grazie… E sono pronta a giurare che da un presumibile
letargo qualcosa gli si stesse risvegliando all’altezza dell’inguine.
Ci spostammo al tavolo del bar di fronte l’Hotel.
Il mio dito percorreva lentamente il bordo del bicchiere di Campari.
Freddo. Rosso. Brillante. Il ragazzo era seduto rigido, le gambe
ancorate alla sedia. Nervoso, quasi diffidente. Lo guardavo fisso.
Smisi di guardarlo e presi a seguire con gli occhi il movimento del
mio dito sul bordo del bicchiere, con l’unghia rossa che grattava il
vetro. Volevo apparirgli annoiata ma ero attentissima. Percepivo il
suo sguardo e la sua emozione. Ogni tanto sollevavo il viso e gli
piantavo gli occhi negli occhi. Occhi di donna quarantenne,
spudorata, sicura, dentro gli occhi di un ragazzo emozionato.
Che scena, me la vedevo da fuori. Avrei voluto essere da un’altra
parte a guardarla, ed eccitarmi.
Andrea era completamente diverso dagli uomini che avevo
conosciuto sul sito di incontri. E non solo per l’età. Era diverso
perché, evidentemente e senza possibilità di mascherarlo, non
aveva alcuna esperienza di quel genere di appuntamenti. Percepivo
imbarazzo nei suoi poco brillanti tentativi di conversazione e ne ero
divertita. Cominciai a studiarlo nel dettaglio. Era moro, con la
carnagione chiara, gli occhi scuri, un magnifico sorriso. E spalle
grandi, braccia muscolose, mani ferme. Cambiai posizione. M’inarcai
in avanti per guardarlo meglio. Lo feci senza curarmi di essere
discreta, in maniera volutamente sfacciata. E più lo guardavo più mi
piaceva. Più lo guardavo più mi piacevo.
E io piacevo a lui.
Nonostante la lieve diffidenza che gli si affacciava ogni tanto sul
viso, nonostante l’incredulità per l’evolversi dell’appuntamento, gli
occhi e la voce non riuscivano a nascondere l’emozione.
Un paio di volte lo sorpresi a fissarmi le gambe. Un paio di volte gli
sorrisi. Ogni volta lui arrossiva e io, cazzo, mi ritrovai a pensare “Ti
voglio”. Anzi, no. “Ti voglio tantissimo”.
Non lo avevo assolutamente previsto: mi aspettavo di giocare a
flirtare con un ragazzino e non avevo messo in conto di quanto sa
essere irresistibile il candore, quando ci si mette. Realizzai che ecco,
era quello ad attrarmi così tanto: il candore misto all’eccitazione, la
timidezza che aveva ceduto alla voglia di osare accettando una
proposta tanto insolita. Perché forse lui si aspettava di farsi solo
annusare, oppure di vedere un film, magari di restare con le palle
gonfie, e altro non sperava...
Presi a raccontare di qualche mio incontro con gli uomini del sito,
senza risparmiare i dettagli scabrosi, sorseggiando il Campari,
accompagnando le storie con uno sguardo sfrontato. Regolarmente,
Andrea arrossiva e abbassava gli occhi. Era tenero. Io ridevo e lo
incalzavo di domande, in modo frivolo e disinvolto, buttandoci dentro
qualche parola “forte”.
“Hai già incontrato altre donne del sito?”. “Ma le hai scopate?”.
“Perché ti piacciono quelle più grandi?”. “Ti sei masturbato al
telefono con qualcuna di loro?”. “E pensando a me?”. “Hai mai
scopato con due donne insieme?”.
Lo costringevo a guardarmi se abbassava gli occhi. Quando ero
certa di avere nuovamente catturato il suo sguardo mi zittivo,
rimanevo seria, facevo assumere alla mia bocca un’espressione
imbronciata e passavo distrattamente la punta della lingua sul labbro
inferiore. Lui tornava ad abbassare gli occhi e aveva un fremito nel
respiro, come se l’emozione che fino a quel momento aveva in gola
d’improvviso si spostasse giù a gonfiargli il cazzo. Mi piaceva da
morire pensare che si sentisse così, emozionato dalla gola al cazzo.
Erano stati i movimenti della lingua? I racconti e le domande? Il mio
seno e le mie gambe? O era solo la sua poca esperienza con le
donne? Era delizioso gustarmi il suo imbarazzo, e assaporai la mia
decisione inattesa: di lì a poco gli avrei strappato ogni cellula di
diffidenza e di vergogna con la lingua.
Capitolo 5- A passo di danza
Non lo immaginavo, lo giuro. Avviandomi con lui verso la camera
110, quasi in silenzio, io sapendo benissimo che cosa fare, lui
visibilmente no, a tutto potevo pensare tranne come sarebbe andata
a finire. Camminavo appena dietro di lui, intenzionalmente: volevo
che sentisse il mio sguardo addosso, che avesse chiara la
consapevolezza di trovarsi a un ballo dove ero io a condurre anche
se era lui a farmi strada.
Ho avuto due mariti, il primo che ancora non avevo finito
l’università. Ho tre figli, uno grande, adulto e meraviglioso, fatto
allora senza pensarci un attimo, due piccoli, desiderati e luminosi di
possibilità. Mi sono laureata a ventidue anni. Poi la solita trafila di
corsi, esami, concorsi, abilitazioni.
Studio in centro, clienti enormi, e dieci ore al giorno di lavoro.
Sorpresi? Mica ho sempre solo scopato, nella vita. Ho studiato e
studio ancora, perché la benedizione del mio lavoro sta tutta lì: mi
obbliga ad aggiornarmi in continuazione; per capire e crescere non
basta studiare, lo so, ma stare con la mente accesa aiuta a farsi
domande, ad accogliere la curiosità, a esplorarsi dentro, a scoprire
ogni parte di noi. E ci evita di rimbambirci.
Oggi Andrea è un uomo libero, ma allora non aveva neanche idea
delle possibilità meravigliose cha ha un corpo se impara ad
apprezzare il piacere partendo dal cervello. Però aveva un dono
naturale, una caratteristica rara: la genuinità, quella che manca a
tanti quaranta o cinquantenni, tutti presi dalle loro recite, dai loro
egoismi, dai rancori per qualche ex, da granitiche certezze, e da
autoimposti, invalicabili limiti.
In un mondo di uomini che indossavano maschere, il ragazzo
imbarazzato che camminava davanti a me verso la 110 aveva il
coraggio di restare se stesso anche mettendosi in gioco. Era
autentico.
Mi ha sempre affascinata, la genuinità: il mio esplorare, la mia
smania di sesso senza implicazioni sentimentali, non era forse una
ricerca di autenticità? Offrirmi così non era il solo modo che avevo
per non rinnegare quel “qualcos’altro” che, comunque mi
guardassero gli altri, ero?
Forse pure gli occhi di Andrea mi videro così: vera. Magari le sue
coetanee erano troppo impegnate a impersonare la parte delle
donne adulte, sicure e disinvolte, mentre in realtà avevano solo
bisogno di rassicurazioni. Rassicurazioni su loro stesse, sul loro
aspetto, sulla coppia, impegnate a vivere sesso e relazioni come
funzionali alla progettazione del futuro, invece di godersi la
spensieratezza dei loro ventanni. Donne giovani perennemente
preoccupate dal fatto che gli uomini “volessero solo scopare”,
mentre io... Beh, io volevo solo scopare.
Chissà, forse la genuinità e il coraggio di essere noi stessi si
riconoscono. E si attraggono. Pure in età diverse. O almeno, mi
piace pensare che sia questo che è successo a me con Andrea e a
lui con la donna che ero. E con la donna che sono.
Capitolo 6 - La prima volta
La 110 era al piano terra. A pochi metri dal banco della reception.
Entrammo.
Andrea aveva un fare impacciato, perfino indeciso. Decisi di
imbarazzarlo ulteriormente assumendo un’espressione seria, quasi
scocciata, e mi mossi nella stanza ostentando disinvoltura. Eravamo
in silenzio, c’era solo il rumore dei miei tacchi sul pavimento.
«Vado al bagno», dissi.
Mi chiusi nella toilette. Sentivo i suoi movimenti al di là della porta.
Me lo immaginavo che vagava nella stanza, chiedendosi se fossi
arrabbiata e perché, se avesse sbagliato qualcosa o detto una frase
fuori posto. Fumai una sigaretta sorridendomi sorniona allo
specchio.
Quando uscii la stanza era al buio. Andrea si era seduto sul letto
davanti alla tv sintonizzata su nessun canale.
«È bello quello che stai guardando?», gli chiesi chiamandolo per
cognome. Poi mi piazzai in piedi fra lui e il televisore, col culo
all’altezza del viso, ripetendogli: «È bello quello che stai guardando?
È meglio di questo?».
Lui balbettò qualcosa che non capii mentre io, come se fosse la
cosa più naturale del mondo, mi toglievo vestito, reggiseno e
mutandine.
Mi sdraiai sul letto supina con solo la sottoveste addosso.
«Non vieni?», gli dissi.
Lui mi venne accanto. Poi tornò seduto, si tolse le scarpe e si
distese di nuovo, coricandosi su un fianco e volgendo il viso verso di
me. Cazzo quanto era emozionato! Mi sembrava di sentire tutto il
suo turbamento.
Avvicinò il suo viso al mio. Rimasi sospesa, immobile. Poi mi
scostai repentinamente.
«Scusa, non è che stavo per baciarti. Volevo solo sentire il tuo
odore. Scusa», mi disse.
La sua voce che tremava mi entrò dentro. “Hai capito il ragazzo”,
pensai. “Voleva annusarmi…” Mi misi lentamente a cavalcioni su di
lui e avvicinai le dita al suo viso. Ne percorsi i contorni, la fronte, le
sopracciglia, le palpebre, il naso, la curva delle labbra, le guance,
l’osso della mascella. Poi mi chinai ad annusarlo, col suo fiato che
mi solleticava il collo. Lo annusai dovunque.
Andrea era ancora interamente vestito. Nelle parti di corpo che
aveva scoperte (viso, mani, braccia, collo, piedi) lo annusavo piano,
dolcemente. Sul torace e le gambe, dove aveva maglietta e
pantaloni, annusavo energicamente, strofinando naso e labbra
contro il tessuto, come un cane che fiuta un indizio. Per ultima gli
annusai la patta. Spingevo col naso in prossimità dell’inguine,
facendo tendere il tessuto dei pantaloni che ricopriva l’uccello,
appoggiando lì la guancia per sentire, sotto, il rilievo del cazzo già
duro. Stetti per un po’ ferma e allungai le mani verso l’alto,
mettendogli le dita in bocca.
Poi mi tirai su, mi rimisi a cavalcioni su di lui e gli presi la faccia fra
le mani. Lo guardai negli occhi. Aveva le pupille dilatate.
Sembravano due laghi neri. Mi poggiò le sue mani sulla fronte, sulle
tempie, e io fui investita da una sensazione dolcissima. Scesi a
baciargli la bocca. Un bacio morbido e profondo.
“Troppo dolce. Troppo dolce”, pensai. Era una sensazione strana,
tanto nuova e insolita che ne ebbi timore. Resistetti alla tentazione di
chiudere gli occhi e scivolarci dentro. Mi staccai e cominciai a
spogliarlo con foga, come a riprendere in mano la situazione. E così,
via la maglietta, in azione le mie dita frenetiche sui bottoni dei jeans.
Lui ogni tanto mi fermava, tornava ad appoggiarmi le mani sulle
tempie, a guardarmi con gli occhi immensi. E ogni volta venivo
inghiottita da quella sensazione di dolcezza mista a meraviglia. Non
potevo fare a meno di sorridergli e baciarlo ancora sulla bocca.
Eravamo in un fermo immagine di miele. “Troppo dolce. Troppo
dolce”, pensai di nuovo. E di nuovo provai resistere, riprendendo a
spogliarlo freneticamente. Via i pantaloni, via le mutande.
Era completamente nudo adesso, disteso, il cazzo svettante e
bene in tiro. Ci abbracciammo e rotolammo sul letto a invertire le
posizioni. Adesso era lui sopra di me. Quanta vita nei suoi occhi,
quanta dolcezza, quanto desiderio. Era bello in modo commovente.
Mi resi conto che lo stavo desiderando troppo, quel ragazzo, come
non mi accadeva da tempo. Poggiai le mani sulle sue natiche e lo
chiamai per cognome.
«Dammelo in bocca», gli dissi, invitandolo con le mani e con i
movimenti a mettersi a cavalcioni sul mio seno e a puntarmi il cazzo
sul viso. I laghi neri ebbero un guizzo. Mi assecondò
immediatamente. Avevo il suo uccello gonfio davanti agli occhi.
Cominciai a passare le dita fra i peli, a percorrere con i polpastrelli le
linee delle vene gonfie sull’asta, poi la cappella. Intanto lo respiravo
forte, mi nutrivo dell’odore di lui.
Sollevai la testa per sfregarmi perbene il membro sulla faccia,
sulle palpebre, sulle guance, sulle labbra chiuse. Sfregavo e
annusavo. Andrea mi guardava, eccitatissimo e un poco smarrito,
poi tornava a tenermi le tempie con le mani, a tuffare gli occhi nei
miei, a scivolare e farci scivolare nel fermo immagine di miele.
Di nuovo mi obbligai a scrollarmi di dosso la sensazione di
dolcezza che mi investiva. Alzai le braccia, strinsi con le mani la
testiera del letto e l’invitai a bloccarmi le braccia con le mani.
«Scopami la bocca», ordinai.
Mi avvicinò la punta del cazzo alle labbra e io le dischiusi per
accoglierlo. Cominciò lentamente ad andare dentro e fuori la mia
bocca, sempre più dentro a ogni spinta. Muovevo la lingua in modo
da accarezzargli cappella, filetto e asta a ogni affondo, piegavo il
collo per favorirlo, per farlo scorrere fra lingua e palato, perché
arrivasse in gola fino a farmi lacrimare. Poi, quando sentii le palle
che mi sbattevano sul mento, cominciai a succhiarlo in maniera
ritmica, accompagnando il movimento con la lingua. Mi piaceva così
tanto che spalancai le gambe e presi a muovere il bacino. Non
smettevo di guardagli gli occhi: c’erano momenti in cui li spalancava,
e momenti in cui li socchiudeva rovesciando indietro la testa. Poi
tornava a cercare i miei. Il cazzo gli pulsava forte e compresi che
stava per venire. Colsi una certa ritrosia, forse era insicuro. Forse
non sapeva se poteva venirmi in bocca, se doveva spostarsi o altro.
Staccai le mani dalla testiera del letto e cercai le sue che mi
bloccavano le braccia. Gliele strinsi forte. Col cazzo che mi riempiva
la bocca feci per un paio di volte cenno di sì con la testa,
incoraggiandolo a godere senza preoccupazione. I due laghi neri
mostrarono uno scintillio mentre il cazzo cominciava a pulsare più
potente e a stillare sborra nella mia gola. Succhiavo, assecondando
l’ondata dei fiotti di sperma caldo e dolce, succhiavo e bevevo,
succhiavo e premevo la lingua sull’asta a placarne e accarezzarne i
fremiti, succhiavo e ingoiavo mentre con le mani stringevo le sue che
tremavano. Mi sembrava di succhiargli l’anima.
Fu una lunga notte. Lo feci mio e fui sua più volte. In silenzio. Ero
sempre io che decidevo momenti e posizioni. Mi misi a quattro
zampe davanti allo specchio e lo incitai a montarmi da dietro,
invitandolo a guardare la mia faccia riflessa nello specchio. Lo
cavalcai stando sopra, impalandomi su di lui e dondolandomi avanti
e indietro col cazzo piantato bene nella fica. Lo feci mettere in piedi:
«Ti voglio succhiare il cazzo stando in ginocchio e voglio che ti
guardi allo specchio. Devi renderti conto di quanto sei bello».
Avevo deciso tutto io. Di farmelo. Come farmelo. In quanti modi e
quante volte farmelo. Ma non avevo vinto. Lo capii dal suo abbraccio
dopo che avevamo goduto insieme, io ancora a quattro zampe e lui
pesante dietro di me. Abbracciati furiosamente, quasi
dolorosamente, come due sopravvissuti a un naufragio, certi di
essersi salvati, vivi e felici.
Capitolo 7 - Dirottamenti
Su un sito di incontri extraconiugali ci si va per scopare. Ci si va
per noia, per voglia o quel che pare a voi. E perlopiù ci si va da
sposati. Con la convinzione di volerci restare, sposati. Sennò si
cercherebbe altrove.
Sposata ero e sposata rimanevo, convintamente. Le ragioni non le
devo spiegare, credo. Ciascuno ha le sue, che alla fine sono sempre
le stesse. Figli, affetto, convenienza, complicità, gratitudine, pigrizia.
Giudicare è inutile, e comunque non rientra tra le mie abitudini: non
mi giudicavo, quel che pensano gli altri sono affari loro e la vita è
troppo breve per complicarsela con troppe masturbazioni mentali.
Avevo continuato a vedere altri uomini pescati sul sito quell'estate,
aprendo e chiudendo brevi relazioni. Andrea era ancora, nelle mie
intenzioni, uno fra tanti. Eppure, dei rapporti che ebbi nel periodo tra
il primo incontro con il ragazzo e lo stabilizzarsi della nostra
improbabile storia quasi non conservo memoria, come se la
relazione con lui assorbisse totalmente la mia attenzione ancora
prima che ne divenissi consapevole.
Se uno lo ricordo bene è perché fu imbarazzante. Credo di essere
stata io a prendere un abbaglio: non avevo mai sbagliato in maniera
così drammatica un “casting”. Com’è inevitabile in casi del genere,
m’era rimasto da tenermi il pentimento a giochi fatti, e nient’altro.
Gianluca era un quarantenne molto attraente, brillante
conversatore, intelligente e spiritoso. Ma a letto, un vero disastro.
Non tanto per via di un cazzo che rientrava, a essere generose,
appena nella media (a parte rare eccezioni fuori misura – in un
senso o nell’altro – tutti i cazzi possono portare felicemente a
termine il loro compito), quanto perché non ci sapeva proprio fare: mi
toccava e baciava con foga e desiderio ma senza minimamente
ascoltare e seguire le risposte del mio corpo.
E poi concludeva subito.
La prima delle due volte che scopammo, nell’unico pomeriggio
trascorso insieme, venne praticamente quaranta secondi dopo
essermi entrato dentro.
«Ero troppo emozionato, mi piaci tanto», disse abbracciandomi.
Ricambiai l’abbraccio, mostrandomi comprensiva e rassicurante.
Non che mi interessasse particolarmente rincuorarlo: mi premeva
soprattutto non avere sacrificato a vuoto tutto quel tempo sottratto al
lavoro, e speravo che la modalità materna fosse efficace per
placargli l’ansia e migliorarne le prestazioni.
La seconda volta durò forse appena un minuto più della prima.
«Ti desideravo troppo», si giustificò. Ma fu quando aggiunse
tronfio: «Però è andata meglio della prima, dai», che capii:
considerava la questione come un fatto di poco conto, come se il
mio piacere fosse secondario o, almeno, non essenziale quanto il
suo.
Qualche volta c’ero cascata perfino io: la prima reazione di una
donna in casi del genere non è mai di fastidio, di autotutela. Anzi, va
nella direzione esattamente opposta. Per carità, andrebbe bene – va
bene – in una relazione stabile, serena, paritaria. Ma il mostrarci
“politicamente corrette”, pazienti e comprensive con certi uomini che
non si preoccupano minimamente di noi, è sbagliato. È frutto di una
cultura patriarcale e non fa altro che rinforzare ego ed egoismo di
uomini che continueranno a pensare al nostro piacere come
qualcosa “in più”, che se accade, bene, ma se non accade, in fondo,
è lo stesso.
Ecco perché non ascoltai una terza scusa. Mi divertii a stuzzicarlo
lucidamente con le mani, portandolo vicinissimo a un nuovo punto di
non ritorno per interrompere il tutto sul più bello, alzarmi dal letto,
rivestirmi e andarmene, lasciandolo lì, nudo e a cazzo dritto, a finire
da solo, se proprio voleva. Con altri era andata sessualmente
meglio, almeno per quanto riguardava durata del rapporto e
dimensioni del cazzo (che poi sono gli unici due parametri in base ai
quali molti uomini valutano la loro sessualità). Ma che fossero buone
o meno, nessuna di quelle esperienze aveva scalfito il mio desiderio
dell’inten-sità sperimentata con Andrea. Anzi, o meglio, nonostante
dentro di me rimanesse acceso il campanello del pericolo, mi
accorgevo di frenarmi, di non chiedergli un incontro tutte le volte che
lo desideravo. Dirottavo - spesso intenzionalmente - le mie voglie da
quel ragazzo dolce e timido verso l'amante di turno, più esperto e
abile. Mi forzavo a farlo. Scopavo con uno qualsiasi per sostituire lui,
reprimendo una voglia di candore a me del tutto estranea.
Di tanto in tanto però non ce la facevo, e ci vedevamo. Che fosse
rischioso continuare lo sapevo benissimo. Me lo diceva l’urgente
voglia di lui che stravolgeva i miei piani di peccatrice efficiente e
organizzata. E immaginavo che forse sarebbe stato difficile, a un
certo punto, doverci rinunciare, com’era giusto e inevitabile.
“Qualche altra volta”, mi dicevo. Perché negarmela?
Un’altra volta ancora. Solo un’altra volta.
Capitolo 8 - Don Jon
Era piena estate. Io trattenuta in città dal lavoro. Marito e figli al
mare. La sera, Milano usciva da una giornata torrida, una di quelle
che solo l’idea di stare per strada ti dà l’angoscia, e se proprio devi
uscire, per tutto il tempo sogni un ufficio, un negozio, un ristorante,
un’automobile, un qualunque posto con l’aria condizionata dove
rifugiarti.
Cominciava a far buio, eppure l’asfalto sembrava avere
imprigionato il calore del giorno per rilasciarlo tutto insieme proprio a
quell’ora. Mentre camminavo verso casa sentivo i tacchi affondare
nel marciapiede, il piede che scivolava nei sandali senza presa,
senza attrito, il vestito aderente tutto appiccicato addosso, le tette
imperlate di sudore.
Avevo un appuntamento con Fabio, il mio amante milanese, bello
e un po’ infelice, anche lui trattenuto in città dal lavoro, moglie e figli
in vacanza. Era meno “libero” di me per le sue scappatelle, e se la
sognava da settimane, la prima notte intera che avremmo passato
insieme. Saremmo andati a mangiare qualcosa e poi a rinchiuderci
in un hotel a scopare, con l’aria condizionata a palla. Anch’io ero
contenta di vederlo: era un uomo piacevolissimo di quarantotto anni,
alto e biondo, a letto attento e generoso. Ma ci ripensai: la giornata
era stata così calda e Milano tanto vuota che avevo dentro una gran
voglia di vacanza. E non riuscii a farci niente: più di ogni altra
scappatella con un qualsiasi amante, magari più esperto o dotato,
pensando a una vacanza fu quel ragazzo a venirmi in mente, e il mio
gioco con lui. Così, senza riflettere, nonostante l’entusiasmo di Fabio
e i suoi due centimetri in più, chiamai Andrea.
«Vieni a casa mia. Ordiniamo una pizza e ascoltiamo musica», gli
dissi solo.
«Il tempo della strada e arrivo», rispose.
Era spiazzato per l’invito, lo so, ma non ci aveva pensato un
attimo. Ne ero felice, e allo stesso tempo mi sentivo spiazzata
quanto lui: mai avevo nemmeno pensato di portare un amante
qualsiasi nel posto del mio reale, la casa che aveva visto i miei
ragazzi piccoli e me giovane e bella. “Questa volta e poi basta”,
pensai mettendo a tacere una vocina dentro che mi diceva: “A chi la
racconti questa bugia, agli angeli?”.
Disdissi l’appuntamento col milanese, che ci restò di merda. Non
l’ho più visto da allora, né mai gli ho dato spiegazioni. Erano le mie
regole: chiarezza nel dare e nel ricevere, nessun impegno e nessun
obbligo. Eppure oggi mi dispiace di avergli procurato un piccolo
dolore. Forse si era innamorato un po’. Io però no, per niente. Quindi
pazienza…
Mi infilai in doccia. Andrea arrivava da Cremona, avevo poco più
di un’ora per prepararmi.
Quando citofonò gli aprii senza rispondere, scala e piano glieli
avevo già dati per telefono. Mi piaceva tenerlo sulle spine e volevo
che arrivasse da me emozionato e un po’ in soggezione.
Avevo addosso solo le mutandine e un négligé nero aderente e
corto a mostrare le gambe, lisce e abbronzate, il culo rotondo e
sodo, la vita stretta e in trasparenza il seno con i capezzoli grandi.
Indossavo sandali coi tacchi altissimi e avevo truccato solo la bocca.
Dallo stereo si diffondeva l’allegro iniziale della Piccola serenata
notturna di Mozart.
Quando sentii l’ascensore aprii di poco la porta e misi fuori
soltanto un braccio. Lo strinse. Lo tirai dentro casa e fra le mie
braccia. Volevo che fosse investito di botto dal mio odore, dal mio
profumo, dal mio calore. Mi addossai a lui, cercando di aderire il più
possibile al suo corpo. Andrea mi stringeva forte (lo fa sempre,
quando ci vediamo, sembra voglia stritolarmi). Ci baciammo a lungo,
continuando a sussurrarci “Ciao” a ogni bacio.
«Ti piace Mozart?», gli chiesi. «Credi anche tu che la sua musica
dilati le vene?».
Mi guardò con una smorfia dispiaciuta: «Non è il mio genere…».
«Ah no?», dissi fingendomi sorpresa.
Figurati se non lo immaginavo, non l’avevo mica scelto a caso di
mettere su Mozart… Sapevo di piacergli perché ero così diversa,
così lontana da lui, dal suo mondo e dalle ragazze che gli giravano
attorno. E accentuare queste differenze mi dava un punto di
vantaggio.
Lo presi per mano e lo portai in salotto, tra le scaffalature cariche
di libri, le fotografie, il divano rosso e il pianoforte. Eravamo in
penombra: faceva caldo, le finestre erano aperte e nonostante le
tende non potevo rischiare che dai palazzi vicini qualcuno ci
vedesse. Presi due bicchieri e versai del whisky. Lo invitai a un
brindisi con modi quasi formali, come fosse un rituale. Bevemmo e
scoppiammo a ridere. Poi riprendemmo a baciarci, ad abbracciarci e
sussurrarci: “Ciao”.
Ero nel salotto di casa mia, priva del popolo che solitamente
l’abitava, priva delle voci, dei rumori, delle risa, dei litigi fra i
ragazzini, del consueto disordine. Ero lì ad abbracciare un ragazzo
tanto più giovane di me e a desiderarlo perdutamente. Versai un
altro giro di whisky. Bevemmo e ridemmo. Tolsi il cd di Mozart e ne
misi uno di Edith Piaf. Altro giro di whisky, di baci e di sorrisi. Poi
chiesi di farmi ballare sulle note di Je ne regrette rien. Rispose che
non sapeva ballare, che non era capace. Risi. Gli dissi: «Tu puoi fare
tutto ragazzo!».
Lo abbracciai e cominciammo a dondolare formando una figura
che solo da lontano e con molta buona volontà avrebbe potuto
essere scambiata per la sagoma di due che ballavano. Mi girava la
testa. Per il whisky e per il suo profumo, per le sue spalle forti, il suo
respiro sulla fronte e i lievi baci che ci appoggiava, le mani che mi
scorrevano dolcemente sulla schiena. Quando rovesciavo la testa
all’indietro ci guardavamo negli occhi, poi lo baciavo sulla bocca e lui
mi stringeva forte. Era un mix di tenerezza e di desiderio, di dolcezza
e di smania di lui e del suo cazzo. Ancora e ancora.
Lo invitai ad accomodarsi sul divano, mi sedetti su di lui e gli dissi
che volevo bere dalla sua bocca. Si riempì la bocca di whisky,
avvicinò le labbra alle mie e bevvi così. Mi tremavano le gambe. Gli
tolsi il bicchiere dalle mani e lo posai sul tavolino accanto. Gli
sbottonai i pantaloni, mi leccai il palmo della mano, gliela infilai nelle
mutande e gli strinsi forte il cazzo. Era già duro, la pelle morbida e
caldissima. Tenendo l’uccello stretto in una mano dentro le mutande
gli sollevai il mento con l’altra.
«Tu adesso non molli i miei occhi», ordinai.
Glielo tirai fuori e cominciai a menarglielo. Andavo su e giù con la
mano ritmicamente senza lasciargli gli occhi. E accompagnavo la
carezza al cazzo con piccole smorfie del viso, moine di
compiacimento e approvazione, come a dirgli “Così va bene, sì?
Così ti piace? Bravo… Gustatelo”.
Sentivo la sua eccitazione montare: la vedevo crescere nei suoi
occhi che si annacquavano, la sentivo gonfiarsi nella mia mano. Poi
mi fermai stringendogli forte l’uccello, assaporando le vene dell’asta
che mi palpitavano sul palmo. Lui respirava forte. Aveva il viso teso,
le sopracciglia aggrottate, mascella serrata e labbra contratte. Gli
accarezzai piano il viso, le spalle ampie, le braccia, il torace che si
abbassava e sollevava. Con quella carezza volevo liberare la forza
che, forse per pudore o inesperienza, stava trattenendo. Ma che era
lì, sotto la sua pelle, pronta a esplodere. La sentivo e la volevo. Se
ne accorse. Si accorse che sentivo il suo imbarazzo e forse se ne
vergognò, perché arrossì e chiuse gli occhi.
«Guardami, non lasciare i miei occhi», gli sussurrai materna
all’orecchio mentre gli stringevo forte il cazzo. Lui mi obbedì. Gli feci
indossare il profilattico, poi mi sollevai leggermente e scostai le
mutandine. Erano fradice. Diressi la sua cappella sulla mia fica e
cominciai a strofinarla fra le piccole labbra. Il rumore che il cazzo
faceva sfregandosi in quel lago era osceno ed eccitantissimo.
«Lo senti? Lo senti quanto ti voglio?» gli dissi dolcemente «Io non
mi vergogno, vedi? Non farlo neanche tu. Fammelo prendere,
dammelo».
Mi mise le mani sulle tempie, esercitando una lieve pressione
verso il basso, e io mi abbassai a prenderlo tutto. Nell’istante in cui
entrò totalmente nella mia fica Andrea sospirò e cominciò a gemere
piano. Era la prima volta che succedeva: si era sempre trattenuto dal
manifestare il piacere che provava, e ora si stava finalmente
lasciando andare. Godetti di quella piccola vittoria e pensai che se
era così eccitante sentire i suoi gemiti chissà quanto sarebbe stato
bello sentire la sua voce sussurrare sconcezze. Anch’io mugolavo e
gemevo. Gli accarezzavo il viso, le sue mani accarezzavano il mio e
non avevamo smesso per un istante di tenerci negli occhi. Avvicinai
il mio viso al suo, la bocca alla bocca e cominciammo a respirarci
dentro, a baciarci e respirarci, a leccarci le labbra.
Andavo su e giù sul cazzo. A ogni affondo mi sembrava di sentirlo
più potente, più grosso. Gemevo forte e anche lui. Poi cominciai a
dondolare avanti e indietro accelerando il ritmo. Edith Piaf, i miei
gemiti e i suoi. Vidi il mio orgasmo che arrivava nei suoi occhi. E
sono certa che anche lui sentì arrivare il suo nei miei.
Godemmo insieme guardandoci. Godemmo e ci perdemmo, io in
lui e lui in me.
Quando sul letto molte ore dopo stavamo per addormentarci
abbracciati, mi disse: «È stato bellissimo prima sul divano… Mi ha
ricordato un film, Don Jon, una scena in cui il protagonista e Julianne
Moore lo facevano così, sopra un sofà». Gli dissi che non conoscevo
il film, che lo avremmo visto in futuro insieme ma che ne ero certa:
quella scena noi l’avevamo sicuramente girata meglio.
Poi lui si addormentò e io rimasi per un po’ sveglia a guardarlo.
Averlo nel mio letto mi faceva girare la testa. Credevo fosse per via
della sua bellezza, della sua gioventù, oppure per il rischio che stavo
correndo per averlo invitato a casa e farlo dormire lì. Fu quando
stavo per chiudere gli occhi che mi resi conto che la testa mi girava
per il piacere che avevo provato quella sera a “insegnargli”.
Sorrisi e mi addormentai.
Capitolo 9 - Quel giorno al parco
Non è così difficile gestire un amante. A patto che si verifichino
due circostanze, anzi tre. La prima: darsi delle regole e non
trasgredire mai; la seconda: non perdere la testa. Poi c’è la terza,
ovvero che la testa non la perda nemmeno lui. E la terza, beh, quella
non la controlla nessuno.
Nei miei anni da infedele di amanti ne avevo gestiti anche due o
tre nello stesso periodo. Li incontravo conciliando la mia agenda e la
loro, incastrandoli fra riunioni e pranzi di lavoro, scegliendo uno o
l’altro non seguendo il desiderio ma in base alla maggiore comodità
che in quel momento ciascuno poteva offrire, come fossero
interscambiabili. E in fondo sì. Lo erano.
Con Andrea stava andando tutto diversamente. Per prima cosa,
da dopo l’estate avevo cominciato a vedere solo lui. Insomma, in
qualche modo gli ero fedele. Non era una scelta, e neppure una
fatica ragionata. Accadeva. Inevitabilmente. E, strano a dirsi, quella
esclusività aveva il sapore della trasgressione. Non è un dettaglio,
perché il fatto stesso, la fedeltà voglio dire, di per sé rappresentava
una deroga alla prima regola, e una spia evidente di pericolo per il
superamento della seconda. Stavo perdendo la testa?
Di certo avevo cominciato a perdere di vista cautele e prudenze.
Continuavo a ripetermi “È solo un ragazzo. Ci faccio un altro giro e
poi lo saluto”. Ma ogni volta mi sorprendevo a pensarlo, ad avere
una voglia pazza di rivederlo. “Devo solo saziarmi” mi dicevo
provando a rassicurarmi.
Per una sposata il telefono è un bel problema. Insomma, mica
puoi sempre star lì a fare moine. Anche se lo vorresti da morire,
esagerare non va bene. Ed è rischioso. Come dicevo, con lui avevo
già contravvenuto a tutte le mie regole: mai sentirsi al telefono da
casa, mai far sapere cognome, indirizzo eccetera. Andrea aveva
dormito nel mio letto, il cellulare “dedicato” non lo accendevo
praticamente più, conosceva il mio cognome e il mio numero ufficiale
e talvolta accadeva che ci sentissimo quando ero a casa. E se
succede quest’ultima cosa vuol dire che per quante bugie possiamo
raccontarci il limite si è superato di una misura incolmabile…
Mi chiamò una sera che avevo dei buoni conoscenti a cena. Tutte
care persone, piene delle certezze consolidate medio borghesi che
tanto rassicurano gli animi dei benpensanti. Non fraintendetemi. Non
solo non ho l’abitudine di giudicare, ma credo che loro mi
considerassero esattamente allo stesso modo. Una cara persona,
cortese e amichevole. Ma la nostra realtà spesso è tutta una facciata
e magari anche la mia compagnia di quella sera si mostrava al
mondo nascondendosi dietro una patina, come me, mentre nel
profondo, nell’intimo dei desideri, eravamo uguali.
Stavamo prendendo l’aperitivo in salotto quando squillò il telefono.
Guardai il display, lessi che era lui e rifiutai la chiamata. Sorrisi ai
miei ospiti servendo altro Martini, ma sudavo freddo: con quel
ragazzo stavo davvero perdendo di vista ogni prudenza. Non c’erano
senso di colpa o pentimento: non sentivo di dover giustificare le mie
azioni e i miei comportamenti con nessuno, né con una qualche
divinità né con mio marito, tantomeno con quegli amici. Anzi. Stare lì
a conversare amabilmente ricordandomi benissimo come sullo
stesso divano avessi scopato con Andrea mi eccitava da pazzi. Ero
solo nervosa perché mi rendevo conto di aver abbassato la
guardia… Insomma, le precauzioni che avevo fissato, rispettato e
rigorosamente fatte rispettare dai miei amanti per due anni, erano
andate clamorosamente a farsi fottere. E il brutto (il bello, in realtà,
ma di questo sono stata consapevole solo molto dopo) era che stava
succedendo praticamente senza che me ne accorgessi. Fu per
questo che quando il telefono squillò nuovamente non andai in
cucina per rispondere e spiegargli dolcemente, come altre volte
avevo fatto, che non era il momento e che lo avrei richiamato più
tardi. Risposi secca.
«Ciao. Scusa ma adesso sono impegnata. Ne parliamo domani in
studio».
Qualche minuto dopo ricevetti il suo messaggio con “Scusami”.
Il giorno dopo me lo ritrovai alle otto del mattino alla fermata del
tram dove sono solita scendere per andare in studio. Doveva aver
preso il primo treno, per essere lì a Milano a quell’ora.
«Mi dispiace» gli sussurrai.
«Non te ne andare» fece lui.
Solo questo. Non ci fu bisogno di dirsi altro.
Chiamai la mia segretaria, rimandai degli appuntamenti riuscendo
a guadagnare un paio d’ore. Ci spostammo di qualche isolato,
facemmo colazione in un bar e lo portai ai giardini di Villa Reale. Mi
era venuta voglia di gustarmelo così, all’aperto, come
un’adolescente. L’idea che ci potessero vedere e i suoi occhi
spalancati quando gli dissi che volevo fargli una pompa lì erano un
mix di eccitazione micidiale. Era così erotico prendere atto di quanto
quel ragazzo mi si “affidasse”. Vederlo strabuzzare gli occhi per le
cose “estreme” che gli facevo – e gli facevo fare – moltiplicava la mia
voglia di lui.
I giardini di Villa Reale erano un incanto che Andrea non
conosceva. Passeggiavamo mano nella mano vicino al laghetto,
percorrendone il perimetro. Gli raccontavo di quanto sarebbe stato
più bello quel posto più avanti, col rosso, giallo e arancio
dell’autunno inoltrato, e intanto mi sentivo un ragno che tesse,
perché intenzionalmente imboccavo i sentieri che sapevo condurre
al boschetto appartato dove volevo gustarmelo.
Quando ci arrivammo lo invitai a sedersi su una panchina e mi
sdraiai con la testa sul suo pacco. Cominciai a soffiare attraverso il
tessuto dei pantaloni per fargli arrivare il fiato fino al cazzo. Glielo
tirai fuori e lo presi in bocca. Non tutto. Solo la cappella. La
stuzzicavo con lingua e labbra cercando di dare al movimento della
lingua lo stesso ritmo del suo respiro, che diventava sempre più
forte. Poi la tenni ferma tra palato e lingua sentendola ingrossare. La
tirai fuori e la guardai. Era così bella, calda, pulsante, tutta lucida
della mia saliva. Sembrava brillare sotto la luce del sole.
«Guardati, guarda quanto sei bello!» mormorai chiamandolo per
cognome. Mi divertiva chiamarlo in quel modo soprattutto quando
invadevo la sua intimità: mi sembrava accentuasse il mio essere
“signora” e il suo essere ragazzo, rimarcando così la distanza tra
noi, le nostre differenze, in gustoso contrasto con quello che gli
stavo facendo o dicendo.
Lui guardò il suo uccello grosso e duro nella mia mano destra, con
la punta del cazzo a pochi centimetri dalle labbra dischiuse, poi mi
guardò negli occhi, leggendo tutta la voglia che avevo. Cacciai fuori
la lingua e lo leccai. Andrea spalancò gli occhi mentre io spalancavo
la bocca e prendevo tutto il cazzo, fino in gola. Rimasi per un
momento infinito così, ferma, con la bocca piena di lui. Sentivo che
si costringeva a rimanere immobile, che era eccitato e imbarazzato,
combattuto fra il timore che ci vedesse qualcuno e il desiderio
dell’attimo in cui avrei cominciato a pompare come si deve. Gli presi
le mani e le portai sulla mia testa, assicurandomi di fargli intrecciare
bene le dita fra i capelli. Aveva le sopracciglia inarcate e le labbra
imbronciate. La stessa espressione di sempre quando è eccitato,
un’espressione che ha su di me un effetto devastante.
Anche io mi obbligavo a stare ferma, ma con il cazzo caldo e
pulsante piantato in gola non era facile: impazzivo dalla voglia di
sbattermelo su e giù. Lo guardavo negli occhi stando lì, a bocca
piena, le labbra serrate a circondare la base, muovendo piano la
lingua sull’asta ma senza farlo scorrere di un solo millimetro. Ed ero
decisa a non farlo se prima non avessi capito dal suo sguardo che la
voglia di sborrarmi in gola vinceva l’imbarazzo per il timore di essere
visti.
Non so se furono più convincenti la mia lingua o i miei occhi
prepotenti, ma finalmente Andrea ebbe un sussulto, strinse forte le
dita fra i miei capelli tirandoli leggermente, invitandomi ad andare su
e giù.
Nonostante il desiderio di obbedire all’invito resistetti ancora,
trattenendo con fatica la voglia di amarlo con la bocca e stringendo
le gambe per placare il desiderio di lui che nel bassoventre urlava.
Fu solo quando lo vidi chiudere gli occhi e rovesciare la testa
all’indietro, emettendo il gemito solito che mi mandava in orbita, che
cominciai avida a pompare.
Capitolo 10 - Una nuova letizia
Ci vedevamo da mesi. Regolarmente. Almeno una volta alla
settimana, chiusi tutto il giorno in un hotel a saziarci di noi. Uscivamo
solo per mangiare. Più spesso ci portavamo dei panini, che venivano
consumati direttamente sul letto, per non perdere tempo.
Scopavamo fino a tarda sera, quando prendevo il taxi che mi
riportava a casa, spossata e indolenzita, con la pelle gravida delle
sue impronte e la voglia di rivederlo che si rinnovava già
nell’ascensore di casa mia.
Era un sesso meraviglioso e potente, ma tecnicamente molto
semplice. L’unico “azzardo” era stato smettere di usare il profilattico.
Cominciai a domandarmi perché Andrea non mi chiedesse mai
niente di diverso. Insomma, tanto per partire dalle cose di base, mi
domandavo perché non m’avesse ancora chiesto di scoparmi nel
culo né si fosse provato ad accennare un seppur debole approccio
durante gli amplessi. Avrebbe dovuto venirgli naturale, no? (ci sono
uomini che non te lo chiedono: tu stai lì a pecora, convinta che
stiano per farti la fica, quando senti il cazzo che preme forte lì… In
quei casi, voltarmi e mollare una sberla al cafone di turno era un
tutt’uno).
Me lo chiedevo avendo già la risposta, ma di cose del genere una
non è mai certa. Non gli piaceva? Non gli piacevo abbastanza io?
Non lo aveva mai fatto? Possibile? Era solo timoroso e inesperto?
Ho un bellissimo culo, e praticamente tutti i miei amanti me lo
hanno chiesto, prima o poi. L’ho concesso a pochissimi, possono
contarsi sulle dita di una mano. E credetemi, per il numero di amanti
che ho avuto quelli che hanno goduto del mio culo sono una
percentuale davvero bassa. Non perché non mi piacesse, anzi.
Quando lo facevo godevo come una matta. Ma era necessario che
lo volessi forte, che quell’amante mi avesse coinvolta veramente,
fino a desiderare di esserne totalmente invasa, di essere “forzata” e
violata, fino a desiderare che lui divenisse mio signore, nel corpo e
nello spirito, come se dal buco del culo si potesse arrivare a
prendermi l’anima. Di uomini che mi sono piaciuti così tanto ce ne
sono stati pochissimi.
«Non vuoi farmi il culo?», gli chiesi al telefono un pomeriggio
piovoso. Ero in studio, alla fine di un incontro complicato, durante il
quale era stato necessario mostrarmi più determinata, risoluta e
fredda del solito, e m’era venuta voglia di calore. Al lavoro sono
sempre distaccata e razionale, una fortezza che non cade neanche
sotto assedio, e scommetto che in parecchi mi definirebbero
inaccessibile e “poco propensa” alle relazioni con l’altro sesso.
Comprimo le mie curve in abiti irreprensibili e mi pettino i capelli
lunghi – quelli che adoro farmi tirare quando sto a pecora – in
impeccabili chignon. Insomma, pago il prezzo che ogni donna deve
pagare se non vuol perdere autorevolezza. Perché poi si diffidi della
competenza di una donna che apre, e spesso, le gambe per godere
(quando si tratta di una fra le cose più naturali e sane del mondo)
non l’ho mai capito. Agli uomini non accade. Anzi. Essere anche un
tombeur de femmes contribuisce al fascino di ogni leader maschio.
L’incontro di lavoro mi aveva snervata, avevo voglia di gioco e
leggerezza, così mi stavo rilassando semisdraiata sulla poltrona di
pelle nera della mia scrivania e decisi di stuzzicare Andrea al
telefono.
«Non hai mai scopato nessuna nel culo? Dai, dimmi la verità»,
tornai a chiedergli facendo finta di non saperlo già. Lo immaginai
arrossire.
«Mai? Davvero? Allora è arrivato il momento, ragazzo» e aggiunsi
con voce più bassa, sospirandolo quasi, «La prossima volta che ci
vediamo porto dell’olio e lo facciamo».
Ci incontrammo la settimana successiva nella camera dell’hotel
dove andavamo più di frequente. Avevo in borsa un flacone di olio di
mandorle dolci, che appoggiai sul comodino. Cominciammo a
baciarci, a toccarci, a stringerci con la frenesia di sempre, arricchita
dalla letizia di quella cosa nuova che avremmo fatto insieme. Ancora
vestiti ci buttammo nel letto a rotolarci, sorriderci, strusciarci,
spogliandoci velocemente. A ogni indumento che volava sul
pavimento c’era un bacio profondo, una lingua infinitamente
succhiata, una carezza alla fronte, un sorriso negli occhi. Eravamo
nudi, caldi, sudati, con la febbre d’amore addosso. Era pieno
autunno ma avevamo ancora l’estate dentro.
Mi sedetti sul bordo del letto, andai indietro con la testa e
spalancai oscenamente le cosce con la fica bene esposta. Andrea si
accovacciò sul pavimento con la testa fra le mie gambe e cominciò a
leccare e succhiare. Mi misi un cuscino sotto la testa: adoravo
guardarlo mentre mi leccava la fica. Vedevo la parte superiore del
suo volto e gli occhi brillanti fissi nei miei. Cercavo di mantenere
fermo lo sguardo ma non ce la facevo: il piacere era così forte che i
miei occhi si chiudevano, si riaprivano, si annacquavano, si
rovesciavano indietro seguendo i movimenti della sua lingua, dei
suoi baci e dei fiotti di nettare che stillavano dalla mia passera. Venni
diverse volte, mugolando in modo indecente, fottendomene se di là,
fuori, altrove, qualcuno poteva sentirmi.
Si tirò su e si posizionò su di me, stava per entrarmi dentro e io
morivo dalla voglia di essere sbattuta quando gli sgusciai da sotto e
mi misi a quattro zampe.
«Inculami», gli dissi. Lo volevo disperatamente e lo volevo in quel
momento, con tutto il desiderio di cazzo che avevo nella fica. Volevo
stare a quattro zampe e volevo che mi scopasse il culo mentre dalla
mia passera colava il desiderio di essere riempita. Volevo essere
inculata così, con la fica orfana e vogliosa, privata del suo incanto.
Udii che si muoveva dietro di me. Pensai che stesse armeggiando
con il tappo della bottiglietta... Poi un dito scivoloso si introdusse
piano nel mio culo. Mi rilassai. Lui teneva il dito fermo, forse aveva
paura di farmi male. Spostai dolcemente il bacino e sospirai:
«Muovilo amore».
Cominciò a muovere il dito dentro e fuori, con un movimento
circolare. Quanto era delizioso sentirlo. Quanto era dolce stare lì,
totalmente esposta, indifesa, fragile e viva, con la consapevolezza
che tra poco il mio magnifico ragazzo mi sarebbe entrato nel culo a
toccarmi l’anima.
Tolse il dito e avvicinò la punta dell’uccello. Ero così vogliosa e
rilassata che lui riuscì quasi subito a mettere dentro la cappella. Il
pensiero di lui che si era cosparso tantissimo d’olio per non farmi
male, il pensiero dell’emozione che sicuramente stava provando mi
commosse fino a riempirmi gli occhi di lacrime. Singhiozzai. Lui
equivocò, e smise di spingere. Allora cominciai a muovermi io, piano
e dolcemente, avanti e indietro, sospirando.
«Parlami, parlami», cominciai a ripetere. M’era venuta voglia di
sentirgli dire che ero una troia, la sua troia. Che mi stava sfondando
il culo, entrando fin dove si poteva. E glielo chiesi. Gli chiesi di
dirmelo, di chiamarmi a quel modo, di descrivermi che cosa stava
facendo. Andrea smise per un attimo di respirare, poi mormorò con
voce profonda e densa di emozione: «Ti sto inculando amore, sono
dentro il tuo culo».
Quella frase ebbe un effetto devastante nella mia mente e forse
anche in lui, perché non l’aveva mai detta a nessun’altra donna
prima. Mi mise le mani sui fianchi e cominciò a scoparmi perbene, a
incularmi alla grande. Andava dentro e fuori sempre più forte e ogni
volta si conficcava più in fondo, a ogni spinta affondava e mi dava un
altro centimetro di cazzo.
Puntai le mani sul materasso cercando di assumere una posizione
più stabile e rigida, per offrire più resistenza a quell’assalto, per
gustarmelo meglio. Cominciai a sentire a ogni colpo le palle di lui
che colpivano la mia fica fradicia e sentivo come ad ogni spinta si
bagnavano.
Chiusi gli occhi ed ebbi una visione: un primo piano del mio culo e
del suo cazzo che lo scopava, un’immagine da film porno che si
ripeteva come un loop e cominciai a venire. Godevo e ansimavo,
godevo e ripetevo: «Sì amore». Godevo e gemevo senza vergogna.
Era un piacere fortissimo, intenso e particolare, che si insinuava fin
dentro il cervello, in ogni sua piega, un orgasmo che sembrava non
finire più, sconquassandomi dentro.
Stavo ancora venendo quando udii la sua voce dirmi: «Vengo
amore, ti sto venendo nel culo». Affondò in me fino alle palle
rimanendo lì fermo. Io godetti nuovamente e stavolta con la fica, col
grilletto, stando immobile. Non so come fu possibile. Forse per via
degli spasmi del cazzo che stava stillando zucchero liquido o per via
delle sollecitazioni che le palle sbattendo avevano regalato alla mia
passera… So solo che fui sua tantissimo, intensamente,
infinitamente.
Capitolo 11 - Il suo odore
Come è possibile che ogni volta che mi avvicino a lui, che sento il
suo odore, la fiamma nel mio bassoventre si accende e mi fa
sciogliere? Ogni volta, varcata la soglia di una nuova stanza, l’aria si
accende e si fa elettrica, viva e vibrante. Lui è con me. E ci sono i
colori. Non c’è cappa di grigio che tenga: il grigio e ogni sua
sfumatura restano fuori dalla porta.
Mi piace avvicinarmi quando siamo ancora vestiti, gli dico di stare
fermo, di dischiudere la bocca e restare immobile. Siamo in silenzio,
ascolto il rumore dei miei movimenti, dei miei abiti, dei tacchi sul
pavimento. A occhi chiusi mi faccio più vicina, sento il suo odore
sempre più forte e cerco il suo respiro. Lui è così alto che devo
inarcarmi sulla punta dei piedi e sollevare il viso per trovargli le
labbra. Rimango per un po’ così, ferma e sospesa, le bocche vicine,
a gustarmi il fiato dolcissimo e caldo. Poi apro gli occhi e ogni volta
mi ritrovo sorpresa e stupita per quanto mi incanta. Che madornale
errore credere che l’amore sia progetto e certezza. L’amore è
soprattutto stupore.
Vorrei abbracciarlo, stringerlo e schizzare oltre, per un secondo o
mille anni, staccare i piedi da terra, fargli da pipistrello e farmi
portare via da me, dalla vita che ho fuori di lui e che resiste
nonostante tutto. Nonostante quell’avanzamento veloce del nastro
che il mio desiderio vorrebbe. Quel nastro di noi così bello da volerlo
riavvolgere in fretta solo per poterlo iniziare da capo.
Lo guardo. È immobile. Ha occhi chiusi e bocca dischiusa, come
avevo ordinato.
«Sei proprio un bravo e ubbidiente ragazzo», gli sussurro
compiaciuta all’orecchio.
Stiamo respirando più forte, le bocche vicine. Chiudo gli occhi, tiro
fuori la lingua e gli sfioro le labbra, ne seguo i contorni, ne palpeggio
carnosità e pienezza. Con la punta faccio capolino dentro la sua
bocca, dapprima esitante e quasi timida, poi sempre più determinata
e sicura, strappandogli piccoli mugolii. Adoro respirare dentro la sua
bocca, bere ogni suo gemito. Adoro leccargli labbra e denti. Ficcargli
la lingua in bocca e frugargliela tutta, solleticare e succhiare la sua.
Siamo immobili entrambi, solo la mia lingua si muove mentre resto
protesa verso lui, tutta quanta, tutta intera, mentre il suo odore mi
inebria e il fuoco fra le cosce divampa. Lo attizzo ancora, aggiungo
altra voglia alle voglie e inarco il bacino, a strofinarmi sul cazzo che
diventa sempre più duro sotto i jeans. Percepisco i suoi sussulti,
sento le sue mani tremare, fremere e resistere a toccarmi.
Allora cedo e per un po’ lo lascio fare, gliele lascio avvicinare ai
miei fianchi, al culo. Giusto il tempo di sentire i miei brividi. Talvolta
alzo il vestito e lo assecondo, gli lascio palpare le natiche calde, la
pelle nuda delle cosce. Oppure mi dondolo, divarico un po’ le gambe
in modo che la sua mano a palmo aperto tocchi la fica, ne avverta il
calore e il bagnato attraverso le mutandine. Mi dondolo con
progressiva frenesia, fino al punto che quasi non si capisce se è lui
ad accarezzarmi la fica o se è la mia fica a cercare e accarezzare la
sua mano. Poi mi blocco e lo blocco, avvicino le labbra al suo
orecchio e sussurro decisa: «Fermo ragazzo. Fermo. Ti voglio
immobile. E mio. E nudo».
E lui di nuovo ubbidisce.
Solo allora apro gli occhi e trovo sempre i suoi che mi cercano. Ha
gli occhi magnifici quando è eccitato: gli si annacquano di piacere e
diventano brillanti. Guizzano di gioia e di vita come gli guizza e gli
pulsa il cazzo, quell’incantevole cazzo che di lì a poco mi pulserà
nella fica, nel culo, nella bocca…
Respiro più forte e comincio a spogliarlo.
Capitolo 12 - Un giro di giostra
Sono sempre stata curiosa. E certe curiosità non si soddisfano
leggendo, guardando o facendosi raccontare da qualcuno com’è.
Per essere capite e soddisfatte devono viversi sulla pelle. Con
qualcuno dei miei amanti più intraprendenti avevo sperimentato
giochi a tre; due donne e lui, oppure lui, un altro uomo e me.
Vi confesso, non era stato granché. O meglio, erano state
esperienze forti, e mi erano piaciute, sì, ma le avevo vissute come in
solitaria. Erano solo mie. L’amante che mi accompagnava era
sempre stato solo un compagno di viaggio, uno che faceva lo stesso
giro di giostra. Ma in quella giostra ero da sola.
Cominciai ad avere voglia di viaggiare con Andrea. Di
avventurarmi con lui in terreni dove le coppie in genere non vanno.
Un po’ perché mi chiedevo se con quel ragazzo sarebbe stato
diverso, se nella giostra proibita che tanto mi attraeva mi sarei
sentita sola o lui sarebbe stato con me; un po’ perché volevo
rimanergli marchiata nella mente. Volevo essere la prima donna con
cui si spingeva oltre, denudandosi senza vergogna o remore.
«Non ti andrebbe di portarmi in un privé?».
Quando glielo chiesi la prima volta quasi si offese.
«Dai, guarderemo e basta, curioseremo in giro e se saremo a
disagio andremo via» insistevo.
Ce ne volle, di opera di persuasione, per convincerlo… Alla fine
accettò.
Era anche questo che mi piaceva da morire di Andrea, la sua
capacità di mettersi in gioco nonostante l’emozione, un candore che
sapeva diventare sfrontato senza perdere mai un briciolo dell’intima
innocenza di cui pareva impastato. E mi piaceva da morire essere
“la prima”. La prima che aveva inculato, la prima che lo aveva
bevuto, la prima cui aveva detto sconcezze, la prima con cui andava
a un privé. Adoravo essere il suo battesimo porno.
Andammo.
Era un bel locale, di classe, elegante. Molte coppie di bella
presenza e pochi uomini soli. Ero elettrizzata e tesa, di quella
tensione che ti fa respirare vita nell’aria.
Andrea era imbarazzato ma eccitato. Non so esattamente cosa mi
aspettassi o cercassi, né quanto in là ci saremmo “spinti”. Il solo fatto
che avesse ceduto al mio desiderio e alla sua curiosità mi esaltava.
Bevevamo e ridevamo. Eravamo come in attesa. Probabilmente
pensavamo che da un momento all’altro una coppia si sarebbe
avvicinata a noi iniziando una conversazione stuzzicante…
Invece, d’improvviso la sala si svuotò, come se fosse suonata la
campanella della ricreazione.
Anche noi, dopo i primi istanti di perplessità, ci avvicinammo alla
zona privata, dove verosimilmente erano andati tutti.
Un’accozzaglia di corpi nudi, sconosciuti e anonimi si stava
accoppiando senza regole geometriche. Non c’erano sguardi di
intesa, assonanze, armonie, nulla di nulla. Non avvertii nessuno
stimolo erotico. Semmai una sensazione di “interscambio” asettico,
di privazione totale di individualità e sessualità. La scena aveva pure
un nonsoché di surreale e comico, dal momento che questo
“carnaio” di corpi era circondato di uomini singoli, tutti con dei
cazzetti mosci in mostra che si masturbavano inutilmente (perché
continuavano a rimanere mosci) vagando attorno alla massa
indistinta di carne.
Andrea era sperduto, fuori posto. Stavo per dirgli di andar via
quando, nell’ultima stanza di quel labirinto, la mia attenzione fu
catturata da una coppia che brillava fra le altre. Un ragazzo e una
ragazza intorno ai trent’anni, lei bionda e bella, lui bruno e attraente.
«Li vedi quelli?», dissi ad Andrea. «Sono gli unici “veri” qui
dentro».
Entrammo nella stanza. Era stretta e lunga, i due seduti su un letto
singolo addossato al muro, completamente vestiti, parlottavano
concitatamente. Lui l’abbracciava, l’accarezzava, la baciava sul viso
e le parlava. La bionda per un po’ si abbandonava ai baci stando
zitta a occhi chiusi, poi li riapriva, sembrava scuotersi dal torpore,
ricopriva freneticamente ogni lembo di pelle (una spalla, una coscia)
che le mani di lui scoprivano di continuo, e gli mormorava qualcosa
facendo di no con la testa.
Evidentemente, eravamo di fronte a un lui che vuole osare e a una
lei che si frena. Percepivo l’ec-citazione di lui e il turbamento di lei.
Feci sedere Andrea sul divano più vicino a loro, mi sedetti in braccio
a lui e cominciai a baciarlo sulla bocca appassionatamente, come se
intorno non ci fosse nessuno, senza pudori, emettendo quei gemiti
che non riesco a trattenere ogni volta che la mia lingua viene a
contatto con la sua.
I due cessarono la loro schermaglia e cominciarono a guardarci.
Intanto, nella stanza erano entrati alcuni uomini soli, che si
fermarono a contemplare noi quattro. Il silenzio era rotto solo dai
miei mugolii. Smisi di baciare Andrea, mi sistemai sulle sue
ginocchia dandogli le spalle e rivolsi il viso alla coppia. Andrea mi
abbracciava, era ancorato a me, mentre io dondolavo avanti e
indietro guardando la bionda. L’uomo riprese ad accarezzare e
baciare la donna, a sussurrarle parole e, quando lei non lo guardava,
mi faceva cenno di raggiungerlo, di avvicinarmi a lui. Probabilmente
pensava che di lì a poco mi avrebbe scopata.
Io allungai un piede e toccai con la mia scarpa tacco dodici la
caviglia di lei, che mi guardò sorpresa. Diedi un bacio ad Andrea e
gli dissi all’orecchio: «Guarda e goditelo, amore».
Mi avvicinai alla coppia. I due erano stupiti. Guardai la bionda e le
sorrisi. Era bella. Avvicinai l’indice alla sua bocca e le accarezzai
lentamente le labbra. Lei mi guardava con due occhioni meravigliati
e timorosi.
«Sei bella», le dissi.
Le misi l’altra mano sulla fronte facendole chiudere gli occhi, mi
avvicinai al suo orecchio e glielo dissi ancora.
«Sei bella».
La ragazza rovesciò un poco la testa all’indietro. Avvicinai le
labbra alle sue e le sussurrai di nuovo sulla bocca: «Sei bella».
Fu scossa da un brivido e accelerò il respiro, vedevo il suo seno
tendersi e sollevarsi. Allontanai con una mano l’uomo che stava
provando a toccarmi e mi girai verso Andrea con uno sguardo
complice. Poi tornai alla bionda.
C’era un silenzio enorme. Tutti stavano immobili e zitti. Andrea,
l’uomo, gli altri uomini che guardavano stando in piedi in fondo alla
stanza. Cominciai a leccarle le labbra, il collo, la piega tra i seni. Lei
tremava e sussultava a ogni tocco di lingua: le vedevo i brividi sulla
pelle. Era bellissimo gustarla mentre stava per cedere. A me, alla
mia bocca. Era bellissimo guidarla dolcemente ad arrendersi.
«Apri gli occhi e guardami», le ordinai.
Ubbidì. Aveva uno sguardo eccitato e ancora sorpreso, ma sono
certa che adesso era sorpreso da se stessa, dalla reazione che
stava avendo alle mie carezze. La baciai sulla bocca. Dapprima
dolcemente, poi sempre più forte. La bionda ebbe un fremito,
mugolò e cominciò a rispondere al bacio. Aveva una lingua
dolcissima e soffice. Mi abbracciò e l’abbracciai, continuando a
baciarci, le lingue che si cercavano e si intrecciavano confuse.
Dovetti nuovamente allontanare l’uomo che nel frattempo aveva
riprovato ad avvicinarsi.
Mi staccai e cominciai ad accarezzarle il seno, abbassai la
scollatura del vestito e le scoprii le tette. Erano bellissime, piene e
rotonde. Le presi i piccoli capezzoli rosei turgidi fra le dita e li
pizzicai. Cominciò a gemere.
«Brava», le dissi. «Miagola gattina, miagola».
Mi girai verso Andrea mostrandogli il seno della bionda che tenevo
tra le mani. Gli feci cenno di avvicinarsi. Lui sorrise e si negò
scuotendo la testa. Affondai il viso fra le tette di lei, gliele leccavo, le
baciavo, le succhiavo, le mordicchiavo piano. Ansimava sempre più
forte. L’uomo riprovò ad avvicinarsi. Stavolta fu lei a scacciarlo. Lo
fece con un gesto noncurante, indolente e stizzito.
Ci sorridemmo e ricominciammo a baciarci. La bionda cominciò a
toccarmi il seno e mi accorsi che anch’io avevo cominciato a
miagolare. Le sollevai il vestito e infilai la mano fra le cosce, sotto le
mutandine. Aveva la fica depilata ed era bagnatissima. Poggiai le
dita sul grilletto, gonfio e pulsante, e presi ad accarezzarglielo piano,
con un movimento circolare, lento e dolce. La stanza era sovrastata
dai nostri gemiti. Ansimavamo al medesimo ritmo. Lei cominciò a
muovere il bacino, ondeggiava, seguiva il movimento della mia
carezza e cercava di accelerarlo. Sentivo la sua voglia di essere
riempita. Quando inarcò il bacino contro la mia mano – una, due, tre
volte – decisi di accontentarla e le ficcai indice e medio nella fica,
mentre col pollice continuavo a titillarle il grilletto. La bionda emise
un gridolino, mi prese il viso fra le mani e cominciò a succhiarmi la
lingua. Era così bagnata che il rumore del cic ciac delle mie dita che
si muovevano dentro e fuori di lei superava quello dei nostri sospiri.
Mi staccai dal bacio della bionda e guardai Andrea, continuando a
tenere le dita dentro di lei. La toccavo, le frugavo perbene la fica e
intanto guardavo lui. Era bellissimo, affascinato ed eccitato, e
immaginai il suo cazzo duro sotto i jeans.
«Vieni, dai», gli feci di nuovo. Anche la bionda glielo disse, lo
invitò a raggiungerci, ma Andrea scosse ancora una volta la testa.
Tornai a guardare lei, tolsi la mano dalla fica e la misi fra i nostri visi,
le avvicinai alla bocca le dita bagnate dei suoi umori e la invitai a
succhiarle.
«Assaggiati. Senti quanto sei dolce».
Lei le succhiò. Intanto mi abbracciava convulsamente.
Mi staccai dalla bionda e mi alzai. Lei provò a trattenermi ma
dolcemente tolsi la sua mano dal mio braccio. Mi rivolsi al suo uomo
che stava in un angolo del letto, immobile e sbigottito.
«Abbine cura: è una donna magnifica», gli soffiai.
Andai da Andrea che mi abbracciò.
«Perché non ti sei avvicinato?», gli chiesi all’orecchio dopo averlo
baciato.
«Eravate bellissime, temevo di rovinare la magia» rispose.
«Lo sai che prima o poi ti vorrò vedere scopare un’altra? Lo sai,
ragazzo? Lo sai?» aggiunsi. Lo ribaciai e gli morsi le labbra.
«Sì, lo so», disse arrossendo.
Ci prendemmo per mano e uscimmo. Gli uomini sull’uscio si
spostarono quasi con riverenza per farci passare.
Facemmo l’amore tutta la notte.
Ero felice. Su una giostra con una donna bionda, da sola, Andrea
non aveva lasciato per un attimo la mia mano.
Capitolo 13 - Risvegli
Quando è disteso con gli occhi chiusi, dopo un giorno intero
passato a farci l’amore, e si addormenta, mi piace stare nuda
addossata a lui, al suo corpo rilassato, pelle contro pelle. Mi piace
guardarlo da vicino, guardargli il viso, le ciglia che vibrano un poco
se sta sognando, la bocca appena dischiusa, la barba che si è fatto
crescere per me, per sembrarmi più grande, i capelli neri e lunghi,
tenuti così perché io adoro toccarglieli, passarci le dita.
«Che cosa vuoi?», gli dico piano per non svegliarlo. «Vuoi la mia
mente? Te la do. Il ventre che ha dato la vita? Il seno che ha
allattato? Te li do. Vuoi il cielo? Lo prendo e te lo do. Ti do tutto. La
mia follia, le mie rughe, i miei segreti, la passione, l’incanto…».
Lui non si sveglia perché gli parlo piano, il mio è appena un
sussurro. Però in qualche modo la voce gli arriva, perché lentamente
si muove: sposta un braccio, una gamba o muove appena un poco
la testa e mormora: «Amore mio».
È solo un attimo. La sua coscienza, la sua percezione si
affacciano a me solo per un attimo. Io me ne sto zitta, immobile e
regolo il respiro facendo finta di dormire. Lui mi stringe e si
riaddormenta.
Sorveglio il suo respiro. Quando sono certa che dorme, mi sollevo
e mi metto in ginocchio a guardarlo, a gustarmi con gli occhi il suo
corpo perfetto. Vorrei mangiarlo. Vorrei avere i denti negli occhi per
la voglia che ho di guardarlo.
Poi mi abbasso a prendergli dolcemente l’uccello in bocca. Adoro
farlo quando è così moscio e rilassato, perché non accade mai:
quando ci vediamo, e si spoglia o lo spoglio, è sempre tanto eccitato
che glielo prendo in bocca che è già in tiro. Quando lo faccio così,
mentre dorme, riesco a gustarmelo in questa forma tenera, indifesa
e per me nuova, lo accolgo piccolo e morbido tutto facilmente nella
bocca, subito. Posso adagiarlo sulla lingua, dargli dei piccoli colpetti
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  • 1.
  • 3. Copyright © 2015 Anna Salvaje Tutti i diritti riservati Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o memorizzata in un sistema di recupero dati o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, fotocopiatura, registrazione o altro, senza l'espresso consenso scritto dell'editore. Codice ISBN: 9798580622804 Casa editrice: Independently published In copertina: Foto di Engin Akyurt da Pixabay
  • 5. Contents Title Page Copyright Dedication Capitolo Zero Capitolo 1- Fuori dalla stanza Capitolo 2- Valeria e la Primavera Capitolo 3- Una proposta indecente Capitolo 4 - L’aperitivo Capitolo 5- A passo di danza Capitolo 6 - La prima volta Capitolo 7 - Dirottamenti Capitolo 8 - Don Jon Capitolo 9 - Quel giorno al parco Capitolo 10 - Una nuova letizia Capitolo 11 - Il suo odore Capitolo 12 - Un giro di giostra Capitolo 13 - Risvegli Capitolo 14 - Natale Capitolo 15 - Miele Capitolo 16 - Julija sui tubi Capitolo 17- Il bacio Capitolo 18 - Patrizia Capitolo 19 - La radiografia Capitolo 20 - Palla di vetro Capitolo 21- Gocce Capitolo 22 - Profumo di troia Capitolo 23 - Decisioni Capitolo 24 - Fari d’estate Capitolo 25 - Il ragno
  • 6. Capitolo 26 - Mare e navigante Capitolo 27 - Il violino Capitolo 28 - Rafaela oltre la soglia Capitolo 29 - Legata Capitolo 30 - Un po’ pornodiva Capitolo 31 - La camera bianca Capitolo 32 - Favole Capitolo 33 - In volo Capitolo 34 - Nuda RINGRAZIAMENTI About The Author
  • 7. Capitolo Zero Benvenuta sul sito Numero Uno di incontri tra persone sposate Che tu stia cercando un'avventura extraconiugale vicino a te o un amante a migliaia di chilometri durante i tuoi viaggi, ti proponiamo uno spazio protetto per poter contattare gli infedeli di tutto il mondo in totale sicurezza. Desideri un incontro extraconiugale? È arrivato il momento Un sito di incontri. Dichiaratamente per clandestini. Mi interessava? Forse. Di avventure extraconiugali ne avevo sempre avute. Per una bella donna è facile. Eppure era da un po’ che non succedeva. Mi avevano stancato l’inevitabilità del corteggiamento, la gestione appiccicosa della fine e in fondo, lo confesso, il fastidio del giudizio. Perché a qualsiasi uomo, anche al più infedele, piace pensare che tu stia tradendo tuo marito per lui. Perché lui, maschio, ti ha travolto e tu, femmina, avresti voluto resistere ma il suo fascino ti ha fatta capitolare. Non possono farci niente, gli uomini. Quasi tutti sono fatti così. Si beano della conquista. E quando si accorgono che avevi deciso tutto tu, perché sei libera abbastanza da poter scegliere, prima e al di là dell’ego al quale vivono aggrappati, ci rimangono male. E giudicano. Di ricorrere alla rete per un’avventura non avevo mai pensato. Eppure, perché no? Un sito apposta. Giocare a carte scoperte, tutto in chiaro e da subito, senza recite e ambiguità. Pensato ogni giorno da un team 100% al femminile Offriamo il potere alle donne sposate in cerca di incontri extraconiugali in totale discrezione
  • 8. In totale discrezione… Mah. Pensato da un team femminile? Dai, figurati se dietro non ci sta un uomo. Poi mi sono detta: “Che motivo hai per non provare? Magari funziona. Certo, ti serve uno pseudonimo… Che so, Anna Rosselli. No, Anna Rosselli non sa di niente. Selvaggia Rosselli? Nemmeno questo. Anna Selvaggi va già meglio. Anzi, Anna Selvaggia. Però sembrano due nomi, non va bene. Aspetta aspetta, sì, ecco, ci sono. Anna Salvaje”. È stato così che mi sono iscritta, per provare, senza aspettative né pentimenti. Era un gioco, una scorciatoia. E devo ammettere che funziona. O meglio, ha funzionato. Con uomini come me. Sposati, tra i quaranta e i cinquanta, affermati, eleganti, brillanti. Evasione e complicità giocati seguendo il solito copione, con minime variazioni: aperitivo, cena, gite in magnifici alberghi e scopate di ottimo livello. Funzionava... Anche se è vero che tutto durava qualche settimana, al massimo due o tre mesi. Poi, regolarmente, mi stancavo. E quell’amante finiva nel dimenticatoio insieme agli altri, tutta gente di cui ricordo vagamente il nome, ma non un’immagine, un sogno, un’idea. Nonostante questo, non posso negare che funzionasse. Ed è andata bene, tra un’avventura e l’altra, per due anni. Finché non è arrivato Andrea.
  • 9. Capitolo 1- Fuori dalla stanza Le donne sanno tutto dell’amore ma non capiscono gli uomini. Fanno fatica ad accettare i meccanismi dei loro desideri. Peraltro, tendono a rifiutare i propri: ogni donna se li trova addosso da bambina, i desideri, cuciti in una tela ordinata, e ne è spaventata tutte le volte che provano a far capolino fuori dal recinto. Viviamo in una stanzetta avendo a disposizione una reggia. Anche se il sesso ci piace, riusciamo a goderne senza ripensamenti solo quando è santificato dalla coppia o, quanto meno, dall’amore. “Vissero insieme felici e contenti”: ma quante se n’era scopate, prima, il Principe Azzurro? E dopo? La storia mica lo racconta. Non ne ha bisogno. Perché agli uomini, si sa, un divertissement può sempre capitare, mentre alle donne appiccica addosso la lettera scarlatta. Ma come? Allevate e nutrite con mille “non si fa” e si permettono di esplorare e accettare quelle parti di sé che dovevano tenere spente e zitte? Senza nemmeno sentirsi in colpa? Certo, nessuno le condanna più al rogo, ma in quanti si sentono ancora disturbati dalle loro scelte quando sono visibili e “diverse”? Neppure è un caso che a guardarle con malevola compassione siano soprattutto le altre donne. Donne ingrugnite, livorose, che nel chiuso della loro stanzetta giudicano, distinguono, sottolineano le differenze che separano loro, quelle “per bene”, dalle altre, le “streghe”, le donne “per male”, che hanno avuto il coraggio di aprire le porte e scorrazzano nella reggia. Cambierà mai? Cambierà, sì. Pianissimo, eppure sta cambiando. Salta agli occhi esplorando il sito, è evidente nei numeri degli utenti di sesso femminile. Professioniste del settore? E basta? Non è credibile: le donne iscritte sono tantissime, troppe per pensare che facciano tutte la puttana di mestiere…
  • 10. Il sistema è facilissimo. Funziona così: sei iscritta tu e un sacco di altra gente. Chiunque contatta qualunque altro utente, che decide se rispondere o no. Insomma, si saltano i passaggi che solitamente intercorrono tra il primo contatto e il sesso: approccio, corteggiamento, resipiscenze, dubbi, equivoci. Ti scrive qualcuno e se ti piace la sua scheda (foto, descrizione, frase di presentazione) rispondi, sennò non rispondi e nessuno se la prende; o se pure se la prende, pazienza. Vi sembra immorale? Cinico? Comunque la pensiate, il sito un vantaggio innegabile lo offre: è comodo. Ciascuno lo usa come gli pare, ma di solito perché ci si incontri passano parecchie settimane. Prima di concordare un appuntamento gli utenti chattano a lungo, raccontandosi segni zodiacali e colori preferiti, insoddisfazioni coniugali e desideri segreti. Io, da subito, avevo deciso di utilizzarlo senza perdite di tempo; star lì a chattare non mi andava: preferivo incontrarlo il prima possibile, l’uomo cui avevo deciso di rispondere. Ci vedevamo in un caffè e lo sottoponevo a una sorta di esame. “Casting per il mio letto”, così chiamavo quegli incontri preliminari descrivendoli a Valeria, l’unica amica che sapeva della mia doppia vita. Non puoi mai affidarti alla sola conoscenza virtuale, se vuoi scopare. Se vuoi scopare con gusto, voglio dire. Ci si può filmare, inviare foto, file vocali, telefonarsi, fare video chat. E la persona all'altro capo del telefono o in foto può sembrarti pure straordinariamente attraente, ma per quanto virtualmente ci si possa raccontare, perfino con onestà e ricchezza di dettagli, resta un’esperienza unilaterale; l'altro è solo una rappresentazione che ci siamo fatti di lui, vive nella nostra mente. Perché non c'è strumento in grado di sostituire lo sguardo fra due persone, o la voce che arriva all’orecchio direttamente dalla bocca dell'altro, senza essere filtrata da un microfono. Ma soprattutto, nel virtuale non c'è l'odore. E l’odore, beh, quello sì che è tutta un’altra storia. Un buon odore corrisponde quasi sempre a un buon sapore. Ma lo stesso odore può non esser buono per tutti. Scopare una persona sconosciuta non è come assaggiare un nuovo frutto? Io per esempio del mango vado pazza, eppure conosco gente che avvicinandolo al naso trova sentore di cherosene, e a mangiarlo non ci pensa
  • 11. nemmeno. Lo capisco: chi metterebbe volentieri in bocca qualcosa dall’odore sgradevole? L'odore è sempre la prima cosa che deve piacermi di un uomo, se voglio portarmelo a letto. Con il tempo e l’esperienza ho affinato un certo talento: mi accorgo subito, dall'odore, dallo sguardo e dalla voce se un uomo, per quanto esteticamente attraente, può essere o no un buon compagno di giochi sessuali. Ecco perché incontrarsi subito: se l’uomo non mi fosse piaciuto (e accadeva spesso) avrei perso solo il tempo di un caffè, alla peggio di un pranzo. Del resto, quel sito si dichiarava non ipocrita. Allora che lo fossimo anche noi, e del tutto. Che senso aveva star lì a menare storie prima di annusarsi? Se le chiacchiere fossero state interessanti, sai la delusione a non ritrovarsi con gli odori? Cercavo amanti, mica amici. Quando l’uomo superava il casting, al secondo appuntamento quasi sempre si scopava. Se il sesso era soddisfacente venivano altri appuntamenti per qualche settimana o mese. Fino a quando mi annoiavo. A quel punto bastava chiudere con quell’amante e ricominciare. In realtà mi ricollegavo al sito in anticipo, non appena la voglia si affievoliva, e cominciavo a vedere altri uomini per il caffè o il pranzo di prova, iniziando una nuova relazione prima ancora di chiudere la precedente. Non mi si addicono le perdite di tempo. L’ho già detto. Mi piacevano, le mie avventure. Ero arrivata a un’età tale da sapere esattamente che cosa volevo e che cosa no. E in quel momento della mia vita desideravo soltanto sesso. Sesso nudo. Sesso entusiasta e spensierato, libero e senza legami, bello fin quando durava. Scopate assaporate con calma, nella penombra di una camera d'hotel, oppure consumate di fretta, in piedi, alla toilette di un ristorante, con la voglia di mangiarsi più forte di quella di mangiare. Scopate ripetute o episodiche. Sesso senza complicazioni, senza problemi, senza intralci o fraintendimenti. Solo piacere, nessuna paranoia di possesso o sdilinquimenti amorosi. E la consapevolezza di potere, in qualunque momento, alzarmi, rivestirmi e girare i tacchi, senza spiegare o dare giustificazioni. Che gli uomini che incontravo fossero sposati era una
  • 12. garanzia di sicurezza, rendeva tutto più semplice e fluido: potevo accettare, rifiutare, rimandare e loro non facevano storie. Aprivo e chiudevo relazioni quando volevo e quando mi andava. Non sapevo resistere, o meglio, non volevo resistere alla smania di provare emozioni nuove. Ero affamata di emozioni. E vi cedevo. L'importante era stare attenta. Adottare le giuste precauzioni per preservare la salute e le opportune cautele per proteggere il mio reale quotidiano. Evitare luoghi in cui potevo essere riconosciuta, non rivelare il mio vero nome, indirizzo, numeri di telefono, usare un cellulare "dedicato" e avere sempre l'accortezza di cancellare da quello ufficiale la cronologia dei luoghi visitati (inoltre, e a questo non tutti pensano, disattivare la ricerca automatica wifi: avere in elenco fra le connessioni recenti quella di un Motel in periferia o un albergo in centro risulta imbarazzante…) Avevo di ché essere soddisfatta: il sito si era rivelato un’ottima fonte di generosi amanti. Peraltro, chiarire da subito che non nascondevo un fine diverso da quello di scopare mandava in orbita i prescelti. Non solo. Il fatto che li avessi selezionati fra migliaia di utenti li portava a impegnarsi per continuare ad apparirmi i più desiderabili, i più seducenti, i più maschi. Di solito erano uomini con un passato ricco di storielle varie, che conoscevano bene le donne (difficilmente un uomo che nel proprio passato ha solo un paio di fidanzate e la moglie si rivolge a un sito del genere), quasi tutti maschi alfa che a un certo punto della loro vita avevano deciso di sposare la fidanzata di sempre o comunque una “che non dà problemi”, una di quelle cresciute giocando “a fare la mamma”, con le casette da arredare e i bambolotti da vestire. Uomini ipocriti che non sapevano rinunciare a una moglie con cui frequentare gli amici e andare in vacanza, una buona madre per i figli, tranquilla, che difficilmente avrebbe fatto portar loro le corna (beata presunzione! Sapeste quante di quelle donne ho conosciuto nei privé…) Ottimi amanti insoddisfatti sessualmente, sostanzialmente indifferenti al fatto che la compagna delle loro esistenze non fosse porca a letto. Pazienza: i nuovi culi e tette da toccare se li sarebbero cercati altrove. Ecco, io ero l’altrove perfetto: una troia vera,
  • 13. intrinsecamente priva della maligna tentazione di mettere a rischio la loro situazione familiare. Ottimi amanti, dicevamo, che di fastidioso in fondo avevano solo una cosa, l’ego gonfio come un pallone, accompagnato da un atteggiamento ridicolo di superiorità paternalistica (il vizio di “spiegarmi le cose” o di chiamarmi “Piccola” per esempio, quasi a dirmi “Vedi quanto ci so fare, quanto sei fortunata, bimba?”). Ma era un dettaglio: se avevano un bel cazzo e lo sapevano usare, li perdonavo volentieri. Cercavo amanti, non anime gemelle. Peraltro, li guardavo e il pensiero mi faceva sorridere. Ero quasi certa che molte di quelle mogli “per nulla porche”, con i figli cresciuti e l’arrivo delle prime rughe, avrebbero cominciato a fantasticare porcaggini a loro volta, e perché no, magari a viverle per conto proprio. Gli uomini navigati che dopo il matrimonio avevano provato a “mettere la testa a posto” costringendosi a un lungo periodo di fedeltà (ma, si sa, non si sfugge alla propria intima natura...) erano i più generosi di parole, mi colmavano di attenzioni e complimenti, ma anche loro restavano dei fanfaroni, del tutto scontati e prevedibili. Capivo subito che cosa gli passava per la testa prima ancora che lo dicessero o facessero. Non immaginavano nemmeno che “se” e per quante volte li avrei rivisti dipendeva esclusivamente dalla loro abilità di scopatori. C’era pure una piccola percentuale di “timidoni”, uomini con meno esperienze che avevano puntato tutto sulla carriera e ora si ritrovavano all’affacciarsi della mezza età profondamente insoddisfatti, ma incapaci o troppo timorosi di avventurarsi in un corteggiamento o in un approccio vero. In genere, dopo avere provato a distrarsi e appagarsi con gli hobby più variegati, approdavano al sito sperando di evitare quei “due di picche” che nel reale tanto li atterrivano e che, almeno da me, regolarmente prendevano, perché raramente con loro andavo oltre il caffè. I pochissimi che avevano superato il “casting” lo dovevano non tanto alla prestanza fisica (che comunque doveva esserci, e tanta) quanto al fatto che abitassero in un'altra regione. Avevano il vizio di “attaccarsi”, di mandarmi “messaggini” di buongiorno e buonanotte,
  • 14. di fingere una relazione stucchevole; insomma, di giocare ai romantici, fare gli amanti anni ‘70, tipo “Buonasera dottore”. Tutta roba inutile che, per quanto scopassero bene, potevo sopportare solo le rare volte, una al mese e non di più, in cui passavano per Milano. E poi c’erano quelli che evitavo come la peste, i peggiori. Non solo ipocriti ma anche cattivelli e piagnoni. Uomini che, con poche o tante esperienze di tradimento, non conoscevano affatto le donne e immediatamente ti parlavano – rigorosamente male – delle mogli. I più adatti erano i miei simili, disinibiti e liberi (purtroppo non esiste il termine “puttana” al maschile), che cercavano desiderio e gioco senza il bisogno di recitare un rapporto amoroso né la voglia di viverne uno per davvero. Uomini onesti, che mi scopavano con gusto, senza raccontarsi o raccontarmi storie. Sesso appassionato, attento e generoso. Piacere senza pudore. Erezione immediata e prolungata. Qualcuno prendeva pasticche per tenerselo duro? A tante donne il fatto crea imbarazzi e cali di stima, a me no. Il cazzo barzotto non è allegro neppure se sei innamorata, figurarsi quando lui ti è sentimentalmente indifferente: fa venire da piangere. A quegli uomini mi davo col medesimo slancio, senza chiedere altro se non la reciprocità. Ero la donna ideale, cui nulla davano tranne delle grandi sbattute, ma dalla quale nulla potevano pretendere, in un rapporto di assoluta parità. In ogni caso, qualunque fosse la categoria dell’amante di turno, il mio mondo segreto restava assolutamente distinto da quello della vita quotidiana, come se una barriera impermeabile li dividesse e nessuno dei due potesse contaminare l'altro. Così dormivo tranquilla la notte, non avevo sensi di colpa, e nessun bisogno di analisti o confessori. Transitavo fra i miei mondi paralleli come dal sonno alla veglia, ma ero reale in entrambi. Uno sdoppiamento in due me stesse, altrettanto vere e autentiche, tanto da non sapere quale delle due sognasse l’altra. Era andata bene per due anni quando una sera di fine maggio mi scrisse Andrea. Non so perché lo fece e sinceramente nemmeno so dire per quale motivo gli risposi: non corrispondeva affatto al target che mi ero prefissata di frequentare. Anzi, un tipo del genere non
  • 15. avrebbe neanche dovuto starci, in quel sito di sposati fedifraghi. Con i diversi da te può essere difficile scopare anche una volta sola, giusto? E Andrea era troppo giovane, venticinque anni, single, studente. A quel tipo di utente non rispondevo mai… Mi aveva scritto una battuta ingenua e io non avevo resistito alla tentazione di sottolineare la banalità della sua osservazione. In qualche modo, volevo mortificarlo. Invidiamo la gioventù, e quando possiamo ci prendiamo gioco di lei. Ma lui si era scusato per la battuta e lo aveva fatto in italiano corretto. Ah, l’italiano corretto... Quanto è sexy l’italiano corretto. Dalla chat passammo ai messaggi al telefono, quindi alle chiamate vocali. Credetemi, non avevo nessuna intenzione di incontrarlo: troppo fuori dai miei schemi. Però chiamarlo ogni tanto mi piaceva, mi metteva allegria imbarazzarlo, inviargli qualche mia foto (la scollatura, una caviglia, il dettaglio di una coscia). E lo invitavo a mandarmi file vocali, frasi contenenti la lettera “r” (Andrea ha un modo tutto suo di pronunciare la “r”). Gli dicevo di essere curiosa della sua lingua mentre emetteva il suono della erre in quel modo. Ora, generalmente Andrea dopo queste battutine restava zitto al telefono. Capivo che non era abituato a conversazioni cariche di doppi sensi (che io invece adoro) e allora per giocare alzavo il tiro. Lo immaginavo diventare rosso quando intenzionalmente equivocavo, adombrando significati sessuali in parole e circostanze comuni. Insomma, mi divertivo.
  • 16. Capitolo 2- Valeria e la Primavera Valeria mi vuole bene da tanti anni. Abbastanza da potersi permettere d’essere curiosa di me senza invidia né giudizio. Eravamo al Martini di corso Venezia, sedute a un tavolo all’aperto, nel cortile interno pieno di piante. Adoravo quel posto in primavera. Sembrava di andare a trovarla, la primavera: indossavi un vestito leggero, le gambe nude, senza calze, ti sedevi nella luce, fra quel verde, con Milano appoggiata sull’asfalto grigio dell’inverno e tu già cominciavi a vederla come sarebbe cambiata. Era solo uno spiraglio attraverso il portone. «Con chi ti stai incontrando adesso? Ancora con l'architetto?». Uscivo. Pardon. Scopavo da un paio di mesi con Roberto, architetto romano quarantasettenne, che si era trasferito a Milano da qualche anno. Ci stavo bene. Uno dei migliori incontri che il database del pec-cato, come lo chiamava Valeria, mi avesse regalato. «Sì. Certo». «Fammelo vedere che non me lo ricordo», chiese indicando il mio smart. Valeria era stata il mio confessore di ogni scopata segreta degli ultimi due anni, solo che, invece di darmi la penitenza da scontare, a ogni nuovo peccato mi tranquillizzava. Una sorta di prete onesto. «Sei stata bene? Ti ha fatto stare bene? Fottitene, ti assolvo». Avevo aperto il cellulare per mostrarle una fotografia dell'architetto quando arrivò un nuovo messaggio. Era il "buongiorno" del ragazzo. «Guarda che dolce!», mi scappò di dire mostrandole la foto del suo profilo nella messaggistica. Lei aggrottò le sopracciglia. «Ma gli fai doposcuola o viene a giocare la play con tuo figlio?». Scoppiai a ridere. «Chi è? Ma è maggiorenne?».
  • 17. «Ha quasi ventisei anni e vive a Cremona. Ci cazzeggio solo al telefono. Figurati se vedo i ragazzini!», ci tenni a specificare con un finto tono da signora offesa. Valeria mi prese il telefono, rimirò un altro po' la foto di Andrea e aggiunse: «Però! È bello il giovane. Promette bene…». «Sì. È bello». «E allora dai!», fece lei. «Se è maggiorenne e non rischi la galera perché non lo incontri?». «Figurati! Mi diverte, ma non ci penso nemmeno. Non è il mio target.», dissi riprendendo il telefono. «Vorrei trovare il coraggio di iscrivermi pure io a ‘sto sito, mannaggia quanto ti invidio. Ma lo sai, io se non amo non riesco a farci niente con un uomo». Valeria era infelicemente sposata da molti anni e da due viveva una relazione clandestina ancora più infelice con un suo ex compagno di scuola. Una storia che non la esaltava né sessualmente né sentimentalmente. Era diventata noiosa e problematica come un altro matrimonio. «Quando vuoi ti dico come fare per iscriverti, così chiudi con quella specie di amante morto che ti ritrovi… Se devi accontentarti di un morto, tanto vale che ti trombi quello che tieni a casa». Ridemmo complici. Sapevamo entrambe che Valeria non si sarebbe iscritta mai: era di quelle convinte che il sesso si fa solo per amore, pronte a raccontarsi continuamente la favola che sia giusto così. Io invece pensavo che il sesso dovesse praticarsi fondamentalmente per due ragioni: orgasmi o soldi. E pazienza se il mondo (almeno ovunque ci sia un Dio uomo) da sempre chiama puttane le donne che lo fanno per questi motivi. Non che io sottovalutassi la meraviglia di scopare per amore, ma pensateci bene: quanto a lungo può essere ragionevole avere rapporti sessuali che non portino in dote almeno una delle due cose? Quante volte noi donne, a furia di ritrovarci con la bocca e la fica piene di sborra senza avere avuto né piacere né soldi, accusiamo la vita di averci usate e maltrattate, e diventiamo represse, astiose, velenose? Anni e anni trascorsi a fare tutto quello che altri –
  • 18. genitori, fidanzati, mariti, figli – si aspettano da noi, ad accontentare il mondo facendo mille rinunce, solo per scoprire alla fine – quando indietro non si torna e tempo non ce n’è più – che non ci sono premi ad aspettarti, e nessun 10 in pagella. È brutto dirlo, ma la nostra esistenza perbene, ordinata e tranquilla, spesso non ce la fa a cancellare il retrogusto che resta in bocca alla fine, quello amaro della routine di madri e nonne, e non riusciamo nemmeno a riconoscerlo, perché farlo significherebbe ammettere che invidiamo le altre, quelle che per una vita abbiamo chiamato puttane, quelle che lo hanno fatto per soldi oppure, peggio, guidate dal calore, come le cagne. Valeria si alzò per andare alla toilette e io chiesi il conto. Poi, facendo in modo che nessuno se ne accorgesse, scattai una foto alle mie gambe nude accavallate sotto il tavolo. La inviai ad Andrea con «Buongiorno ragazzo!» e rimasi a guardare il display. Poi sorrisi: le spunte blu mi avvisavano che il messaggio, e la foto, erano stati visualizzati. Subito. Come sempre. Guardai Valeria mentre tornava verso il tavolo. Aveva un meraviglioso punto vita, stretto sopra il culo abbondante ma ancora alto nonostante i quarant’anni passati da un pezzo. Quanto avrei voluto saperla felice. Ci vuole un attimo perché la forza di gravità, il metabolismo, la pigrizia, facciano il loro corso inevitabile, e dopo non resta che rimpiangere tutte le volte che ci siamo arenate fra il coraggio di osare e quello di rinunciare, che non ci siamo chieste cosa davvero vogliamo, e illudendoci di essere belle solo se buone – brave donne, donne perbene, assennate madri di famiglia – dimentichiamo che siamo davvero belle solo nel coraggio di essere noi stesse. Uscendo, le feci l’occhiolino e la presi sottobraccio, mentre ci incamminavamo verso San Babila. Ci mise un attimo a capire che stavo per confessarle qualcos’altro. «Non mi dire che ce ne sta un altro…» Annuii sorridendo. «Racconta» fece lei, eccitata come una bimba di fronte alla prossima favola.
  • 19. Le raccontai di Massimo. Un avvocato di Firenze che avevo conosciuto la settimana prima. Intelligente, bello, di un’eleganza raffinata, con ogni accessorio – orologio, cravatta, calzini – che ne rivelava l’ottimo gusto. «Pensa che ho studiato sui testi scritti da suo padre! Mi dà l’idea di un uomo cui non è mancato mai nulla, né denaro, né appoggi, né clientela, eppure non si è adagiato a vivere nel riflesso della fama paterna. Anzi. Credo sia dominato dalla voglia di dimostrare di essere il migliore. Ecco perché penso che anche a letto non si risparmierà e ho deciso che domani pomeriggio me lo scopo». «Ma non finiscono mai questi uomini del sito?» scherzò Valeria. «Quando finiranno comincerò ad affidarmi a quel che il destino metterà sulla mia strada. Sono certa che il sito degli infedeli non se la prenderà, se diverrò infedele pure a lui». Ridemmo insieme. Poi le schioccai un bacio sulla guancia e ci salutammo.
  • 20. Capitolo 3- Una proposta indecente L’avevo raggiunto nell’hotel in centro dove era solito fermarsi quando aveva udienze a Milano. Era davvero un bell’uomo. Lo guardavo mentre stava nudo, bocconi sul letto, in silenzio. Lo smartphone in versione aereo appoggiato sul comodino accanto all’orologio: entrambi, nelle ultime due ore, non erano stati fatti oggetto di uno sguardo. Anche io ero nuda, con le spalle appoggiate alla spalliera, le gambe distese sulle lenzuola mentre sfioravano quelle di un uomo che conoscevo da pochi giorni. Fumavo e lo guardavo. Lui respirava piano, rilassato. Aveva ottenuto quel che voleva e non aveva più bisogno di fingere. Gli uomini si comportano più o meno sempre allo stesso modo quando vogliono assicurarsi qualcosa: fanno gli stessi discorsi, assumono le stesse pose, seguono lo stesso schema. Del resto sono loro che “spiegano le cose” alle donne, no? Credono di sapere e ci spiegano persino quello che una donna vuole. Puoi conoscerli su un sito di incontri, a un party, magari te li presenta un’amica: se vogliono raggiungere il traguardo senza spendere soldi, mettono in atto la loro recita interpretando, ciascuno a suo modo, lo stesso copione. Solo dopo il sesso diventano sereni, distesi, contenti. Quasi veri. Tutto sommato, nel complesso era andata bene. Massimo si era impegnato parecchio. Un po’ troppo concentrato, all’inizio, a seguire il “Manuale del perfetto scopatore”, a proporre il ciclo delle posizioni base di ogni buon porno che si rispetti (sopra lui, sopra io, di fianco, a pecora, io di nuovo sopra, ma girata di spalle), tanto che aveva finito diverse volte per farmi perdere la concentrazione, cambiando coreografia proprio nel momento in cui stavo per venire. Insomma, sembrava sotto tensione, più attento a mostrarmi le acrobazie di cui era capace che a godersi la scopata. Più di una volta ero stata sul punto di fermarlo e dirgli: “Guarda, carino, che non c’è un regista
  • 21. nascosto nell’armadio che devi convincere a scritturarti”; oppure: “Se gemo significa che mi piacerebbe continuare così, non è un modo per chiederti di mostrarmi dell’altro”. Ma se lo avessi fatto il buon cazzo che aveva fra le gambe – un arnese che peraltro avrebbe potuto dare di più – si sarebbe irrimediabilmente ammosciato. Per carità, lo conoscevo pochissimo, ma Massimo non aveva l’aria di uno che ti lascia a bocca asciutta, e mi avrebbe portato alla meta con la lingua o con le mani, però non era quello che volevo. Del resto, non si può offrire un regalo di Natale splendidamente impacchettato e poi impedire di scartarlo e goderselo, no? Così, mentre stava scopandomi un’altra volta alla missionaria, quando capii che stava per cambiare di nuovo posizione pensai: “Vuole dimostrarmi che è bravo? Diciamoglielo…”. Lo serrai forte fra le gambe e gli sussurrai un paio di oscenità all’orecchio. Un “Mi fai sentire così troia” o “Quanto ce l’hai grosso” sono paroline magiche, da evitare sicuramente con i tipi timidi e impacciati, ma dall’effetto clamoroso per gli uomini come Massimo. E difatti da quel momento cominciò a darci dentro perbene, scordandosi copioni da seguire e registi immaginari da convincere, mentre io gli mordevo ogni tanto il collo incoraggiandolo con altre paroline magiche. Mi mise le mani sotto il culo conficcandomi le dita nelle natiche e prese a stantuffarmi a lungo, nel modo che desideravo e che anche lui voleva, libero di dirmi indecenze, libero di farmele e di gustarsi l’effetto che producevano su di me, fino a scavarmi un solco di piacere. Venni più volte. Poi venne anche lui e sono certa che di tutto il repertorio di posizioni che mi aveva riservato l’ultima missionaria era quella che gli era piaciuta di più. Ora se ne stava lì in silenzio, finalmente rilassato. Adoro l’attimo di verità che c’è nei silenzi. Me lo gustavo fumando piano, perché, lo sapevo, sarebbe finito prima della mia sigaretta. «Sei straordinaria», sussurrò Massimo con voce da seduttore, allungando la mano ad accarezzarmi la pancia. Ecco. Nella migliore delle ipotesi da lì a poco mi avrebbe chiesto quando ci saremmo rivisti o, nella peggiore, avrebbe cominciato a raccontarmi della sua vita, del suo bisogno di calore e colore (una
  • 22. tiritera che, in pratica, si sarebbe potuta tradurre in: “Voglio succhiare colore e calore dalla tua”). Spensi la sigaretta e gli passai la mano fra i capelli, invitandolo a mettersi supino. «Ceni con me?», mi chiese. Risposi di sì e gli montai sopra. Avremmo cenato insieme, certo, poi non lo avrei più rivisto. Non ne avevo voglia, ma prima della cena avrei scartato e mi sarei goduta almeno un’altra volta il suo regalo di Natale. Più tardi andammo a Brera. Il locale scelto da Massimo, il tono della voce, i gesti gentili ma affettati, mi dicevano che era tornato in modalità “conquistatore”. E naturalmente aveva preso a parlare di sé. Non la verità sulla vita che viveva, ovviamente, ma la sua interpretazione di essa. Una versione benevola che, a furia di ripetersela, per lui poteva perfino essersi trasformata nell’immagine del reale. Mi sarebbe toccato cenare sorbendomi i soliti argomenti: i successi, il lavoro, i viaggi, la moglie che non lo comprendeva, il bisogno di passione. Il tutto ovviamente condito da una serie di considerazioni su quanto gli mancasse una donna come me. Chissà che cosa gli prende, agli uomini. Credono di poterci affascinare solleticando il nostro presunto desiderio di sentirci fortunate solo perché un uomo tanto importante e speciale ci ha scelte; e noi dovremmo sentirci uniche per averli fatti godere, consentendo loro di sentirsi ancora più importanti e speciali… Era un desiderio presunto. Appunto. Massimo non lo sapeva e si crogiolava nel suo racconto narcisistico: era tornato il bell’uomo attraente e elegante che non lasciava spazio al mistero, all’immaginazio-ne, a un finale non scontato. Meno male che non lo avrei più rivisto. Parlava e parlava e io faticavo a seguirlo. Oltre tutto avevo un leggero mal di testa, inesorabilmente in aumento. Poi di botto realizzai: era della sua voce la colpa! Erano i discorsi infiniti che mi stava propinando su sua moglie, con un accento e una cadenza insopportabili. Stava straparlando da quasi mezzora di quanto fosse un mostro di donna, un mostro di madre, un mostro di moglie. Arricchiva il discorso raccontandomi dettagli della loro vita coniugale
  • 23. e familiare. E non era attenta ai bambini. E non era attenta alla casa. E non era attenta a lui. Fu un lampo. Pensai a lei, alla vita vuota che doveva condurgli accanto, e mi divertì immaginare che potesse essere “Nuvola79”, o qualunque altro nick femminile del mio sito di incontri. Pensai che per l’esasperazione si fosse iscritta anche lei e stesse scopando a destra e a manca. Trattenendo un risolino finsi di dover andare. «Oddio, mi dispiace, scusami tanto, non mi ero accorta di quanto fosse tardi», dissi mentre lo salutavo. «Ma che peccato, però dai, appena torno a Milano ti avverto. Voglio rivederti. È stato bellissimo oggi», rispose mentre gli davo un bacio sulla guancia. «Certo, è stato bellissimo. Chiamami in settimana», feci mentre andavo via. Cinque minuti dopo, sul taxi che mi riportava a casa avevo già bloccato il suo profilo nel sito e inserito il numero telefonico nella mia lunga lista di “chiamate e messaggi da rifiutare in automatico”. Posai il telefono in borsa, riflettendo su quanto quell'incontro mi avesse infastidita e messo addosso voglia di freschezza. Poco dopo ripresi il telefono e contattai il ragazzo. «E se ti facessi una proposta indecente?» gli scrissi. «Accetterei» rispose senza aggiungere altro. «Prendi una camera in un albergo domani sera. Scrivimi la via e il numero della stanza. Io vengo da te e mi prometti che ti lasci annusare tutto. Poi magari ci vediamo un film insieme». «Va bene. Lo faccio». Mi aveva sorpreso. Non credevo che fosse disposto ad assecondare senza condizioni una proposta tanto folle, in qualche modo perfino rischiosa (in fondo, ero una totale sconosciuta). Ma siccome sorprendermi era tra le emozioni che preferivo e succedeva raramente che qualcuno riuscisse a farlo, sorrisi al nuovo gioco che avevo iniziato.
  • 24. Capitolo 4 - L’aperitivo Avevo indossato un vestitino elegante molto scollato, tacco 12, capelli freschi di parrucchiere e mi ero abbondantemente truccata. Appena scesa dal taxi di fronte all’albergo immaginai che il portiere avrebbe potuto scambiarmi per una escort, ma il pensiero, invece di imbarazzarmi o intimidirmi, mi accese. “Se deve prendermi per una puttana, che almeno mi trovi una puttana bellissima”, pensai. Mi misi un altro strato di rossetto, allargai la scollatura del vestito ed entrai nella hall con passo liquido. Dissi che dovevo andare alla stanza 110, che ero attesa da un ragazzo e che avrei pagato io. Il pensiero “È una puttana” passò senza dubbio nella mente del portiere, ma quell’indizio (mica ci pensano le puttane a pagare la stanza, no?) insieme alla voce, al vestito, alla fede al dito, gli stavano suggerendo che forse ero una Signora... Una Signora? Adorai averlo imbarazzato. Non si trattano nello stesso modo, le Signore e le puttane. Andrea guardava la scena dal salotto antistante la reception. Si avvicinò, e con tono interrogativo e la voce insicura chiese «Sei tu Anna?». Il portiere trasalì. Quale donna dall’identità incerta viene attesa in un albergo se non fa la puttana? Trovai l’equivoco in cui si dibatteva il suo cervello dannatamente eccitante. E poi mi eccitava Andrea, quel ragazzo tanto attraente, più bello di persona rispetto alle foto che mi aveva inviato, così diverso dai miei soliti amanti. Giovane, alto, un corpo magnifico, gli occhi intensi e intimiditi. «Sono io», risposi. Mi avvicinai con la bocca al suo orecchio, alzandomi leggermente sui tacchi, strofinando appena il culo sul bancone quasi in faccia al portiere. «Prima di salire in camera voglio prendere un aperitivo nel bar qui davanti», sussurrai. Poi poggiai con sicurezza il documento sul banco della reception. Il portiere lesse la mia età e lo stato civile di coniugata, guardò la
  • 25. scollatura, non ci capì un cazzo, farfugliò qualcosa su fotocopie, dopo, sì, grazie… E sono pronta a giurare che da un presumibile letargo qualcosa gli si stesse risvegliando all’altezza dell’inguine. Ci spostammo al tavolo del bar di fronte l’Hotel. Il mio dito percorreva lentamente il bordo del bicchiere di Campari. Freddo. Rosso. Brillante. Il ragazzo era seduto rigido, le gambe ancorate alla sedia. Nervoso, quasi diffidente. Lo guardavo fisso. Smisi di guardarlo e presi a seguire con gli occhi il movimento del mio dito sul bordo del bicchiere, con l’unghia rossa che grattava il vetro. Volevo apparirgli annoiata ma ero attentissima. Percepivo il suo sguardo e la sua emozione. Ogni tanto sollevavo il viso e gli piantavo gli occhi negli occhi. Occhi di donna quarantenne, spudorata, sicura, dentro gli occhi di un ragazzo emozionato. Che scena, me la vedevo da fuori. Avrei voluto essere da un’altra parte a guardarla, ed eccitarmi. Andrea era completamente diverso dagli uomini che avevo conosciuto sul sito di incontri. E non solo per l’età. Era diverso perché, evidentemente e senza possibilità di mascherarlo, non aveva alcuna esperienza di quel genere di appuntamenti. Percepivo imbarazzo nei suoi poco brillanti tentativi di conversazione e ne ero divertita. Cominciai a studiarlo nel dettaglio. Era moro, con la carnagione chiara, gli occhi scuri, un magnifico sorriso. E spalle grandi, braccia muscolose, mani ferme. Cambiai posizione. M’inarcai in avanti per guardarlo meglio. Lo feci senza curarmi di essere discreta, in maniera volutamente sfacciata. E più lo guardavo più mi piaceva. Più lo guardavo più mi piacevo. E io piacevo a lui. Nonostante la lieve diffidenza che gli si affacciava ogni tanto sul viso, nonostante l’incredulità per l’evolversi dell’appuntamento, gli occhi e la voce non riuscivano a nascondere l’emozione. Un paio di volte lo sorpresi a fissarmi le gambe. Un paio di volte gli sorrisi. Ogni volta lui arrossiva e io, cazzo, mi ritrovai a pensare “Ti voglio”. Anzi, no. “Ti voglio tantissimo”. Non lo avevo assolutamente previsto: mi aspettavo di giocare a flirtare con un ragazzino e non avevo messo in conto di quanto sa essere irresistibile il candore, quando ci si mette. Realizzai che ecco,
  • 26. era quello ad attrarmi così tanto: il candore misto all’eccitazione, la timidezza che aveva ceduto alla voglia di osare accettando una proposta tanto insolita. Perché forse lui si aspettava di farsi solo annusare, oppure di vedere un film, magari di restare con le palle gonfie, e altro non sperava... Presi a raccontare di qualche mio incontro con gli uomini del sito, senza risparmiare i dettagli scabrosi, sorseggiando il Campari, accompagnando le storie con uno sguardo sfrontato. Regolarmente, Andrea arrossiva e abbassava gli occhi. Era tenero. Io ridevo e lo incalzavo di domande, in modo frivolo e disinvolto, buttandoci dentro qualche parola “forte”. “Hai già incontrato altre donne del sito?”. “Ma le hai scopate?”. “Perché ti piacciono quelle più grandi?”. “Ti sei masturbato al telefono con qualcuna di loro?”. “E pensando a me?”. “Hai mai scopato con due donne insieme?”. Lo costringevo a guardarmi se abbassava gli occhi. Quando ero certa di avere nuovamente catturato il suo sguardo mi zittivo, rimanevo seria, facevo assumere alla mia bocca un’espressione imbronciata e passavo distrattamente la punta della lingua sul labbro inferiore. Lui tornava ad abbassare gli occhi e aveva un fremito nel respiro, come se l’emozione che fino a quel momento aveva in gola d’improvviso si spostasse giù a gonfiargli il cazzo. Mi piaceva da morire pensare che si sentisse così, emozionato dalla gola al cazzo. Erano stati i movimenti della lingua? I racconti e le domande? Il mio seno e le mie gambe? O era solo la sua poca esperienza con le donne? Era delizioso gustarmi il suo imbarazzo, e assaporai la mia decisione inattesa: di lì a poco gli avrei strappato ogni cellula di diffidenza e di vergogna con la lingua.
  • 27. Capitolo 5- A passo di danza Non lo immaginavo, lo giuro. Avviandomi con lui verso la camera 110, quasi in silenzio, io sapendo benissimo che cosa fare, lui visibilmente no, a tutto potevo pensare tranne come sarebbe andata a finire. Camminavo appena dietro di lui, intenzionalmente: volevo che sentisse il mio sguardo addosso, che avesse chiara la consapevolezza di trovarsi a un ballo dove ero io a condurre anche se era lui a farmi strada. Ho avuto due mariti, il primo che ancora non avevo finito l’università. Ho tre figli, uno grande, adulto e meraviglioso, fatto allora senza pensarci un attimo, due piccoli, desiderati e luminosi di possibilità. Mi sono laureata a ventidue anni. Poi la solita trafila di corsi, esami, concorsi, abilitazioni. Studio in centro, clienti enormi, e dieci ore al giorno di lavoro. Sorpresi? Mica ho sempre solo scopato, nella vita. Ho studiato e studio ancora, perché la benedizione del mio lavoro sta tutta lì: mi obbliga ad aggiornarmi in continuazione; per capire e crescere non basta studiare, lo so, ma stare con la mente accesa aiuta a farsi domande, ad accogliere la curiosità, a esplorarsi dentro, a scoprire ogni parte di noi. E ci evita di rimbambirci. Oggi Andrea è un uomo libero, ma allora non aveva neanche idea delle possibilità meravigliose cha ha un corpo se impara ad apprezzare il piacere partendo dal cervello. Però aveva un dono naturale, una caratteristica rara: la genuinità, quella che manca a tanti quaranta o cinquantenni, tutti presi dalle loro recite, dai loro egoismi, dai rancori per qualche ex, da granitiche certezze, e da autoimposti, invalicabili limiti. In un mondo di uomini che indossavano maschere, il ragazzo imbarazzato che camminava davanti a me verso la 110 aveva il coraggio di restare se stesso anche mettendosi in gioco. Era autentico.
  • 28. Mi ha sempre affascinata, la genuinità: il mio esplorare, la mia smania di sesso senza implicazioni sentimentali, non era forse una ricerca di autenticità? Offrirmi così non era il solo modo che avevo per non rinnegare quel “qualcos’altro” che, comunque mi guardassero gli altri, ero? Forse pure gli occhi di Andrea mi videro così: vera. Magari le sue coetanee erano troppo impegnate a impersonare la parte delle donne adulte, sicure e disinvolte, mentre in realtà avevano solo bisogno di rassicurazioni. Rassicurazioni su loro stesse, sul loro aspetto, sulla coppia, impegnate a vivere sesso e relazioni come funzionali alla progettazione del futuro, invece di godersi la spensieratezza dei loro ventanni. Donne giovani perennemente preoccupate dal fatto che gli uomini “volessero solo scopare”, mentre io... Beh, io volevo solo scopare. Chissà, forse la genuinità e il coraggio di essere noi stessi si riconoscono. E si attraggono. Pure in età diverse. O almeno, mi piace pensare che sia questo che è successo a me con Andrea e a lui con la donna che ero. E con la donna che sono.
  • 29. Capitolo 6 - La prima volta La 110 era al piano terra. A pochi metri dal banco della reception. Entrammo. Andrea aveva un fare impacciato, perfino indeciso. Decisi di imbarazzarlo ulteriormente assumendo un’espressione seria, quasi scocciata, e mi mossi nella stanza ostentando disinvoltura. Eravamo in silenzio, c’era solo il rumore dei miei tacchi sul pavimento. «Vado al bagno», dissi. Mi chiusi nella toilette. Sentivo i suoi movimenti al di là della porta. Me lo immaginavo che vagava nella stanza, chiedendosi se fossi arrabbiata e perché, se avesse sbagliato qualcosa o detto una frase fuori posto. Fumai una sigaretta sorridendomi sorniona allo specchio. Quando uscii la stanza era al buio. Andrea si era seduto sul letto davanti alla tv sintonizzata su nessun canale. «È bello quello che stai guardando?», gli chiesi chiamandolo per cognome. Poi mi piazzai in piedi fra lui e il televisore, col culo all’altezza del viso, ripetendogli: «È bello quello che stai guardando? È meglio di questo?». Lui balbettò qualcosa che non capii mentre io, come se fosse la cosa più naturale del mondo, mi toglievo vestito, reggiseno e mutandine. Mi sdraiai sul letto supina con solo la sottoveste addosso. «Non vieni?», gli dissi. Lui mi venne accanto. Poi tornò seduto, si tolse le scarpe e si distese di nuovo, coricandosi su un fianco e volgendo il viso verso di me. Cazzo quanto era emozionato! Mi sembrava di sentire tutto il suo turbamento. Avvicinò il suo viso al mio. Rimasi sospesa, immobile. Poi mi scostai repentinamente. «Scusa, non è che stavo per baciarti. Volevo solo sentire il tuo odore. Scusa», mi disse.
  • 30. La sua voce che tremava mi entrò dentro. “Hai capito il ragazzo”, pensai. “Voleva annusarmi…” Mi misi lentamente a cavalcioni su di lui e avvicinai le dita al suo viso. Ne percorsi i contorni, la fronte, le sopracciglia, le palpebre, il naso, la curva delle labbra, le guance, l’osso della mascella. Poi mi chinai ad annusarlo, col suo fiato che mi solleticava il collo. Lo annusai dovunque. Andrea era ancora interamente vestito. Nelle parti di corpo che aveva scoperte (viso, mani, braccia, collo, piedi) lo annusavo piano, dolcemente. Sul torace e le gambe, dove aveva maglietta e pantaloni, annusavo energicamente, strofinando naso e labbra contro il tessuto, come un cane che fiuta un indizio. Per ultima gli annusai la patta. Spingevo col naso in prossimità dell’inguine, facendo tendere il tessuto dei pantaloni che ricopriva l’uccello, appoggiando lì la guancia per sentire, sotto, il rilievo del cazzo già duro. Stetti per un po’ ferma e allungai le mani verso l’alto, mettendogli le dita in bocca. Poi mi tirai su, mi rimisi a cavalcioni su di lui e gli presi la faccia fra le mani. Lo guardai negli occhi. Aveva le pupille dilatate. Sembravano due laghi neri. Mi poggiò le sue mani sulla fronte, sulle tempie, e io fui investita da una sensazione dolcissima. Scesi a baciargli la bocca. Un bacio morbido e profondo. “Troppo dolce. Troppo dolce”, pensai. Era una sensazione strana, tanto nuova e insolita che ne ebbi timore. Resistetti alla tentazione di chiudere gli occhi e scivolarci dentro. Mi staccai e cominciai a spogliarlo con foga, come a riprendere in mano la situazione. E così, via la maglietta, in azione le mie dita frenetiche sui bottoni dei jeans. Lui ogni tanto mi fermava, tornava ad appoggiarmi le mani sulle tempie, a guardarmi con gli occhi immensi. E ogni volta venivo inghiottita da quella sensazione di dolcezza mista a meraviglia. Non potevo fare a meno di sorridergli e baciarlo ancora sulla bocca. Eravamo in un fermo immagine di miele. “Troppo dolce. Troppo dolce”, pensai di nuovo. E di nuovo provai resistere, riprendendo a spogliarlo freneticamente. Via i pantaloni, via le mutande. Era completamente nudo adesso, disteso, il cazzo svettante e bene in tiro. Ci abbracciammo e rotolammo sul letto a invertire le posizioni. Adesso era lui sopra di me. Quanta vita nei suoi occhi,
  • 31. quanta dolcezza, quanto desiderio. Era bello in modo commovente. Mi resi conto che lo stavo desiderando troppo, quel ragazzo, come non mi accadeva da tempo. Poggiai le mani sulle sue natiche e lo chiamai per cognome. «Dammelo in bocca», gli dissi, invitandolo con le mani e con i movimenti a mettersi a cavalcioni sul mio seno e a puntarmi il cazzo sul viso. I laghi neri ebbero un guizzo. Mi assecondò immediatamente. Avevo il suo uccello gonfio davanti agli occhi. Cominciai a passare le dita fra i peli, a percorrere con i polpastrelli le linee delle vene gonfie sull’asta, poi la cappella. Intanto lo respiravo forte, mi nutrivo dell’odore di lui. Sollevai la testa per sfregarmi perbene il membro sulla faccia, sulle palpebre, sulle guance, sulle labbra chiuse. Sfregavo e annusavo. Andrea mi guardava, eccitatissimo e un poco smarrito, poi tornava a tenermi le tempie con le mani, a tuffare gli occhi nei miei, a scivolare e farci scivolare nel fermo immagine di miele. Di nuovo mi obbligai a scrollarmi di dosso la sensazione di dolcezza che mi investiva. Alzai le braccia, strinsi con le mani la testiera del letto e l’invitai a bloccarmi le braccia con le mani. «Scopami la bocca», ordinai. Mi avvicinò la punta del cazzo alle labbra e io le dischiusi per accoglierlo. Cominciò lentamente ad andare dentro e fuori la mia bocca, sempre più dentro a ogni spinta. Muovevo la lingua in modo da accarezzargli cappella, filetto e asta a ogni affondo, piegavo il collo per favorirlo, per farlo scorrere fra lingua e palato, perché arrivasse in gola fino a farmi lacrimare. Poi, quando sentii le palle che mi sbattevano sul mento, cominciai a succhiarlo in maniera ritmica, accompagnando il movimento con la lingua. Mi piaceva così tanto che spalancai le gambe e presi a muovere il bacino. Non smettevo di guardagli gli occhi: c’erano momenti in cui li spalancava, e momenti in cui li socchiudeva rovesciando indietro la testa. Poi tornava a cercare i miei. Il cazzo gli pulsava forte e compresi che stava per venire. Colsi una certa ritrosia, forse era insicuro. Forse non sapeva se poteva venirmi in bocca, se doveva spostarsi o altro. Staccai le mani dalla testiera del letto e cercai le sue che mi bloccavano le braccia. Gliele strinsi forte. Col cazzo che mi riempiva
  • 32. la bocca feci per un paio di volte cenno di sì con la testa, incoraggiandolo a godere senza preoccupazione. I due laghi neri mostrarono uno scintillio mentre il cazzo cominciava a pulsare più potente e a stillare sborra nella mia gola. Succhiavo, assecondando l’ondata dei fiotti di sperma caldo e dolce, succhiavo e bevevo, succhiavo e premevo la lingua sull’asta a placarne e accarezzarne i fremiti, succhiavo e ingoiavo mentre con le mani stringevo le sue che tremavano. Mi sembrava di succhiargli l’anima. Fu una lunga notte. Lo feci mio e fui sua più volte. In silenzio. Ero sempre io che decidevo momenti e posizioni. Mi misi a quattro zampe davanti allo specchio e lo incitai a montarmi da dietro, invitandolo a guardare la mia faccia riflessa nello specchio. Lo cavalcai stando sopra, impalandomi su di lui e dondolandomi avanti e indietro col cazzo piantato bene nella fica. Lo feci mettere in piedi: «Ti voglio succhiare il cazzo stando in ginocchio e voglio che ti guardi allo specchio. Devi renderti conto di quanto sei bello». Avevo deciso tutto io. Di farmelo. Come farmelo. In quanti modi e quante volte farmelo. Ma non avevo vinto. Lo capii dal suo abbraccio dopo che avevamo goduto insieme, io ancora a quattro zampe e lui pesante dietro di me. Abbracciati furiosamente, quasi dolorosamente, come due sopravvissuti a un naufragio, certi di essersi salvati, vivi e felici.
  • 33. Capitolo 7 - Dirottamenti Su un sito di incontri extraconiugali ci si va per scopare. Ci si va per noia, per voglia o quel che pare a voi. E perlopiù ci si va da sposati. Con la convinzione di volerci restare, sposati. Sennò si cercherebbe altrove. Sposata ero e sposata rimanevo, convintamente. Le ragioni non le devo spiegare, credo. Ciascuno ha le sue, che alla fine sono sempre le stesse. Figli, affetto, convenienza, complicità, gratitudine, pigrizia. Giudicare è inutile, e comunque non rientra tra le mie abitudini: non mi giudicavo, quel che pensano gli altri sono affari loro e la vita è troppo breve per complicarsela con troppe masturbazioni mentali. Avevo continuato a vedere altri uomini pescati sul sito quell'estate, aprendo e chiudendo brevi relazioni. Andrea era ancora, nelle mie intenzioni, uno fra tanti. Eppure, dei rapporti che ebbi nel periodo tra il primo incontro con il ragazzo e lo stabilizzarsi della nostra improbabile storia quasi non conservo memoria, come se la relazione con lui assorbisse totalmente la mia attenzione ancora prima che ne divenissi consapevole. Se uno lo ricordo bene è perché fu imbarazzante. Credo di essere stata io a prendere un abbaglio: non avevo mai sbagliato in maniera così drammatica un “casting”. Com’è inevitabile in casi del genere, m’era rimasto da tenermi il pentimento a giochi fatti, e nient’altro. Gianluca era un quarantenne molto attraente, brillante conversatore, intelligente e spiritoso. Ma a letto, un vero disastro. Non tanto per via di un cazzo che rientrava, a essere generose, appena nella media (a parte rare eccezioni fuori misura – in un senso o nell’altro – tutti i cazzi possono portare felicemente a termine il loro compito), quanto perché non ci sapeva proprio fare: mi toccava e baciava con foga e desiderio ma senza minimamente ascoltare e seguire le risposte del mio corpo. E poi concludeva subito.
  • 34. La prima delle due volte che scopammo, nell’unico pomeriggio trascorso insieme, venne praticamente quaranta secondi dopo essermi entrato dentro. «Ero troppo emozionato, mi piaci tanto», disse abbracciandomi. Ricambiai l’abbraccio, mostrandomi comprensiva e rassicurante. Non che mi interessasse particolarmente rincuorarlo: mi premeva soprattutto non avere sacrificato a vuoto tutto quel tempo sottratto al lavoro, e speravo che la modalità materna fosse efficace per placargli l’ansia e migliorarne le prestazioni. La seconda volta durò forse appena un minuto più della prima. «Ti desideravo troppo», si giustificò. Ma fu quando aggiunse tronfio: «Però è andata meglio della prima, dai», che capii: considerava la questione come un fatto di poco conto, come se il mio piacere fosse secondario o, almeno, non essenziale quanto il suo. Qualche volta c’ero cascata perfino io: la prima reazione di una donna in casi del genere non è mai di fastidio, di autotutela. Anzi, va nella direzione esattamente opposta. Per carità, andrebbe bene – va bene – in una relazione stabile, serena, paritaria. Ma il mostrarci “politicamente corrette”, pazienti e comprensive con certi uomini che non si preoccupano minimamente di noi, è sbagliato. È frutto di una cultura patriarcale e non fa altro che rinforzare ego ed egoismo di uomini che continueranno a pensare al nostro piacere come qualcosa “in più”, che se accade, bene, ma se non accade, in fondo, è lo stesso. Ecco perché non ascoltai una terza scusa. Mi divertii a stuzzicarlo lucidamente con le mani, portandolo vicinissimo a un nuovo punto di non ritorno per interrompere il tutto sul più bello, alzarmi dal letto, rivestirmi e andarmene, lasciandolo lì, nudo e a cazzo dritto, a finire da solo, se proprio voleva. Con altri era andata sessualmente meglio, almeno per quanto riguardava durata del rapporto e dimensioni del cazzo (che poi sono gli unici due parametri in base ai quali molti uomini valutano la loro sessualità). Ma che fossero buone o meno, nessuna di quelle esperienze aveva scalfito il mio desiderio dell’inten-sità sperimentata con Andrea. Anzi, o meglio, nonostante dentro di me rimanesse acceso il campanello del pericolo, mi
  • 35. accorgevo di frenarmi, di non chiedergli un incontro tutte le volte che lo desideravo. Dirottavo - spesso intenzionalmente - le mie voglie da quel ragazzo dolce e timido verso l'amante di turno, più esperto e abile. Mi forzavo a farlo. Scopavo con uno qualsiasi per sostituire lui, reprimendo una voglia di candore a me del tutto estranea. Di tanto in tanto però non ce la facevo, e ci vedevamo. Che fosse rischioso continuare lo sapevo benissimo. Me lo diceva l’urgente voglia di lui che stravolgeva i miei piani di peccatrice efficiente e organizzata. E immaginavo che forse sarebbe stato difficile, a un certo punto, doverci rinunciare, com’era giusto e inevitabile. “Qualche altra volta”, mi dicevo. Perché negarmela? Un’altra volta ancora. Solo un’altra volta.
  • 36. Capitolo 8 - Don Jon Era piena estate. Io trattenuta in città dal lavoro. Marito e figli al mare. La sera, Milano usciva da una giornata torrida, una di quelle che solo l’idea di stare per strada ti dà l’angoscia, e se proprio devi uscire, per tutto il tempo sogni un ufficio, un negozio, un ristorante, un’automobile, un qualunque posto con l’aria condizionata dove rifugiarti. Cominciava a far buio, eppure l’asfalto sembrava avere imprigionato il calore del giorno per rilasciarlo tutto insieme proprio a quell’ora. Mentre camminavo verso casa sentivo i tacchi affondare nel marciapiede, il piede che scivolava nei sandali senza presa, senza attrito, il vestito aderente tutto appiccicato addosso, le tette imperlate di sudore. Avevo un appuntamento con Fabio, il mio amante milanese, bello e un po’ infelice, anche lui trattenuto in città dal lavoro, moglie e figli in vacanza. Era meno “libero” di me per le sue scappatelle, e se la sognava da settimane, la prima notte intera che avremmo passato insieme. Saremmo andati a mangiare qualcosa e poi a rinchiuderci in un hotel a scopare, con l’aria condizionata a palla. Anch’io ero contenta di vederlo: era un uomo piacevolissimo di quarantotto anni, alto e biondo, a letto attento e generoso. Ma ci ripensai: la giornata era stata così calda e Milano tanto vuota che avevo dentro una gran voglia di vacanza. E non riuscii a farci niente: più di ogni altra scappatella con un qualsiasi amante, magari più esperto o dotato, pensando a una vacanza fu quel ragazzo a venirmi in mente, e il mio gioco con lui. Così, senza riflettere, nonostante l’entusiasmo di Fabio e i suoi due centimetri in più, chiamai Andrea. «Vieni a casa mia. Ordiniamo una pizza e ascoltiamo musica», gli dissi solo. «Il tempo della strada e arrivo», rispose. Era spiazzato per l’invito, lo so, ma non ci aveva pensato un attimo. Ne ero felice, e allo stesso tempo mi sentivo spiazzata
  • 37. quanto lui: mai avevo nemmeno pensato di portare un amante qualsiasi nel posto del mio reale, la casa che aveva visto i miei ragazzi piccoli e me giovane e bella. “Questa volta e poi basta”, pensai mettendo a tacere una vocina dentro che mi diceva: “A chi la racconti questa bugia, agli angeli?”. Disdissi l’appuntamento col milanese, che ci restò di merda. Non l’ho più visto da allora, né mai gli ho dato spiegazioni. Erano le mie regole: chiarezza nel dare e nel ricevere, nessun impegno e nessun obbligo. Eppure oggi mi dispiace di avergli procurato un piccolo dolore. Forse si era innamorato un po’. Io però no, per niente. Quindi pazienza… Mi infilai in doccia. Andrea arrivava da Cremona, avevo poco più di un’ora per prepararmi. Quando citofonò gli aprii senza rispondere, scala e piano glieli avevo già dati per telefono. Mi piaceva tenerlo sulle spine e volevo che arrivasse da me emozionato e un po’ in soggezione. Avevo addosso solo le mutandine e un négligé nero aderente e corto a mostrare le gambe, lisce e abbronzate, il culo rotondo e sodo, la vita stretta e in trasparenza il seno con i capezzoli grandi. Indossavo sandali coi tacchi altissimi e avevo truccato solo la bocca. Dallo stereo si diffondeva l’allegro iniziale della Piccola serenata notturna di Mozart. Quando sentii l’ascensore aprii di poco la porta e misi fuori soltanto un braccio. Lo strinse. Lo tirai dentro casa e fra le mie braccia. Volevo che fosse investito di botto dal mio odore, dal mio profumo, dal mio calore. Mi addossai a lui, cercando di aderire il più possibile al suo corpo. Andrea mi stringeva forte (lo fa sempre, quando ci vediamo, sembra voglia stritolarmi). Ci baciammo a lungo, continuando a sussurrarci “Ciao” a ogni bacio. «Ti piace Mozart?», gli chiesi. «Credi anche tu che la sua musica dilati le vene?». Mi guardò con una smorfia dispiaciuta: «Non è il mio genere…». «Ah no?», dissi fingendomi sorpresa. Figurati se non lo immaginavo, non l’avevo mica scelto a caso di mettere su Mozart… Sapevo di piacergli perché ero così diversa, così lontana da lui, dal suo mondo e dalle ragazze che gli giravano
  • 38. attorno. E accentuare queste differenze mi dava un punto di vantaggio. Lo presi per mano e lo portai in salotto, tra le scaffalature cariche di libri, le fotografie, il divano rosso e il pianoforte. Eravamo in penombra: faceva caldo, le finestre erano aperte e nonostante le tende non potevo rischiare che dai palazzi vicini qualcuno ci vedesse. Presi due bicchieri e versai del whisky. Lo invitai a un brindisi con modi quasi formali, come fosse un rituale. Bevemmo e scoppiammo a ridere. Poi riprendemmo a baciarci, ad abbracciarci e sussurrarci: “Ciao”. Ero nel salotto di casa mia, priva del popolo che solitamente l’abitava, priva delle voci, dei rumori, delle risa, dei litigi fra i ragazzini, del consueto disordine. Ero lì ad abbracciare un ragazzo tanto più giovane di me e a desiderarlo perdutamente. Versai un altro giro di whisky. Bevemmo e ridemmo. Tolsi il cd di Mozart e ne misi uno di Edith Piaf. Altro giro di whisky, di baci e di sorrisi. Poi chiesi di farmi ballare sulle note di Je ne regrette rien. Rispose che non sapeva ballare, che non era capace. Risi. Gli dissi: «Tu puoi fare tutto ragazzo!». Lo abbracciai e cominciammo a dondolare formando una figura che solo da lontano e con molta buona volontà avrebbe potuto essere scambiata per la sagoma di due che ballavano. Mi girava la testa. Per il whisky e per il suo profumo, per le sue spalle forti, il suo respiro sulla fronte e i lievi baci che ci appoggiava, le mani che mi scorrevano dolcemente sulla schiena. Quando rovesciavo la testa all’indietro ci guardavamo negli occhi, poi lo baciavo sulla bocca e lui mi stringeva forte. Era un mix di tenerezza e di desiderio, di dolcezza e di smania di lui e del suo cazzo. Ancora e ancora. Lo invitai ad accomodarsi sul divano, mi sedetti su di lui e gli dissi che volevo bere dalla sua bocca. Si riempì la bocca di whisky, avvicinò le labbra alle mie e bevvi così. Mi tremavano le gambe. Gli tolsi il bicchiere dalle mani e lo posai sul tavolino accanto. Gli sbottonai i pantaloni, mi leccai il palmo della mano, gliela infilai nelle mutande e gli strinsi forte il cazzo. Era già duro, la pelle morbida e caldissima. Tenendo l’uccello stretto in una mano dentro le mutande gli sollevai il mento con l’altra.
  • 39. «Tu adesso non molli i miei occhi», ordinai. Glielo tirai fuori e cominciai a menarglielo. Andavo su e giù con la mano ritmicamente senza lasciargli gli occhi. E accompagnavo la carezza al cazzo con piccole smorfie del viso, moine di compiacimento e approvazione, come a dirgli “Così va bene, sì? Così ti piace? Bravo… Gustatelo”. Sentivo la sua eccitazione montare: la vedevo crescere nei suoi occhi che si annacquavano, la sentivo gonfiarsi nella mia mano. Poi mi fermai stringendogli forte l’uccello, assaporando le vene dell’asta che mi palpitavano sul palmo. Lui respirava forte. Aveva il viso teso, le sopracciglia aggrottate, mascella serrata e labbra contratte. Gli accarezzai piano il viso, le spalle ampie, le braccia, il torace che si abbassava e sollevava. Con quella carezza volevo liberare la forza che, forse per pudore o inesperienza, stava trattenendo. Ma che era lì, sotto la sua pelle, pronta a esplodere. La sentivo e la volevo. Se ne accorse. Si accorse che sentivo il suo imbarazzo e forse se ne vergognò, perché arrossì e chiuse gli occhi. «Guardami, non lasciare i miei occhi», gli sussurrai materna all’orecchio mentre gli stringevo forte il cazzo. Lui mi obbedì. Gli feci indossare il profilattico, poi mi sollevai leggermente e scostai le mutandine. Erano fradice. Diressi la sua cappella sulla mia fica e cominciai a strofinarla fra le piccole labbra. Il rumore che il cazzo faceva sfregandosi in quel lago era osceno ed eccitantissimo. «Lo senti? Lo senti quanto ti voglio?» gli dissi dolcemente «Io non mi vergogno, vedi? Non farlo neanche tu. Fammelo prendere, dammelo». Mi mise le mani sulle tempie, esercitando una lieve pressione verso il basso, e io mi abbassai a prenderlo tutto. Nell’istante in cui entrò totalmente nella mia fica Andrea sospirò e cominciò a gemere piano. Era la prima volta che succedeva: si era sempre trattenuto dal manifestare il piacere che provava, e ora si stava finalmente lasciando andare. Godetti di quella piccola vittoria e pensai che se era così eccitante sentire i suoi gemiti chissà quanto sarebbe stato bello sentire la sua voce sussurrare sconcezze. Anch’io mugolavo e gemevo. Gli accarezzavo il viso, le sue mani accarezzavano il mio e non avevamo smesso per un istante di tenerci negli occhi. Avvicinai
  • 40. il mio viso al suo, la bocca alla bocca e cominciammo a respirarci dentro, a baciarci e respirarci, a leccarci le labbra. Andavo su e giù sul cazzo. A ogni affondo mi sembrava di sentirlo più potente, più grosso. Gemevo forte e anche lui. Poi cominciai a dondolare avanti e indietro accelerando il ritmo. Edith Piaf, i miei gemiti e i suoi. Vidi il mio orgasmo che arrivava nei suoi occhi. E sono certa che anche lui sentì arrivare il suo nei miei. Godemmo insieme guardandoci. Godemmo e ci perdemmo, io in lui e lui in me. Quando sul letto molte ore dopo stavamo per addormentarci abbracciati, mi disse: «È stato bellissimo prima sul divano… Mi ha ricordato un film, Don Jon, una scena in cui il protagonista e Julianne Moore lo facevano così, sopra un sofà». Gli dissi che non conoscevo il film, che lo avremmo visto in futuro insieme ma che ne ero certa: quella scena noi l’avevamo sicuramente girata meglio. Poi lui si addormentò e io rimasi per un po’ sveglia a guardarlo. Averlo nel mio letto mi faceva girare la testa. Credevo fosse per via della sua bellezza, della sua gioventù, oppure per il rischio che stavo correndo per averlo invitato a casa e farlo dormire lì. Fu quando stavo per chiudere gli occhi che mi resi conto che la testa mi girava per il piacere che avevo provato quella sera a “insegnargli”. Sorrisi e mi addormentai.
  • 41. Capitolo 9 - Quel giorno al parco Non è così difficile gestire un amante. A patto che si verifichino due circostanze, anzi tre. La prima: darsi delle regole e non trasgredire mai; la seconda: non perdere la testa. Poi c’è la terza, ovvero che la testa non la perda nemmeno lui. E la terza, beh, quella non la controlla nessuno. Nei miei anni da infedele di amanti ne avevo gestiti anche due o tre nello stesso periodo. Li incontravo conciliando la mia agenda e la loro, incastrandoli fra riunioni e pranzi di lavoro, scegliendo uno o l’altro non seguendo il desiderio ma in base alla maggiore comodità che in quel momento ciascuno poteva offrire, come fossero interscambiabili. E in fondo sì. Lo erano. Con Andrea stava andando tutto diversamente. Per prima cosa, da dopo l’estate avevo cominciato a vedere solo lui. Insomma, in qualche modo gli ero fedele. Non era una scelta, e neppure una fatica ragionata. Accadeva. Inevitabilmente. E, strano a dirsi, quella esclusività aveva il sapore della trasgressione. Non è un dettaglio, perché il fatto stesso, la fedeltà voglio dire, di per sé rappresentava una deroga alla prima regola, e una spia evidente di pericolo per il superamento della seconda. Stavo perdendo la testa? Di certo avevo cominciato a perdere di vista cautele e prudenze. Continuavo a ripetermi “È solo un ragazzo. Ci faccio un altro giro e poi lo saluto”. Ma ogni volta mi sorprendevo a pensarlo, ad avere una voglia pazza di rivederlo. “Devo solo saziarmi” mi dicevo provando a rassicurarmi. Per una sposata il telefono è un bel problema. Insomma, mica puoi sempre star lì a fare moine. Anche se lo vorresti da morire, esagerare non va bene. Ed è rischioso. Come dicevo, con lui avevo già contravvenuto a tutte le mie regole: mai sentirsi al telefono da casa, mai far sapere cognome, indirizzo eccetera. Andrea aveva dormito nel mio letto, il cellulare “dedicato” non lo accendevo praticamente più, conosceva il mio cognome e il mio numero ufficiale
  • 42. e talvolta accadeva che ci sentissimo quando ero a casa. E se succede quest’ultima cosa vuol dire che per quante bugie possiamo raccontarci il limite si è superato di una misura incolmabile… Mi chiamò una sera che avevo dei buoni conoscenti a cena. Tutte care persone, piene delle certezze consolidate medio borghesi che tanto rassicurano gli animi dei benpensanti. Non fraintendetemi. Non solo non ho l’abitudine di giudicare, ma credo che loro mi considerassero esattamente allo stesso modo. Una cara persona, cortese e amichevole. Ma la nostra realtà spesso è tutta una facciata e magari anche la mia compagnia di quella sera si mostrava al mondo nascondendosi dietro una patina, come me, mentre nel profondo, nell’intimo dei desideri, eravamo uguali. Stavamo prendendo l’aperitivo in salotto quando squillò il telefono. Guardai il display, lessi che era lui e rifiutai la chiamata. Sorrisi ai miei ospiti servendo altro Martini, ma sudavo freddo: con quel ragazzo stavo davvero perdendo di vista ogni prudenza. Non c’erano senso di colpa o pentimento: non sentivo di dover giustificare le mie azioni e i miei comportamenti con nessuno, né con una qualche divinità né con mio marito, tantomeno con quegli amici. Anzi. Stare lì a conversare amabilmente ricordandomi benissimo come sullo stesso divano avessi scopato con Andrea mi eccitava da pazzi. Ero solo nervosa perché mi rendevo conto di aver abbassato la guardia… Insomma, le precauzioni che avevo fissato, rispettato e rigorosamente fatte rispettare dai miei amanti per due anni, erano andate clamorosamente a farsi fottere. E il brutto (il bello, in realtà, ma di questo sono stata consapevole solo molto dopo) era che stava succedendo praticamente senza che me ne accorgessi. Fu per questo che quando il telefono squillò nuovamente non andai in cucina per rispondere e spiegargli dolcemente, come altre volte avevo fatto, che non era il momento e che lo avrei richiamato più tardi. Risposi secca. «Ciao. Scusa ma adesso sono impegnata. Ne parliamo domani in studio». Qualche minuto dopo ricevetti il suo messaggio con “Scusami”. Il giorno dopo me lo ritrovai alle otto del mattino alla fermata del tram dove sono solita scendere per andare in studio. Doveva aver
  • 43. preso il primo treno, per essere lì a Milano a quell’ora. «Mi dispiace» gli sussurrai. «Non te ne andare» fece lui. Solo questo. Non ci fu bisogno di dirsi altro. Chiamai la mia segretaria, rimandai degli appuntamenti riuscendo a guadagnare un paio d’ore. Ci spostammo di qualche isolato, facemmo colazione in un bar e lo portai ai giardini di Villa Reale. Mi era venuta voglia di gustarmelo così, all’aperto, come un’adolescente. L’idea che ci potessero vedere e i suoi occhi spalancati quando gli dissi che volevo fargli una pompa lì erano un mix di eccitazione micidiale. Era così erotico prendere atto di quanto quel ragazzo mi si “affidasse”. Vederlo strabuzzare gli occhi per le cose “estreme” che gli facevo – e gli facevo fare – moltiplicava la mia voglia di lui. I giardini di Villa Reale erano un incanto che Andrea non conosceva. Passeggiavamo mano nella mano vicino al laghetto, percorrendone il perimetro. Gli raccontavo di quanto sarebbe stato più bello quel posto più avanti, col rosso, giallo e arancio dell’autunno inoltrato, e intanto mi sentivo un ragno che tesse, perché intenzionalmente imboccavo i sentieri che sapevo condurre al boschetto appartato dove volevo gustarmelo. Quando ci arrivammo lo invitai a sedersi su una panchina e mi sdraiai con la testa sul suo pacco. Cominciai a soffiare attraverso il tessuto dei pantaloni per fargli arrivare il fiato fino al cazzo. Glielo tirai fuori e lo presi in bocca. Non tutto. Solo la cappella. La stuzzicavo con lingua e labbra cercando di dare al movimento della lingua lo stesso ritmo del suo respiro, che diventava sempre più forte. Poi la tenni ferma tra palato e lingua sentendola ingrossare. La tirai fuori e la guardai. Era così bella, calda, pulsante, tutta lucida della mia saliva. Sembrava brillare sotto la luce del sole. «Guardati, guarda quanto sei bello!» mormorai chiamandolo per cognome. Mi divertiva chiamarlo in quel modo soprattutto quando invadevo la sua intimità: mi sembrava accentuasse il mio essere “signora” e il suo essere ragazzo, rimarcando così la distanza tra noi, le nostre differenze, in gustoso contrasto con quello che gli stavo facendo o dicendo.
  • 44. Lui guardò il suo uccello grosso e duro nella mia mano destra, con la punta del cazzo a pochi centimetri dalle labbra dischiuse, poi mi guardò negli occhi, leggendo tutta la voglia che avevo. Cacciai fuori la lingua e lo leccai. Andrea spalancò gli occhi mentre io spalancavo la bocca e prendevo tutto il cazzo, fino in gola. Rimasi per un momento infinito così, ferma, con la bocca piena di lui. Sentivo che si costringeva a rimanere immobile, che era eccitato e imbarazzato, combattuto fra il timore che ci vedesse qualcuno e il desiderio dell’attimo in cui avrei cominciato a pompare come si deve. Gli presi le mani e le portai sulla mia testa, assicurandomi di fargli intrecciare bene le dita fra i capelli. Aveva le sopracciglia inarcate e le labbra imbronciate. La stessa espressione di sempre quando è eccitato, un’espressione che ha su di me un effetto devastante. Anche io mi obbligavo a stare ferma, ma con il cazzo caldo e pulsante piantato in gola non era facile: impazzivo dalla voglia di sbattermelo su e giù. Lo guardavo negli occhi stando lì, a bocca piena, le labbra serrate a circondare la base, muovendo piano la lingua sull’asta ma senza farlo scorrere di un solo millimetro. Ed ero decisa a non farlo se prima non avessi capito dal suo sguardo che la voglia di sborrarmi in gola vinceva l’imbarazzo per il timore di essere visti. Non so se furono più convincenti la mia lingua o i miei occhi prepotenti, ma finalmente Andrea ebbe un sussulto, strinse forte le dita fra i miei capelli tirandoli leggermente, invitandomi ad andare su e giù. Nonostante il desiderio di obbedire all’invito resistetti ancora, trattenendo con fatica la voglia di amarlo con la bocca e stringendo le gambe per placare il desiderio di lui che nel bassoventre urlava. Fu solo quando lo vidi chiudere gli occhi e rovesciare la testa all’indietro, emettendo il gemito solito che mi mandava in orbita, che cominciai avida a pompare.
  • 45. Capitolo 10 - Una nuova letizia Ci vedevamo da mesi. Regolarmente. Almeno una volta alla settimana, chiusi tutto il giorno in un hotel a saziarci di noi. Uscivamo solo per mangiare. Più spesso ci portavamo dei panini, che venivano consumati direttamente sul letto, per non perdere tempo. Scopavamo fino a tarda sera, quando prendevo il taxi che mi riportava a casa, spossata e indolenzita, con la pelle gravida delle sue impronte e la voglia di rivederlo che si rinnovava già nell’ascensore di casa mia. Era un sesso meraviglioso e potente, ma tecnicamente molto semplice. L’unico “azzardo” era stato smettere di usare il profilattico. Cominciai a domandarmi perché Andrea non mi chiedesse mai niente di diverso. Insomma, tanto per partire dalle cose di base, mi domandavo perché non m’avesse ancora chiesto di scoparmi nel culo né si fosse provato ad accennare un seppur debole approccio durante gli amplessi. Avrebbe dovuto venirgli naturale, no? (ci sono uomini che non te lo chiedono: tu stai lì a pecora, convinta che stiano per farti la fica, quando senti il cazzo che preme forte lì… In quei casi, voltarmi e mollare una sberla al cafone di turno era un tutt’uno). Me lo chiedevo avendo già la risposta, ma di cose del genere una non è mai certa. Non gli piaceva? Non gli piacevo abbastanza io? Non lo aveva mai fatto? Possibile? Era solo timoroso e inesperto? Ho un bellissimo culo, e praticamente tutti i miei amanti me lo hanno chiesto, prima o poi. L’ho concesso a pochissimi, possono contarsi sulle dita di una mano. E credetemi, per il numero di amanti che ho avuto quelli che hanno goduto del mio culo sono una percentuale davvero bassa. Non perché non mi piacesse, anzi. Quando lo facevo godevo come una matta. Ma era necessario che lo volessi forte, che quell’amante mi avesse coinvolta veramente, fino a desiderare di esserne totalmente invasa, di essere “forzata” e violata, fino a desiderare che lui divenisse mio signore, nel corpo e
  • 46. nello spirito, come se dal buco del culo si potesse arrivare a prendermi l’anima. Di uomini che mi sono piaciuti così tanto ce ne sono stati pochissimi. «Non vuoi farmi il culo?», gli chiesi al telefono un pomeriggio piovoso. Ero in studio, alla fine di un incontro complicato, durante il quale era stato necessario mostrarmi più determinata, risoluta e fredda del solito, e m’era venuta voglia di calore. Al lavoro sono sempre distaccata e razionale, una fortezza che non cade neanche sotto assedio, e scommetto che in parecchi mi definirebbero inaccessibile e “poco propensa” alle relazioni con l’altro sesso. Comprimo le mie curve in abiti irreprensibili e mi pettino i capelli lunghi – quelli che adoro farmi tirare quando sto a pecora – in impeccabili chignon. Insomma, pago il prezzo che ogni donna deve pagare se non vuol perdere autorevolezza. Perché poi si diffidi della competenza di una donna che apre, e spesso, le gambe per godere (quando si tratta di una fra le cose più naturali e sane del mondo) non l’ho mai capito. Agli uomini non accade. Anzi. Essere anche un tombeur de femmes contribuisce al fascino di ogni leader maschio. L’incontro di lavoro mi aveva snervata, avevo voglia di gioco e leggerezza, così mi stavo rilassando semisdraiata sulla poltrona di pelle nera della mia scrivania e decisi di stuzzicare Andrea al telefono. «Non hai mai scopato nessuna nel culo? Dai, dimmi la verità», tornai a chiedergli facendo finta di non saperlo già. Lo immaginai arrossire. «Mai? Davvero? Allora è arrivato il momento, ragazzo» e aggiunsi con voce più bassa, sospirandolo quasi, «La prossima volta che ci vediamo porto dell’olio e lo facciamo». Ci incontrammo la settimana successiva nella camera dell’hotel dove andavamo più di frequente. Avevo in borsa un flacone di olio di mandorle dolci, che appoggiai sul comodino. Cominciammo a baciarci, a toccarci, a stringerci con la frenesia di sempre, arricchita dalla letizia di quella cosa nuova che avremmo fatto insieme. Ancora vestiti ci buttammo nel letto a rotolarci, sorriderci, strusciarci, spogliandoci velocemente. A ogni indumento che volava sul pavimento c’era un bacio profondo, una lingua infinitamente
  • 47. succhiata, una carezza alla fronte, un sorriso negli occhi. Eravamo nudi, caldi, sudati, con la febbre d’amore addosso. Era pieno autunno ma avevamo ancora l’estate dentro. Mi sedetti sul bordo del letto, andai indietro con la testa e spalancai oscenamente le cosce con la fica bene esposta. Andrea si accovacciò sul pavimento con la testa fra le mie gambe e cominciò a leccare e succhiare. Mi misi un cuscino sotto la testa: adoravo guardarlo mentre mi leccava la fica. Vedevo la parte superiore del suo volto e gli occhi brillanti fissi nei miei. Cercavo di mantenere fermo lo sguardo ma non ce la facevo: il piacere era così forte che i miei occhi si chiudevano, si riaprivano, si annacquavano, si rovesciavano indietro seguendo i movimenti della sua lingua, dei suoi baci e dei fiotti di nettare che stillavano dalla mia passera. Venni diverse volte, mugolando in modo indecente, fottendomene se di là, fuori, altrove, qualcuno poteva sentirmi. Si tirò su e si posizionò su di me, stava per entrarmi dentro e io morivo dalla voglia di essere sbattuta quando gli sgusciai da sotto e mi misi a quattro zampe. «Inculami», gli dissi. Lo volevo disperatamente e lo volevo in quel momento, con tutto il desiderio di cazzo che avevo nella fica. Volevo stare a quattro zampe e volevo che mi scopasse il culo mentre dalla mia passera colava il desiderio di essere riempita. Volevo essere inculata così, con la fica orfana e vogliosa, privata del suo incanto. Udii che si muoveva dietro di me. Pensai che stesse armeggiando con il tappo della bottiglietta... Poi un dito scivoloso si introdusse piano nel mio culo. Mi rilassai. Lui teneva il dito fermo, forse aveva paura di farmi male. Spostai dolcemente il bacino e sospirai: «Muovilo amore». Cominciò a muovere il dito dentro e fuori, con un movimento circolare. Quanto era delizioso sentirlo. Quanto era dolce stare lì, totalmente esposta, indifesa, fragile e viva, con la consapevolezza che tra poco il mio magnifico ragazzo mi sarebbe entrato nel culo a toccarmi l’anima. Tolse il dito e avvicinò la punta dell’uccello. Ero così vogliosa e rilassata che lui riuscì quasi subito a mettere dentro la cappella. Il pensiero di lui che si era cosparso tantissimo d’olio per non farmi
  • 48. male, il pensiero dell’emozione che sicuramente stava provando mi commosse fino a riempirmi gli occhi di lacrime. Singhiozzai. Lui equivocò, e smise di spingere. Allora cominciai a muovermi io, piano e dolcemente, avanti e indietro, sospirando. «Parlami, parlami», cominciai a ripetere. M’era venuta voglia di sentirgli dire che ero una troia, la sua troia. Che mi stava sfondando il culo, entrando fin dove si poteva. E glielo chiesi. Gli chiesi di dirmelo, di chiamarmi a quel modo, di descrivermi che cosa stava facendo. Andrea smise per un attimo di respirare, poi mormorò con voce profonda e densa di emozione: «Ti sto inculando amore, sono dentro il tuo culo». Quella frase ebbe un effetto devastante nella mia mente e forse anche in lui, perché non l’aveva mai detta a nessun’altra donna prima. Mi mise le mani sui fianchi e cominciò a scoparmi perbene, a incularmi alla grande. Andava dentro e fuori sempre più forte e ogni volta si conficcava più in fondo, a ogni spinta affondava e mi dava un altro centimetro di cazzo. Puntai le mani sul materasso cercando di assumere una posizione più stabile e rigida, per offrire più resistenza a quell’assalto, per gustarmelo meglio. Cominciai a sentire a ogni colpo le palle di lui che colpivano la mia fica fradicia e sentivo come ad ogni spinta si bagnavano. Chiusi gli occhi ed ebbi una visione: un primo piano del mio culo e del suo cazzo che lo scopava, un’immagine da film porno che si ripeteva come un loop e cominciai a venire. Godevo e ansimavo, godevo e ripetevo: «Sì amore». Godevo e gemevo senza vergogna. Era un piacere fortissimo, intenso e particolare, che si insinuava fin dentro il cervello, in ogni sua piega, un orgasmo che sembrava non finire più, sconquassandomi dentro. Stavo ancora venendo quando udii la sua voce dirmi: «Vengo amore, ti sto venendo nel culo». Affondò in me fino alle palle rimanendo lì fermo. Io godetti nuovamente e stavolta con la fica, col grilletto, stando immobile. Non so come fu possibile. Forse per via degli spasmi del cazzo che stava stillando zucchero liquido o per via delle sollecitazioni che le palle sbattendo avevano regalato alla mia
  • 49. passera… So solo che fui sua tantissimo, intensamente, infinitamente.
  • 50. Capitolo 11 - Il suo odore Come è possibile che ogni volta che mi avvicino a lui, che sento il suo odore, la fiamma nel mio bassoventre si accende e mi fa sciogliere? Ogni volta, varcata la soglia di una nuova stanza, l’aria si accende e si fa elettrica, viva e vibrante. Lui è con me. E ci sono i colori. Non c’è cappa di grigio che tenga: il grigio e ogni sua sfumatura restano fuori dalla porta. Mi piace avvicinarmi quando siamo ancora vestiti, gli dico di stare fermo, di dischiudere la bocca e restare immobile. Siamo in silenzio, ascolto il rumore dei miei movimenti, dei miei abiti, dei tacchi sul pavimento. A occhi chiusi mi faccio più vicina, sento il suo odore sempre più forte e cerco il suo respiro. Lui è così alto che devo inarcarmi sulla punta dei piedi e sollevare il viso per trovargli le labbra. Rimango per un po’ così, ferma e sospesa, le bocche vicine, a gustarmi il fiato dolcissimo e caldo. Poi apro gli occhi e ogni volta mi ritrovo sorpresa e stupita per quanto mi incanta. Che madornale errore credere che l’amore sia progetto e certezza. L’amore è soprattutto stupore. Vorrei abbracciarlo, stringerlo e schizzare oltre, per un secondo o mille anni, staccare i piedi da terra, fargli da pipistrello e farmi portare via da me, dalla vita che ho fuori di lui e che resiste nonostante tutto. Nonostante quell’avanzamento veloce del nastro che il mio desiderio vorrebbe. Quel nastro di noi così bello da volerlo riavvolgere in fretta solo per poterlo iniziare da capo. Lo guardo. È immobile. Ha occhi chiusi e bocca dischiusa, come avevo ordinato. «Sei proprio un bravo e ubbidiente ragazzo», gli sussurro compiaciuta all’orecchio. Stiamo respirando più forte, le bocche vicine. Chiudo gli occhi, tiro fuori la lingua e gli sfioro le labbra, ne seguo i contorni, ne palpeggio carnosità e pienezza. Con la punta faccio capolino dentro la sua bocca, dapprima esitante e quasi timida, poi sempre più determinata
  • 51. e sicura, strappandogli piccoli mugolii. Adoro respirare dentro la sua bocca, bere ogni suo gemito. Adoro leccargli labbra e denti. Ficcargli la lingua in bocca e frugargliela tutta, solleticare e succhiare la sua. Siamo immobili entrambi, solo la mia lingua si muove mentre resto protesa verso lui, tutta quanta, tutta intera, mentre il suo odore mi inebria e il fuoco fra le cosce divampa. Lo attizzo ancora, aggiungo altra voglia alle voglie e inarco il bacino, a strofinarmi sul cazzo che diventa sempre più duro sotto i jeans. Percepisco i suoi sussulti, sento le sue mani tremare, fremere e resistere a toccarmi. Allora cedo e per un po’ lo lascio fare, gliele lascio avvicinare ai miei fianchi, al culo. Giusto il tempo di sentire i miei brividi. Talvolta alzo il vestito e lo assecondo, gli lascio palpare le natiche calde, la pelle nuda delle cosce. Oppure mi dondolo, divarico un po’ le gambe in modo che la sua mano a palmo aperto tocchi la fica, ne avverta il calore e il bagnato attraverso le mutandine. Mi dondolo con progressiva frenesia, fino al punto che quasi non si capisce se è lui ad accarezzarmi la fica o se è la mia fica a cercare e accarezzare la sua mano. Poi mi blocco e lo blocco, avvicino le labbra al suo orecchio e sussurro decisa: «Fermo ragazzo. Fermo. Ti voglio immobile. E mio. E nudo». E lui di nuovo ubbidisce. Solo allora apro gli occhi e trovo sempre i suoi che mi cercano. Ha gli occhi magnifici quando è eccitato: gli si annacquano di piacere e diventano brillanti. Guizzano di gioia e di vita come gli guizza e gli pulsa il cazzo, quell’incantevole cazzo che di lì a poco mi pulserà nella fica, nel culo, nella bocca… Respiro più forte e comincio a spogliarlo.
  • 52. Capitolo 12 - Un giro di giostra Sono sempre stata curiosa. E certe curiosità non si soddisfano leggendo, guardando o facendosi raccontare da qualcuno com’è. Per essere capite e soddisfatte devono viversi sulla pelle. Con qualcuno dei miei amanti più intraprendenti avevo sperimentato giochi a tre; due donne e lui, oppure lui, un altro uomo e me. Vi confesso, non era stato granché. O meglio, erano state esperienze forti, e mi erano piaciute, sì, ma le avevo vissute come in solitaria. Erano solo mie. L’amante che mi accompagnava era sempre stato solo un compagno di viaggio, uno che faceva lo stesso giro di giostra. Ma in quella giostra ero da sola. Cominciai ad avere voglia di viaggiare con Andrea. Di avventurarmi con lui in terreni dove le coppie in genere non vanno. Un po’ perché mi chiedevo se con quel ragazzo sarebbe stato diverso, se nella giostra proibita che tanto mi attraeva mi sarei sentita sola o lui sarebbe stato con me; un po’ perché volevo rimanergli marchiata nella mente. Volevo essere la prima donna con cui si spingeva oltre, denudandosi senza vergogna o remore. «Non ti andrebbe di portarmi in un privé?». Quando glielo chiesi la prima volta quasi si offese. «Dai, guarderemo e basta, curioseremo in giro e se saremo a disagio andremo via» insistevo. Ce ne volle, di opera di persuasione, per convincerlo… Alla fine accettò. Era anche questo che mi piaceva da morire di Andrea, la sua capacità di mettersi in gioco nonostante l’emozione, un candore che sapeva diventare sfrontato senza perdere mai un briciolo dell’intima innocenza di cui pareva impastato. E mi piaceva da morire essere “la prima”. La prima che aveva inculato, la prima che lo aveva bevuto, la prima cui aveva detto sconcezze, la prima con cui andava a un privé. Adoravo essere il suo battesimo porno. Andammo.
  • 53. Era un bel locale, di classe, elegante. Molte coppie di bella presenza e pochi uomini soli. Ero elettrizzata e tesa, di quella tensione che ti fa respirare vita nell’aria. Andrea era imbarazzato ma eccitato. Non so esattamente cosa mi aspettassi o cercassi, né quanto in là ci saremmo “spinti”. Il solo fatto che avesse ceduto al mio desiderio e alla sua curiosità mi esaltava. Bevevamo e ridevamo. Eravamo come in attesa. Probabilmente pensavamo che da un momento all’altro una coppia si sarebbe avvicinata a noi iniziando una conversazione stuzzicante… Invece, d’improvviso la sala si svuotò, come se fosse suonata la campanella della ricreazione. Anche noi, dopo i primi istanti di perplessità, ci avvicinammo alla zona privata, dove verosimilmente erano andati tutti. Un’accozzaglia di corpi nudi, sconosciuti e anonimi si stava accoppiando senza regole geometriche. Non c’erano sguardi di intesa, assonanze, armonie, nulla di nulla. Non avvertii nessuno stimolo erotico. Semmai una sensazione di “interscambio” asettico, di privazione totale di individualità e sessualità. La scena aveva pure un nonsoché di surreale e comico, dal momento che questo “carnaio” di corpi era circondato di uomini singoli, tutti con dei cazzetti mosci in mostra che si masturbavano inutilmente (perché continuavano a rimanere mosci) vagando attorno alla massa indistinta di carne. Andrea era sperduto, fuori posto. Stavo per dirgli di andar via quando, nell’ultima stanza di quel labirinto, la mia attenzione fu catturata da una coppia che brillava fra le altre. Un ragazzo e una ragazza intorno ai trent’anni, lei bionda e bella, lui bruno e attraente. «Li vedi quelli?», dissi ad Andrea. «Sono gli unici “veri” qui dentro». Entrammo nella stanza. Era stretta e lunga, i due seduti su un letto singolo addossato al muro, completamente vestiti, parlottavano concitatamente. Lui l’abbracciava, l’accarezzava, la baciava sul viso e le parlava. La bionda per un po’ si abbandonava ai baci stando zitta a occhi chiusi, poi li riapriva, sembrava scuotersi dal torpore, ricopriva freneticamente ogni lembo di pelle (una spalla, una coscia)
  • 54. che le mani di lui scoprivano di continuo, e gli mormorava qualcosa facendo di no con la testa. Evidentemente, eravamo di fronte a un lui che vuole osare e a una lei che si frena. Percepivo l’ec-citazione di lui e il turbamento di lei. Feci sedere Andrea sul divano più vicino a loro, mi sedetti in braccio a lui e cominciai a baciarlo sulla bocca appassionatamente, come se intorno non ci fosse nessuno, senza pudori, emettendo quei gemiti che non riesco a trattenere ogni volta che la mia lingua viene a contatto con la sua. I due cessarono la loro schermaglia e cominciarono a guardarci. Intanto, nella stanza erano entrati alcuni uomini soli, che si fermarono a contemplare noi quattro. Il silenzio era rotto solo dai miei mugolii. Smisi di baciare Andrea, mi sistemai sulle sue ginocchia dandogli le spalle e rivolsi il viso alla coppia. Andrea mi abbracciava, era ancorato a me, mentre io dondolavo avanti e indietro guardando la bionda. L’uomo riprese ad accarezzare e baciare la donna, a sussurrarle parole e, quando lei non lo guardava, mi faceva cenno di raggiungerlo, di avvicinarmi a lui. Probabilmente pensava che di lì a poco mi avrebbe scopata. Io allungai un piede e toccai con la mia scarpa tacco dodici la caviglia di lei, che mi guardò sorpresa. Diedi un bacio ad Andrea e gli dissi all’orecchio: «Guarda e goditelo, amore». Mi avvicinai alla coppia. I due erano stupiti. Guardai la bionda e le sorrisi. Era bella. Avvicinai l’indice alla sua bocca e le accarezzai lentamente le labbra. Lei mi guardava con due occhioni meravigliati e timorosi. «Sei bella», le dissi. Le misi l’altra mano sulla fronte facendole chiudere gli occhi, mi avvicinai al suo orecchio e glielo dissi ancora. «Sei bella». La ragazza rovesciò un poco la testa all’indietro. Avvicinai le labbra alle sue e le sussurrai di nuovo sulla bocca: «Sei bella». Fu scossa da un brivido e accelerò il respiro, vedevo il suo seno tendersi e sollevarsi. Allontanai con una mano l’uomo che stava provando a toccarmi e mi girai verso Andrea con uno sguardo complice. Poi tornai alla bionda.
  • 55. C’era un silenzio enorme. Tutti stavano immobili e zitti. Andrea, l’uomo, gli altri uomini che guardavano stando in piedi in fondo alla stanza. Cominciai a leccarle le labbra, il collo, la piega tra i seni. Lei tremava e sussultava a ogni tocco di lingua: le vedevo i brividi sulla pelle. Era bellissimo gustarla mentre stava per cedere. A me, alla mia bocca. Era bellissimo guidarla dolcemente ad arrendersi. «Apri gli occhi e guardami», le ordinai. Ubbidì. Aveva uno sguardo eccitato e ancora sorpreso, ma sono certa che adesso era sorpreso da se stessa, dalla reazione che stava avendo alle mie carezze. La baciai sulla bocca. Dapprima dolcemente, poi sempre più forte. La bionda ebbe un fremito, mugolò e cominciò a rispondere al bacio. Aveva una lingua dolcissima e soffice. Mi abbracciò e l’abbracciai, continuando a baciarci, le lingue che si cercavano e si intrecciavano confuse. Dovetti nuovamente allontanare l’uomo che nel frattempo aveva riprovato ad avvicinarsi. Mi staccai e cominciai ad accarezzarle il seno, abbassai la scollatura del vestito e le scoprii le tette. Erano bellissime, piene e rotonde. Le presi i piccoli capezzoli rosei turgidi fra le dita e li pizzicai. Cominciò a gemere. «Brava», le dissi. «Miagola gattina, miagola». Mi girai verso Andrea mostrandogli il seno della bionda che tenevo tra le mani. Gli feci cenno di avvicinarsi. Lui sorrise e si negò scuotendo la testa. Affondai il viso fra le tette di lei, gliele leccavo, le baciavo, le succhiavo, le mordicchiavo piano. Ansimava sempre più forte. L’uomo riprovò ad avvicinarsi. Stavolta fu lei a scacciarlo. Lo fece con un gesto noncurante, indolente e stizzito. Ci sorridemmo e ricominciammo a baciarci. La bionda cominciò a toccarmi il seno e mi accorsi che anch’io avevo cominciato a miagolare. Le sollevai il vestito e infilai la mano fra le cosce, sotto le mutandine. Aveva la fica depilata ed era bagnatissima. Poggiai le dita sul grilletto, gonfio e pulsante, e presi ad accarezzarglielo piano, con un movimento circolare, lento e dolce. La stanza era sovrastata dai nostri gemiti. Ansimavamo al medesimo ritmo. Lei cominciò a muovere il bacino, ondeggiava, seguiva il movimento della mia carezza e cercava di accelerarlo. Sentivo la sua voglia di essere
  • 56. riempita. Quando inarcò il bacino contro la mia mano – una, due, tre volte – decisi di accontentarla e le ficcai indice e medio nella fica, mentre col pollice continuavo a titillarle il grilletto. La bionda emise un gridolino, mi prese il viso fra le mani e cominciò a succhiarmi la lingua. Era così bagnata che il rumore del cic ciac delle mie dita che si muovevano dentro e fuori di lei superava quello dei nostri sospiri. Mi staccai dal bacio della bionda e guardai Andrea, continuando a tenere le dita dentro di lei. La toccavo, le frugavo perbene la fica e intanto guardavo lui. Era bellissimo, affascinato ed eccitato, e immaginai il suo cazzo duro sotto i jeans. «Vieni, dai», gli feci di nuovo. Anche la bionda glielo disse, lo invitò a raggiungerci, ma Andrea scosse ancora una volta la testa. Tornai a guardare lei, tolsi la mano dalla fica e la misi fra i nostri visi, le avvicinai alla bocca le dita bagnate dei suoi umori e la invitai a succhiarle. «Assaggiati. Senti quanto sei dolce». Lei le succhiò. Intanto mi abbracciava convulsamente. Mi staccai dalla bionda e mi alzai. Lei provò a trattenermi ma dolcemente tolsi la sua mano dal mio braccio. Mi rivolsi al suo uomo che stava in un angolo del letto, immobile e sbigottito. «Abbine cura: è una donna magnifica», gli soffiai. Andai da Andrea che mi abbracciò. «Perché non ti sei avvicinato?», gli chiesi all’orecchio dopo averlo baciato. «Eravate bellissime, temevo di rovinare la magia» rispose. «Lo sai che prima o poi ti vorrò vedere scopare un’altra? Lo sai, ragazzo? Lo sai?» aggiunsi. Lo ribaciai e gli morsi le labbra. «Sì, lo so», disse arrossendo. Ci prendemmo per mano e uscimmo. Gli uomini sull’uscio si spostarono quasi con riverenza per farci passare. Facemmo l’amore tutta la notte. Ero felice. Su una giostra con una donna bionda, da sola, Andrea non aveva lasciato per un attimo la mia mano.
  • 57. Capitolo 13 - Risvegli Quando è disteso con gli occhi chiusi, dopo un giorno intero passato a farci l’amore, e si addormenta, mi piace stare nuda addossata a lui, al suo corpo rilassato, pelle contro pelle. Mi piace guardarlo da vicino, guardargli il viso, le ciglia che vibrano un poco se sta sognando, la bocca appena dischiusa, la barba che si è fatto crescere per me, per sembrarmi più grande, i capelli neri e lunghi, tenuti così perché io adoro toccarglieli, passarci le dita. «Che cosa vuoi?», gli dico piano per non svegliarlo. «Vuoi la mia mente? Te la do. Il ventre che ha dato la vita? Il seno che ha allattato? Te li do. Vuoi il cielo? Lo prendo e te lo do. Ti do tutto. La mia follia, le mie rughe, i miei segreti, la passione, l’incanto…». Lui non si sveglia perché gli parlo piano, il mio è appena un sussurro. Però in qualche modo la voce gli arriva, perché lentamente si muove: sposta un braccio, una gamba o muove appena un poco la testa e mormora: «Amore mio». È solo un attimo. La sua coscienza, la sua percezione si affacciano a me solo per un attimo. Io me ne sto zitta, immobile e regolo il respiro facendo finta di dormire. Lui mi stringe e si riaddormenta. Sorveglio il suo respiro. Quando sono certa che dorme, mi sollevo e mi metto in ginocchio a guardarlo, a gustarmi con gli occhi il suo corpo perfetto. Vorrei mangiarlo. Vorrei avere i denti negli occhi per la voglia che ho di guardarlo. Poi mi abbasso a prendergli dolcemente l’uccello in bocca. Adoro farlo quando è così moscio e rilassato, perché non accade mai: quando ci vediamo, e si spoglia o lo spoglio, è sempre tanto eccitato che glielo prendo in bocca che è già in tiro. Quando lo faccio così, mentre dorme, riesco a gustarmelo in questa forma tenera, indifesa e per me nuova, lo accolgo piccolo e morbido tutto facilmente nella bocca, subito. Posso adagiarlo sulla lingua, dargli dei piccoli colpetti