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CAPITOLO 7 - LA DIVINA COMMEDIA
La Commedia è un poema in tre cantiche, Inferno, Purgatorio e Paradiso,
ciascuna di trentatré canti e con numero press'a poco uguale di versi, proporzione al cui
fondamento sta il numero tre. Un canto proemiale al poema forma in tutto il numero
cento, multiplo di dieci, simbolo di perfezione. Metro ne è la terzina concatenata, ripresa
dal sirventese popolaresco ed elaborata artisticamente. "Commedia" o "Comedia" fu
originariamente il titolo generico dell'opera in rapporto al suo contenuto, che da triste
principio giunge a lieto fine: “Incipit Comedia Dantis Alagherii fiorentini natione non
moribus” è dichiarato nell'epistola a Cangrande della Scala. "Divina" è l'epiteto che fu
aggiunto dai posteri, da Boccaccio, e che fu consacrato, come titolo dell'opera, a
cominciare dall'edizione veneziana (1555) del Giolito.
Le prime stampe risalgono al 1472. A quali anni se ne deve riportare la
composizione e quali ne siano state le varie fasi di elaborazione, resta una questione
problematica; ma l'opinione che presenta caratteri di maggiore probabilità è quella che ne
pone l'inizio verso il 1307. Interrotto allora il Convivio, Dante si abbandonò all'impeto di
un'ispirazione morale e religiosa che urgeva nel suo cuore, ritraendolo ai momenti più
felici della sua attività di poeta, con un ritorno al "bello stile" delle sue canzoni
filosofiche, per le quali riconosceva Virgilio suo maestro e autore (Convivio). Tale
opinione, che segue nel poema l'eco degli avvenimenti storici dai quali Dante sperava un
rinnovamento della vita civile e cristiana, e particolarmente dell'Italia, pare confermata
dal fatto che già anteriormente all'aprile del 1314 si poteva parlare di un'opera "quod
dicitur Comedia et de infernalibus inter cetera multa tractat". Indizio sicuro che le prime
due cantiche erano ormai divulgate, non sappiamo se insieme o separatamente; il che
Dante stesso ci dichiara più tardi, verso il 1319, quando in risposta a Giovanni del
Virgilio (Egloghe) si dice atteso alla composizione del Paradiso ("Cum mundi
circumflua corpora cantu - Astricoleque meo velut infera regna patebunt". Comunque, il
voto che Dante aveva espresso nell'ultimo paragrafo della Vita Nuova ebbe compimento
perfetto. Sulla soglia dell'eterno, al conchiudersi della sua vita, Dante portò a fine il
"poema sacro"; e Dio, che è "il sire della cortesia", si compiacque di chiamare l'anima del
Divina Commedia 51
poeta "a vedere la gloria" di Beatrice beata, dopo che egli ebbe detto di lei "quello che
mai non fue detto d'alcuna".
Sintesi di vita e di pensiero, la Divina Commedia è l'espressione più luminosa di
quello che fu in un'anima appassionata di credente e di poeta. Collocandosi sul piano
metafisico della natura creata, che è il piano dell'analogia e della rassomiglianza, Dante si
oggettiva come persona viva e operante in un mondo fantastico, che per similitudine di
proporzioni, di consonanze e d'armonie rispecchia l'universo creato, sensibile e
sovrasensibile, considerato in se stesso come opera d'arte. Le relazioni di analogia, che
intercorrono tra il mondo poetico di Dante e l'universo della creazione divina, conservano
intatta la loro spiritualità, anche se realizzate in modo essenzialmente diverso.
In un universo creato, dove tutto ciò che è, in quanto è, è bene, il male, di cui fu
causa lo smisurato orgoglio del primo angelo ribelle, non è che privazione di bene: il non-
essere, il baratro, il nulla. E’ il cupo abisso della disperazione e del dolore nel quale
precipita la creatura umana quando volontariamente si nega alla perfezione che già
possiede in virtù della sua stessa natura. Nel mondo dantesco questo abisso è
simboleggiato dall'inferno: un'oscura voragine, che vaneggia sotto la crosta della terra
nella parte dell'emisfero boreale abitata dall'uomo. A forma di cono rovesciato, essa si
sprofonda fino al centro della terra, che è pure il centro dell'universo e il luogo più
lontano da Dio, che è luce. E lì, precipitando dal cielo, cadde e sta confitto in eterno
Lucifero.
La terra che si ritrasse dinanzi alla sua caduta e ricorse in su, emergendo dalle
acque dell'emisfero australe, formò l'isoletta del purgatorio: una montagna alta e scoscesa
sulla cui cima, agli antipodi di Gerusalemme, frondeggia la foresta fresca e viva del
Paradiso terrestre. Questa montagna, che limita gli orizzonti sconfinati di libertà e di luce
a cui ogni anima aspira, simboleggia la materia come reale possibilità di essere: un non-
essere che esiste, un non-essere relativo, che ogni anima deve colmare con la propria
attività, per darsi la perfezione che le compete, in ragione della sua costituzione specifica.
Solo così essa potrà salire al Paradiso terrestre, che si trova al limite estremo di
due mondi: al di sotto, quello della materia che lì si sublima; al di sopra, il mondo della
pura immaterialità, che si fa sempre più vasto e luminoso in se stesso. E’ questo il
Paradiso della fede cristiana come frutto dello Spirito Santo: ascensione spirituale, che
Divina Commedia 52
per gradi sempre più vivi d'illuminazione e d'amore attraversa, figuratamente, i nove cieli
del sistema tolemaico, giranti attorno alla terra immobile con movimento e orbite sempre
maggiori.
A questi cieli sovrasta infinito il cielo della divina fiamma: l'Empireo, il cielo
della carità, sede di Dio e dei suoi angeli e dei suoi santi. Il viaggio di Dante nei tre regni
dell'oltretomba è raffigurato come una continua discesa: giù, dall'emisfero boreale fino al
centro dell'Universo; giù nell'emisfero australe fino alla vetta del Purgatorio; giù, nelle
profondità abissali dei cieli fino all'Empireo. Ma è una discesa che si risolve per Dante in
una continua salita: vita del suo spirito, che si fa causa delle proprie perfezioni e che si
edifica su se stesso attraverso se stesso e si mette tutto in luce; a guisa di un albero che si
sprofonda sempre più con le sue radici nell'oscurità della terra, mentre sempre più si
protende verso l'alto e sale e frondeggia e fiorisce nella radiante libertà del sole.
Ma il viaggio di Dante nella Divina Commedia non è che la traduzione in termini
fantastici di quella che in ogni uomo è l'azione poetica per eccellenza: l'attività vitale e
immanente del pensiero e dell'amore; un'attività, che nell'atto di conoscere e in quello di
amare si perfeziona soprannaturalmente nella contemplazione e nella carità divina.
Poiché il fine pratico, a cui Dante tende in questo viaggio, è la conoscenza di Dio, come
bene supremo e beatitudine eterna: un Dio sovranamente personale e trascendente, in
quanto è l'essere che in sé sussiste, essendo in se stesso la sua bontà e la sua verità e la
sua bellezza. E tuttavia tale che la sua essenza può essere conosciuta non già in se stessa,
ma per analogia, attraverso una partecipazione creata di se stessa a ciò che essa non è.
E’ una conoscenza reale, una conoscenza di fatto, che è poi la conoscenza poetica
del mistero che agita dal profondo tutta la creazione, e che traluce in tutte le cose come
loro vita segreta, come segno invisibile della spiritualità che ciascuna di esse detiene.
Questa conoscenza analogica di Dio, autore della natura, ordinatore e legislatore
supremo, e di Dio, autore della grazia, provvidenza che governa il mondo, è il fine ultimo
dell'attività che Dante dispiega, di mano in mano che si sprofonda in seno all'esistente,
che è il "luogo eterno" delle anime. Conoscenza di Dio "per speculum et in aenigmate":
cioè Dio conosciuto nel mistero dell'esistenza che ciascuna anima esercita: un mistero che
Dante conosce per connaturalità affettiva nella misura stessa che poeticamente lo vive e
lo incorpora con la fantasia e lo fa presente a se stesso.
Divina Commedia 53
Nell'ordine della natura, per analogia ascendente che dagli effetti risale alla causa
prima, Dante conosce Dio come giustizia (Inferno) e come misericordia (Purgatorio).
Nell'ordine soprannaturale della grazia e della carità, per analogia discendente della fede,
egli conosce Dio secondo la sua propria essenza: oggetto di un amore infinito, che è poi il
desiderio di vederlo in se stesso come egli stesso si vede. Questa conoscenza "quasi
sperimentale" di Dio, Dante la pone a fondamento della sua azione concreta.
Attraverso costanti rettificazioni e purificazioni e un'ascesi continua
dell'intelligenza e del cuore, Dante invera progressivamente in se stesso, nella pura
immanenza delle sue operazioni, la saggezza morale metafisica (Virgilio), come scienza
degli atti umani e della libertà, e la saggezza umana e divina dei libri sacri (Matelda), e
quindi, dentro la luce della rivelazione, la saggezza cristiana dei santi (Beatrice) e la
saggezza mistica (raffigurata da san Bernardo).
Il principio dinamico che informa la Divina Commedia, e che dà ragione del
viaggio di Dante - che è poi il viaggio di ogni anima pellegrina nel tempo e sempre in
cerca di un bene infinito - è l'amore umano come partecipazione finita dell'amore che Dio
ha per se stesso in virtù della sua propria perfezione. Pur nelle sue miserie e nei suoi
errori e nei suoi smarrimenti, l'amore umano è un amore naturale di Dio, essendone Dio
contemporaneamente e la causa e il fine. Amando nelle cose la bellezza che vi risplende,
l'uomo ama Dio anche senza conoscerlo: perfezione di ogni amore creato, che gioisce di
se stesso come verità che vive e bontà che si comunica e si espande.
E’ questa esperienza d'amore che Dante conobbe nel periodo felice della sua "vita
nuova", quando esaltò in Beatrice lo splendore dell'essere spirituale e la amò in se stessa
come un bene analogo al Bene supremo (Vita Nuova). Ma questa rettitudine della
volontà, che ci fa amare nelle cose il divino e che fa del nostro amore un analogo
dell'Amore increato che crea, Dante la perdette, perdendo nel tempo stesso la perfezione
della sua somiglianza a Dio e la conformità alla sua propria natura.
Travolto dal turbine delle passioni politiche e accecato dagli odi di parte, Dante,
"nel mezzo del cammin di nostra vita", si ritrovò smarrito in quella "selva selvaggia"
dove ogni uomo, chiuso nella sua propria individualità, è natura incolta, la cui vita è
simile a quella delle bestie, delle piante e delle pietre. Svegliatosi dal sonno del suo
spirito, Dante tenta subito di salire il colle della felicità irradiato dal sole; ma ne lo
Divina Commedia 54
ricacciano al fondo le tre passioni che ribollono nel cuore di ogni uomo avanti l'opera
della ragione: l'invidia del bene altrui (Lonza), la superbia (Leone), frutto dell'antico
orgoglio ereditario, e la cupidigia o avarizia (Lupa), desiderio smodato di chi si pone a
centro di tutto. Dante è già lì per disperarsi, quando gli si fa sentire, dopo lungo silenzio,
la voce di quella ragione poetica (Virgilio) che ci ispira, portandoci a vagheggiare un
paradiso di felicità da conquistarsi sulla terra.
Nel dominio della conoscenza pratica del singolare e del contingente questa
ragione poetica, che è poi la voce della nostra coscienza, è quella che ci fa volere
direttamente i nostri fini particolari e concreti, mettendo la nostra ragione in grado di
cercare, di giudicare e di comandare convenientemente i mezzi. Essa fonda in noi il
dovere morale ed esige l'amore: amore della nostra vita e della vita dei nostri simili,
amore della nostra famiglia e della nostra patria e di tutta la società; poiché la società,
come formazione vitalmente operata dalla ragione nelle cose umane, è da amarsi come un
bene coessenziale all'uomo.
Virgilio, il poeta che cantò gli ideali di pace e di giustizia ai quali s'informò la vita
politica di Roma sotto Augusto - ideali eterni, immanenti alla storia umana nel suo
perpetuo divenire, perché eterne aspirazioni dell'anima -, simboleggia questa ragione
poetica, che è in noi una partecipazione creata della ragione eterna, creatrice e direttrice
dell'universo. Virgilio si offre a Dante come guida. Egli lo condurrà giù nell'inferno,
salirà con lui la montagna del purgatorio fino alla cima; e di lì, sotto altra guida
(Beatrice), Dante potrà ascendere al cielo di Dio.
Intanto Virgilio conforta Dante. Voce della sua coscienza, egli lo fa certo che non
potrà mancare, per la salvezza dell'Italia travagliata dalle discordie civili, un ordinatore
supremo (il "Veltro"); il quale, dotato di "sapienza e amore e virtù", riporterà tra gli
uomini la giustizia e la pace. Il viaggio di Dante, come esperienza reale strettamente
legata agli avvenimenti storici che la condizionano e dentro ai quali egli dovrà
conquistarsi la sua verità e la sua luce, s'inizia così in spirito di profezia, che è fede
ancora ingenua nella Provvidenza divina. Ma la Provvidenza divina, che in sé unisce la
giustizia, la misericordia e l'amore che Dio ha per tutte le sue creature, è la causa prima
dell'esperienza di Dante nel mondo delle anime. Una causa, che Dante conosce in se
stessa soltanto di riflesso, nello specchio delle perfezioni divine incarnate nelle "tre donne
Divina Commedia 55
benedette", che si curano di lui nell'alto dei cieli: la misericordia di Maria Vergine, la
"giustizia" di Lucia, che è la verità da lei conosciuta con gli occhi spenti, e l'amore, o
bellezza luminosa dell'essere spirituale, che Dante amò ed esaltò nella sua Beatrice.
Amando in Dante la realizzazione dell'idea divina che presiede al suo destino, le
tre donne beate pregano Dio per lui, smarrito, e si fanno mediatrici della divina grazia. E
Beatrice discende allora dal suo seggio di gloria e si presenta, luminosa in se stessa, ma
con gli occhi in lagrime, a Virgilio, che si trova nel Limbo, pregandolo di correre in
soccorso di Dante. E subito Virgilio ne esaudisce la preghiera per amore di quella
bellezza che rifulge in lei, una bellezza divina che non può non amarsi, perché è la
beatitudine e il bene supremo a cui tende ogni anima per impulso della sua stessa natura.
E Dante, per amore di questa bellezza, il cui ricordo gli è sempre vivo nell'animo, si fa
volontario discepolo di Virgilio ed esce con lui dall'universo dei corpi per entrare nel
mondo eterno dell'esistente.
Arte di Dio, che provvidenzialmente ci guida, suscitando in noi l'amore di quella
bellezza dell'essere, analogica e trascendentale, che di sé continuamente ci asseta e che
porta la nostra anima sempre al di là. Per questo amore, non solo noi ci sottomettiamo
con gioia alla legge o ragione naturale, che si esprime in noi come voce della nostra
coscienza, ma l'abbracciamo con amore e vi ci obblighiamo con una ragione, che,
assoluta in se stessa, è universalmente valida nelle stesse condizioni di esistenza per ogni
ragione.
La coscienza morale e religiosa di Dante, la cui voce ispirata conferisce alla
Divina Commedia una salda unità di tono e di accento, poggia su queste basi che si
materiano di scienza e di fede. Dante si avvia, dietro la guida di Virgilio, entro l'ordine
della vita morale, dove il mondo della natura e il mondo della grazia, pur essendo due
universi eterogenei, s'incontrano e si compenetrano; e si fa così giudice dei vivi e dei
morti, con una ragione illuminata dalla verità della fede. Ogni suo giudizio è perciò,
contemporaneamente, un giudizio morale e religioso, che si colora diversamente secondo
le prospettive spirituali a cui mira.
Nell'Inferno e nel Purgatorio il giudizio s'incentra sul mistero dell'uomo, e sul
dramma della sua vita di creatura di carne e spirito ordinata a fini temporali e spirituali,
ma con riferimento al fine eterno e soprannaturale. Nel Paradiso invece il giudizio
Divina Commedia 56
s'incentra sulla vita dell'uomo con i suoi fini naturali e temporali, ma ordinato
essenzialmente al fine soprannaturale e alla perfetta conoscenza di Dio. In tal modo
l'esperienza di Dante, dentro l'ordine della ragione naturale e delle virtù morali che
perfezionano l'amore e lo volgono al suo vero fine, è un'esperienza analoga a quella di
Enea, provvidenzialmente disceso agli Averni per trarne norme pratiche di vita civile, che
indirettamente si riferiscono al fine supremo. E dentro all'ordine soprannaturale della
carità e della grazia, che già sulla terra, con il corteggio armonico delle virtù acquisite e
delle virtù infuse, ci fa cittadini del cielo, l'esperienza di Dante è analoga a quella di san
Paolo, che ne trasse conforto alla vera fede.
Duplice esperienza, che Dante vive in quanto la prima è subordinata alla seconda,
e che gli fa conoscere i due fini a cui l'uomo è ordinato (Monarchia): la perfezione
terrestre e temporale dell'uomo come animale ragionevole, che nella vita politica o civile
ha la sua piena realizzazione, purché la viva, questa sua vita, in subordinazione essenziale
al bene spirituale ed eterno, che è il vero ultimo fine della persona umana.
L’Inferno. L’inferno è il regno delle tenebre, la "valle d'abisso dolorosa", dove
precipita la creatura umana, che negandosi alla vita della ragione e delle virtù ("vita
civile") si nega alla sua propria luce. Perduta la nozione dell'essere, che è il bene
dell'intelletto, e chiuso per sempre nella sua individualità materiale, l'uomo s'interna nella
vita egoistica delle sue passioni. Ma così esso non è più che un frammento, per quanto
distinto, dell'universo dei corpi, e ne subisce le leggi. Punto di intersezione di tutte le
influenze fisiche e cosmiche, vegetative e animali, l'uomo, come individuo, è un corpo
battuto dalla pioggia, travolto dal turbine della tempesta, martoriato dal fuoco. Le
immagini dantesche, che incorporano lo spirituale nel sensibile, ce ne rappresentano la
condizione. La natura umana si sprofonda sempre più nella materia, senza però sfuggire
alla legge dell'essenza. Negata in vita, questa legge riprende di là dal tempo i suoi diritti,
e si rivela in ogni anima come naturale inclinazione al bene, come amore di sé e della
propria vita, come amore della famiglia e della patria e della propria fama, come anelito
di pace e di giustizia e ricordo nostalgico del dolce mondo rallegrato dal sole.
Nell'Inferno il dolore scaturisce così dall'interna contraddizione che ogni anima vive nella
propria intimità, senza potersene dar ragione.
Divina Commedia 57
L'essenza universale della natura umana, le cui inclinazioni tendono al bene, si
trova in contrasto con la natura singolare di ogni individuo, tormentata dal fuoco
dell'antica concupiscenza, oppressa dal peso ereditario della prima colpa e agitata da tutte
le altre tendenze difettose e viziate. Mistero dell'essere umano che si contraddice e che
nelle varie fasi della sua situazione esistenziale, tipiche per i diversi momenti di civiltà,
Dante raffigura nel Veglio di Creta: immagine dell'uomo, il quale, per essenza, è ordinato
alla vita civile come a suo fine temporale, mentre, come stato di fatto, poggia su un
fragile piede di argilla. Di qui le miserie e le illusioni e le inevitabili cadute e il dolore
senza fine amaro, che si esprimono in lagrime silenziose di cui si alimentano, da secoli, i
fiumi infernali: Acheronte, Stige, Flegetonte e Cocito.
Poiché l'uomo, senza l'opera della ragione e delle virtù, che lo modellino
dall'interno e diano un volto alla discorde indeterminazione della sua vita passionale e
istintiva, rimane "terra incolta": quella terra selvaggia, a sterili lande di secca arena, a
selve nude di vegetazione, a rocce alpestri, brulle e discoscese, che costituiscono, in
un'atmosfera senza tempo tinta, il paesaggio dell'inferno dantesco. Dove manca l'azione
dell'uomo non ci può essere che natura selvaggia; e l'azione propria dell'uomo, ossia la
sua vera vita, è di far uso della ragione. Nell'inferno di Dante l'azione dei dannati è
sempre un'azione a vuoto, un'azione eternamente priva di ragione, che è il loro perenne
tormento. L'inferno è perciò il regno della morta gente. Dante e Virgilio ne varcano la
porta e, nell'oscura pianura che vi sta a vestibolo, scorgono gli "sciagurati che mai non fur
vivi": gli ignavi e gli angeli neutrali, costretti a correre dietro un'insegna, stimolati da
mosconi e da vespe. Disdegnati dalla misericordia e dalla giustizia divina, Dante li
guarda e passa. E subito s'apre al suo sguardo la "trista riviera d'Acheronte", sulle cui
rive, entro un lividore di luce autunnale, le anime cadono come foglie morte che si
staccano dall'albero, portate dal loro peso.
Passato il fiume sulla barca di Caronte, i due pellegrini approdano al primo
cerchio: il Limbo, da dove Cristo trasse i Patriarchi. Qui non pianto, ma sospiri. E’ il
luogo dei bimbi morti senza il battesimo; ed è pure la dimora, entro un nobile e luminoso
castello, di quanti onorarono scienza e arte, pur essendo privi della vera fede. Vi si
trovano i grandi poeti antichi (tra i quali Virgilio), che amarono la bellezza dell'essere e
furono già cristiani in speranza se non in possesso; e con loro sono gli altri "spiriti
Divina Commedia 58
magni", la cui perfezione di ragione, fuor dalla sfera delle verità rivelate d'ordine
naturale, fu luce che diradava le tenebre, ove il pensiero s'arrestava con l'ansia di
conoscere ancor più. Con il secondo cerchio comincia l'inferno propriamente detto: un
baratro, che si va restringendo di cerchio in cerchio fino alle dieci fosse di Malebolge, nel
cui diritto mezzo vaneggia un pozzo.
Al suo ingresso sta Minosse, terribile voce della coscienza, che giudica e
condanna. I peccatori sono perciò distribuiti nei singoli cerchi in ragione dell'interno
ordinamento dinamico delle loro facoltà vitali ("disposizioni"): incontinenza, malizia e
matta bestialità. Nei cerchi superiori, dal secondo al quinto, si trovano gli incontinenti,
nei quali l'essere spirituale, impotente a contenersi tutto, trasmodò e s'appoggiò alle
potenze della vita sensitiva. Nei cerchi inferiori, dentro la città di Dite, sono i "maliziosi":
libere volontà, che violando l'ordine della ragione e della natura, passarono al servizio
delle potenze affettive inferiori e dell'istinto. E dopo i maliziosi, sono i bestiali:
intelligenza posta al servizio di una volontà perversa, che si fece centro di tutto fino a
recidere, in una solitudine selvaggia, ogni legame spirituale con le altre volontà.
A governo dell'inferno, e quindi entro un piano provvidenziale, sono le forze
cieche della natura: le potenze oscure della materia, simboleggiate in mostri, e gli spiriti
del male, i diavoli.
Nel suo viaggio Dante vede le cose e le rappresenta con una fantasia la cui misura
è data dalla realtà empirica nelle sue note sensibili e materiali; ma è una realtà che serve a
introdurci nell'ordine dell'essere spirituale, che lì dentro si incorpora e lì dentro traluce e
si fa manifesto. Nel secondo cerchio i lussuriosi, anime vinte dalla passione carnale,
travolti da una bufera incessante; nel cerchio seguente i golosi, flagellati a terra da una
pioggia eterna, maledetta e greve, squartati e scuoiati da Cerbero, mostro dalle tre gole;
nel quarto cerchio i prodighi e gli avari, riuniti "per dritta opposizione", rotolano pesi e si
scherniscono a vicenda quando s'incontrano; nel cerchio seguente gli iracondi, immersi
nel fango della palude Stige, si percuotono bestialmente "troncandosi coi denti a brano a
brano", mentre gli accidiosi dal fondo del limo gorgogliano parole nell'acqua, sospirando
all'"aer dolce che del sol s'allegra".
Visioni penose, contemplate con occhi attenti, quasi dinanzi alla rivelazione di un
prodigio; ma di là dalla pura intuizione dei sensi, Dante poeta corre all'esistenza, e si
Divina Commedia 59
trova al contatto di anime che la esercitano e che gliela fanno conoscere nella sua verità
vissuta e nel suo mistero. E’ cioè l'essere umano, con i suoi segreti della conoscenza e
dell'amore, che Dante viene a conoscere par connaturalità nella misura stessa che egli
poeticamente lo vive e lo oggettiva in se stesso.
Nel cerchio dei lussuriosi Dante si commuove dinanzi a Francesca, una creatura
di bontà, che sospira invano alla sua pace, mentre si stringe appassionatamente al suo
Paolo e afferma ineluttabile quell'amore che pur l'ha condotta alla morte e all'eterno
affanno. Per amore di patria Dante si arresta, nel cerchio dei golosi, dinanzi a Ciacco, suo
concittadino, che gli parla, sdegnato e cruccioso, delle fazioni da cui è travagliata Firenze
e gli predice non lontano l'esilio. Ma contro l'orgoglioso Filippo Argenti, che vorrebbe
risollevarsi dal fango dello Stige, Dante scatta con ira e ve lo ricaccia dentro con aspra
fermezza.
La pena egli la desidera e la vuole e ne gode quanto più detesta nel peccatore il
male, e in ciò lo approva e lo benedice la voce della sua coscienza, Virgilio. Ma la
coscienza agisce solo come causa seconda, la quale presuppone la causa prima, che è
Dio. E Dio si fa presente a Dante, quando, varcato lo Stige sulla barca di Flegiàs, giunge
sotto le mura infuocate della città di Dite. I demoni stizzosi e tracotanti si oppongono a
Virgilio e gli vietano l'ingresso. E tuttavia Dante passerà. Un messo celeste arriva
infrangendo ogni ostacolo e con una verghetta apre meravigliosamente la porta, mentre
gli spiriti del male fuggono da ogni parte. L'esperienza di Dante nel basso inferno Dio
stesso la sollecita e la favorisce attivamente, perché necessaria e salutare.
Solo gettandosi sempre più a fondo nell'esistenza, con una conoscenza
sperimentale o poetica del dolore e della sofferenza e dei conflitti esistenziali, Dante
potrà, nella sfera dell'attività pratica, determinarsi meglio ai mezzi e agire in armonia con
se stesso. Nel sesto cerchio Dante costeggia una landa sparsa di tombe infuocate, dentro
le quali giacciono gli eretici. Credendo morta l'anima col corpo, essi s'affidarono
esclusivamente alla loro volontà e ne fecero la misura di tutte le cose. Soggettivismo
inconsapevole, cha si nega alla piena intelligenza della realtà e le si sovrappone con
violenza. Tra costoro è il magnanimo Farinata degli Uberti. Uomo di parte, egli amò
appassionatamente la sua patria e la difese a viso aperto; ma praticamente, con un'azione
che fu l'azione della sua parte, lasciò dietro di sé un solco incolmabile di odi e di
Divina Commedia 60
vendette. Di qui nasce lo scontro violento con Dante, che vive pure lui come uomo di
parte la stessa contraddizione e che ne esperimenterà le conseguenze con la pena d'esilio
che Farinata stesso gli predice. Senza la carità non c'è né vero amore di patria né vero
amore per i figli: poiché è soltanto orgoglio l'affetto che Cavalcante dei Cavalcanti, un
altro eretico, nutre per suo figlio Guido. Senza la carità, che perfeziona l'amore naturale
di noi stessi e lo indirizza al suo vero fine che è Dio, la volontà umana non può stabilirsi
saldamente nel bene a cui tende. Fatalmente essa degrada dal suo ordine e passa al
servizio delle potenze affettive inferiori dell'istinto.
L'unificazione completa della vita umana, come ragione e senso, resta così
preclusa e nell'uomo, accanto all'animale ragionevole, si pone il bruto. Ne è figura
esemplare il Minotauro, preposto al cerchio settimo, dove sono puniti i ribelli a Dio,
creatore dell'ordine naturale e legislatore supremo. Dante vi cala per un'alpestre ruina e lo
attraversa nei tre gironi concentrici in cui esso si distingue. I violenti contro il prossimo e
le sue cose, tiranni e omicidi, sono tuffati nel sangue bollente del Flegetonte, lungo le cui
rive corrono, fiere agili e snelle, i Centauri. Simboli di quella ragione naturale che
l'animale subisce, ma a cui l'uomo partecipa per modo di conoscenza razionale, i Centauri
saettano chiunque "si svelle dal sangue" più che non gli consenta la sua colpa. Di là dal
Flegetonte si stende un bosco selvaggio, nudo di foglie e scheletrito, dimora delle Arpie
che ne dirompono i rami: desolata e gemente germinazione delle anime dei suicidi, le
quali, strappandosi al corpo, s'incarcerarono come piante nella loro propria natura.
Inseguiti da cagne fameliche e veloci, fuggono per il bosco gli scialacquatori, che
giocando rischiosamente si affidarono alla sorte e al caso. Insieme con i loro averi essi
dissiparono la sostanza della loro persona morale e divennero facile preda delle
discordanti postulazioni dell'istinto. Più oltre ancora si apre una landa arenosa, sulla quale
grava un'atmosfera immobile e scende dal cielo il fuoco a larghe falde. Qui, supini a terra,
giacciono i bestemmiatori di Dio; corrono precipitosamente senza posa coloro che
nell'ordine dell'agire operarono contro natura (sodomiti); stanno seduti, e si schermiscono
dal fuoco come i cani dalle vespe, coloro che nell'ordine del fare non misero luce se stessi
con quell'arte che s'ispira alla natura nelle loro operazioni (usurai). Paesaggi d'orrore:
scene luttuose di tormenti e di tormentati; miserie e dolori della nostra natura inferma e
decaduta si presentano allo sguardo di Dante. La volontà, che di sua natura è ordinata al
Divina Commedia 61
bene, è quella ancora che, sotto l'influsso di una passione dominante o di un vizio,
travolge l'uomo e lo atterra, si fa in lui motivo di eterno dolore.
Così è l'amore della giustizia nel suicida passionale Pier della Vigna; così è
l'amore di se stesso, accecato dalla superbia, in Capaneo, il quale bestemmia Dio, fine
naturale di questo suo amore; così è l'amore del bene morale in Brunetto Latini, che tra i
sodomiti si vergogna di fronte al suo discepolo Dante, ma solo per tornare a esaltarsi,
esaltando idealmente in lui questo bene, ed essergli ancora maestro; così è l'amore di
patria nei tre nobili fiorentini, i quali, macchiati dello stesso peccato, ascoltano con dolore
Dante che parla loro della decadenza morale di Firenze.
In groppa di Gerione, il mostro alato che è simbolo della frode, Dante cala
nell'ottavo cerchio di Malebolge: dieci bolge o fosse circolari, concentriche, dove sono
dannati i frodolenti, coloro che usarono la frode con chi non aveva particolare ragione di
fidarsi di loro. Vi si trovano i seduttori e i mezzani, frustati terribilmente dai diavoli; gli
adulatori, ravvolti nello sterco; i simoniaci, capofitti in fori di pietra dalle cui aperture
agitano solo le gambe con i piedi accesi; gli indovini e i maghi, che camminano a ritroso
con la faccia dalla parte delle reni; i barattieri, tuffati nella pece bollente e vigilati dai
demoni; gli ipocriti, rivestiti di cappe di piombo dorate di sopra, gravi e stremanti nel loro
incedere; ladri, morsicati e legati da serpenti nei quali si tramutano, mentre i serpenti si
tramutano a loro volta in figure umane; i consiglieri frodolenti, chiusi in fiamme dentro le
quali si muovono; i seminatori di scandali e di scismi, lacerati e mutilati da una spada del
demonio; i falsari di metalli, di persona, di moneta e di parola, che si presentano come
figure di rognosi e di arrabbiati, di idropici e di assetati febbricitanti.
E’ questo il mondo inumano dell'intelligenza, che nell'ordine dell'agire si pone al
servizio di una volontà perversa, sempre pronta all'offesa e alla difesa. Intelligenza
pratica, che al contatto dell'azione giudica immediatamente il da farsi, secondo le cattive
intenzioni o disposizioni della volontà. E’ l'intelligenza di papa Niccolò III, che nella
bolgia dei simoniaci pensa sia giunto Bonifazio VIII a occupare il suo posto; è la pronta
intelligenza di Ciampolo di Navarra, che nella bolgia dei barattieri inganna i diavoli e li
fa azzuffare tra loro; è l'intelligenza maligna dei Malebranche, che insidiano Dante e lo
fanno tremare di paura; è l'intelligenza bestiale di Vanni Fucci, che, scoperto da Dante fra
i ladri, si dipinge in volto di triste vergogna e per dispetto gli predice oscuramente i danni
Divina Commedia 62
della sua fazione. Dante osserva e si compiace di cogliere gli aspetti comici e triviali di
questa intelligenza pratica, che fa l'uomo simile al serpente, e di qui la figura di Gerione.
Ma nella bolgia dei consiglieri frodolenti egli ascolta attento il racconto dell'ultimo
viaggio di Ulisse, l'eroe che nell'ordine della volontà trascura gli interessi della sua anima
per darsi alla gioia del puro conoscere: intelligenza aperta alla conoscenza delle cose, ma
per la quale le cose diventano uno spettacolo che la assorbe e l'attira e la travolge.
E’ la sorte di Guido da Montefeltro, che racconta le astuzie di papa Bonifazio VIII
e se ne dice la vittima inconsapevole, mentre di quelle astuzie intellettualmente gioisce e
se ne serve ai suoi propri fini. Ma l'intelligenza volta verso l'altro in quanto è l'altro, come
puro oggetto di conoscenza, è l'anima degli insulti che si scambiano tra loro i dannati di
queste bolge, smascherandosi con una sincerità cinica e triviale. E’ il deforme e l'informe
della materia che affiora. E’ la sincerità che risolve l'essere umano nelle discordanti
richieste dell'istinto, una sincerità della quale Dante può sorridere, non senza che la sua
coscienza, Virgilio, si ribelli. E’ insomma l'essere umano che si sprofonda più nella
materia prima: e ne sono simboli i mostruosi giganti, masse brute e inerti che di mezzo la
persona torreggiano la proda del pozzo di Malebolge. Uno di essi, Anteo, cala Dante al
fondo del pozzo, dove, infitti nel ghiaccio del Cocito, sono puniti i traditori dei congiunti,
della patria, degli ospiti e dei benefattori.
Sono essi i negatori bestiali di quell'umana civiltà che è "forma della ragione" e
senza la quale non possiamo né vivere né convivere umanamente. Imprigionati nel
ghiaccio e nel silenzio, la loro esistenza è simile a quella delle pietre; e il loro tormento
non ha parole. E’ il muto dolore di Bocca degli Abati, che a Montaperti tradì la parte
guelfa e che a Dante non vuole per vergogna rivelare il suo nome. E’ il dolore del conte
Ugolino, il traditore della patria, che s'accanisce bestialmente sul corpo di colui che a sua
volta lo ha tradito; e che dà voce all'istinto della paternità ferita, mentre colorisce la
ferocia dell'arcivescovo Ruggeri narrando la propria morte e quella dei suoi figli nella
torre della fame. Giustizia inumana, senza distinzioni, che suscita in Dante l'ira e lo
sdegno, insieme col desiderio di un'eguale giustizia su Pisa, vituperio dell'Italia. Al centro
dell'universo, nel punto più lontano da Dio, Dante vede Lucifero, materiale trinità del
cieco abisso, mostro dalle tre facce, che lagrima da sei occhi, mentre maciulla in ciascuna
delle tre bocche un peccatore: Giuda, traditore di Cristo, e Bruto e Cassio, traditori di
Divina Commedia 63
Cesare. Negatori, il primo, di quella ragione divina che è in noi la carità, e gli altri, di
quella ragione naturale che ci guida e che fa dell'uomo, terra incolta, la terra umana
coltivata dalle virtù e dalla diritta ragione. Aggrappandosi ai peli di Lucifero, i due poeti
passano il centro della terra e per un cammino ascoso salgono, nell'emisfero opposto, a
rivedere le stelle.
Il Purgatorio. E’ una montagna aspra e scoscesa, che dal gran mare dell'essere "si
dilaga inverso il cielo più alto". E’ la terra umana che, santificata da Cristo nel suo fondo
permanente, che è l'anima, si edifica dall'interno su se stessa e sotto il cielo delle virtù
cardinali e teologali coglie alla sua propria cima (Paradiso terrestre) i fiori della pace e
della contemplazione, in conformità delle esigenze e dei destini propri alla natura umana.
Questa montagna va restringendosi sempre più d'ampiezza quanto più s'avvicina al suo
culmine; ed è risegata sui fianchi da balzi o cornici circolari, dove si purgano le anime.
Siamo nel mondo metafisico dell'essenza graduata, dove ogni anima diversifica i
suoi valori di conoscenza secondo il fine che la divina Saggezza le ha assegnato, perché
cooperi attivamente a quella vita sociale o civile il cui fine, di ordine naturale, è il bene
temporale o terrestre: svolgimento innanzi tutto morale e svolgimento delle attività
speculative e pratiche (artistiche ed etiche). Il purgatorio è perciò il regno della libertà,
intesa come assenza di ogni costrizione: libertà di scelta tra i mezzi che conducono al
fine, essendo, in ogni essere creato, quello prestabilito da Dio creatore. Di questa libertà,
che è propria della persona umana ordinata a Dio, e che postula fuori di sé una legge
positiva che la difenda e la guidi, è simbolo concreto la figura di Catone, posto a custodia
del purgatorio. Ed è lui, che nell'alba fresca e rugiadosa dell'arrivo, sotto il cielo azzurro
nel quale splendono l'astro di Venere e le quattro stelle delle virtù cardinali, addita a
Dante la via da seguire, purché la percorra, umilmente servendo, con occhio chiaro e con
affetto puro.
Il purgatorio è infatti il mondo umano di quell'amore umile e fraterno, dove Dio è
amato nella bontà delle sue creature, per l'idea divina che ciascuna di esse realizza e per
la gloria che ciascuna di esse è chiamata a dare a Dio. In lunga schiera, su una navicella
guidata da un angelo, arrivano dal mare le anime esultanti, destinate all'espiazione e alla
salvazione: e tra loro Dante riconosce un suo amico, Casella. Gioia dell'incontro: ritmo
interiore, vita dello spirito, la quale anela a espandersi e a comunicare. Casella canta una
Divina Commedia 64
canzone di Dante e alle sue note tutte le anime sono rapite ma Catone interviene e
rimprovera il loro indugio e li sprona a salire.
L'amore che ragiona nella mente è la prima perfezione dell'anima, ma non basta.
Bisogna che essa agisca, perché soltanto l'attività la fa migliore e la congiunge ai suoi
fini. La salita di Dante su per l'aspra montagna e sotto la guida della sua coscienza,
Virgilio, è l'attuazione di tutta la perfezione insita nel suo essere stesso. E’ cioè l'esistenza
che egli s'appropria con un'attività che lo perfeziona e lo finalizza nella linea stessa della
sua costituzione specifica. La sua esperienza, che si fa scienza degli atti umani e della
libertà, lo porta a ben giudicare sul da farsi in rapporto a quella che è la diritta
inclinazione della sua volontà, nel dominio del particolare e del contingente.
Ai piedi della montagna, fuori del purgatorio propriamente detto, Dante incontra,
in temporanea dimora, le anime di coloro che vissero scomunicati e, tra essi, Manfredi di
Svevia. Su per i balzi egli trova, seduti neghittosamente all'ombra di massi, i pigri a
pentirsi, come Belacqua, e, per la costiera petrosa, vede camminare cantando il Miserere
quanti morirono di morte violenta, come Iacopo del Cassero, Buonconte da Montefeltro e
la Pia, dolce anima di donna amante che per il marito crudele conosce soltanto la parola
del perdono.
Col pentimento e per opera della misericordia di Dio, tutte queste anime
instaurarono in se stesse, ma solo in punto di morte, lo stato di grazia, principio del loro
merito nell'ordine della salute. E da questo stato di grazia esse contemplano la loro vita
terrena e ne giudicano gli errori e le colpe mentre esaltano in Dio la bontà del perdono:
quella stessa bontà che Dio infonde loro e che le porta a perdonare ai loro nemici e a
sentirsi al di sopra delle offese ricevute e delle ingiustizie patite. Poesia degli affetti
umani, la cui mite e soave dolcezza scaturisce dall'interna verità che esse vivono con
gioia. Poesia che Dante respira nell'atmosfera spirituale che lo avvolge e che costituisce
la sua stessa esperienza; perché lo porta a guardare con sorridente indulgenza le
debolezze altrui, sentendole come un peso comune che grava sulla nostra volontà e al
quale molto spesso cediamo. Tale è l'esperienza di Dante, che si ferma in amichevole
colloquio col pigro Belacqua. Tutte le anime che egli incontra man mano che sale lo
pregano di essere ricordate alle persone care rimaste sulla terra, perché ne abbiano
Divina Commedia 65
conforto al loro dolore e perché a loro volta, con la preghiera, vogliano quel bene che Dio
vuole per tutti da tutta l'eternità.
Amore fraterno, che per amore di Dio collega tra loro i vivi e i morti e chiede
l'unione degli spiriti e dei cuori; e che trova la sua espressione tangibile nell'incontro di
Sordello da Mantova. Al solo nome della terra natia, Sordello abbraccia, prima ancora di
conoscerlo, il suo concittadino Virgilio. La scena strappa a Dante un'aspra invettiva
contro la "serva Italia", non governata secondo ragione e divisa dagli egoismi e dagli odi
e dagli interessi materiali. Carità di patria, in cui l'amore fraterno si sublima.
Nel purgatorio si sale entro la luce che piove dall'alto; e senza quella luce ci si
arresta. E questo perché l'amore fraterno, che stringe fra loro gli spiriti, attinge dalla
carità che vien dal cielo la sua fonte di vita. Senza la carità le virtù morali non bastano.
Esse producono i loro fiori, ma tra i fiori s'insinua occulto il serpente dell'orgoglio. Tale,
in delicata figurazione d'idillio, è l'idea creatrice che Dante realizza nella valletta fiorita,
dove si radunano i principi che vennero meno alle finalità naturali del loro dovere di
reggitori di popoli. Sordello li addita, questi principi, dalla cima di un balzo; e tra loro
conduce Dante quando la notte cade. Malinconia di un'anima che si sente sola e che
prega, mentre su nel cielo si affacciano le tre stelle delle virtù teologali. Sotto la custodia
degli angeli discesi dal cielo - le buone ispirazioni venute da Dio - Dante s'addormenta. E
in sogno, per quella giustizia che Lucia gli impetra da Dio, egli viene trasportato in alto,
oltre la sfera del fuoco, fino all'entrata del purgatorio propriamente detto: che è il regno di
quella verità spirituale che si conosce in quanto la si vive, e che si vive con gli occhi
chiusi della fede. Verità di Lucia, verità di quel naturale amore di noi stessi che, unendoci
con Dio autore di ogni bene, ce ne fa seguire la legge: una legge Sua, ma che diventa la
nostra e il nostro più profondo anelito vitale.
L'ordinamento morale del purgatorio è fondato sulla libera attività di questo
amore naturale, che è in noi una partecipazione creata dell'amore che Dio ha per se stesso
in virtù della propria perfezione. Dalla nostra libertà dipende di allentarne o frenarne lo
slancio o anche di volgerlo al male. Un tale amore è perciò principio in noi "d'ogni virtute
e d'ogni operazion che merta pene". Dal punto di vista dei valori umani e della posizione
dell'atto libero a cui tutto è subordinato da parte del soggetto, i disordini dell'amore
naturale, che è poi la ragione poetica della nostra vita profonda, si riducono ai sette
Divina Commedia 66
peccati capitali. Questi peccati, in ordine decrescente di gravità, sono puniti nelle sette
cornici del purgatorio.
Innanzi tutto la superbia, l'invidia e l'ira, per cui l'uomo, amando eccessivamente
se stesso, vien meno al bene comune: al bene della vita civile o politica, al quale egli è
naturalmente ordinato. Ma nell'ordine del bene morale, considerato in se stesso, nella sua
esistenza singolare, e perciò perseguito dal soggetto o con poco o con troppo di vigore,
tengono dietro gli altri peccati capitali: accidia, avarizia, gola e lussuria. Nel dominio
dell'attività pratica, dove la volontà piega l'intelligenza a suo piacere, l'uomo non può
giudicare rettamente sul da farsi se non quando il naturale amore di noi stessi non sia
rettificato fondamentalmente dalla prudenza e dalle virtù morali, che si contrappongono a
ciascun peccato: umiltà, carità, mansuetudine, continuo sforzo interiore, misura,
temperanza e purezza.
Il purgatorio dantesco è la traduzione in termini fantastici dell'arte mediante la
quale Dio, operando in ogni creatura come conviene alla natura che le ha dato, causa
negli spiriti l'azione dello spirito, con la spontaneità e l'interiorità e la libertà che conviene
alla loro natura. Con la sua arte, che è già la vita stessa delle anime purganti, Dio le
illumina nell'intelligenza e le conforta nella volontà con "esempi" che esaltano la virtù
morale opposta al peccato che esse scontano, oppure ricordano come in altre anime sia
stato punito il loro stesso peccato. E gli "esempi" sono il "visibile parlare" delle figure
scolpite sul piano o sulla ripa, o le visioni create dall'estasi stessa o i canti delle anime,
che per amore di Dio si spronano e si sostengono vicendevolmente nella loro pena.
Solidarietà spirituale, che Dio consacra e benedice per i cuori che egli ha voluto fratelli. E
mistero delle anime, la cui vita è una vita con Dio. Mistero della loro attività immanente,
poiché la bontà della creatura è la stessa bontà di Dio che la infonde in lei, mentre essa a
sua volta, questa stessa bontà, la invoca da Dio, padre comune, e si porta a lui sulle ali
della speranza. In tal modo la poesia del purgatorio dantesco, tutta pervasa di sacro ardore
e soffusa di tenera malinconia, ha il tono e l'accento della preghiera cristiana.
Poesia dell'umana bontà, che si umilia esaltando nell'autore di ogni bene il bene
che già essa possiede per grazia, e che pur anela di possedere in pieno. In tal modo
l'esperienza di Dante, che dentro di sé approfondisce sempre più quell'amore fraterno che
lega tutte le anime fra loro, non è che una continua ascesa del suo spirito, perché la legge
Divina Commedia 67
del bene, imponendosi alla sua volontà, lo fa sempre più amico di Dio. L'azione di Dante,
che è poi la sua stessa salita, è ancora per ciò un'azione di Dio. E Dio stesso lo conforta
nel suo aspro cammino, sia con gli angeli che gli cancellano dalla fronte le ombre del
peccato, sia con gli angeli che intonano i versetti delle "beatitudini" evangeliche,
avvivando in lui, come in ogni anima, l'amore della propria purificazione.
Ma l'ascesa di Dante, su per la montagna, dentro un paesaggio che è tutto una
serena aspirazione al cielo, è una ascesa continua, non solo del cuore, ma anche
dell'intelligenza. E’ la conquista progressiva della sua persona morale, che si libera in lui
delle miserie dell'individualità materiale, con le sue vanità e il suo regime naturale di
rivalità e di opposizione.
Tra i superbi che nella prima cornice procedono curvi e rannicchiati sotto gravi
massi, Dante vede, anche a suo proprio ammonimento, il conte Umberto Aldobrandeschi;
e nelle parole di Oderisi da Gubbio, che accenna allo sfiorire rapido della fama terrena,
egli già vive rassegnato anche il futuro oblio della sua fama di poeta.
In Provenzan Salvani egli riconosce la forza di quella bontà generosa che ci ispira
e che, dopo aver vinto in lui la superbia, canta a gloria di Dio. Bontà dell'essere, che si fa
opaca a se stessa quando nell'agire mira soltanto a interessi individuali o materiali. Tale,
nella seconda cornice, tra gli invidiosi che a ciglia cucite s'appoggiano l'un l'altro,
riconosce la senese Sapia, dispettosa verso i suoi concittadini. E tali precisamente sono
gli abitatori della valle dell'Arno, a giudizio di Guido del Duca e di Ranieri da Calboli,
che deplorano il tramonto delle virtù cavalleresche nella loro Romagna. Ma la presente
corruttela del mondo non si deve alla natura dell'uomo, essenzialmente buona; la si deve
bensì alla mancanza di una salda armatura morale che lo sorregga e lo guidi. E’ questo il
pensiero di Marco Lombardo, che Dante incontra nella terza cornice, tra gli irosi avvolti
da un densissimo fumo. Le leggi ci sono: l'uomo è ordinato, come individuo, al bene
comune della città e, come persona, al bene spirituale ed eterno; ma nessuno fa valere
queste leggi per la confusione che regna presentemente tra le due supreme potestà:
Chiesa e Impero.
Per la sua natura di animale ragionevole l'uomo è infatti ordinato al bene morale e
razionale; e deve volerlo sotto pena di perdere la sua ragione d'essere. Deve, perché la sua
coscienza gliene promulga il dovere. Per questo gli accidiosi, puniti nella quinta cornice,
Divina Commedia 68
sono costretti ad agire con sollecita cura e in movimento continuo. Se il diritto del bene a
essere amato in se stesso e praticato risponde all'ordine essenziale delle cose, il suo
fondamento supremo riposa in Dio, creatore dell'ordine, sommo bene e giustizia suprema.
Nella quinta cornice, tra i prodighi e gli avari, papa Adriano dichiara a Dante che,
giunto ai sommi onori, sentì che "lì non si quietava il core": il bene cui anelava era Colui
che per il bene l'aveva creato. E Ugo Capeto, dopo aver discusso sulle origini della sua
famiglia e sulle fosche gesta dei suoi discendenti, da Carlo d'Angiò a Carlo di Valois e a
Filippo il Bello, sente dentro di sé necessari e dominatori i diritti della giustizia e la
invoca da Dio. Improvvisamente tutta la montagna del purgatorio sussulta: un'anima è
ormai purificata e sale al cielo. Da tutte le parti s'alza il canto di Gloria in excelsis: amore
di carità, che stringe tra loro tutte le anime e che si esalta esaltando in Dio il sommo bene
e la somma giustizia. Quest'anima divenuta degna del cielo è quella del poeta latino
Stazio. Egli dichiara nel suo colloquio con i due poeti di dovere a Virgilio la prima
ispirazione che l'ha condotto poi a questa sua sorte beata. Virgilio aveva cantato il ritorno
dell'antica età dell'oro, l'avvento di una nuova umanità in un mondo di giustizia e di pace.
La realtà di questo sogno poetico Stazio l'aveva riconosciuta vera seguendo la
fede cristiana; e a Virgilio si confessa grato per il buon avviamento. E siccome Virgilio
gli ha additato il presente, Stazio s'inginocchia dinanzi a lui; cioè s'inchina dinanzi a
quella ragione poetica, d'ordine naturale, che viene da Dio, artefice della natura, e che ci
porta a sognare un mondo di pace e di felicità, di giustizia e di amore da conquistarsi
sulla terra. Aspirazioni della nostra coscienza e affetti eterni, perché eterna ne è la
sorgente: fioritura lirica della nostra anima, che, come Stazio spiega, è "forma" del corpo;
principio di vita e di passione concesso da Dio, primo motore, a tutta la materia. Le
perfezioni dell'intelligenza e della volontà, facoltà spirituali dell'anima, sono, nell'ordine
dell'agire, la saggezza e, nell'ordine del fare, l'arte. E saggezza e arte sono ciò che Dante
vive e di cui parla nella cornice sesta, dove si purificano i golosi, ridotti a pietosa
magrezza. Qui egli incontra Forese Donati, l'antico compagno di piaceri e di errori; e
tutt'e due, felici di ritrovarsi insieme lassù, si richiamano velatamente al loro passato,
mentre i ricordi familiari si riaffacciano dolci e teneri alla loro memoria e sulle labbra
riecheggiano i nomi delle persone care e delle creature pure, amate e ammirate come la
parte migliore della loro anima. Saggezza che contempla le cose in libertà, perché le vede
Divina Commedia 69
dall'alto; il che porta Forese a esaltare la sua buona moglie che prega per lui e a inveire
contro le sfacciate donne fiorentine e a prevedere la triste fine di Corso Donati.
E ancora in questa cornice, rispondendo a una domanda di Bonagiunta da Lucca,
Dante pone a regola suprema dell'arte quel diritto amore ("ordo amoris") che informava
la lirica giovanile del "dolce stil novo". Ma nel canto d'amore la perfezione dell'arte è la
bellezza dello stile, quella bellezza d'immagini che Dante ha ammirato nei versi del
"maestro suo", Guido Guinizelli, e del trovatore Arnaldo Daniello, i due poeti che nella
cornice ultima, quella dei lussuriosi, sono purificati nel fuoco. Anche Dante, guidato e
spronato affettuosamente da Virgilio, passa attraverso le fiamme. Ormai egli è sulla scala
che porta al Paradiso terrestre.
Alla vita sociale o attiva seguirà la vita contemplativa: a Lia seguirà Rachele, le
due donne che Dante, addormentato su un gradino della scala, tra Virgilio e Stazio, vede
in sogno, dopo aver chiuso gli occhi alle stelle scintillanti, più luminose nel cielo.
L'insegnamento di Virgilio, come scienza degli atti umani e della libertà è finito. Sotto la
sua guida sapiente - ispirazione naturale e arte, che è il "bello stile" della ragione pratica -
Dante si è conquistato la rettitudine della volontà, instaurando contemporaneamente in se
stesso la sua somiglianza a Dio e la conformità alla sua propria natura, perdute col
peccato. Egli è una "persona", un "per sé" sussistente, un "per sé" operante, capace di
trascendere con la sua intelligenza il mondo della realtà sensibile e attingere l'essere in se
stesso, nella sua universalità.
Il Paradiso terrestre. Sotto un cielo senza confini l'alta montagna del purgatorio
distende la sua cima in verdeggiante pianura. Virgilio si congeda commosso dal suo
discepolo. La perfezione della saggezza, che è il possesso della verità, non può venire a
Dante da lui. Virgilio lascia la parola all'anima di Dante, che s'avanza nella pianura e
s'inebria contemplando. Letizia spirituale della sua intelligenza, che assapora la bellezza
luminosa delle cose nel quadro di una natura sapientemente ordinata e tutta consonanze e
armonie.
Ma allora, con un movimento spontaneo dell'intelligenza che contempla, mentre il
cuore s'umilia per esaltare, Dante si porta a una Saggezza superiore che tutto ordina e
dispone, a Dio creatore, causa prima della bellezza di quanto esiste. E’ un primo atto di
giustizia reso a Dio. Perfezione ultima della saggezza umana, che si fa guida a Dante nel
Divina Commedia 70
Paradiso terrestre, e che egli raffigura in Matelda: la saggezza dei libri sacri, dove essa
appare come creata e increata, identificandosi a Dio ed essendone la prima creatura
(Convivio). Matelda dà ragione a Dante della forma del Paradiso terrestre, dei suoi due
fiumi, il Lete e l'Eunoè, e della caduta del primo uomo; e quindi lo porta a contemplare,
con un primo sguardo di fede, la saggezza divina che veglia all'esecuzione del suo piano
provvidenziale, assistendo gli uomini in viaggio verso l'eternità per mezzo dei santi del
cielo e per mezzo degli angeli. "Credo nello Spirito Santo, nella santa Chiesa cattolica,
nella comunione dei santi, nella resurrezione della carne e nella vita eterna", questo è il
motivo che Dante oggettiva nella processione mistica, contemplata con occhi attoniti e
attenti. La processione s'avanza in forma di croce sullo sfondo di una natura la cui
bellezza Dante sa essere figlia del Verbo, e si dispiega dentro un'atmosfera vibrante di
luci, corsa da melodie ed esultante di canti. Misteri della fede, che si presentano in
simboli avvolti di mistero: i doni dello Spirito Santo; il mistero dell'Incarnazione divina,
ultimo termine di tutte le promesse dell'Antico Testamento; il corpo mistico della Chiesa
(il carro tirato dal Grifone alato); ossia la Chiesa come società spirituale nella quale
discende da Dio, per Maria Vergine mediatrice e per il Cristo redentore, un influsso
soprannaturale di luce e di amore, che trasmette a tutte le anime i doni dello Spirito Santo
e l'amore di carità, vincolo di perfezione che stringe tra loro, unendoli a Dio, i fedeli della
terra, le anime del purgatorio e i santi del cielo e gli angeli.
Perfezionando nell'uomo le virtù cardinali (le quattro virtù a destra del carro), che
lo ordinano alla vita sociale o civile, suo fine naturale, la carità s'impadronisce della vita
intima dell'uomo e la fa corrispondere alle virtù teologali (le tre virtù a sinistra del carro),
e al suo fine soprannaturale. In tal modo egli diventa effettivamente concittadino dei santi
e domestico di Dio. La processione s'arresta. Ed ecco che dal sommo della città di Dio
discende, dentro una nuvola di fiori, gettati dagli angeli, Beatrice beata, la santa che
veglia per la salute di Dante, amando in lui una natura capace di ricevere la grazia di Dio.
Velata di bianco, cinta d'oliva, in verde ammanto, e con veste color fiamma, Beatrice si
posa sul carro della Chiesa; e Dante, che la riconosce, sente dentro di sé ravvivata la
fiamma dell'antico affetto (Vita Nuova). E ne vuol parlare a Virgilio; ma Virgilio,
"dolcissimo padre", è scomparso.
Divina Commedia 71
Trascolora ormai la ragione poetica che parla nell'anima di Dante. Con un ritorno
improvviso agli anni felici della sua giovinezza, ma con l'esperienza in più, egli torna ad
amare in se stessa la bellezza spirituale di Beatrice, come raggio della bellezza divina
partecipata, un lontano riflesso del Verbo di Dio creatore. Dante non può sottrarsi al
pianto per la scomparsa di Virgilio; ma subito lo scuote l'alto rimprovero di Beatrice, per
aver egli obliato tale bellezza quando essa era diventata più fulgida e più pura.
Maternamente, in spirito di carità, ella gli rammenta le buone promesse della sua "vita
nuova" e i traviamenti che non le hanno annullate, perché esse erano felici disposizioni di
natura a realizzare l'idea divina che avrebbe dovuto e potrà ancora attuare. Dante confessa
le sue colpe e piange il tempo invano perduto.
Tuffato da Matelda nel Lete, egli rinasce dall'acqua alla vita della grazia ed entra
nella città di Dio. Le quattro virtù cardinali, che sono virtù acquisite o ninfe nel Paradiso
terrestre e virtù infuse o stelle nel cielo, lo mettono in grado, insieme con le tre virtù
teologali, di vedere la seconda bellezza di Beatrice: la bellezza dell'essere spirituale in
stato di grazia, e perciò "splendore di viva luce eterna". E’ cioè la bellezza della santità,
nella quale si rispecchia la bellezza divina e umana del Verbo incarnato. La processione
mistica riprende il cammino, ripiegando verso oriente da dove è venuta; ma si sofferma
presso l'Albero della vita spirituale, la cui chioma spazia e si amplifica sempre più nei
cieli quanto più sale e vi si sprofonda.
La volontà di Dio, semente in noi d'ogni giustizia, era significata da questo albero,
reso sterile dalla disobbedienza di Adamo. Non appena Cristo (il Grifone) vi lega, con gli
stessi rami dell'albero, la croce (il timone del Carro della Chiesa), l'Albero della vita
spirituale rifiorisce, nei colori dell'ametista, i colori della carità, che sopraeleva con le
virtù morali infuse le virtù morali acquisite in relazione ai fini eterni della persona
umana. Dio infatti ci ha creati a sua gloria, ma per la nostra glorificazione. Cristo (il
Grifone) ascende al cielo, mentre sul nudo terreno della grazia, quasi a custodia del Carro
della Chiesa, resta Beatrice: la saggezza cristiana dei santi, che vivifica alle radici
l'Albero della vita spirituale, vivificando nell'ordine di esercizio tutte le virtù dell'anima,
cardinali e teologali, con i doni dello Spirito Santo. Contemplato così in simboli l'ordine
del piano provvidenziale, che la Saggezza divina ha stabilito per il governo delle anime,
Beatrice mostra a Dante come si pecchi contro Dio, non rispettando (prime persecuzioni
Divina Commedia 72
cristiane) l'Albero della vita spirituale, ossia la persona umana ordinata essenzialmente al
fine soprannaturale; e come si pecchi contro la verità, non riconoscendo (eresie).
Sovvertimento dell'ordine provvidenziale fu la donazione di Costantino
(Monarchia), per la quale entrò nella Chiesa militante lo spirito di cupidigia: il Carro si
trasforma in mostro e su di esso una meretrice (la Curia romana) delinque con un gigante
(Filippo il Bello). Ma la Provvidenza divina veglia e l'ordine sarà presto ripristinato: la
cupidigia, che infranse il "sacro vaso" della Chiesa di Cristo, sarà punita in chi ne ha
colpa; la monarchia universale avrà finalmente un suo rappresentante, che ne farà valere
gli imprescrittibili diritti; e verrà il "messo di Dio" (DUX), per il quale trionferà nella
Chiesa la carità e nella città terrena la giustizia. La saggezza di Beatrice - saggezza dei
santi, che è un confidente abbandono alla Provvidenza divina - è quella che conforta
Dante. Insieme con Stazio egli beve quindi l'acqua dell'Eunoè e, rinato allo Spirito, si
trova "puro e disposto a salire alle stelle".
Paradiso. E’ la vita eterna cominciata nel tempo, la vita soprannaturale della
grazia, che Dante vive in cammino di perfezione verso l'eterno. Sopraelevando dal
profondo la sua natura, la grazia santificante lo proporziona progressivamente alla
beatitudine soprannaturale, che è la visione dell'essenza divina; e ve lo proporziona in
quanto Dante, per la sua stessa natura intellettuale, vi è proporzionabile, cioè si trova in
potenza passiva di essere innalzato dalla grazia a tale proporzione. Dopo aver mirato per
un attimo la luce che gli piove dall'alto, Dante s'affissa con lo sguardo su Beatrice, i cui
occhi sono fermamente rivolti a Dio. E allora, per l'ardente amore di quella bellezza che
risplende in lei - bellezza divina e umana della santità il cui esemplare eterno è Cristo -
Dante si sente trasumanato.
Similmente all’esperienza di san Paolo, "non sono io che vivo, ma Cristo che vive
in me", la grazia fa Dante un figlio adottivo di Dio: lo fa "consorte" della natura divina; e
insieme con la grazia fiorisce in lui la carità, che attinge Dio come realmente presente
nell'anima a titolo di dono. E una nuova natura spirituale si svolge in lui e lo orienta
interiormente verso Dio come oggetto di conoscenza e d'amore; ma di una conoscenza e
di un amore fruitivi, che lo metteranno in possesso di Dio, non a distanza, bensì in unione
reale con lui. La ragione poetica che informa il paradiso dantesco è la vita e l'attività di
questa nuova natura spirituale, che sviluppa nell'anima di Dante un complesso organismo
Divina Commedia 73
di energie soprannaturali: virtù teologali di speranza e di fede, doni dello Spirito Santo,
virtù morali infuse, ma che fiorirà in visione dell'essenza divina soltanto al suo termine,
di là dal tempo. Per ora essa fiorisce in attualità operativa mediante la carità e con la
carità; la quale è sulla terra quella stessa che è nel cielo, ma in uno stato ancora
imperfetto, perché sulla terra, nonostante il suo fervente anelito alla visione, non può
procedere che dalla fede come sostituto della visione.
Finalizzato dal desiderio di vedere Dio come egli stesso si vede, Dante si sente
trasportato oltre la sfera del fuoco, entro la luce sfolgorante dei cieli e le sonore armonie
delle sfere ruotanti. La ragione che presentemente lo guida è quella di Beatrice, "ch'opera
è di fede": una ragione veramente pura, che non vive che per la fede e che insieme con la
fede possiede la speranza e la carità. E’ insomma la saggezza cristiana, la quale ci fa
conoscere Dio nella sua vita intima entro le immagini della fede, al modo umano e
discorsivo; cioè Dio viene conosciuto per fede nei simboli di cui si serve lo spirito che
crede, e che aderisce perciò a quanto Dio stesso ci ha di sé rivelato. Il mondo
soprannaturale della grazia e della carità, che dà forma al paradiso dantesco, traduce, in
immagini spaziali di luce e d'armonia, quella che è la vita interna dell'Albero spirituale
piantato da Dio nel Paradiso terrestre e la cui chioma, travolta in su la cima, via via si
dilata quanto più sale in su.
E l'ascesa di Dante di cielo in cielo, ossia di perfezione in perfezione sempre
maggiore, corrisponde, nella vita della grazia, all'ascesa su questo Albero della vita
spirituale; cioè Dante, sostituendo alla propria volontà la volontà di Dio, riceve per grazia
ciò che Dio possiede per natura: l'indipendenza assoluta di fronte a tutto il creato, il
disprezzo di tutte le cose, ma per amarle tutte in se stesse come Dio le ama, infondendo in
loro la bontà e facendole perciò degne di essere amate. Il paradiso dantesco rappresenta
in simbolo la città di Dio, la Chiesa trionfante. Lì, per i meriti di Cristo e di Maria
Vergine mediatrice, discende da Dio su tutte le anime un influsso soprannaturale di luce e
d'amore, che le tiene tutte sotto la luce della sua radiante bontà; la quale risale in certo
qual modo verso Dio da parte di tutte le anime, che in rendimento di grazia cantano tutte
a gloria di lui, per la pace finalmente raggiunta col possesso effettivo e gaudioso della
verità contemplata. Attraverso le immagini della fede e in virtù della carità, che già sulla
terra lo fa cittadino del cielo, Dante conversa con le anime beate e le conosce
Divina Commedia 74
sperimentalmente per connaturalità affettiva. Dapprima egli sale ai sette cieli planetari,
dove, secondo le connessioni e le complessioni della natura e della grazia, gli si
presentano le varie anime; e ciascuna è nel proprio pianeta, in ragione della virtù morale
acquisita ("ninfa" nel Paradiso terrestre), ma sopraelevata ora dalla carità e dalla
corrispondente virtù morale infusa ("stella" nel cielo).
L'ordine del paradiso dantesco s'attiene perciò a un processo perfettivo di energie
naturali e soprannaturali: la fortezza nel cielo della Luna mossa dagli Angeli, la giustizia
in Mercurio mosso dagli Arcangeli, la temperanza in Venere retto dai Principati e la
Prudenza nel Sole retto dalle Podestà. Per le virtù teologali infuse, considerate però
nell'esercizio umano e secondo l'uso dell'intelligenza, la fede è nel cielo di Marte, mosso
dalle Virtù; la speranza in quello di Giove, mosso dalle Dominazioni, e la carità in
Saturno, mosso dai Troni. Per tali virtù morali infuse tutte le anime, pur apparendo a
Dante nei singoli pianeti, sono tutte in Paradiso.
Un solo Spirito opera in tutte, nonostante la diversità dei suoi doni. Un solo Padre,
che è sopra di tutti, agisce in loro nonostante la diversità delle loro operazioni. In Dio
tutte si armonizzano in se stesse e tra loro insieme; e agiscono tutte, le une sulle altre, con
santo zelo del bene, e odio santo del male. Comunione dei santi, che pregano con ardore
di carità, perché la volontà di Dio sia fatta e avvenga il regno suo così in terra come in
cielo. La sua esperienza di conoscenza e d'amore, nel Paradiso della fede, Dante la
traduce fantasticamente in termini di analogia, dove le immagini di luce si riportano alle
viventi realtà divine considerate in se stesse e conosciute da ciascuna anima in modo
proporzionato alla sua natura. A loro volta le immagini gaudiose dell'amore di carità, che
è numero interiore e ritmo, musica e canto dell'anima esultante, si riportano tutte a Dio,
che a ciascun'anima si è donato per grazia.
Nel cielo della Luna, tra coloro che vennero meno ai loro voti, Dante incontra
Piccarda Donati, "vergine sorella" nell'ordine di Santa Chiara, rapita dal convento e
costretta alle nozze: creatura gentile di bellezza e di bontà, la cui fortezza spirituale,
attinta da Dio contro i tormenti della sorte avversa, trionfa lieta lassù come fortezza dello
Spirito Santo.
Nel cielo di Mercurio, tra gli spiriti attivi, Giustiniano esalta l'opera sua di
legislatore, esaltando la virtù di giustizia che informò le leggi dell'Impero romano,
Divina Commedia 75
ordinato provvidenzialmente al bene dell’individuo e al bene della persona umana. Virtù
di Giustizia, che i Guelfi e i Ghibellini ignorano, e che è analoga alla giustizia distributiva
di Dio, per la quale in quello stesso cielo è premiato l'umile Romeo.
Nel cielo di Venere, tra gli spiriti amanti, Dante riconosce Carlo Martello, che
biasima l'intemperanza dei principi della sua stirpe, preoccupati solo di dominare. E
riconosce ancora Cunizza da Romano e Folchetto da Marsiglia, che temperarono le
fiamme del loro amore, rivolgendolo a fini soprannaturali.
Nel cielo del Sole, tra gli spiriti sapienti, la prudenza che animò san Tommaso
d'Aquino e san Bonaventura si rivela nell'esaltazione della Divina Provvidenza che regge
il mondo. Nello stile che a ciascuno dei due è particolarmente proprio, essi tessono, l'uno
il panegirico di san Francesco e l'altro il panegirico di san Domenico, i due santi
fondatori di ordini religiosi, che purtroppo si sono sviati da quello spirito che stava loro a
principio.
Nel cielo di Marte, tra i martiri della fede, Dante ritrova Cacciaguida, prima
radice della sua famiglia. Il motivo lirico della saggezza crocifissa, che informa il
Paradiso, ma che costituisce il motivo segreto e profondo di tutta l'esperienza cristiana
trasfusa nella Divina Commedia, si concreta e trova la sua luce nel colloquio tra l'avo e il
nipote. Cacciaguida rievoca, in contrasto col presente, la Firenze del bel tempo antico,
tutta ordinata spiritualmente al benessere civile e al rispetto della persona umana, il cui
fine ultimo è Dio. E al nipote, venuto da quella Firenze moderna che lo ha condannato, e
che egli dal cielo condanna, Cacciaguida predice, a gloria di lui, le pene dell'ingiusto
esilio e della povertà. Motivo di orgoglio, sì, ma più ancora di confidente abbandono
all'infallibile giustizia di Dio. Questa giustizia ormai Dante la conosce per segni
manifesti; e potrà perciò gridarla senza timori in faccia al mondo ed esaltarla in
ammonimento e a vergogna di chi la conculca e la offende. Gli spiriti informatori del
"poema sacro", nel quale il tema dell'esilio e della povertà di Dante costituisce un motivo
ricorrente che sempre svaria e trascolora, s'illuminano in questo episodio e si sostanziano
di viva fede.
Qui Dante affronta dignitosamente l'avverso destino e l'accetta per amore di Dio; e si fa
gloria delle persecuzioni che dovrà subire da parte di uomini ingiusti, nei quali tuttavia
egli ama la loro anima, ancora capace di ravvedersi e di ricevere la grazia.
Divina Commedia 76
Innalzato quindi al cielo di Giove, Dante si trova tra gli spiriti pii, che amando la giustizia
in se stessa, al di sopra di ogni cosa, la attuarono e si nutrirono di verità. Aquila il cui
occhio vede là dove l'occhio umano non arriva, la giustizia imperscrutabile di Dio, che
s'identifica con la sua misericordia, e che vuol essere vinta dall'amore, infuse in questi
spiriti, anche se pagani come Rifeo o Traiano, la fede e la speranza della salute eterna.
Da ultimo la grazia porta Dante al cielo di Saturno; e qui gli si presentano i santi
che vissero di carità e di contemplazione. Essi cooperarono al governamento divino delle
anime con la preghiera, effetto che Dio ha voluto da tutta l'eternità, come mezzo (la scala
d'oro) per ottenere da lui la grazia di cui abbiamo bisogno, per arrivare al termine del
nostro viaggio. Dante ascolta l'ispirata parola di san Pier Damiano e di san Benedetto, che
ricordano la loro vita e la loro azione, biasimando l'uno i prelati, l'altro i propri seguaci,
troppo legati alle cose e immemori del fine soprannaturale al quale ogni anima è ordinata.
Nella personalità veramente perfetta dei santi Dante conosce, per connaturalità
affettiva, le virtù che Dio vi infonde, e si conquista la sua propria personalità nella misura
stessa in cui docilmente si rimette a Dio, dallo spirito del quale si sente mosso.
Ponendosi, per amore di Dio, di fronte alle cose con sempre maggiore indipendenza, egli
può guardare giù alla terra, di là dai sette pianeti, e sorridere del suo "vil sembiante".
Ormai è nel cielo delle Stelle fisse, dove Cristo e Maria mediatrice sono gli astri maggiori
che trionfano nella loro gloria tra miriadi di stelle. Con immagini che adunano in sé gli
splendori del cielo e della terra Dante traduce in termini di analogia il contenuto della
fede cristiana, mentre la sua anima, in stato di grazia, prende coscienza di se stessa e delle
proprie certezze interiori e in quella fede si conferma con gioia.
E’ cioè, nella vita della grazia, una conoscenza ispirata, di cui Dante dà prova
quando san Pietro lo interroga sulla fede, san Giacomo sulla speranza e san Giovanni
sulla carità: le tre virtù teologali che non possono essere oggetto di conoscenza, se non
quando l'anima sia fatta mobile al soffio dell'ispirazione divina. E lo spirito di Dio, nelle
risposte di Dante, dà testimonianza di se stesso; è questa un’esperienza nella quale
l'anima di Dante palpita felice come palpitò felice l'anima del primo uomo, creato dalla
libera volontà di Dio nello stato di grazia. Ed è qui che l'anima di Adamo, prima radice
dell'uomo, si fa presente a Dante in visione. E tutta la storia della creazione, attraverso le
vicissitudini dell'umanità che varia, si aduna lì, in Adamo, come principio e come fine,
Divina Commedia 77
come manifestazione della bontà infinita di Dio, che non solo ci ha dato la nostra natura,
ma che la ordina a un bene infinitamente migliore. La grazia, divinamente mescolata
all'atmosfera umana che respiriamo, ai ricordi della nostra storia e della nostra specie, ci
avvolge da ogni parte e ci stimola e ci sprona, perché solo uniti a Dio attraverso Cristo
redentore possiamo vivere della stessa verità e della stessa carità. Comunione dei santi,
per il cui trionfo san Pietro, dall'alto del Paradiso, tra lo stupore di tutti i beati, tuona
contro colui che usurpa in terra il suo posto, contro Bonifazio VIII e i pontefici immemori
del loro alto ministero. Al tempo stesso egli annunzia immancabile il soccorso della
Divina Provvidenza. La fede di Dante, che permea tutto il poema, ritrova qui, per amore
di carità, la sua espressione più alta. Essa poggia sull'interpretazione provvidenziale della
storia (Epistole, Monarchia) e di essa si sostanzia tutta la Divina Commedia, che dentro
la storia vive e palpita e se ne nutre e si sviluppa.
Nella storia umana, come nell'ordine dell'universo, Dante coglie il significato
oggettivo di concetti che s'avvivano della sua fede e la illuminano, mentre poeticamente li
traduce in giudizi di assoluta certezza. La grazia ancora lo innalza al Cielo cristallino, che
è il cielo della fede soprannaturale, la cui luce dirige il movimento naturale della ragione
e il suo modo naturale di conoscenza. E qui Dante coglie Dio in lontana visione, come
punto luminoso: fiamma di amore, intorno alla quale s'aggirano i nove cori angelici, e
fonte di luce intellettuale, dalla quale discende, insieme col movimento della vita e del
tempo, un flusso eterno di causalità creatrice, che nelle creature si rifrange e si
prismatizza. La visione svanisce in un lampo vivissimo che avvolge Dante, luminosa
oscurità della fede, che lo innalza nel cielo della pace divina e della pura contemplazione:
l'Empireo. La carità di Dio, che trionfa nell'eterno e che ne canta la gloria, è la "forma
general di Paradiso". Questa gli si dispiega dinanzi ed è come un fiume di luce tra sponde
fiorite.
Tangibile manifestazione della bontà di Dio, quel fiume di luce si rivela poi
all'occhio estatico di Dante come una candida rosa, i cui petali sono ciascuno il seggio di
un'anima beata, mentre una volante moltitudine di angeli, scendendo dalla Luce eterna
nel fiore e a lei risalendo, comunicano a tutte le anime l'ardore di carità e la pace.
Immagine lirica in cui Dante, alla cima della sua esperienza in Paradiso e al sommo
dell'universo creato, coglie in se stesso la vita soprannaturale della grazia che vive in lui e
Divina Commedia 78
che di se stessa lo fa innamorare nella gloria delle perfezioni create, dove la luce e
l'amore di Dio si rivelano prismatizzati e rifranti.
Beatrice, la santa che l'ha guidato di cielo in cielo, di perfezione in perfezione
sempre maggiore, ora lo lascia e ritorna al suo seggio di gloria, "riflettendo da sé gli
eterni rai". Sostanzialmente distinto dal suo creatore, Dante non è più che un puro amore
di Dio per Dio, una vivente immagine di Dio. Ma Dio resta ancora infinitamente al di là,
perché la fede glielo fa conoscere solo a distanza; e nella fede Egli è conosciuto come
non conosciuto. Il desiderio della visione resta; e allora non rimane a Dante che piegare le
ginocchia e pregare. Egli s'affida, per conoscere l'oggetto essenzialmente soprannaturale
della fede, alla saggezza mistica, raffigurata in san Bernardo. Con la sua alata preghiera
alla Vergine il grande contemplante, insieme con tutti i beati, impetra per Dante il gaudio
della visione di Dio: realizzazione del voto iscritto nella sua natura dalla grazia
santificante. La Vergine rivolge gli occhi all'eterno Lume e Dante, nel silenzio di ogni
creatura e di ogni rappresentazione, gode di una conoscenza fruitiva di Dio.
Per l'amore di carità che lo ispira e per la carità che gli è infusa da Dio, Dante,
sotto la speciale ispirazione dello Spirito Santo, non solo esperimenta in sé il suo amore
di Dio, ma Dio stesso attraverso il suo amore. E Dio stesso è presente in lui, che egli
coglie per visione, credendo di averLo realmente intuito per la dolcezza infinita che ne
prova affermandoLo. Un attimo solo di eternità; dopo il quale Dante si sente nuovamente
ripreso nell'universale circolazione di quell'"Amor che move il sole e l'altre stelle".
L'allegoria fondamentale del poema. La conoscenza sperimentale di Dio, come
oggetto di conoscenza d'amore, è il fine ultimo della Divina Commedia e la causa finale
per cui Dante si è mosso, uscendo dalla "selva oscura e selvaggia", per entrare nel mondo
dell'esperienza. Il "luogo eterno" dove le anime esercitano la loro esistenza e la attuano, è
il presupposto e la condizione necessaria di questa sua esperienza, perché nel regno dello
spirito ricevere dagli altri significa agire, cioè arricchirsi intrinsecamente dell'essere di chi
è diverso da noi; e quindi perfezionarsi interiormente e manifestare l'autonomia di ciò che
c'è di più vivo e di vivente in noi. Il viaggio di Dante è questa azione immanente.
E’ la vita del suo spirito, che attraverso all'esperienza si sviluppa spontaneamente,
e cresce e concresce insieme con la sua stessa esperienza, a guisa di globo il cui volume
si dilata nella misura stessa che se ne allunga il raggio in rispondenza del cammino
Divina Commedia 79
percorso. Al termine del suo viaggio la vita spirituale di Dante, che si è nutrita dell'essere
esistenziale, sia nell'ordine della natura, sia nell'ordine soprannaturale della grazia,
congloba in sé tutto quanto l'essere creato, terra e cielo; e Dante non è più che il semplice
portatore di un'immagine di Dio, quell'immagine che poeticamente egli oggettiva nel
microcosmo della Divina Commedia, un microcosmo analogo, per similitudine di
proporzioni, al macrocosmo. E come Dio creò l'universo in sette giorni, iniziando la sua
opera in primavera, col sole nella costellazione dell'Ariete, così, analogamente, Dante
crea il suo universo poetico in sette giorni, iniziando il suo viaggio in primavera, col sole
in Ariete, nella settimana pasquale dell'anno 1300.
Allegoricamente il viaggio di Dante è il viaggio di ogni anima, che attraverso il
mondo dell'esistente tende alla beatitudine soprannaturale come a suo ultimo fine, per
grazia di colui che le ha dato la natura; e che l'ha lasciata libera di scegliersi i suoi fini
particolari nei limiti del fine generale verso il quale essa è portata dal peso della sua
propria essenza. In tal modo il principio vitale e dinamico che via via s'incorpora nella
Divina Commedia, - e che si può cogliere entro la pura linea delle determinazioni
spirituali che si disegna in Dante come soggetto d'azione - è la vita dell'anima, come
"forma intenzionale" che dell'umana essenza è vagheggiata nella mente di Dio e
contemplata dagli angeli (Convivio).
E tutto il poema, nella trama fantastica mediante la quale Dante oggettiva e
racconta un'esperienza da lui stesso intimamente vissuta in relazione a Dio, che è l'Essere
degli esseri, si risolve in una continua metafora; la quale chiude in sé, ed è il suo mistero,
un'analogia di proporzionalità propria, assegnabile ed esprimibile per se stessa, ma
inesauribile e sovrabbondante di sensi ("polisensos, hoc est plurium sensuum", come dice
Dante nell'epistola a Cangrande), a tal punto che essa è sempre più della sua stessa
espressione. La condizione delle anime, ripartite nei tre regni dell'oltretomba e distribuite
secondo l'ordine di una giustizia che tiene conto per ciascuna di esse o del merito o della
colpa, è l'espressione storica o letterale ("sensus litteralis sive historialis") di uno stato di
fatto. E’ cioè lo stato in cui storicamente si trova, nel soggetto umano, la natura
dell'uomo, con diretto riferimento alle sue condizioni di esistenza e di esercizio nel
concreto. Di qui la duplice ripartizione del poema, secondo che l'uomo è considerato
("simpliciter acceptus") nella sua natura di animale socievole (Inferno e Purgatorio), il
Divina Commedia 80
cui fine naturale e temporale è la contemplazione (Paradiso terrestre); oppure è
considerato ("non simpliciter acceptus, sed contractus") nella sostanza della sua natura, il
cui fine soprannaturale ed eterno è la visione di Dio (Paradiso).
In relazione allo stato di fatto in cui si trovano le anime dopo la morte corporale,
la raffigurazione delle pene o del premio, a cui esse sono andate incontro, va riportata,
perché non sia intesa materialmente, alla nozione metafisica e analogica della "persona",
il cui analogo supremo è Dio. Egli solo infatti possiede la personalità nel senso più
perfetto della parola, perché egli solo è assolutamente indipendente nel suo essere e nella
sua azione, essendo la sua personalità il suggello della sua trascendenza e delle sue
infinite perfezioni. La persona umana, che è una sostanza individuale completa, di natura
intellettuale e signora delle sue azioni, costituisce la vera "nobiltà" dell'uomo (Convivio);
ma è una nobiltà che ciascuno deve conquistarsi, mettendola in luce nella misura stessa in
cui la vita della ragione e della libertà si farà dominatrice in lui della vita dei sensi e delle
passioni. Altrimenti egli resterà un "individuo", la cui vita sarà simile a quella dei bruti e
delle piante e delle pietre.
Lo svolgimento della nostra individualità, che viene dal corpo, è seguito da Dante
nella sua discesa infernale: un continuo sprofondarsi nel buio della materia, con il
conseguente annullamento della nostra innata libertà. Sotto l'influsso di una passione
dominante l'equilibrata armonia della persona umana, nella sua inscindibile unità di
anima e corpo, si deforma, s'incrina e si frange (si pensi al Veglio di Creta), riducendosi a
una multiforme pluralità di facoltà dinamiche in contrasto. La progressiva conquista della
persona, i cui privilegi sono nascosti nella materia della nostra individualità carnale,
Dante la invera mentre scala la montagna del purgatorio; ed è la vita di una ragione che ci
giudica e si giudica con un ritorno sui propri atti, e che liberandoci dalle suggestioni della
sensibilità ci ordina dall'interno e ci dispone stabilmente al vero bene. Ma lo svolgimento
completo della personalità, che viene dall'anima, Dante lo invera contemplando nei cieli
della sua fede, che sono poi i cieli della grazia di Dio, le anime di coloro che amarono in
Dio l'esemplare eterno e la sorgente di ogni personalità degna veramente di questo nome.
Essi cercarono di sostituire in certo qual modo, nell'ordine dell'azione, della
conoscenza e dell'amore, al loro proprio io l'io divino, rinunziando alla loro personalità o
indipendenza di fronte a Dio, dal cui spirito dovevano essere mossi per essere suoi figli.
Divina Commedia 81
Dall'individuo alla persona morale e dalla persona morale alla personalità, che è in noi il
fiorire e il fruttificare, insieme con Dio, di un'idea creatrice di Dio, è il cammino che
Dante percorre nel suo poema. E’ cioè l'esperienza vitale che egli fa di se stesso in virtù
di un ordine naturale iscritto nella sostanza di ogni persona. Agire in senso contrario a
questo ordine è per l'uomo opporsi alla volontà di Dio; è negare in se stesso, per quanto
gli è possibile, il fine che Dio si è proposto creandolo, suicidio di una persona morale
creata per la beatitudine eterna, e che la rifiuta. E perciò l'inferno, dove le anime sono
morte alla grazia, è un'escavazione in direzione opposta al loro fine naturale,
un'escavazione nell'oscuro dominio della individualità fino al tufo solido dell'istinto.
Nel purgatorio e nel paradiso, dove le anime sono vive alla grazia attuale e
santificante, si ha una continua ascesa di libertà in libertà, di luce in luce, per "la diritta
via". Lungo il suo viaggio Dante dispone le anime, seguendo l'ordine di una giustizia
distributiva, che tien conto dei meriti e delle colpe. Egli consulta la voce della sua
coscienza, che è poi la voce di Dio, la voce di quella ragione naturale che ci guida: una
ragione analoga alla ragione creatrice, che governa e muove tutte le cose create e le porta
al loro fine. La coscienza morale e religiosa di Dante che giudica, mentre si riconosce
giudicato da essa, si radica nel sentimento del Dio vivente in noi e che parla in noi,
legando, per un legame di partecipazione, la nostra ragione alla sua stessa ragione. Di qui
il tono generale del "poema sacro" dove Dante, per un'ispirazione che gli viene da Dio,
autore della natura e rimuneratore nell'ordine della grazia, si sente nuovo Enea e nuovo
Paolo.
Investito di una missione provvidenziale, egli spera di redimere colpe ed errori
non a sua gloria ma per la glorificazione di Dio. E di qui ancora la sorgente unitaria di
quel linguaggio poetico, essenzialmente lirico e sostanzialmente identico a se stesso pur
nella varietà delle sue sfumature, che costituisce il tessuto fantastico del poema. E’ un
linguaggio che non si esaurisce nella sua appariscenza, perché va trasferito, per analogia
metaforica, alla vita intima dell'anima di Dante in cammino verso Dio; come pure va
trasferito alla vita intima di ogni anima, sia che essa rigetti la vita razionale e s'interni
sempre più a fondo nella materia della sua individualità carnale, sia che essa si conformi
alle esigenze e ai destini propri della natura umana e si conquisti, mediante la ragione e le
virtù morali, una personalità. Solo allora essa si sarà messa tutta in luce, facendo rifulgere
Divina Commedia 82
in se stessa un'idea di Dio creatore. Ma l'esperienza di Dante e di cui Dante s'arricchisce,
perché concresce con lui, è una conoscenza poetica ("sensus qui habetur per litteram"),
fondata sullo stato di fatto in cui si trovano le anime lungo il suo cammino, ossia lungo la
linea dell'attività che interiormente lo finalizza e lo perfeziona. Ciò che Dante conosce
sperimentalmente, per connaturalità, nella misura stessa che fantasticamente se la fa
presente in visione, è, come ci vien detto nell'epistola a Cangrande, la "natura dell'uomo".
E’ l'essere umano considerato nel suo dinamismo interno che lo anima e che lo porta
all'azione concreta; ed è giudicato secondo l'uso del suo libero arbitrio e la facoltà di
scelta in rapporto ai suoi fini particolari e in rapporto al Bene supremo. E’ cioè il mistero
di ogni anima, con i suoi segreti della conoscenza e dell'amore, un mistero che si rivela
incorporandosi, ma che incorporandosi si cela; e questo mistero Dante poeta oggettiva
con la sua fantasia, seguendone fedelmente e con obbedienza i contorni, mentre, con
un'analisi docile all'analogia dei trascendentali, vi penetra dentro e ne segue le operazioni,
senza ledere in nulla, per ciascuna anima, l'unità, l'originalità e il segreto che le è proprio.
Siamo sul piano metafisico della natura creata, dove ogni anima è una partecipazione
analogica dell'amore che Dio ha per se stesso in virtù della sua propria perfezione. Il che
presuppone un'identità di oggetto; per cui ogni anima, amando naturalmente se stessa e la
propria vita e la vita dei suoi simili e il "dolce mondo che del sol s'allegra", ama in se
stessa Dio senza conoscerlo e lo serve senza saperlo. E mentre tende alla bellezza che
rifulge nelle cose, e che è la loro bontà e la loro verità, essa tende, senza saperlo, a Colui
che possiede ogni perfezione creata per identità reale del suo essere, della sua bontà e
della sua attività: a Colui che è la Vita stessa, di fronte alla quale tutte le cose sono come
se fossero morte.
Il sentimento che Dante ha della vita, come attività stabile e permanente, in tutte
le gerarchie degli esseri e nelle forze oscure della natura e nel movimento degli astri e
nella radiante luce delle stelle, è una partecipazione creata dell'attività divina creatrice,
vibra in tutta la Divina Commedia. E questo sentimento, che è contemplazione poetica
delle cose in ciò che è la loro vita segreta, involge sempre in sé un'ansia morale e
religiosa e un pensoso stupore. Essa crea l'atmosfera spirituale che Dante pellegrino vive
e respira, e che egli viene esprimendo fantasticamente in note coloristiche di paesaggio a
luci e ombre. Tutto, in natura, dipende da Dio; e perfino le potenze cieche della materia,
Divina Commedia 83
che sono i mostri infernali, e gli spiriti del male, tutti sono inconsapevoli ministri della
volontà divina.
Anche l'uomo dipende da Dio, ma come amore creato, un centro di libertà, che fa
fronte a Dio e a tutto l'universo, e nel cui segreto non può leggere altri che Dio. Ma la
radice di questo amore, che è il seme di felicità in noi seminato dal buon seminatore
(Convivio), è così sprofondata nella materia della nostra individualità carnale, che
possiamo solo trovarla di là dalla nostra notte (Inferno), come di là dalla notte del nostro
pianeta c'è agli antipodi il giorno e brilla il sole (Purgatorio). Solo allora quell'io
spirituale, quell'io divino che è in noi, si farà sorgente di un'attività spirituale, che nel suo
duplice esercizio, teorico e pratico, d'arte e di scienza, sarà un continuo perfezionamento
della nostra persona destinata alla vita futura.
Episodicamente, lungo il suo cammino, che si sprofonda nelle tenebre per
giungere alla luce dell'opposto emisfero e salire "per lucem ad astra", Dante oggettiva in
se stessa la vita di quelle anime che storicamente sono "di fama note". E cioè, dentro il
sensibile e per mezzo del sensibile, egli fa tralucere la luce di una "forma", come bellezza
in sé, come principio di vita e di passione, che ciascuno conosce nella misura stessa che
poeticamente la vive. E’ una verità intelligibile, che non va considerata in modo univoco,
come se si esaurisse in se stessa, né in modo equivoco, come se fosse puramente
intellettuale o astratta, bensì in modo analogico (analogia di proporzione) in rapporto a
Dio.
E questa verità presentata "per esempio" è una verità morale ("sensus moralis"),
se si tien conto del fine naturale o temporale al quale l'uomo è ordinato, o una verità
spirituale ("sensus anagogicus"), se si tien conto del fine ultimo, soprannaturale, ed
eterno. Secondo le prospettive teoriche del tomismo, già applicate da Dante nel Convivio,
la sua esperienza poetica ha così per fondamento "storico" lo stato delle anime dopo la
morte corporale, giudicate secondo l'ordine di esercizio, di esistenza e di vita; ma essa si
svolge e si organizza in lui secondo l'ordine di specificazione. E’ cioè la natura o essenza
dell'uomo, conosciuta sperimentalmente nei soggetti "esemplari", quella che si rivela a
lui, sorretto e guidato dalla fede, su tre piani di analogia: quello della pura natura senza la
grazia - che è la natura umana collocata nel Limbo dell'inferno -; quello della natura
Divina Commedia 84
umana sanata dalla grazia e in viaggio verso l'eternità; e quello della natura umana
sopraelevata dalla grazia santificante.
Su questi tre piani (inferno, purgatorio e paradiso), che implicano trasposizioni
intime di attività e di vita, s'illuminano le simmetrie e le consonanze, le corrispondenze e
le armonie spirituali, che collegano tra loro le tre cantiche e ne fanno una unità
inscindibile. E ciò con un continuo approfondimento "sur place" del mistero dell'essere,
che è l'oggetto di cui Dante poeta va dichiarando attraverso l'esperienza le differenze in
esso contenute; poiché l'essere, che tutto imbeve, e non è nemico di nessuno, è il mare
immenso nel quale fluisce perennemente l'eterna poesia di Dio.
Il "subiectum" allegorico del poema. E in verità quella che Dante coglie
poeticamente in ogni essere umano, e che conferisce alla Divina Commedia una salda
unità di ispirazione, pur nella varietà delle note individuali in cui questa unità si
prismatizza, è la poesia di Dio, ossia l'amore che ogni creatura ha di essa stessa e della
sua propria vita, insieme con un desiderio di eternità e di pace, di verità e d'amore. Le
aspirazioni liriche della nostra anima sono gli affetti eterni, la cui rettitudine, quando la
manteniamo, non può non essere che un appello a Dio che li ispira. Ma solo con la carità,
che presuppone la grazia, questi affetti possono diventare un abito operativo e farsi vere
virtù morali. Altrimenti, come nell'inferno dantesco, essi non resteranno che pure
aspirazioni liriche in contrasto con la nostra azione concreta, e faranno della nostra vita
spirituale una vita disarmonica e divisa, sorgente eterna d'ogni dolore.
Sarà allora la vita di Francesca, che anela alla pace e la cerca nell'amore,
offrendosi con tutta se stessa, mentre si nega la pace tuffandosi nel vortice della passione;
o la vita di Farinata, che anela al bene della patria, mentre si fa con la sua azione violenta
il suscitatore di odi implacabili e di vendette; o la vita di Brunetto Latini, che anela
idealmente al bene morale, mentre si tuffa nell'immoralità e se ne vergogna di fronte al
suo discepolo; o la vita di Pier della Vigna, che anela alla giustizia e la vuole a gloria del
suo proprio nome, mentre si fa ingiusto contro se stesso e si nega alla vita. Oppure sarà la
vita di Ulisse, che anela di conoscere tutto e si strappa a tutti gli affetti per una verità
puramente intellettuale che lo attira e lo travolge; o la vita di Ugolino, che ama
disperatamente se stesso nei figli, ma con un amore che si fa generatore in lui di dolore e
di odio eterno.
Divina Commedia 85
L’esperienza nell'inferno dantesco è la vita di un'anima, che nella sua naturale
richiesta di felicità si tuffa sempre più nel mobile flutto delle cose, e si fa schiava delle
cose. Chiusa nella sua realtà tormentosa, essa s'individua e giganteggia quanto più
procede attraverso le tenebre delle sue passioni, con un movimento di discesa, di
degradazione e di dissoluzione. E la sua eloquenza è quella di un io risentito, che si
conferma e stacca gli altri da sé e li divide: ora ferma e decisa, ora rapida e a scatti, ora
larga e solenne, ora fredda, proterva e tagliente, secondo che prevale in essa lo spirito di
passione, di sopraffazione o d'ingiustizia. E tuttavia sempre tale che s'addolcisce con un
sospiro alla vita serena, alla luce del sole, al dolce mondo degli uomini e alla sua cara
umanità perduta. Desiderio di natura e aspirazione eterna, che è l'espressione
insopprimibile del nostro io più profondo, di quell'io della vita che anela alla vita e che ci
precede nell'essere. Ma sanato dalla grazia e fissato stabilmente in Dio, come bene
comune separato da tutto l'universo, quest'io divino, che è la "forma" del corpo, rientra
nell'ordine e si ritrova nella luce.
Subordinando al fine soprannaturale i suoi fini particolari e contingenti, l'uomo
ritrova con gioia l'unità della sua vita; ed è allora il gaudio di un amore che ragiona nella
mente, armonia e ritmo e musica interiore e canto. L'amore naturale di noi stessi e della
vita nostra nel tempo, sotto questo sole e in questo dolce mondo, si è ormai rilegato con
gioia a colui che è l'Amore e la Vita di tutte le vite. E nella permanenza di un desiderio di
natura, che è richiesta di vita felice fatta a Dio che solo può appagarla, l'uomo comincia
un movimento di ascesa, di integrazione e di creazione.
L’esperienza cristiana del purgatorio dantesco si compie nell'atmosfera spirituale
del Pater noster ed è nel cuore, nelle opere e nella parola, la voce della preghiera
permanente e la "frequentazione celeste". L'istinto di preghiera, che in noi è natura che
domanda, si esteriorizza e ha la semplicità del gesto e l'umiltà degli occhi levati al cielo.
Ed è armonia di anime e di voci, che attraverso Cristo redentore e Maria Vergine
mediatrice, chiedono a Dio il pane della verità, delle buone ispirazioni e della grazia.
Poesia eterna, di chi esperimenta in sé l'amore come bontà generosa che si effonde e di
cui la preghiera è il desiderio e la ricerca. Bontà di natura, che è il nostro io divino, il
quale umilmente fa richiesta di vita felice a Dio, nel sentimento della nostra comune
indigenza, delle nostre debolezze e del nostro cieco lume. E questa bontà, che anela alla
Divina Commedia 86
bontà, e che spontaneamente si dona agli altri, è quella che ci strappa alla nostra
individualità materiale, legata alle cose, agli avvenimenti e alle circostanze. Essa ci porta
all'azione concreta, perché fa dell'amore "la legge dei membri": carità fraterna, che è
l'ordine di natura, ossia la legge o ragione naturale iscritta da Dio, autore della natura,
nella sostanza del nostro essere; da Dio, che la comanda e la esige per tutti i cuori da lui
creati fratelli. Nella permanenza della carità fraterna, tutte le anime del purgatorio si
collocano al di sopra del mobile flutto delle cose. Esse amano nell'uomo ciò che piace a
Dio e ciò che l'uomo deve essere per piacere a Dio; cioè lo amano in se stesso, nella
bontà della sua natura, che già possiede o è capace di ricevere la grazia.
E l'eloquenza di queste anime è l'eloquenza della carità fraterna, che è l'anima
comune della società di cui ciascuna si sente una parte integrante. E nella società
ciascuna si raddrizza, si afferma, si sente più sicura di sé, prende una consistenza propria
e si fa persona. Cioè ogni anima si fa creatrice della propria vita interiore e del proprio
destino; e creatrice ancora di opere di bellezza, nelle quali, per l'istinto di comunicazione
che nelle comunità umane è più profondo di quello dell'interesse individuale, passa, "a
quel modo che ditta dentro", la bontà dell'amore che la ispira. E allora, in virtù di questa
elevazione spirituale, il tono di tale eloquenza varia e s'individua secondo gli affetti dai
quali ogni anima è mossa; sempre informata alla misericordia e alla pietà, alla
commiserazione e all'amore del bene e sempre devota e affettuosa in ciò che tocca la
famiglia, la patria, l'amicizia e la comunanza di vocazioni o di tendenze.
Ed è calda e appassionata in Manfredi e in Buonconte, mite e dolce nella Pia,
inquieta e sdegnosa in Ranieri da Calboli e in Guido del Duca, suadente e commossa in
Marco Lombardo, soave e nostalgica in Nino Visconti, affettuosa ed esultante in Stazio,
serena e fidente in Forese, ammirante e devota nel Guinizelli. In ragione del loro essere e
degli accompagnamenti e delle conseguenze del loro operare, tutte le anime del
purgatorio sono nel tempo che le misura con la luce e col sole; ma sono ancora fuori del
tempo, per l'eternità che esse edificano dentro se stesse mediante il tempo e la carità che
non muore. Vita della nostra anima e di tutte le anime, la quale si svolge al confine di due
orizzonti, quello della materia che ci limita e quello della luce che piove dall'alto. E la
poesia che lì germoglia e fiorisce è la poesia meditativa dell'ora che ci fa puri, l'ora della
preghiera, quando si riaffacciano alla memoria le persone care entrate a far parte della
Divina Commedia 87
CAPITOLO 7 -  LA DIVINA COMMEDIA
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CAPITOLO 7 - LA DIVINA COMMEDIA

  • 1. CAPITOLO 7 - LA DIVINA COMMEDIA La Commedia è un poema in tre cantiche, Inferno, Purgatorio e Paradiso, ciascuna di trentatré canti e con numero press'a poco uguale di versi, proporzione al cui fondamento sta il numero tre. Un canto proemiale al poema forma in tutto il numero cento, multiplo di dieci, simbolo di perfezione. Metro ne è la terzina concatenata, ripresa dal sirventese popolaresco ed elaborata artisticamente. "Commedia" o "Comedia" fu originariamente il titolo generico dell'opera in rapporto al suo contenuto, che da triste principio giunge a lieto fine: “Incipit Comedia Dantis Alagherii fiorentini natione non moribus” è dichiarato nell'epistola a Cangrande della Scala. "Divina" è l'epiteto che fu aggiunto dai posteri, da Boccaccio, e che fu consacrato, come titolo dell'opera, a cominciare dall'edizione veneziana (1555) del Giolito. Le prime stampe risalgono al 1472. A quali anni se ne deve riportare la composizione e quali ne siano state le varie fasi di elaborazione, resta una questione problematica; ma l'opinione che presenta caratteri di maggiore probabilità è quella che ne pone l'inizio verso il 1307. Interrotto allora il Convivio, Dante si abbandonò all'impeto di un'ispirazione morale e religiosa che urgeva nel suo cuore, ritraendolo ai momenti più felici della sua attività di poeta, con un ritorno al "bello stile" delle sue canzoni filosofiche, per le quali riconosceva Virgilio suo maestro e autore (Convivio). Tale opinione, che segue nel poema l'eco degli avvenimenti storici dai quali Dante sperava un rinnovamento della vita civile e cristiana, e particolarmente dell'Italia, pare confermata dal fatto che già anteriormente all'aprile del 1314 si poteva parlare di un'opera "quod dicitur Comedia et de infernalibus inter cetera multa tractat". Indizio sicuro che le prime due cantiche erano ormai divulgate, non sappiamo se insieme o separatamente; il che Dante stesso ci dichiara più tardi, verso il 1319, quando in risposta a Giovanni del Virgilio (Egloghe) si dice atteso alla composizione del Paradiso ("Cum mundi circumflua corpora cantu - Astricoleque meo velut infera regna patebunt". Comunque, il voto che Dante aveva espresso nell'ultimo paragrafo della Vita Nuova ebbe compimento perfetto. Sulla soglia dell'eterno, al conchiudersi della sua vita, Dante portò a fine il "poema sacro"; e Dio, che è "il sire della cortesia", si compiacque di chiamare l'anima del Divina Commedia 51
  • 2. poeta "a vedere la gloria" di Beatrice beata, dopo che egli ebbe detto di lei "quello che mai non fue detto d'alcuna". Sintesi di vita e di pensiero, la Divina Commedia è l'espressione più luminosa di quello che fu in un'anima appassionata di credente e di poeta. Collocandosi sul piano metafisico della natura creata, che è il piano dell'analogia e della rassomiglianza, Dante si oggettiva come persona viva e operante in un mondo fantastico, che per similitudine di proporzioni, di consonanze e d'armonie rispecchia l'universo creato, sensibile e sovrasensibile, considerato in se stesso come opera d'arte. Le relazioni di analogia, che intercorrono tra il mondo poetico di Dante e l'universo della creazione divina, conservano intatta la loro spiritualità, anche se realizzate in modo essenzialmente diverso. In un universo creato, dove tutto ciò che è, in quanto è, è bene, il male, di cui fu causa lo smisurato orgoglio del primo angelo ribelle, non è che privazione di bene: il non- essere, il baratro, il nulla. E’ il cupo abisso della disperazione e del dolore nel quale precipita la creatura umana quando volontariamente si nega alla perfezione che già possiede in virtù della sua stessa natura. Nel mondo dantesco questo abisso è simboleggiato dall'inferno: un'oscura voragine, che vaneggia sotto la crosta della terra nella parte dell'emisfero boreale abitata dall'uomo. A forma di cono rovesciato, essa si sprofonda fino al centro della terra, che è pure il centro dell'universo e il luogo più lontano da Dio, che è luce. E lì, precipitando dal cielo, cadde e sta confitto in eterno Lucifero. La terra che si ritrasse dinanzi alla sua caduta e ricorse in su, emergendo dalle acque dell'emisfero australe, formò l'isoletta del purgatorio: una montagna alta e scoscesa sulla cui cima, agli antipodi di Gerusalemme, frondeggia la foresta fresca e viva del Paradiso terrestre. Questa montagna, che limita gli orizzonti sconfinati di libertà e di luce a cui ogni anima aspira, simboleggia la materia come reale possibilità di essere: un non- essere che esiste, un non-essere relativo, che ogni anima deve colmare con la propria attività, per darsi la perfezione che le compete, in ragione della sua costituzione specifica. Solo così essa potrà salire al Paradiso terrestre, che si trova al limite estremo di due mondi: al di sotto, quello della materia che lì si sublima; al di sopra, il mondo della pura immaterialità, che si fa sempre più vasto e luminoso in se stesso. E’ questo il Paradiso della fede cristiana come frutto dello Spirito Santo: ascensione spirituale, che Divina Commedia 52
  • 3. per gradi sempre più vivi d'illuminazione e d'amore attraversa, figuratamente, i nove cieli del sistema tolemaico, giranti attorno alla terra immobile con movimento e orbite sempre maggiori. A questi cieli sovrasta infinito il cielo della divina fiamma: l'Empireo, il cielo della carità, sede di Dio e dei suoi angeli e dei suoi santi. Il viaggio di Dante nei tre regni dell'oltretomba è raffigurato come una continua discesa: giù, dall'emisfero boreale fino al centro dell'Universo; giù nell'emisfero australe fino alla vetta del Purgatorio; giù, nelle profondità abissali dei cieli fino all'Empireo. Ma è una discesa che si risolve per Dante in una continua salita: vita del suo spirito, che si fa causa delle proprie perfezioni e che si edifica su se stesso attraverso se stesso e si mette tutto in luce; a guisa di un albero che si sprofonda sempre più con le sue radici nell'oscurità della terra, mentre sempre più si protende verso l'alto e sale e frondeggia e fiorisce nella radiante libertà del sole. Ma il viaggio di Dante nella Divina Commedia non è che la traduzione in termini fantastici di quella che in ogni uomo è l'azione poetica per eccellenza: l'attività vitale e immanente del pensiero e dell'amore; un'attività, che nell'atto di conoscere e in quello di amare si perfeziona soprannaturalmente nella contemplazione e nella carità divina. Poiché il fine pratico, a cui Dante tende in questo viaggio, è la conoscenza di Dio, come bene supremo e beatitudine eterna: un Dio sovranamente personale e trascendente, in quanto è l'essere che in sé sussiste, essendo in se stesso la sua bontà e la sua verità e la sua bellezza. E tuttavia tale che la sua essenza può essere conosciuta non già in se stessa, ma per analogia, attraverso una partecipazione creata di se stessa a ciò che essa non è. E’ una conoscenza reale, una conoscenza di fatto, che è poi la conoscenza poetica del mistero che agita dal profondo tutta la creazione, e che traluce in tutte le cose come loro vita segreta, come segno invisibile della spiritualità che ciascuna di esse detiene. Questa conoscenza analogica di Dio, autore della natura, ordinatore e legislatore supremo, e di Dio, autore della grazia, provvidenza che governa il mondo, è il fine ultimo dell'attività che Dante dispiega, di mano in mano che si sprofonda in seno all'esistente, che è il "luogo eterno" delle anime. Conoscenza di Dio "per speculum et in aenigmate": cioè Dio conosciuto nel mistero dell'esistenza che ciascuna anima esercita: un mistero che Dante conosce per connaturalità affettiva nella misura stessa che poeticamente lo vive e lo incorpora con la fantasia e lo fa presente a se stesso. Divina Commedia 53
  • 4. Nell'ordine della natura, per analogia ascendente che dagli effetti risale alla causa prima, Dante conosce Dio come giustizia (Inferno) e come misericordia (Purgatorio). Nell'ordine soprannaturale della grazia e della carità, per analogia discendente della fede, egli conosce Dio secondo la sua propria essenza: oggetto di un amore infinito, che è poi il desiderio di vederlo in se stesso come egli stesso si vede. Questa conoscenza "quasi sperimentale" di Dio, Dante la pone a fondamento della sua azione concreta. Attraverso costanti rettificazioni e purificazioni e un'ascesi continua dell'intelligenza e del cuore, Dante invera progressivamente in se stesso, nella pura immanenza delle sue operazioni, la saggezza morale metafisica (Virgilio), come scienza degli atti umani e della libertà, e la saggezza umana e divina dei libri sacri (Matelda), e quindi, dentro la luce della rivelazione, la saggezza cristiana dei santi (Beatrice) e la saggezza mistica (raffigurata da san Bernardo). Il principio dinamico che informa la Divina Commedia, e che dà ragione del viaggio di Dante - che è poi il viaggio di ogni anima pellegrina nel tempo e sempre in cerca di un bene infinito - è l'amore umano come partecipazione finita dell'amore che Dio ha per se stesso in virtù della sua propria perfezione. Pur nelle sue miserie e nei suoi errori e nei suoi smarrimenti, l'amore umano è un amore naturale di Dio, essendone Dio contemporaneamente e la causa e il fine. Amando nelle cose la bellezza che vi risplende, l'uomo ama Dio anche senza conoscerlo: perfezione di ogni amore creato, che gioisce di se stesso come verità che vive e bontà che si comunica e si espande. E’ questa esperienza d'amore che Dante conobbe nel periodo felice della sua "vita nuova", quando esaltò in Beatrice lo splendore dell'essere spirituale e la amò in se stessa come un bene analogo al Bene supremo (Vita Nuova). Ma questa rettitudine della volontà, che ci fa amare nelle cose il divino e che fa del nostro amore un analogo dell'Amore increato che crea, Dante la perdette, perdendo nel tempo stesso la perfezione della sua somiglianza a Dio e la conformità alla sua propria natura. Travolto dal turbine delle passioni politiche e accecato dagli odi di parte, Dante, "nel mezzo del cammin di nostra vita", si ritrovò smarrito in quella "selva selvaggia" dove ogni uomo, chiuso nella sua propria individualità, è natura incolta, la cui vita è simile a quella delle bestie, delle piante e delle pietre. Svegliatosi dal sonno del suo spirito, Dante tenta subito di salire il colle della felicità irradiato dal sole; ma ne lo Divina Commedia 54
  • 5. ricacciano al fondo le tre passioni che ribollono nel cuore di ogni uomo avanti l'opera della ragione: l'invidia del bene altrui (Lonza), la superbia (Leone), frutto dell'antico orgoglio ereditario, e la cupidigia o avarizia (Lupa), desiderio smodato di chi si pone a centro di tutto. Dante è già lì per disperarsi, quando gli si fa sentire, dopo lungo silenzio, la voce di quella ragione poetica (Virgilio) che ci ispira, portandoci a vagheggiare un paradiso di felicità da conquistarsi sulla terra. Nel dominio della conoscenza pratica del singolare e del contingente questa ragione poetica, che è poi la voce della nostra coscienza, è quella che ci fa volere direttamente i nostri fini particolari e concreti, mettendo la nostra ragione in grado di cercare, di giudicare e di comandare convenientemente i mezzi. Essa fonda in noi il dovere morale ed esige l'amore: amore della nostra vita e della vita dei nostri simili, amore della nostra famiglia e della nostra patria e di tutta la società; poiché la società, come formazione vitalmente operata dalla ragione nelle cose umane, è da amarsi come un bene coessenziale all'uomo. Virgilio, il poeta che cantò gli ideali di pace e di giustizia ai quali s'informò la vita politica di Roma sotto Augusto - ideali eterni, immanenti alla storia umana nel suo perpetuo divenire, perché eterne aspirazioni dell'anima -, simboleggia questa ragione poetica, che è in noi una partecipazione creata della ragione eterna, creatrice e direttrice dell'universo. Virgilio si offre a Dante come guida. Egli lo condurrà giù nell'inferno, salirà con lui la montagna del purgatorio fino alla cima; e di lì, sotto altra guida (Beatrice), Dante potrà ascendere al cielo di Dio. Intanto Virgilio conforta Dante. Voce della sua coscienza, egli lo fa certo che non potrà mancare, per la salvezza dell'Italia travagliata dalle discordie civili, un ordinatore supremo (il "Veltro"); il quale, dotato di "sapienza e amore e virtù", riporterà tra gli uomini la giustizia e la pace. Il viaggio di Dante, come esperienza reale strettamente legata agli avvenimenti storici che la condizionano e dentro ai quali egli dovrà conquistarsi la sua verità e la sua luce, s'inizia così in spirito di profezia, che è fede ancora ingenua nella Provvidenza divina. Ma la Provvidenza divina, che in sé unisce la giustizia, la misericordia e l'amore che Dio ha per tutte le sue creature, è la causa prima dell'esperienza di Dante nel mondo delle anime. Una causa, che Dante conosce in se stessa soltanto di riflesso, nello specchio delle perfezioni divine incarnate nelle "tre donne Divina Commedia 55
  • 6. benedette", che si curano di lui nell'alto dei cieli: la misericordia di Maria Vergine, la "giustizia" di Lucia, che è la verità da lei conosciuta con gli occhi spenti, e l'amore, o bellezza luminosa dell'essere spirituale, che Dante amò ed esaltò nella sua Beatrice. Amando in Dante la realizzazione dell'idea divina che presiede al suo destino, le tre donne beate pregano Dio per lui, smarrito, e si fanno mediatrici della divina grazia. E Beatrice discende allora dal suo seggio di gloria e si presenta, luminosa in se stessa, ma con gli occhi in lagrime, a Virgilio, che si trova nel Limbo, pregandolo di correre in soccorso di Dante. E subito Virgilio ne esaudisce la preghiera per amore di quella bellezza che rifulge in lei, una bellezza divina che non può non amarsi, perché è la beatitudine e il bene supremo a cui tende ogni anima per impulso della sua stessa natura. E Dante, per amore di questa bellezza, il cui ricordo gli è sempre vivo nell'animo, si fa volontario discepolo di Virgilio ed esce con lui dall'universo dei corpi per entrare nel mondo eterno dell'esistente. Arte di Dio, che provvidenzialmente ci guida, suscitando in noi l'amore di quella bellezza dell'essere, analogica e trascendentale, che di sé continuamente ci asseta e che porta la nostra anima sempre al di là. Per questo amore, non solo noi ci sottomettiamo con gioia alla legge o ragione naturale, che si esprime in noi come voce della nostra coscienza, ma l'abbracciamo con amore e vi ci obblighiamo con una ragione, che, assoluta in se stessa, è universalmente valida nelle stesse condizioni di esistenza per ogni ragione. La coscienza morale e religiosa di Dante, la cui voce ispirata conferisce alla Divina Commedia una salda unità di tono e di accento, poggia su queste basi che si materiano di scienza e di fede. Dante si avvia, dietro la guida di Virgilio, entro l'ordine della vita morale, dove il mondo della natura e il mondo della grazia, pur essendo due universi eterogenei, s'incontrano e si compenetrano; e si fa così giudice dei vivi e dei morti, con una ragione illuminata dalla verità della fede. Ogni suo giudizio è perciò, contemporaneamente, un giudizio morale e religioso, che si colora diversamente secondo le prospettive spirituali a cui mira. Nell'Inferno e nel Purgatorio il giudizio s'incentra sul mistero dell'uomo, e sul dramma della sua vita di creatura di carne e spirito ordinata a fini temporali e spirituali, ma con riferimento al fine eterno e soprannaturale. Nel Paradiso invece il giudizio Divina Commedia 56
  • 7. s'incentra sulla vita dell'uomo con i suoi fini naturali e temporali, ma ordinato essenzialmente al fine soprannaturale e alla perfetta conoscenza di Dio. In tal modo l'esperienza di Dante, dentro l'ordine della ragione naturale e delle virtù morali che perfezionano l'amore e lo volgono al suo vero fine, è un'esperienza analoga a quella di Enea, provvidenzialmente disceso agli Averni per trarne norme pratiche di vita civile, che indirettamente si riferiscono al fine supremo. E dentro all'ordine soprannaturale della carità e della grazia, che già sulla terra, con il corteggio armonico delle virtù acquisite e delle virtù infuse, ci fa cittadini del cielo, l'esperienza di Dante è analoga a quella di san Paolo, che ne trasse conforto alla vera fede. Duplice esperienza, che Dante vive in quanto la prima è subordinata alla seconda, e che gli fa conoscere i due fini a cui l'uomo è ordinato (Monarchia): la perfezione terrestre e temporale dell'uomo come animale ragionevole, che nella vita politica o civile ha la sua piena realizzazione, purché la viva, questa sua vita, in subordinazione essenziale al bene spirituale ed eterno, che è il vero ultimo fine della persona umana. L’Inferno. L’inferno è il regno delle tenebre, la "valle d'abisso dolorosa", dove precipita la creatura umana, che negandosi alla vita della ragione e delle virtù ("vita civile") si nega alla sua propria luce. Perduta la nozione dell'essere, che è il bene dell'intelletto, e chiuso per sempre nella sua individualità materiale, l'uomo s'interna nella vita egoistica delle sue passioni. Ma così esso non è più che un frammento, per quanto distinto, dell'universo dei corpi, e ne subisce le leggi. Punto di intersezione di tutte le influenze fisiche e cosmiche, vegetative e animali, l'uomo, come individuo, è un corpo battuto dalla pioggia, travolto dal turbine della tempesta, martoriato dal fuoco. Le immagini dantesche, che incorporano lo spirituale nel sensibile, ce ne rappresentano la condizione. La natura umana si sprofonda sempre più nella materia, senza però sfuggire alla legge dell'essenza. Negata in vita, questa legge riprende di là dal tempo i suoi diritti, e si rivela in ogni anima come naturale inclinazione al bene, come amore di sé e della propria vita, come amore della famiglia e della patria e della propria fama, come anelito di pace e di giustizia e ricordo nostalgico del dolce mondo rallegrato dal sole. Nell'Inferno il dolore scaturisce così dall'interna contraddizione che ogni anima vive nella propria intimità, senza potersene dar ragione. Divina Commedia 57
  • 8. L'essenza universale della natura umana, le cui inclinazioni tendono al bene, si trova in contrasto con la natura singolare di ogni individuo, tormentata dal fuoco dell'antica concupiscenza, oppressa dal peso ereditario della prima colpa e agitata da tutte le altre tendenze difettose e viziate. Mistero dell'essere umano che si contraddice e che nelle varie fasi della sua situazione esistenziale, tipiche per i diversi momenti di civiltà, Dante raffigura nel Veglio di Creta: immagine dell'uomo, il quale, per essenza, è ordinato alla vita civile come a suo fine temporale, mentre, come stato di fatto, poggia su un fragile piede di argilla. Di qui le miserie e le illusioni e le inevitabili cadute e il dolore senza fine amaro, che si esprimono in lagrime silenziose di cui si alimentano, da secoli, i fiumi infernali: Acheronte, Stige, Flegetonte e Cocito. Poiché l'uomo, senza l'opera della ragione e delle virtù, che lo modellino dall'interno e diano un volto alla discorde indeterminazione della sua vita passionale e istintiva, rimane "terra incolta": quella terra selvaggia, a sterili lande di secca arena, a selve nude di vegetazione, a rocce alpestri, brulle e discoscese, che costituiscono, in un'atmosfera senza tempo tinta, il paesaggio dell'inferno dantesco. Dove manca l'azione dell'uomo non ci può essere che natura selvaggia; e l'azione propria dell'uomo, ossia la sua vera vita, è di far uso della ragione. Nell'inferno di Dante l'azione dei dannati è sempre un'azione a vuoto, un'azione eternamente priva di ragione, che è il loro perenne tormento. L'inferno è perciò il regno della morta gente. Dante e Virgilio ne varcano la porta e, nell'oscura pianura che vi sta a vestibolo, scorgono gli "sciagurati che mai non fur vivi": gli ignavi e gli angeli neutrali, costretti a correre dietro un'insegna, stimolati da mosconi e da vespe. Disdegnati dalla misericordia e dalla giustizia divina, Dante li guarda e passa. E subito s'apre al suo sguardo la "trista riviera d'Acheronte", sulle cui rive, entro un lividore di luce autunnale, le anime cadono come foglie morte che si staccano dall'albero, portate dal loro peso. Passato il fiume sulla barca di Caronte, i due pellegrini approdano al primo cerchio: il Limbo, da dove Cristo trasse i Patriarchi. Qui non pianto, ma sospiri. E’ il luogo dei bimbi morti senza il battesimo; ed è pure la dimora, entro un nobile e luminoso castello, di quanti onorarono scienza e arte, pur essendo privi della vera fede. Vi si trovano i grandi poeti antichi (tra i quali Virgilio), che amarono la bellezza dell'essere e furono già cristiani in speranza se non in possesso; e con loro sono gli altri "spiriti Divina Commedia 58
  • 9. magni", la cui perfezione di ragione, fuor dalla sfera delle verità rivelate d'ordine naturale, fu luce che diradava le tenebre, ove il pensiero s'arrestava con l'ansia di conoscere ancor più. Con il secondo cerchio comincia l'inferno propriamente detto: un baratro, che si va restringendo di cerchio in cerchio fino alle dieci fosse di Malebolge, nel cui diritto mezzo vaneggia un pozzo. Al suo ingresso sta Minosse, terribile voce della coscienza, che giudica e condanna. I peccatori sono perciò distribuiti nei singoli cerchi in ragione dell'interno ordinamento dinamico delle loro facoltà vitali ("disposizioni"): incontinenza, malizia e matta bestialità. Nei cerchi superiori, dal secondo al quinto, si trovano gli incontinenti, nei quali l'essere spirituale, impotente a contenersi tutto, trasmodò e s'appoggiò alle potenze della vita sensitiva. Nei cerchi inferiori, dentro la città di Dite, sono i "maliziosi": libere volontà, che violando l'ordine della ragione e della natura, passarono al servizio delle potenze affettive inferiori e dell'istinto. E dopo i maliziosi, sono i bestiali: intelligenza posta al servizio di una volontà perversa, che si fece centro di tutto fino a recidere, in una solitudine selvaggia, ogni legame spirituale con le altre volontà. A governo dell'inferno, e quindi entro un piano provvidenziale, sono le forze cieche della natura: le potenze oscure della materia, simboleggiate in mostri, e gli spiriti del male, i diavoli. Nel suo viaggio Dante vede le cose e le rappresenta con una fantasia la cui misura è data dalla realtà empirica nelle sue note sensibili e materiali; ma è una realtà che serve a introdurci nell'ordine dell'essere spirituale, che lì dentro si incorpora e lì dentro traluce e si fa manifesto. Nel secondo cerchio i lussuriosi, anime vinte dalla passione carnale, travolti da una bufera incessante; nel cerchio seguente i golosi, flagellati a terra da una pioggia eterna, maledetta e greve, squartati e scuoiati da Cerbero, mostro dalle tre gole; nel quarto cerchio i prodighi e gli avari, riuniti "per dritta opposizione", rotolano pesi e si scherniscono a vicenda quando s'incontrano; nel cerchio seguente gli iracondi, immersi nel fango della palude Stige, si percuotono bestialmente "troncandosi coi denti a brano a brano", mentre gli accidiosi dal fondo del limo gorgogliano parole nell'acqua, sospirando all'"aer dolce che del sol s'allegra". Visioni penose, contemplate con occhi attenti, quasi dinanzi alla rivelazione di un prodigio; ma di là dalla pura intuizione dei sensi, Dante poeta corre all'esistenza, e si Divina Commedia 59
  • 10. trova al contatto di anime che la esercitano e che gliela fanno conoscere nella sua verità vissuta e nel suo mistero. E’ cioè l'essere umano, con i suoi segreti della conoscenza e dell'amore, che Dante viene a conoscere par connaturalità nella misura stessa che egli poeticamente lo vive e lo oggettiva in se stesso. Nel cerchio dei lussuriosi Dante si commuove dinanzi a Francesca, una creatura di bontà, che sospira invano alla sua pace, mentre si stringe appassionatamente al suo Paolo e afferma ineluttabile quell'amore che pur l'ha condotta alla morte e all'eterno affanno. Per amore di patria Dante si arresta, nel cerchio dei golosi, dinanzi a Ciacco, suo concittadino, che gli parla, sdegnato e cruccioso, delle fazioni da cui è travagliata Firenze e gli predice non lontano l'esilio. Ma contro l'orgoglioso Filippo Argenti, che vorrebbe risollevarsi dal fango dello Stige, Dante scatta con ira e ve lo ricaccia dentro con aspra fermezza. La pena egli la desidera e la vuole e ne gode quanto più detesta nel peccatore il male, e in ciò lo approva e lo benedice la voce della sua coscienza, Virgilio. Ma la coscienza agisce solo come causa seconda, la quale presuppone la causa prima, che è Dio. E Dio si fa presente a Dante, quando, varcato lo Stige sulla barca di Flegiàs, giunge sotto le mura infuocate della città di Dite. I demoni stizzosi e tracotanti si oppongono a Virgilio e gli vietano l'ingresso. E tuttavia Dante passerà. Un messo celeste arriva infrangendo ogni ostacolo e con una verghetta apre meravigliosamente la porta, mentre gli spiriti del male fuggono da ogni parte. L'esperienza di Dante nel basso inferno Dio stesso la sollecita e la favorisce attivamente, perché necessaria e salutare. Solo gettandosi sempre più a fondo nell'esistenza, con una conoscenza sperimentale o poetica del dolore e della sofferenza e dei conflitti esistenziali, Dante potrà, nella sfera dell'attività pratica, determinarsi meglio ai mezzi e agire in armonia con se stesso. Nel sesto cerchio Dante costeggia una landa sparsa di tombe infuocate, dentro le quali giacciono gli eretici. Credendo morta l'anima col corpo, essi s'affidarono esclusivamente alla loro volontà e ne fecero la misura di tutte le cose. Soggettivismo inconsapevole, cha si nega alla piena intelligenza della realtà e le si sovrappone con violenza. Tra costoro è il magnanimo Farinata degli Uberti. Uomo di parte, egli amò appassionatamente la sua patria e la difese a viso aperto; ma praticamente, con un'azione che fu l'azione della sua parte, lasciò dietro di sé un solco incolmabile di odi e di Divina Commedia 60
  • 11. vendette. Di qui nasce lo scontro violento con Dante, che vive pure lui come uomo di parte la stessa contraddizione e che ne esperimenterà le conseguenze con la pena d'esilio che Farinata stesso gli predice. Senza la carità non c'è né vero amore di patria né vero amore per i figli: poiché è soltanto orgoglio l'affetto che Cavalcante dei Cavalcanti, un altro eretico, nutre per suo figlio Guido. Senza la carità, che perfeziona l'amore naturale di noi stessi e lo indirizza al suo vero fine che è Dio, la volontà umana non può stabilirsi saldamente nel bene a cui tende. Fatalmente essa degrada dal suo ordine e passa al servizio delle potenze affettive inferiori dell'istinto. L'unificazione completa della vita umana, come ragione e senso, resta così preclusa e nell'uomo, accanto all'animale ragionevole, si pone il bruto. Ne è figura esemplare il Minotauro, preposto al cerchio settimo, dove sono puniti i ribelli a Dio, creatore dell'ordine naturale e legislatore supremo. Dante vi cala per un'alpestre ruina e lo attraversa nei tre gironi concentrici in cui esso si distingue. I violenti contro il prossimo e le sue cose, tiranni e omicidi, sono tuffati nel sangue bollente del Flegetonte, lungo le cui rive corrono, fiere agili e snelle, i Centauri. Simboli di quella ragione naturale che l'animale subisce, ma a cui l'uomo partecipa per modo di conoscenza razionale, i Centauri saettano chiunque "si svelle dal sangue" più che non gli consenta la sua colpa. Di là dal Flegetonte si stende un bosco selvaggio, nudo di foglie e scheletrito, dimora delle Arpie che ne dirompono i rami: desolata e gemente germinazione delle anime dei suicidi, le quali, strappandosi al corpo, s'incarcerarono come piante nella loro propria natura. Inseguiti da cagne fameliche e veloci, fuggono per il bosco gli scialacquatori, che giocando rischiosamente si affidarono alla sorte e al caso. Insieme con i loro averi essi dissiparono la sostanza della loro persona morale e divennero facile preda delle discordanti postulazioni dell'istinto. Più oltre ancora si apre una landa arenosa, sulla quale grava un'atmosfera immobile e scende dal cielo il fuoco a larghe falde. Qui, supini a terra, giacciono i bestemmiatori di Dio; corrono precipitosamente senza posa coloro che nell'ordine dell'agire operarono contro natura (sodomiti); stanno seduti, e si schermiscono dal fuoco come i cani dalle vespe, coloro che nell'ordine del fare non misero luce se stessi con quell'arte che s'ispira alla natura nelle loro operazioni (usurai). Paesaggi d'orrore: scene luttuose di tormenti e di tormentati; miserie e dolori della nostra natura inferma e decaduta si presentano allo sguardo di Dante. La volontà, che di sua natura è ordinata al Divina Commedia 61
  • 12. bene, è quella ancora che, sotto l'influsso di una passione dominante o di un vizio, travolge l'uomo e lo atterra, si fa in lui motivo di eterno dolore. Così è l'amore della giustizia nel suicida passionale Pier della Vigna; così è l'amore di se stesso, accecato dalla superbia, in Capaneo, il quale bestemmia Dio, fine naturale di questo suo amore; così è l'amore del bene morale in Brunetto Latini, che tra i sodomiti si vergogna di fronte al suo discepolo Dante, ma solo per tornare a esaltarsi, esaltando idealmente in lui questo bene, ed essergli ancora maestro; così è l'amore di patria nei tre nobili fiorentini, i quali, macchiati dello stesso peccato, ascoltano con dolore Dante che parla loro della decadenza morale di Firenze. In groppa di Gerione, il mostro alato che è simbolo della frode, Dante cala nell'ottavo cerchio di Malebolge: dieci bolge o fosse circolari, concentriche, dove sono dannati i frodolenti, coloro che usarono la frode con chi non aveva particolare ragione di fidarsi di loro. Vi si trovano i seduttori e i mezzani, frustati terribilmente dai diavoli; gli adulatori, ravvolti nello sterco; i simoniaci, capofitti in fori di pietra dalle cui aperture agitano solo le gambe con i piedi accesi; gli indovini e i maghi, che camminano a ritroso con la faccia dalla parte delle reni; i barattieri, tuffati nella pece bollente e vigilati dai demoni; gli ipocriti, rivestiti di cappe di piombo dorate di sopra, gravi e stremanti nel loro incedere; ladri, morsicati e legati da serpenti nei quali si tramutano, mentre i serpenti si tramutano a loro volta in figure umane; i consiglieri frodolenti, chiusi in fiamme dentro le quali si muovono; i seminatori di scandali e di scismi, lacerati e mutilati da una spada del demonio; i falsari di metalli, di persona, di moneta e di parola, che si presentano come figure di rognosi e di arrabbiati, di idropici e di assetati febbricitanti. E’ questo il mondo inumano dell'intelligenza, che nell'ordine dell'agire si pone al servizio di una volontà perversa, sempre pronta all'offesa e alla difesa. Intelligenza pratica, che al contatto dell'azione giudica immediatamente il da farsi, secondo le cattive intenzioni o disposizioni della volontà. E’ l'intelligenza di papa Niccolò III, che nella bolgia dei simoniaci pensa sia giunto Bonifazio VIII a occupare il suo posto; è la pronta intelligenza di Ciampolo di Navarra, che nella bolgia dei barattieri inganna i diavoli e li fa azzuffare tra loro; è l'intelligenza maligna dei Malebranche, che insidiano Dante e lo fanno tremare di paura; è l'intelligenza bestiale di Vanni Fucci, che, scoperto da Dante fra i ladri, si dipinge in volto di triste vergogna e per dispetto gli predice oscuramente i danni Divina Commedia 62
  • 13. della sua fazione. Dante osserva e si compiace di cogliere gli aspetti comici e triviali di questa intelligenza pratica, che fa l'uomo simile al serpente, e di qui la figura di Gerione. Ma nella bolgia dei consiglieri frodolenti egli ascolta attento il racconto dell'ultimo viaggio di Ulisse, l'eroe che nell'ordine della volontà trascura gli interessi della sua anima per darsi alla gioia del puro conoscere: intelligenza aperta alla conoscenza delle cose, ma per la quale le cose diventano uno spettacolo che la assorbe e l'attira e la travolge. E’ la sorte di Guido da Montefeltro, che racconta le astuzie di papa Bonifazio VIII e se ne dice la vittima inconsapevole, mentre di quelle astuzie intellettualmente gioisce e se ne serve ai suoi propri fini. Ma l'intelligenza volta verso l'altro in quanto è l'altro, come puro oggetto di conoscenza, è l'anima degli insulti che si scambiano tra loro i dannati di queste bolge, smascherandosi con una sincerità cinica e triviale. E’ il deforme e l'informe della materia che affiora. E’ la sincerità che risolve l'essere umano nelle discordanti richieste dell'istinto, una sincerità della quale Dante può sorridere, non senza che la sua coscienza, Virgilio, si ribelli. E’ insomma l'essere umano che si sprofonda più nella materia prima: e ne sono simboli i mostruosi giganti, masse brute e inerti che di mezzo la persona torreggiano la proda del pozzo di Malebolge. Uno di essi, Anteo, cala Dante al fondo del pozzo, dove, infitti nel ghiaccio del Cocito, sono puniti i traditori dei congiunti, della patria, degli ospiti e dei benefattori. Sono essi i negatori bestiali di quell'umana civiltà che è "forma della ragione" e senza la quale non possiamo né vivere né convivere umanamente. Imprigionati nel ghiaccio e nel silenzio, la loro esistenza è simile a quella delle pietre; e il loro tormento non ha parole. E’ il muto dolore di Bocca degli Abati, che a Montaperti tradì la parte guelfa e che a Dante non vuole per vergogna rivelare il suo nome. E’ il dolore del conte Ugolino, il traditore della patria, che s'accanisce bestialmente sul corpo di colui che a sua volta lo ha tradito; e che dà voce all'istinto della paternità ferita, mentre colorisce la ferocia dell'arcivescovo Ruggeri narrando la propria morte e quella dei suoi figli nella torre della fame. Giustizia inumana, senza distinzioni, che suscita in Dante l'ira e lo sdegno, insieme col desiderio di un'eguale giustizia su Pisa, vituperio dell'Italia. Al centro dell'universo, nel punto più lontano da Dio, Dante vede Lucifero, materiale trinità del cieco abisso, mostro dalle tre facce, che lagrima da sei occhi, mentre maciulla in ciascuna delle tre bocche un peccatore: Giuda, traditore di Cristo, e Bruto e Cassio, traditori di Divina Commedia 63
  • 14. Cesare. Negatori, il primo, di quella ragione divina che è in noi la carità, e gli altri, di quella ragione naturale che ci guida e che fa dell'uomo, terra incolta, la terra umana coltivata dalle virtù e dalla diritta ragione. Aggrappandosi ai peli di Lucifero, i due poeti passano il centro della terra e per un cammino ascoso salgono, nell'emisfero opposto, a rivedere le stelle. Il Purgatorio. E’ una montagna aspra e scoscesa, che dal gran mare dell'essere "si dilaga inverso il cielo più alto". E’ la terra umana che, santificata da Cristo nel suo fondo permanente, che è l'anima, si edifica dall'interno su se stessa e sotto il cielo delle virtù cardinali e teologali coglie alla sua propria cima (Paradiso terrestre) i fiori della pace e della contemplazione, in conformità delle esigenze e dei destini propri alla natura umana. Questa montagna va restringendosi sempre più d'ampiezza quanto più s'avvicina al suo culmine; ed è risegata sui fianchi da balzi o cornici circolari, dove si purgano le anime. Siamo nel mondo metafisico dell'essenza graduata, dove ogni anima diversifica i suoi valori di conoscenza secondo il fine che la divina Saggezza le ha assegnato, perché cooperi attivamente a quella vita sociale o civile il cui fine, di ordine naturale, è il bene temporale o terrestre: svolgimento innanzi tutto morale e svolgimento delle attività speculative e pratiche (artistiche ed etiche). Il purgatorio è perciò il regno della libertà, intesa come assenza di ogni costrizione: libertà di scelta tra i mezzi che conducono al fine, essendo, in ogni essere creato, quello prestabilito da Dio creatore. Di questa libertà, che è propria della persona umana ordinata a Dio, e che postula fuori di sé una legge positiva che la difenda e la guidi, è simbolo concreto la figura di Catone, posto a custodia del purgatorio. Ed è lui, che nell'alba fresca e rugiadosa dell'arrivo, sotto il cielo azzurro nel quale splendono l'astro di Venere e le quattro stelle delle virtù cardinali, addita a Dante la via da seguire, purché la percorra, umilmente servendo, con occhio chiaro e con affetto puro. Il purgatorio è infatti il mondo umano di quell'amore umile e fraterno, dove Dio è amato nella bontà delle sue creature, per l'idea divina che ciascuna di esse realizza e per la gloria che ciascuna di esse è chiamata a dare a Dio. In lunga schiera, su una navicella guidata da un angelo, arrivano dal mare le anime esultanti, destinate all'espiazione e alla salvazione: e tra loro Dante riconosce un suo amico, Casella. Gioia dell'incontro: ritmo interiore, vita dello spirito, la quale anela a espandersi e a comunicare. Casella canta una Divina Commedia 64
  • 15. canzone di Dante e alle sue note tutte le anime sono rapite ma Catone interviene e rimprovera il loro indugio e li sprona a salire. L'amore che ragiona nella mente è la prima perfezione dell'anima, ma non basta. Bisogna che essa agisca, perché soltanto l'attività la fa migliore e la congiunge ai suoi fini. La salita di Dante su per l'aspra montagna e sotto la guida della sua coscienza, Virgilio, è l'attuazione di tutta la perfezione insita nel suo essere stesso. E’ cioè l'esistenza che egli s'appropria con un'attività che lo perfeziona e lo finalizza nella linea stessa della sua costituzione specifica. La sua esperienza, che si fa scienza degli atti umani e della libertà, lo porta a ben giudicare sul da farsi in rapporto a quella che è la diritta inclinazione della sua volontà, nel dominio del particolare e del contingente. Ai piedi della montagna, fuori del purgatorio propriamente detto, Dante incontra, in temporanea dimora, le anime di coloro che vissero scomunicati e, tra essi, Manfredi di Svevia. Su per i balzi egli trova, seduti neghittosamente all'ombra di massi, i pigri a pentirsi, come Belacqua, e, per la costiera petrosa, vede camminare cantando il Miserere quanti morirono di morte violenta, come Iacopo del Cassero, Buonconte da Montefeltro e la Pia, dolce anima di donna amante che per il marito crudele conosce soltanto la parola del perdono. Col pentimento e per opera della misericordia di Dio, tutte queste anime instaurarono in se stesse, ma solo in punto di morte, lo stato di grazia, principio del loro merito nell'ordine della salute. E da questo stato di grazia esse contemplano la loro vita terrena e ne giudicano gli errori e le colpe mentre esaltano in Dio la bontà del perdono: quella stessa bontà che Dio infonde loro e che le porta a perdonare ai loro nemici e a sentirsi al di sopra delle offese ricevute e delle ingiustizie patite. Poesia degli affetti umani, la cui mite e soave dolcezza scaturisce dall'interna verità che esse vivono con gioia. Poesia che Dante respira nell'atmosfera spirituale che lo avvolge e che costituisce la sua stessa esperienza; perché lo porta a guardare con sorridente indulgenza le debolezze altrui, sentendole come un peso comune che grava sulla nostra volontà e al quale molto spesso cediamo. Tale è l'esperienza di Dante, che si ferma in amichevole colloquio col pigro Belacqua. Tutte le anime che egli incontra man mano che sale lo pregano di essere ricordate alle persone care rimaste sulla terra, perché ne abbiano Divina Commedia 65
  • 16. conforto al loro dolore e perché a loro volta, con la preghiera, vogliano quel bene che Dio vuole per tutti da tutta l'eternità. Amore fraterno, che per amore di Dio collega tra loro i vivi e i morti e chiede l'unione degli spiriti e dei cuori; e che trova la sua espressione tangibile nell'incontro di Sordello da Mantova. Al solo nome della terra natia, Sordello abbraccia, prima ancora di conoscerlo, il suo concittadino Virgilio. La scena strappa a Dante un'aspra invettiva contro la "serva Italia", non governata secondo ragione e divisa dagli egoismi e dagli odi e dagli interessi materiali. Carità di patria, in cui l'amore fraterno si sublima. Nel purgatorio si sale entro la luce che piove dall'alto; e senza quella luce ci si arresta. E questo perché l'amore fraterno, che stringe fra loro gli spiriti, attinge dalla carità che vien dal cielo la sua fonte di vita. Senza la carità le virtù morali non bastano. Esse producono i loro fiori, ma tra i fiori s'insinua occulto il serpente dell'orgoglio. Tale, in delicata figurazione d'idillio, è l'idea creatrice che Dante realizza nella valletta fiorita, dove si radunano i principi che vennero meno alle finalità naturali del loro dovere di reggitori di popoli. Sordello li addita, questi principi, dalla cima di un balzo; e tra loro conduce Dante quando la notte cade. Malinconia di un'anima che si sente sola e che prega, mentre su nel cielo si affacciano le tre stelle delle virtù teologali. Sotto la custodia degli angeli discesi dal cielo - le buone ispirazioni venute da Dio - Dante s'addormenta. E in sogno, per quella giustizia che Lucia gli impetra da Dio, egli viene trasportato in alto, oltre la sfera del fuoco, fino all'entrata del purgatorio propriamente detto: che è il regno di quella verità spirituale che si conosce in quanto la si vive, e che si vive con gli occhi chiusi della fede. Verità di Lucia, verità di quel naturale amore di noi stessi che, unendoci con Dio autore di ogni bene, ce ne fa seguire la legge: una legge Sua, ma che diventa la nostra e il nostro più profondo anelito vitale. L'ordinamento morale del purgatorio è fondato sulla libera attività di questo amore naturale, che è in noi una partecipazione creata dell'amore che Dio ha per se stesso in virtù della propria perfezione. Dalla nostra libertà dipende di allentarne o frenarne lo slancio o anche di volgerlo al male. Un tale amore è perciò principio in noi "d'ogni virtute e d'ogni operazion che merta pene". Dal punto di vista dei valori umani e della posizione dell'atto libero a cui tutto è subordinato da parte del soggetto, i disordini dell'amore naturale, che è poi la ragione poetica della nostra vita profonda, si riducono ai sette Divina Commedia 66
  • 17. peccati capitali. Questi peccati, in ordine decrescente di gravità, sono puniti nelle sette cornici del purgatorio. Innanzi tutto la superbia, l'invidia e l'ira, per cui l'uomo, amando eccessivamente se stesso, vien meno al bene comune: al bene della vita civile o politica, al quale egli è naturalmente ordinato. Ma nell'ordine del bene morale, considerato in se stesso, nella sua esistenza singolare, e perciò perseguito dal soggetto o con poco o con troppo di vigore, tengono dietro gli altri peccati capitali: accidia, avarizia, gola e lussuria. Nel dominio dell'attività pratica, dove la volontà piega l'intelligenza a suo piacere, l'uomo non può giudicare rettamente sul da farsi se non quando il naturale amore di noi stessi non sia rettificato fondamentalmente dalla prudenza e dalle virtù morali, che si contrappongono a ciascun peccato: umiltà, carità, mansuetudine, continuo sforzo interiore, misura, temperanza e purezza. Il purgatorio dantesco è la traduzione in termini fantastici dell'arte mediante la quale Dio, operando in ogni creatura come conviene alla natura che le ha dato, causa negli spiriti l'azione dello spirito, con la spontaneità e l'interiorità e la libertà che conviene alla loro natura. Con la sua arte, che è già la vita stessa delle anime purganti, Dio le illumina nell'intelligenza e le conforta nella volontà con "esempi" che esaltano la virtù morale opposta al peccato che esse scontano, oppure ricordano come in altre anime sia stato punito il loro stesso peccato. E gli "esempi" sono il "visibile parlare" delle figure scolpite sul piano o sulla ripa, o le visioni create dall'estasi stessa o i canti delle anime, che per amore di Dio si spronano e si sostengono vicendevolmente nella loro pena. Solidarietà spirituale, che Dio consacra e benedice per i cuori che egli ha voluto fratelli. E mistero delle anime, la cui vita è una vita con Dio. Mistero della loro attività immanente, poiché la bontà della creatura è la stessa bontà di Dio che la infonde in lei, mentre essa a sua volta, questa stessa bontà, la invoca da Dio, padre comune, e si porta a lui sulle ali della speranza. In tal modo la poesia del purgatorio dantesco, tutta pervasa di sacro ardore e soffusa di tenera malinconia, ha il tono e l'accento della preghiera cristiana. Poesia dell'umana bontà, che si umilia esaltando nell'autore di ogni bene il bene che già essa possiede per grazia, e che pur anela di possedere in pieno. In tal modo l'esperienza di Dante, che dentro di sé approfondisce sempre più quell'amore fraterno che lega tutte le anime fra loro, non è che una continua ascesa del suo spirito, perché la legge Divina Commedia 67
  • 18. del bene, imponendosi alla sua volontà, lo fa sempre più amico di Dio. L'azione di Dante, che è poi la sua stessa salita, è ancora per ciò un'azione di Dio. E Dio stesso lo conforta nel suo aspro cammino, sia con gli angeli che gli cancellano dalla fronte le ombre del peccato, sia con gli angeli che intonano i versetti delle "beatitudini" evangeliche, avvivando in lui, come in ogni anima, l'amore della propria purificazione. Ma l'ascesa di Dante, su per la montagna, dentro un paesaggio che è tutto una serena aspirazione al cielo, è una ascesa continua, non solo del cuore, ma anche dell'intelligenza. E’ la conquista progressiva della sua persona morale, che si libera in lui delle miserie dell'individualità materiale, con le sue vanità e il suo regime naturale di rivalità e di opposizione. Tra i superbi che nella prima cornice procedono curvi e rannicchiati sotto gravi massi, Dante vede, anche a suo proprio ammonimento, il conte Umberto Aldobrandeschi; e nelle parole di Oderisi da Gubbio, che accenna allo sfiorire rapido della fama terrena, egli già vive rassegnato anche il futuro oblio della sua fama di poeta. In Provenzan Salvani egli riconosce la forza di quella bontà generosa che ci ispira e che, dopo aver vinto in lui la superbia, canta a gloria di Dio. Bontà dell'essere, che si fa opaca a se stessa quando nell'agire mira soltanto a interessi individuali o materiali. Tale, nella seconda cornice, tra gli invidiosi che a ciglia cucite s'appoggiano l'un l'altro, riconosce la senese Sapia, dispettosa verso i suoi concittadini. E tali precisamente sono gli abitatori della valle dell'Arno, a giudizio di Guido del Duca e di Ranieri da Calboli, che deplorano il tramonto delle virtù cavalleresche nella loro Romagna. Ma la presente corruttela del mondo non si deve alla natura dell'uomo, essenzialmente buona; la si deve bensì alla mancanza di una salda armatura morale che lo sorregga e lo guidi. E’ questo il pensiero di Marco Lombardo, che Dante incontra nella terza cornice, tra gli irosi avvolti da un densissimo fumo. Le leggi ci sono: l'uomo è ordinato, come individuo, al bene comune della città e, come persona, al bene spirituale ed eterno; ma nessuno fa valere queste leggi per la confusione che regna presentemente tra le due supreme potestà: Chiesa e Impero. Per la sua natura di animale ragionevole l'uomo è infatti ordinato al bene morale e razionale; e deve volerlo sotto pena di perdere la sua ragione d'essere. Deve, perché la sua coscienza gliene promulga il dovere. Per questo gli accidiosi, puniti nella quinta cornice, Divina Commedia 68
  • 19. sono costretti ad agire con sollecita cura e in movimento continuo. Se il diritto del bene a essere amato in se stesso e praticato risponde all'ordine essenziale delle cose, il suo fondamento supremo riposa in Dio, creatore dell'ordine, sommo bene e giustizia suprema. Nella quinta cornice, tra i prodighi e gli avari, papa Adriano dichiara a Dante che, giunto ai sommi onori, sentì che "lì non si quietava il core": il bene cui anelava era Colui che per il bene l'aveva creato. E Ugo Capeto, dopo aver discusso sulle origini della sua famiglia e sulle fosche gesta dei suoi discendenti, da Carlo d'Angiò a Carlo di Valois e a Filippo il Bello, sente dentro di sé necessari e dominatori i diritti della giustizia e la invoca da Dio. Improvvisamente tutta la montagna del purgatorio sussulta: un'anima è ormai purificata e sale al cielo. Da tutte le parti s'alza il canto di Gloria in excelsis: amore di carità, che stringe tra loro tutte le anime e che si esalta esaltando in Dio il sommo bene e la somma giustizia. Quest'anima divenuta degna del cielo è quella del poeta latino Stazio. Egli dichiara nel suo colloquio con i due poeti di dovere a Virgilio la prima ispirazione che l'ha condotto poi a questa sua sorte beata. Virgilio aveva cantato il ritorno dell'antica età dell'oro, l'avvento di una nuova umanità in un mondo di giustizia e di pace. La realtà di questo sogno poetico Stazio l'aveva riconosciuta vera seguendo la fede cristiana; e a Virgilio si confessa grato per il buon avviamento. E siccome Virgilio gli ha additato il presente, Stazio s'inginocchia dinanzi a lui; cioè s'inchina dinanzi a quella ragione poetica, d'ordine naturale, che viene da Dio, artefice della natura, e che ci porta a sognare un mondo di pace e di felicità, di giustizia e di amore da conquistarsi sulla terra. Aspirazioni della nostra coscienza e affetti eterni, perché eterna ne è la sorgente: fioritura lirica della nostra anima, che, come Stazio spiega, è "forma" del corpo; principio di vita e di passione concesso da Dio, primo motore, a tutta la materia. Le perfezioni dell'intelligenza e della volontà, facoltà spirituali dell'anima, sono, nell'ordine dell'agire, la saggezza e, nell'ordine del fare, l'arte. E saggezza e arte sono ciò che Dante vive e di cui parla nella cornice sesta, dove si purificano i golosi, ridotti a pietosa magrezza. Qui egli incontra Forese Donati, l'antico compagno di piaceri e di errori; e tutt'e due, felici di ritrovarsi insieme lassù, si richiamano velatamente al loro passato, mentre i ricordi familiari si riaffacciano dolci e teneri alla loro memoria e sulle labbra riecheggiano i nomi delle persone care e delle creature pure, amate e ammirate come la parte migliore della loro anima. Saggezza che contempla le cose in libertà, perché le vede Divina Commedia 69
  • 20. dall'alto; il che porta Forese a esaltare la sua buona moglie che prega per lui e a inveire contro le sfacciate donne fiorentine e a prevedere la triste fine di Corso Donati. E ancora in questa cornice, rispondendo a una domanda di Bonagiunta da Lucca, Dante pone a regola suprema dell'arte quel diritto amore ("ordo amoris") che informava la lirica giovanile del "dolce stil novo". Ma nel canto d'amore la perfezione dell'arte è la bellezza dello stile, quella bellezza d'immagini che Dante ha ammirato nei versi del "maestro suo", Guido Guinizelli, e del trovatore Arnaldo Daniello, i due poeti che nella cornice ultima, quella dei lussuriosi, sono purificati nel fuoco. Anche Dante, guidato e spronato affettuosamente da Virgilio, passa attraverso le fiamme. Ormai egli è sulla scala che porta al Paradiso terrestre. Alla vita sociale o attiva seguirà la vita contemplativa: a Lia seguirà Rachele, le due donne che Dante, addormentato su un gradino della scala, tra Virgilio e Stazio, vede in sogno, dopo aver chiuso gli occhi alle stelle scintillanti, più luminose nel cielo. L'insegnamento di Virgilio, come scienza degli atti umani e della libertà è finito. Sotto la sua guida sapiente - ispirazione naturale e arte, che è il "bello stile" della ragione pratica - Dante si è conquistato la rettitudine della volontà, instaurando contemporaneamente in se stesso la sua somiglianza a Dio e la conformità alla sua propria natura, perdute col peccato. Egli è una "persona", un "per sé" sussistente, un "per sé" operante, capace di trascendere con la sua intelligenza il mondo della realtà sensibile e attingere l'essere in se stesso, nella sua universalità. Il Paradiso terrestre. Sotto un cielo senza confini l'alta montagna del purgatorio distende la sua cima in verdeggiante pianura. Virgilio si congeda commosso dal suo discepolo. La perfezione della saggezza, che è il possesso della verità, non può venire a Dante da lui. Virgilio lascia la parola all'anima di Dante, che s'avanza nella pianura e s'inebria contemplando. Letizia spirituale della sua intelligenza, che assapora la bellezza luminosa delle cose nel quadro di una natura sapientemente ordinata e tutta consonanze e armonie. Ma allora, con un movimento spontaneo dell'intelligenza che contempla, mentre il cuore s'umilia per esaltare, Dante si porta a una Saggezza superiore che tutto ordina e dispone, a Dio creatore, causa prima della bellezza di quanto esiste. E’ un primo atto di giustizia reso a Dio. Perfezione ultima della saggezza umana, che si fa guida a Dante nel Divina Commedia 70
  • 21. Paradiso terrestre, e che egli raffigura in Matelda: la saggezza dei libri sacri, dove essa appare come creata e increata, identificandosi a Dio ed essendone la prima creatura (Convivio). Matelda dà ragione a Dante della forma del Paradiso terrestre, dei suoi due fiumi, il Lete e l'Eunoè, e della caduta del primo uomo; e quindi lo porta a contemplare, con un primo sguardo di fede, la saggezza divina che veglia all'esecuzione del suo piano provvidenziale, assistendo gli uomini in viaggio verso l'eternità per mezzo dei santi del cielo e per mezzo degli angeli. "Credo nello Spirito Santo, nella santa Chiesa cattolica, nella comunione dei santi, nella resurrezione della carne e nella vita eterna", questo è il motivo che Dante oggettiva nella processione mistica, contemplata con occhi attoniti e attenti. La processione s'avanza in forma di croce sullo sfondo di una natura la cui bellezza Dante sa essere figlia del Verbo, e si dispiega dentro un'atmosfera vibrante di luci, corsa da melodie ed esultante di canti. Misteri della fede, che si presentano in simboli avvolti di mistero: i doni dello Spirito Santo; il mistero dell'Incarnazione divina, ultimo termine di tutte le promesse dell'Antico Testamento; il corpo mistico della Chiesa (il carro tirato dal Grifone alato); ossia la Chiesa come società spirituale nella quale discende da Dio, per Maria Vergine mediatrice e per il Cristo redentore, un influsso soprannaturale di luce e di amore, che trasmette a tutte le anime i doni dello Spirito Santo e l'amore di carità, vincolo di perfezione che stringe tra loro, unendoli a Dio, i fedeli della terra, le anime del purgatorio e i santi del cielo e gli angeli. Perfezionando nell'uomo le virtù cardinali (le quattro virtù a destra del carro), che lo ordinano alla vita sociale o civile, suo fine naturale, la carità s'impadronisce della vita intima dell'uomo e la fa corrispondere alle virtù teologali (le tre virtù a sinistra del carro), e al suo fine soprannaturale. In tal modo egli diventa effettivamente concittadino dei santi e domestico di Dio. La processione s'arresta. Ed ecco che dal sommo della città di Dio discende, dentro una nuvola di fiori, gettati dagli angeli, Beatrice beata, la santa che veglia per la salute di Dante, amando in lui una natura capace di ricevere la grazia di Dio. Velata di bianco, cinta d'oliva, in verde ammanto, e con veste color fiamma, Beatrice si posa sul carro della Chiesa; e Dante, che la riconosce, sente dentro di sé ravvivata la fiamma dell'antico affetto (Vita Nuova). E ne vuol parlare a Virgilio; ma Virgilio, "dolcissimo padre", è scomparso. Divina Commedia 71
  • 22. Trascolora ormai la ragione poetica che parla nell'anima di Dante. Con un ritorno improvviso agli anni felici della sua giovinezza, ma con l'esperienza in più, egli torna ad amare in se stessa la bellezza spirituale di Beatrice, come raggio della bellezza divina partecipata, un lontano riflesso del Verbo di Dio creatore. Dante non può sottrarsi al pianto per la scomparsa di Virgilio; ma subito lo scuote l'alto rimprovero di Beatrice, per aver egli obliato tale bellezza quando essa era diventata più fulgida e più pura. Maternamente, in spirito di carità, ella gli rammenta le buone promesse della sua "vita nuova" e i traviamenti che non le hanno annullate, perché esse erano felici disposizioni di natura a realizzare l'idea divina che avrebbe dovuto e potrà ancora attuare. Dante confessa le sue colpe e piange il tempo invano perduto. Tuffato da Matelda nel Lete, egli rinasce dall'acqua alla vita della grazia ed entra nella città di Dio. Le quattro virtù cardinali, che sono virtù acquisite o ninfe nel Paradiso terrestre e virtù infuse o stelle nel cielo, lo mettono in grado, insieme con le tre virtù teologali, di vedere la seconda bellezza di Beatrice: la bellezza dell'essere spirituale in stato di grazia, e perciò "splendore di viva luce eterna". E’ cioè la bellezza della santità, nella quale si rispecchia la bellezza divina e umana del Verbo incarnato. La processione mistica riprende il cammino, ripiegando verso oriente da dove è venuta; ma si sofferma presso l'Albero della vita spirituale, la cui chioma spazia e si amplifica sempre più nei cieli quanto più sale e vi si sprofonda. La volontà di Dio, semente in noi d'ogni giustizia, era significata da questo albero, reso sterile dalla disobbedienza di Adamo. Non appena Cristo (il Grifone) vi lega, con gli stessi rami dell'albero, la croce (il timone del Carro della Chiesa), l'Albero della vita spirituale rifiorisce, nei colori dell'ametista, i colori della carità, che sopraeleva con le virtù morali infuse le virtù morali acquisite in relazione ai fini eterni della persona umana. Dio infatti ci ha creati a sua gloria, ma per la nostra glorificazione. Cristo (il Grifone) ascende al cielo, mentre sul nudo terreno della grazia, quasi a custodia del Carro della Chiesa, resta Beatrice: la saggezza cristiana dei santi, che vivifica alle radici l'Albero della vita spirituale, vivificando nell'ordine di esercizio tutte le virtù dell'anima, cardinali e teologali, con i doni dello Spirito Santo. Contemplato così in simboli l'ordine del piano provvidenziale, che la Saggezza divina ha stabilito per il governo delle anime, Beatrice mostra a Dante come si pecchi contro Dio, non rispettando (prime persecuzioni Divina Commedia 72
  • 23. cristiane) l'Albero della vita spirituale, ossia la persona umana ordinata essenzialmente al fine soprannaturale; e come si pecchi contro la verità, non riconoscendo (eresie). Sovvertimento dell'ordine provvidenziale fu la donazione di Costantino (Monarchia), per la quale entrò nella Chiesa militante lo spirito di cupidigia: il Carro si trasforma in mostro e su di esso una meretrice (la Curia romana) delinque con un gigante (Filippo il Bello). Ma la Provvidenza divina veglia e l'ordine sarà presto ripristinato: la cupidigia, che infranse il "sacro vaso" della Chiesa di Cristo, sarà punita in chi ne ha colpa; la monarchia universale avrà finalmente un suo rappresentante, che ne farà valere gli imprescrittibili diritti; e verrà il "messo di Dio" (DUX), per il quale trionferà nella Chiesa la carità e nella città terrena la giustizia. La saggezza di Beatrice - saggezza dei santi, che è un confidente abbandono alla Provvidenza divina - è quella che conforta Dante. Insieme con Stazio egli beve quindi l'acqua dell'Eunoè e, rinato allo Spirito, si trova "puro e disposto a salire alle stelle". Paradiso. E’ la vita eterna cominciata nel tempo, la vita soprannaturale della grazia, che Dante vive in cammino di perfezione verso l'eterno. Sopraelevando dal profondo la sua natura, la grazia santificante lo proporziona progressivamente alla beatitudine soprannaturale, che è la visione dell'essenza divina; e ve lo proporziona in quanto Dante, per la sua stessa natura intellettuale, vi è proporzionabile, cioè si trova in potenza passiva di essere innalzato dalla grazia a tale proporzione. Dopo aver mirato per un attimo la luce che gli piove dall'alto, Dante s'affissa con lo sguardo su Beatrice, i cui occhi sono fermamente rivolti a Dio. E allora, per l'ardente amore di quella bellezza che risplende in lei - bellezza divina e umana della santità il cui esemplare eterno è Cristo - Dante si sente trasumanato. Similmente all’esperienza di san Paolo, "non sono io che vivo, ma Cristo che vive in me", la grazia fa Dante un figlio adottivo di Dio: lo fa "consorte" della natura divina; e insieme con la grazia fiorisce in lui la carità, che attinge Dio come realmente presente nell'anima a titolo di dono. E una nuova natura spirituale si svolge in lui e lo orienta interiormente verso Dio come oggetto di conoscenza e d'amore; ma di una conoscenza e di un amore fruitivi, che lo metteranno in possesso di Dio, non a distanza, bensì in unione reale con lui. La ragione poetica che informa il paradiso dantesco è la vita e l'attività di questa nuova natura spirituale, che sviluppa nell'anima di Dante un complesso organismo Divina Commedia 73
  • 24. di energie soprannaturali: virtù teologali di speranza e di fede, doni dello Spirito Santo, virtù morali infuse, ma che fiorirà in visione dell'essenza divina soltanto al suo termine, di là dal tempo. Per ora essa fiorisce in attualità operativa mediante la carità e con la carità; la quale è sulla terra quella stessa che è nel cielo, ma in uno stato ancora imperfetto, perché sulla terra, nonostante il suo fervente anelito alla visione, non può procedere che dalla fede come sostituto della visione. Finalizzato dal desiderio di vedere Dio come egli stesso si vede, Dante si sente trasportato oltre la sfera del fuoco, entro la luce sfolgorante dei cieli e le sonore armonie delle sfere ruotanti. La ragione che presentemente lo guida è quella di Beatrice, "ch'opera è di fede": una ragione veramente pura, che non vive che per la fede e che insieme con la fede possiede la speranza e la carità. E’ insomma la saggezza cristiana, la quale ci fa conoscere Dio nella sua vita intima entro le immagini della fede, al modo umano e discorsivo; cioè Dio viene conosciuto per fede nei simboli di cui si serve lo spirito che crede, e che aderisce perciò a quanto Dio stesso ci ha di sé rivelato. Il mondo soprannaturale della grazia e della carità, che dà forma al paradiso dantesco, traduce, in immagini spaziali di luce e d'armonia, quella che è la vita interna dell'Albero spirituale piantato da Dio nel Paradiso terrestre e la cui chioma, travolta in su la cima, via via si dilata quanto più sale in su. E l'ascesa di Dante di cielo in cielo, ossia di perfezione in perfezione sempre maggiore, corrisponde, nella vita della grazia, all'ascesa su questo Albero della vita spirituale; cioè Dante, sostituendo alla propria volontà la volontà di Dio, riceve per grazia ciò che Dio possiede per natura: l'indipendenza assoluta di fronte a tutto il creato, il disprezzo di tutte le cose, ma per amarle tutte in se stesse come Dio le ama, infondendo in loro la bontà e facendole perciò degne di essere amate. Il paradiso dantesco rappresenta in simbolo la città di Dio, la Chiesa trionfante. Lì, per i meriti di Cristo e di Maria Vergine mediatrice, discende da Dio su tutte le anime un influsso soprannaturale di luce e d'amore, che le tiene tutte sotto la luce della sua radiante bontà; la quale risale in certo qual modo verso Dio da parte di tutte le anime, che in rendimento di grazia cantano tutte a gloria di lui, per la pace finalmente raggiunta col possesso effettivo e gaudioso della verità contemplata. Attraverso le immagini della fede e in virtù della carità, che già sulla terra lo fa cittadino del cielo, Dante conversa con le anime beate e le conosce Divina Commedia 74
  • 25. sperimentalmente per connaturalità affettiva. Dapprima egli sale ai sette cieli planetari, dove, secondo le connessioni e le complessioni della natura e della grazia, gli si presentano le varie anime; e ciascuna è nel proprio pianeta, in ragione della virtù morale acquisita ("ninfa" nel Paradiso terrestre), ma sopraelevata ora dalla carità e dalla corrispondente virtù morale infusa ("stella" nel cielo). L'ordine del paradiso dantesco s'attiene perciò a un processo perfettivo di energie naturali e soprannaturali: la fortezza nel cielo della Luna mossa dagli Angeli, la giustizia in Mercurio mosso dagli Arcangeli, la temperanza in Venere retto dai Principati e la Prudenza nel Sole retto dalle Podestà. Per le virtù teologali infuse, considerate però nell'esercizio umano e secondo l'uso dell'intelligenza, la fede è nel cielo di Marte, mosso dalle Virtù; la speranza in quello di Giove, mosso dalle Dominazioni, e la carità in Saturno, mosso dai Troni. Per tali virtù morali infuse tutte le anime, pur apparendo a Dante nei singoli pianeti, sono tutte in Paradiso. Un solo Spirito opera in tutte, nonostante la diversità dei suoi doni. Un solo Padre, che è sopra di tutti, agisce in loro nonostante la diversità delle loro operazioni. In Dio tutte si armonizzano in se stesse e tra loro insieme; e agiscono tutte, le une sulle altre, con santo zelo del bene, e odio santo del male. Comunione dei santi, che pregano con ardore di carità, perché la volontà di Dio sia fatta e avvenga il regno suo così in terra come in cielo. La sua esperienza di conoscenza e d'amore, nel Paradiso della fede, Dante la traduce fantasticamente in termini di analogia, dove le immagini di luce si riportano alle viventi realtà divine considerate in se stesse e conosciute da ciascuna anima in modo proporzionato alla sua natura. A loro volta le immagini gaudiose dell'amore di carità, che è numero interiore e ritmo, musica e canto dell'anima esultante, si riportano tutte a Dio, che a ciascun'anima si è donato per grazia. Nel cielo della Luna, tra coloro che vennero meno ai loro voti, Dante incontra Piccarda Donati, "vergine sorella" nell'ordine di Santa Chiara, rapita dal convento e costretta alle nozze: creatura gentile di bellezza e di bontà, la cui fortezza spirituale, attinta da Dio contro i tormenti della sorte avversa, trionfa lieta lassù come fortezza dello Spirito Santo. Nel cielo di Mercurio, tra gli spiriti attivi, Giustiniano esalta l'opera sua di legislatore, esaltando la virtù di giustizia che informò le leggi dell'Impero romano, Divina Commedia 75
  • 26. ordinato provvidenzialmente al bene dell’individuo e al bene della persona umana. Virtù di Giustizia, che i Guelfi e i Ghibellini ignorano, e che è analoga alla giustizia distributiva di Dio, per la quale in quello stesso cielo è premiato l'umile Romeo. Nel cielo di Venere, tra gli spiriti amanti, Dante riconosce Carlo Martello, che biasima l'intemperanza dei principi della sua stirpe, preoccupati solo di dominare. E riconosce ancora Cunizza da Romano e Folchetto da Marsiglia, che temperarono le fiamme del loro amore, rivolgendolo a fini soprannaturali. Nel cielo del Sole, tra gli spiriti sapienti, la prudenza che animò san Tommaso d'Aquino e san Bonaventura si rivela nell'esaltazione della Divina Provvidenza che regge il mondo. Nello stile che a ciascuno dei due è particolarmente proprio, essi tessono, l'uno il panegirico di san Francesco e l'altro il panegirico di san Domenico, i due santi fondatori di ordini religiosi, che purtroppo si sono sviati da quello spirito che stava loro a principio. Nel cielo di Marte, tra i martiri della fede, Dante ritrova Cacciaguida, prima radice della sua famiglia. Il motivo lirico della saggezza crocifissa, che informa il Paradiso, ma che costituisce il motivo segreto e profondo di tutta l'esperienza cristiana trasfusa nella Divina Commedia, si concreta e trova la sua luce nel colloquio tra l'avo e il nipote. Cacciaguida rievoca, in contrasto col presente, la Firenze del bel tempo antico, tutta ordinata spiritualmente al benessere civile e al rispetto della persona umana, il cui fine ultimo è Dio. E al nipote, venuto da quella Firenze moderna che lo ha condannato, e che egli dal cielo condanna, Cacciaguida predice, a gloria di lui, le pene dell'ingiusto esilio e della povertà. Motivo di orgoglio, sì, ma più ancora di confidente abbandono all'infallibile giustizia di Dio. Questa giustizia ormai Dante la conosce per segni manifesti; e potrà perciò gridarla senza timori in faccia al mondo ed esaltarla in ammonimento e a vergogna di chi la conculca e la offende. Gli spiriti informatori del "poema sacro", nel quale il tema dell'esilio e della povertà di Dante costituisce un motivo ricorrente che sempre svaria e trascolora, s'illuminano in questo episodio e si sostanziano di viva fede. Qui Dante affronta dignitosamente l'avverso destino e l'accetta per amore di Dio; e si fa gloria delle persecuzioni che dovrà subire da parte di uomini ingiusti, nei quali tuttavia egli ama la loro anima, ancora capace di ravvedersi e di ricevere la grazia. Divina Commedia 76
  • 27. Innalzato quindi al cielo di Giove, Dante si trova tra gli spiriti pii, che amando la giustizia in se stessa, al di sopra di ogni cosa, la attuarono e si nutrirono di verità. Aquila il cui occhio vede là dove l'occhio umano non arriva, la giustizia imperscrutabile di Dio, che s'identifica con la sua misericordia, e che vuol essere vinta dall'amore, infuse in questi spiriti, anche se pagani come Rifeo o Traiano, la fede e la speranza della salute eterna. Da ultimo la grazia porta Dante al cielo di Saturno; e qui gli si presentano i santi che vissero di carità e di contemplazione. Essi cooperarono al governamento divino delle anime con la preghiera, effetto che Dio ha voluto da tutta l'eternità, come mezzo (la scala d'oro) per ottenere da lui la grazia di cui abbiamo bisogno, per arrivare al termine del nostro viaggio. Dante ascolta l'ispirata parola di san Pier Damiano e di san Benedetto, che ricordano la loro vita e la loro azione, biasimando l'uno i prelati, l'altro i propri seguaci, troppo legati alle cose e immemori del fine soprannaturale al quale ogni anima è ordinata. Nella personalità veramente perfetta dei santi Dante conosce, per connaturalità affettiva, le virtù che Dio vi infonde, e si conquista la sua propria personalità nella misura stessa in cui docilmente si rimette a Dio, dallo spirito del quale si sente mosso. Ponendosi, per amore di Dio, di fronte alle cose con sempre maggiore indipendenza, egli può guardare giù alla terra, di là dai sette pianeti, e sorridere del suo "vil sembiante". Ormai è nel cielo delle Stelle fisse, dove Cristo e Maria mediatrice sono gli astri maggiori che trionfano nella loro gloria tra miriadi di stelle. Con immagini che adunano in sé gli splendori del cielo e della terra Dante traduce in termini di analogia il contenuto della fede cristiana, mentre la sua anima, in stato di grazia, prende coscienza di se stessa e delle proprie certezze interiori e in quella fede si conferma con gioia. E’ cioè, nella vita della grazia, una conoscenza ispirata, di cui Dante dà prova quando san Pietro lo interroga sulla fede, san Giacomo sulla speranza e san Giovanni sulla carità: le tre virtù teologali che non possono essere oggetto di conoscenza, se non quando l'anima sia fatta mobile al soffio dell'ispirazione divina. E lo spirito di Dio, nelle risposte di Dante, dà testimonianza di se stesso; è questa un’esperienza nella quale l'anima di Dante palpita felice come palpitò felice l'anima del primo uomo, creato dalla libera volontà di Dio nello stato di grazia. Ed è qui che l'anima di Adamo, prima radice dell'uomo, si fa presente a Dante in visione. E tutta la storia della creazione, attraverso le vicissitudini dell'umanità che varia, si aduna lì, in Adamo, come principio e come fine, Divina Commedia 77
  • 28. come manifestazione della bontà infinita di Dio, che non solo ci ha dato la nostra natura, ma che la ordina a un bene infinitamente migliore. La grazia, divinamente mescolata all'atmosfera umana che respiriamo, ai ricordi della nostra storia e della nostra specie, ci avvolge da ogni parte e ci stimola e ci sprona, perché solo uniti a Dio attraverso Cristo redentore possiamo vivere della stessa verità e della stessa carità. Comunione dei santi, per il cui trionfo san Pietro, dall'alto del Paradiso, tra lo stupore di tutti i beati, tuona contro colui che usurpa in terra il suo posto, contro Bonifazio VIII e i pontefici immemori del loro alto ministero. Al tempo stesso egli annunzia immancabile il soccorso della Divina Provvidenza. La fede di Dante, che permea tutto il poema, ritrova qui, per amore di carità, la sua espressione più alta. Essa poggia sull'interpretazione provvidenziale della storia (Epistole, Monarchia) e di essa si sostanzia tutta la Divina Commedia, che dentro la storia vive e palpita e se ne nutre e si sviluppa. Nella storia umana, come nell'ordine dell'universo, Dante coglie il significato oggettivo di concetti che s'avvivano della sua fede e la illuminano, mentre poeticamente li traduce in giudizi di assoluta certezza. La grazia ancora lo innalza al Cielo cristallino, che è il cielo della fede soprannaturale, la cui luce dirige il movimento naturale della ragione e il suo modo naturale di conoscenza. E qui Dante coglie Dio in lontana visione, come punto luminoso: fiamma di amore, intorno alla quale s'aggirano i nove cori angelici, e fonte di luce intellettuale, dalla quale discende, insieme col movimento della vita e del tempo, un flusso eterno di causalità creatrice, che nelle creature si rifrange e si prismatizza. La visione svanisce in un lampo vivissimo che avvolge Dante, luminosa oscurità della fede, che lo innalza nel cielo della pace divina e della pura contemplazione: l'Empireo. La carità di Dio, che trionfa nell'eterno e che ne canta la gloria, è la "forma general di Paradiso". Questa gli si dispiega dinanzi ed è come un fiume di luce tra sponde fiorite. Tangibile manifestazione della bontà di Dio, quel fiume di luce si rivela poi all'occhio estatico di Dante come una candida rosa, i cui petali sono ciascuno il seggio di un'anima beata, mentre una volante moltitudine di angeli, scendendo dalla Luce eterna nel fiore e a lei risalendo, comunicano a tutte le anime l'ardore di carità e la pace. Immagine lirica in cui Dante, alla cima della sua esperienza in Paradiso e al sommo dell'universo creato, coglie in se stesso la vita soprannaturale della grazia che vive in lui e Divina Commedia 78
  • 29. che di se stessa lo fa innamorare nella gloria delle perfezioni create, dove la luce e l'amore di Dio si rivelano prismatizzati e rifranti. Beatrice, la santa che l'ha guidato di cielo in cielo, di perfezione in perfezione sempre maggiore, ora lo lascia e ritorna al suo seggio di gloria, "riflettendo da sé gli eterni rai". Sostanzialmente distinto dal suo creatore, Dante non è più che un puro amore di Dio per Dio, una vivente immagine di Dio. Ma Dio resta ancora infinitamente al di là, perché la fede glielo fa conoscere solo a distanza; e nella fede Egli è conosciuto come non conosciuto. Il desiderio della visione resta; e allora non rimane a Dante che piegare le ginocchia e pregare. Egli s'affida, per conoscere l'oggetto essenzialmente soprannaturale della fede, alla saggezza mistica, raffigurata in san Bernardo. Con la sua alata preghiera alla Vergine il grande contemplante, insieme con tutti i beati, impetra per Dante il gaudio della visione di Dio: realizzazione del voto iscritto nella sua natura dalla grazia santificante. La Vergine rivolge gli occhi all'eterno Lume e Dante, nel silenzio di ogni creatura e di ogni rappresentazione, gode di una conoscenza fruitiva di Dio. Per l'amore di carità che lo ispira e per la carità che gli è infusa da Dio, Dante, sotto la speciale ispirazione dello Spirito Santo, non solo esperimenta in sé il suo amore di Dio, ma Dio stesso attraverso il suo amore. E Dio stesso è presente in lui, che egli coglie per visione, credendo di averLo realmente intuito per la dolcezza infinita che ne prova affermandoLo. Un attimo solo di eternità; dopo il quale Dante si sente nuovamente ripreso nell'universale circolazione di quell'"Amor che move il sole e l'altre stelle". L'allegoria fondamentale del poema. La conoscenza sperimentale di Dio, come oggetto di conoscenza d'amore, è il fine ultimo della Divina Commedia e la causa finale per cui Dante si è mosso, uscendo dalla "selva oscura e selvaggia", per entrare nel mondo dell'esperienza. Il "luogo eterno" dove le anime esercitano la loro esistenza e la attuano, è il presupposto e la condizione necessaria di questa sua esperienza, perché nel regno dello spirito ricevere dagli altri significa agire, cioè arricchirsi intrinsecamente dell'essere di chi è diverso da noi; e quindi perfezionarsi interiormente e manifestare l'autonomia di ciò che c'è di più vivo e di vivente in noi. Il viaggio di Dante è questa azione immanente. E’ la vita del suo spirito, che attraverso all'esperienza si sviluppa spontaneamente, e cresce e concresce insieme con la sua stessa esperienza, a guisa di globo il cui volume si dilata nella misura stessa che se ne allunga il raggio in rispondenza del cammino Divina Commedia 79
  • 30. percorso. Al termine del suo viaggio la vita spirituale di Dante, che si è nutrita dell'essere esistenziale, sia nell'ordine della natura, sia nell'ordine soprannaturale della grazia, congloba in sé tutto quanto l'essere creato, terra e cielo; e Dante non è più che il semplice portatore di un'immagine di Dio, quell'immagine che poeticamente egli oggettiva nel microcosmo della Divina Commedia, un microcosmo analogo, per similitudine di proporzioni, al macrocosmo. E come Dio creò l'universo in sette giorni, iniziando la sua opera in primavera, col sole nella costellazione dell'Ariete, così, analogamente, Dante crea il suo universo poetico in sette giorni, iniziando il suo viaggio in primavera, col sole in Ariete, nella settimana pasquale dell'anno 1300. Allegoricamente il viaggio di Dante è il viaggio di ogni anima, che attraverso il mondo dell'esistente tende alla beatitudine soprannaturale come a suo ultimo fine, per grazia di colui che le ha dato la natura; e che l'ha lasciata libera di scegliersi i suoi fini particolari nei limiti del fine generale verso il quale essa è portata dal peso della sua propria essenza. In tal modo il principio vitale e dinamico che via via s'incorpora nella Divina Commedia, - e che si può cogliere entro la pura linea delle determinazioni spirituali che si disegna in Dante come soggetto d'azione - è la vita dell'anima, come "forma intenzionale" che dell'umana essenza è vagheggiata nella mente di Dio e contemplata dagli angeli (Convivio). E tutto il poema, nella trama fantastica mediante la quale Dante oggettiva e racconta un'esperienza da lui stesso intimamente vissuta in relazione a Dio, che è l'Essere degli esseri, si risolve in una continua metafora; la quale chiude in sé, ed è il suo mistero, un'analogia di proporzionalità propria, assegnabile ed esprimibile per se stessa, ma inesauribile e sovrabbondante di sensi ("polisensos, hoc est plurium sensuum", come dice Dante nell'epistola a Cangrande), a tal punto che essa è sempre più della sua stessa espressione. La condizione delle anime, ripartite nei tre regni dell'oltretomba e distribuite secondo l'ordine di una giustizia che tiene conto per ciascuna di esse o del merito o della colpa, è l'espressione storica o letterale ("sensus litteralis sive historialis") di uno stato di fatto. E’ cioè lo stato in cui storicamente si trova, nel soggetto umano, la natura dell'uomo, con diretto riferimento alle sue condizioni di esistenza e di esercizio nel concreto. Di qui la duplice ripartizione del poema, secondo che l'uomo è considerato ("simpliciter acceptus") nella sua natura di animale socievole (Inferno e Purgatorio), il Divina Commedia 80
  • 31. cui fine naturale e temporale è la contemplazione (Paradiso terrestre); oppure è considerato ("non simpliciter acceptus, sed contractus") nella sostanza della sua natura, il cui fine soprannaturale ed eterno è la visione di Dio (Paradiso). In relazione allo stato di fatto in cui si trovano le anime dopo la morte corporale, la raffigurazione delle pene o del premio, a cui esse sono andate incontro, va riportata, perché non sia intesa materialmente, alla nozione metafisica e analogica della "persona", il cui analogo supremo è Dio. Egli solo infatti possiede la personalità nel senso più perfetto della parola, perché egli solo è assolutamente indipendente nel suo essere e nella sua azione, essendo la sua personalità il suggello della sua trascendenza e delle sue infinite perfezioni. La persona umana, che è una sostanza individuale completa, di natura intellettuale e signora delle sue azioni, costituisce la vera "nobiltà" dell'uomo (Convivio); ma è una nobiltà che ciascuno deve conquistarsi, mettendola in luce nella misura stessa in cui la vita della ragione e della libertà si farà dominatrice in lui della vita dei sensi e delle passioni. Altrimenti egli resterà un "individuo", la cui vita sarà simile a quella dei bruti e delle piante e delle pietre. Lo svolgimento della nostra individualità, che viene dal corpo, è seguito da Dante nella sua discesa infernale: un continuo sprofondarsi nel buio della materia, con il conseguente annullamento della nostra innata libertà. Sotto l'influsso di una passione dominante l'equilibrata armonia della persona umana, nella sua inscindibile unità di anima e corpo, si deforma, s'incrina e si frange (si pensi al Veglio di Creta), riducendosi a una multiforme pluralità di facoltà dinamiche in contrasto. La progressiva conquista della persona, i cui privilegi sono nascosti nella materia della nostra individualità carnale, Dante la invera mentre scala la montagna del purgatorio; ed è la vita di una ragione che ci giudica e si giudica con un ritorno sui propri atti, e che liberandoci dalle suggestioni della sensibilità ci ordina dall'interno e ci dispone stabilmente al vero bene. Ma lo svolgimento completo della personalità, che viene dall'anima, Dante lo invera contemplando nei cieli della sua fede, che sono poi i cieli della grazia di Dio, le anime di coloro che amarono in Dio l'esemplare eterno e la sorgente di ogni personalità degna veramente di questo nome. Essi cercarono di sostituire in certo qual modo, nell'ordine dell'azione, della conoscenza e dell'amore, al loro proprio io l'io divino, rinunziando alla loro personalità o indipendenza di fronte a Dio, dal cui spirito dovevano essere mossi per essere suoi figli. Divina Commedia 81
  • 32. Dall'individuo alla persona morale e dalla persona morale alla personalità, che è in noi il fiorire e il fruttificare, insieme con Dio, di un'idea creatrice di Dio, è il cammino che Dante percorre nel suo poema. E’ cioè l'esperienza vitale che egli fa di se stesso in virtù di un ordine naturale iscritto nella sostanza di ogni persona. Agire in senso contrario a questo ordine è per l'uomo opporsi alla volontà di Dio; è negare in se stesso, per quanto gli è possibile, il fine che Dio si è proposto creandolo, suicidio di una persona morale creata per la beatitudine eterna, e che la rifiuta. E perciò l'inferno, dove le anime sono morte alla grazia, è un'escavazione in direzione opposta al loro fine naturale, un'escavazione nell'oscuro dominio della individualità fino al tufo solido dell'istinto. Nel purgatorio e nel paradiso, dove le anime sono vive alla grazia attuale e santificante, si ha una continua ascesa di libertà in libertà, di luce in luce, per "la diritta via". Lungo il suo viaggio Dante dispone le anime, seguendo l'ordine di una giustizia distributiva, che tien conto dei meriti e delle colpe. Egli consulta la voce della sua coscienza, che è poi la voce di Dio, la voce di quella ragione naturale che ci guida: una ragione analoga alla ragione creatrice, che governa e muove tutte le cose create e le porta al loro fine. La coscienza morale e religiosa di Dante che giudica, mentre si riconosce giudicato da essa, si radica nel sentimento del Dio vivente in noi e che parla in noi, legando, per un legame di partecipazione, la nostra ragione alla sua stessa ragione. Di qui il tono generale del "poema sacro" dove Dante, per un'ispirazione che gli viene da Dio, autore della natura e rimuneratore nell'ordine della grazia, si sente nuovo Enea e nuovo Paolo. Investito di una missione provvidenziale, egli spera di redimere colpe ed errori non a sua gloria ma per la glorificazione di Dio. E di qui ancora la sorgente unitaria di quel linguaggio poetico, essenzialmente lirico e sostanzialmente identico a se stesso pur nella varietà delle sue sfumature, che costituisce il tessuto fantastico del poema. E’ un linguaggio che non si esaurisce nella sua appariscenza, perché va trasferito, per analogia metaforica, alla vita intima dell'anima di Dante in cammino verso Dio; come pure va trasferito alla vita intima di ogni anima, sia che essa rigetti la vita razionale e s'interni sempre più a fondo nella materia della sua individualità carnale, sia che essa si conformi alle esigenze e ai destini propri della natura umana e si conquisti, mediante la ragione e le virtù morali, una personalità. Solo allora essa si sarà messa tutta in luce, facendo rifulgere Divina Commedia 82
  • 33. in se stessa un'idea di Dio creatore. Ma l'esperienza di Dante e di cui Dante s'arricchisce, perché concresce con lui, è una conoscenza poetica ("sensus qui habetur per litteram"), fondata sullo stato di fatto in cui si trovano le anime lungo il suo cammino, ossia lungo la linea dell'attività che interiormente lo finalizza e lo perfeziona. Ciò che Dante conosce sperimentalmente, per connaturalità, nella misura stessa che fantasticamente se la fa presente in visione, è, come ci vien detto nell'epistola a Cangrande, la "natura dell'uomo". E’ l'essere umano considerato nel suo dinamismo interno che lo anima e che lo porta all'azione concreta; ed è giudicato secondo l'uso del suo libero arbitrio e la facoltà di scelta in rapporto ai suoi fini particolari e in rapporto al Bene supremo. E’ cioè il mistero di ogni anima, con i suoi segreti della conoscenza e dell'amore, un mistero che si rivela incorporandosi, ma che incorporandosi si cela; e questo mistero Dante poeta oggettiva con la sua fantasia, seguendone fedelmente e con obbedienza i contorni, mentre, con un'analisi docile all'analogia dei trascendentali, vi penetra dentro e ne segue le operazioni, senza ledere in nulla, per ciascuna anima, l'unità, l'originalità e il segreto che le è proprio. Siamo sul piano metafisico della natura creata, dove ogni anima è una partecipazione analogica dell'amore che Dio ha per se stesso in virtù della sua propria perfezione. Il che presuppone un'identità di oggetto; per cui ogni anima, amando naturalmente se stessa e la propria vita e la vita dei suoi simili e il "dolce mondo che del sol s'allegra", ama in se stessa Dio senza conoscerlo e lo serve senza saperlo. E mentre tende alla bellezza che rifulge nelle cose, e che è la loro bontà e la loro verità, essa tende, senza saperlo, a Colui che possiede ogni perfezione creata per identità reale del suo essere, della sua bontà e della sua attività: a Colui che è la Vita stessa, di fronte alla quale tutte le cose sono come se fossero morte. Il sentimento che Dante ha della vita, come attività stabile e permanente, in tutte le gerarchie degli esseri e nelle forze oscure della natura e nel movimento degli astri e nella radiante luce delle stelle, è una partecipazione creata dell'attività divina creatrice, vibra in tutta la Divina Commedia. E questo sentimento, che è contemplazione poetica delle cose in ciò che è la loro vita segreta, involge sempre in sé un'ansia morale e religiosa e un pensoso stupore. Essa crea l'atmosfera spirituale che Dante pellegrino vive e respira, e che egli viene esprimendo fantasticamente in note coloristiche di paesaggio a luci e ombre. Tutto, in natura, dipende da Dio; e perfino le potenze cieche della materia, Divina Commedia 83
  • 34. che sono i mostri infernali, e gli spiriti del male, tutti sono inconsapevoli ministri della volontà divina. Anche l'uomo dipende da Dio, ma come amore creato, un centro di libertà, che fa fronte a Dio e a tutto l'universo, e nel cui segreto non può leggere altri che Dio. Ma la radice di questo amore, che è il seme di felicità in noi seminato dal buon seminatore (Convivio), è così sprofondata nella materia della nostra individualità carnale, che possiamo solo trovarla di là dalla nostra notte (Inferno), come di là dalla notte del nostro pianeta c'è agli antipodi il giorno e brilla il sole (Purgatorio). Solo allora quell'io spirituale, quell'io divino che è in noi, si farà sorgente di un'attività spirituale, che nel suo duplice esercizio, teorico e pratico, d'arte e di scienza, sarà un continuo perfezionamento della nostra persona destinata alla vita futura. Episodicamente, lungo il suo cammino, che si sprofonda nelle tenebre per giungere alla luce dell'opposto emisfero e salire "per lucem ad astra", Dante oggettiva in se stessa la vita di quelle anime che storicamente sono "di fama note". E cioè, dentro il sensibile e per mezzo del sensibile, egli fa tralucere la luce di una "forma", come bellezza in sé, come principio di vita e di passione, che ciascuno conosce nella misura stessa che poeticamente la vive. E’ una verità intelligibile, che non va considerata in modo univoco, come se si esaurisse in se stessa, né in modo equivoco, come se fosse puramente intellettuale o astratta, bensì in modo analogico (analogia di proporzione) in rapporto a Dio. E questa verità presentata "per esempio" è una verità morale ("sensus moralis"), se si tien conto del fine naturale o temporale al quale l'uomo è ordinato, o una verità spirituale ("sensus anagogicus"), se si tien conto del fine ultimo, soprannaturale, ed eterno. Secondo le prospettive teoriche del tomismo, già applicate da Dante nel Convivio, la sua esperienza poetica ha così per fondamento "storico" lo stato delle anime dopo la morte corporale, giudicate secondo l'ordine di esercizio, di esistenza e di vita; ma essa si svolge e si organizza in lui secondo l'ordine di specificazione. E’ cioè la natura o essenza dell'uomo, conosciuta sperimentalmente nei soggetti "esemplari", quella che si rivela a lui, sorretto e guidato dalla fede, su tre piani di analogia: quello della pura natura senza la grazia - che è la natura umana collocata nel Limbo dell'inferno -; quello della natura Divina Commedia 84
  • 35. umana sanata dalla grazia e in viaggio verso l'eternità; e quello della natura umana sopraelevata dalla grazia santificante. Su questi tre piani (inferno, purgatorio e paradiso), che implicano trasposizioni intime di attività e di vita, s'illuminano le simmetrie e le consonanze, le corrispondenze e le armonie spirituali, che collegano tra loro le tre cantiche e ne fanno una unità inscindibile. E ciò con un continuo approfondimento "sur place" del mistero dell'essere, che è l'oggetto di cui Dante poeta va dichiarando attraverso l'esperienza le differenze in esso contenute; poiché l'essere, che tutto imbeve, e non è nemico di nessuno, è il mare immenso nel quale fluisce perennemente l'eterna poesia di Dio. Il "subiectum" allegorico del poema. E in verità quella che Dante coglie poeticamente in ogni essere umano, e che conferisce alla Divina Commedia una salda unità di ispirazione, pur nella varietà delle note individuali in cui questa unità si prismatizza, è la poesia di Dio, ossia l'amore che ogni creatura ha di essa stessa e della sua propria vita, insieme con un desiderio di eternità e di pace, di verità e d'amore. Le aspirazioni liriche della nostra anima sono gli affetti eterni, la cui rettitudine, quando la manteniamo, non può non essere che un appello a Dio che li ispira. Ma solo con la carità, che presuppone la grazia, questi affetti possono diventare un abito operativo e farsi vere virtù morali. Altrimenti, come nell'inferno dantesco, essi non resteranno che pure aspirazioni liriche in contrasto con la nostra azione concreta, e faranno della nostra vita spirituale una vita disarmonica e divisa, sorgente eterna d'ogni dolore. Sarà allora la vita di Francesca, che anela alla pace e la cerca nell'amore, offrendosi con tutta se stessa, mentre si nega la pace tuffandosi nel vortice della passione; o la vita di Farinata, che anela al bene della patria, mentre si fa con la sua azione violenta il suscitatore di odi implacabili e di vendette; o la vita di Brunetto Latini, che anela idealmente al bene morale, mentre si tuffa nell'immoralità e se ne vergogna di fronte al suo discepolo; o la vita di Pier della Vigna, che anela alla giustizia e la vuole a gloria del suo proprio nome, mentre si fa ingiusto contro se stesso e si nega alla vita. Oppure sarà la vita di Ulisse, che anela di conoscere tutto e si strappa a tutti gli affetti per una verità puramente intellettuale che lo attira e lo travolge; o la vita di Ugolino, che ama disperatamente se stesso nei figli, ma con un amore che si fa generatore in lui di dolore e di odio eterno. Divina Commedia 85
  • 36. L’esperienza nell'inferno dantesco è la vita di un'anima, che nella sua naturale richiesta di felicità si tuffa sempre più nel mobile flutto delle cose, e si fa schiava delle cose. Chiusa nella sua realtà tormentosa, essa s'individua e giganteggia quanto più procede attraverso le tenebre delle sue passioni, con un movimento di discesa, di degradazione e di dissoluzione. E la sua eloquenza è quella di un io risentito, che si conferma e stacca gli altri da sé e li divide: ora ferma e decisa, ora rapida e a scatti, ora larga e solenne, ora fredda, proterva e tagliente, secondo che prevale in essa lo spirito di passione, di sopraffazione o d'ingiustizia. E tuttavia sempre tale che s'addolcisce con un sospiro alla vita serena, alla luce del sole, al dolce mondo degli uomini e alla sua cara umanità perduta. Desiderio di natura e aspirazione eterna, che è l'espressione insopprimibile del nostro io più profondo, di quell'io della vita che anela alla vita e che ci precede nell'essere. Ma sanato dalla grazia e fissato stabilmente in Dio, come bene comune separato da tutto l'universo, quest'io divino, che è la "forma" del corpo, rientra nell'ordine e si ritrova nella luce. Subordinando al fine soprannaturale i suoi fini particolari e contingenti, l'uomo ritrova con gioia l'unità della sua vita; ed è allora il gaudio di un amore che ragiona nella mente, armonia e ritmo e musica interiore e canto. L'amore naturale di noi stessi e della vita nostra nel tempo, sotto questo sole e in questo dolce mondo, si è ormai rilegato con gioia a colui che è l'Amore e la Vita di tutte le vite. E nella permanenza di un desiderio di natura, che è richiesta di vita felice fatta a Dio che solo può appagarla, l'uomo comincia un movimento di ascesa, di integrazione e di creazione. L’esperienza cristiana del purgatorio dantesco si compie nell'atmosfera spirituale del Pater noster ed è nel cuore, nelle opere e nella parola, la voce della preghiera permanente e la "frequentazione celeste". L'istinto di preghiera, che in noi è natura che domanda, si esteriorizza e ha la semplicità del gesto e l'umiltà degli occhi levati al cielo. Ed è armonia di anime e di voci, che attraverso Cristo redentore e Maria Vergine mediatrice, chiedono a Dio il pane della verità, delle buone ispirazioni e della grazia. Poesia eterna, di chi esperimenta in sé l'amore come bontà generosa che si effonde e di cui la preghiera è il desiderio e la ricerca. Bontà di natura, che è il nostro io divino, il quale umilmente fa richiesta di vita felice a Dio, nel sentimento della nostra comune indigenza, delle nostre debolezze e del nostro cieco lume. E questa bontà, che anela alla Divina Commedia 86
  • 37. bontà, e che spontaneamente si dona agli altri, è quella che ci strappa alla nostra individualità materiale, legata alle cose, agli avvenimenti e alle circostanze. Essa ci porta all'azione concreta, perché fa dell'amore "la legge dei membri": carità fraterna, che è l'ordine di natura, ossia la legge o ragione naturale iscritta da Dio, autore della natura, nella sostanza del nostro essere; da Dio, che la comanda e la esige per tutti i cuori da lui creati fratelli. Nella permanenza della carità fraterna, tutte le anime del purgatorio si collocano al di sopra del mobile flutto delle cose. Esse amano nell'uomo ciò che piace a Dio e ciò che l'uomo deve essere per piacere a Dio; cioè lo amano in se stesso, nella bontà della sua natura, che già possiede o è capace di ricevere la grazia. E l'eloquenza di queste anime è l'eloquenza della carità fraterna, che è l'anima comune della società di cui ciascuna si sente una parte integrante. E nella società ciascuna si raddrizza, si afferma, si sente più sicura di sé, prende una consistenza propria e si fa persona. Cioè ogni anima si fa creatrice della propria vita interiore e del proprio destino; e creatrice ancora di opere di bellezza, nelle quali, per l'istinto di comunicazione che nelle comunità umane è più profondo di quello dell'interesse individuale, passa, "a quel modo che ditta dentro", la bontà dell'amore che la ispira. E allora, in virtù di questa elevazione spirituale, il tono di tale eloquenza varia e s'individua secondo gli affetti dai quali ogni anima è mossa; sempre informata alla misericordia e alla pietà, alla commiserazione e all'amore del bene e sempre devota e affettuosa in ciò che tocca la famiglia, la patria, l'amicizia e la comunanza di vocazioni o di tendenze. Ed è calda e appassionata in Manfredi e in Buonconte, mite e dolce nella Pia, inquieta e sdegnosa in Ranieri da Calboli e in Guido del Duca, suadente e commossa in Marco Lombardo, soave e nostalgica in Nino Visconti, affettuosa ed esultante in Stazio, serena e fidente in Forese, ammirante e devota nel Guinizelli. In ragione del loro essere e degli accompagnamenti e delle conseguenze del loro operare, tutte le anime del purgatorio sono nel tempo che le misura con la luce e col sole; ma sono ancora fuori del tempo, per l'eternità che esse edificano dentro se stesse mediante il tempo e la carità che non muore. Vita della nostra anima e di tutte le anime, la quale si svolge al confine di due orizzonti, quello della materia che ci limita e quello della luce che piove dall'alto. E la poesia che lì germoglia e fiorisce è la poesia meditativa dell'ora che ci fa puri, l'ora della preghiera, quando si riaffacciano alla memoria le persone care entrate a far parte della Divina Commedia 87