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Facoltà di Scienze Matematiche, Fisiche e Naturali
Laurea triennale in Scienze geologiche (DM270)
Indagine sperimentale sulla cinetica di cristallizzazione dei magmi
dell’eruzione di Pollena (472d.c.), Vesuvio
Candidato:
Paolo Martizzi MAT 427202
Relatore:
Prof.ssa Claudia Romano
Correlatore:
Dott. Alessandro Vona
Roma, 1 ottobre 2013
Anno accademico 2012/2013
2
Sommario
Capitolo 1: Introduzione……………………………………………………………………………..3
1.1: Inquadramento geologico della pianura campana….................................................3
1.2: Morfologia e attività del Somma-Vesuvio…………………………………………4
1.3: La successione di Pollena e la ricostruzione dell’eruzione………………………...6
1.4: Esperimenti di cristallizzazione e stato dell’arte…………………………………..11
1.5: Nucleazione e crescita dei cristalli………………………………………………...12
1.6: Teoria della CSD (Crystal Size Distribution)……………………………………..17
Capitolo 2: Procedure e metodi di analisi…………………………………………………………...21
2.1: Fusione dei campioni………………………………………...................................21
2.2: Esperimento di cristallizzazione…………………………......................................23
2.2.1: Reometro a cilindri concentrici………………………………………………….23
2.2.2: Esperimento di cristallizzazione………………………………………………...24
2.3:Preparazione dei campioni…………………………………………………………25
2.4:Microscopio ottico…………………………………………………………………26
Capitolo 3: Presentazione dei dati…………………………………………………………………..27
3.1:Analisi sui campioni sperimentali………………………………………………….27
Capitolo 4: Discussione dei risultati……………………………………………………………...... 47
4.1:Introduzione………………………………………………………………………..47
4.2:Analisi di CSD……………………………………………………………………..47
4.3:Nucleazione e crescita……………………………………………………………...49
Capitolo 5: Conclusioni……………………………………………………………………………..52
Bibliografia………………………………………………………………………………………….54
Ringraziamenti……………………………………………………………………………………...57
3
1.Introduzione
In questo lavoro di tesi triennale viene analizzato il processo di cristallizzazione dei magmi
dell’eruzione di Pollena, Somma-Vesuvio (472 d.c.) attraverso la realizzazione di esperimenti, al
fine di investigare la cinetica di cristallizzazione di questi magmi. Gli studi sulla cinetica di
cristallizzazione sono utili per migliorare l’interpretazione delle dinamiche di un eruzione e per
quantificare i tempi di residenza e di risalita di un magma.
E’ importante studiare l’eruzione di Pollena per fornire un ulteriore contributo alla delineazione
delle aree di rischio nell’area vesuviana; si pensa, infatti, che lo stile e la misura di questo evento si
avvicini a quello del massimo evento atteso nell’area del Somma-Vesuvio (Barberi et al. 1990).
La cinetica di cristallizzazione è stata misurata attraverso esperimenti di cristallizzazione effettuati
tramite un reometro a cilindri concentrici. I prodotti sperimentali sono stati analizzati al
microscopio ottico. Attraverso le analisi delle immagini acquisite sono stati misurati i parametri
tessiturali più importanti delle fasi cristallizzate, e utilizzando questi dati si è ricavato per i singoli
campioni il tasso di crescita e di nucleazione e le curve di Crystal Size Distribution (CSD) (Marsh,
1988; Cashman & Marsh, 1988). Combinando i dati di CSD e i valori del tasso di crescita, inoltre,
sono stati calcolati i tempi di residenza del magma. Dai risultati ottenuti è stato possibile notare
come i risultati delle misure effettuate su questi campioni siano fortemente condizionate dal
contenuto in cristalli differente nei vari campioni.
1.1Inquadramento geologico della pianura campana
La regione della pianura campana è situata in un graben delimitato dalle piattaforme carbonatiche
del Mesozoico. La sua origine è stata relazionata alla rotazione antioraria della penisola italiana e
alla contemporanea apertura del Tirreno con la conseguente subsidenza della piattaforma
carbonatica lungo la costa tirrenica (Scandone 1979). L’attività vulcanica avviene nelle aree di
subsidenza della piattaforma mesozoica, essa è avvenuta negli ultimi 50.000 anni e ha come
principali centri eruttivi i Campi Flegrei, il Vesuvio e l’isola di Procida.
4
Figura 1.1.1: Foto satellitare dell’area campana.
1.2Morfologia e attività del Somma-Vesuvio
Il complesso vulcanico del Vesuvio (1281 m) comprende il semirecinto calderico del monte Somma
(1131 m, punta del Nasone) e l’attuale cono craterico (Gran Cono) del Vesuvio, che occupa la
porzione occidentale e meridionale della depressione calderica. La contemporanea presenza di
forme calderiche e crateriche testimonia la diversità tipologica ed energetica delle eruzioni che
hanno caratterizzato la storia del complesso vulcanico. La forma generale del complesso vulcanico
è tronco-conica, con versanti interni sub-verticali e versanti esterni acclivi e con profilo concavo. I
versanti del Somma, in quanto più antichi, presentano un reticolo idrografico ben sviluppato e
articolato; le linee di drenaggio sono troncate dalla calderizzazione. Al contrario la superficie
5
topografica vesuviana, essendo di età più giovane, presenta un drenaggio molto meno sviluppato
rispetto al settore del Somma.
Sull’attività vulcanica antica del complesso si conosce poco, alcuni autori (Santacroce, 1987)
sostengono che l’attività iniziò con tipologie eruttive prevalentemente laviche ed in ambiente
verosimilmente sottomarino. Le vulcaniti affioranti non sono più antiche di 25.000 anni e
testimoniano un attività eruttiva parossistica di tipo esplosivo che solo negli ultimi tempi,
prevalentemente storici, si è accompagnata ad attività a carattere effusivo o misto. I prodotti più
antichi tendono a ricoprire l’Ignimbrite Campana e fanno parte della formazione di Condola di
composizione pomicea datata 25.000 anni fa (Alessio et al. , 1974). La più importante eruzione
pliniana del Vesuvio è datata circa 22.000 anni fa ed è chiamata “Eruzione di Sarno”. Dopo circa
17.000 anni si verificarono, sempre nel Vesuvio, una serie di otto eruzioni a carattere pliniano – sub
pliniano; le ultime tre sono avvenute rispettivamente nel 79 d.c., nel 472 d.c. e nel 1631. Dopo il
1631 il Vesuvio è entrato in una fase di attività persistente caratterizzata da eruzioni
a carattere effusivo - esplosivo con un limitato VEI (VEI=3) e con un trend ben definito. Le
eruzioni iniziano sempre con una fase effusiva caratterizzata da emissioni di lava da una frattura nel
cono o dal bordo del cono. Dopo pochi giorni l’attività, accompagnata da esplosioni stromboliane,
presenta una fase più esplosiva con fontane di lava alte 2 - 4 km. L’ultima fase, caratterizzata dalla
formazione di una colonna sostenuta con altezza compresa tra 5 e 15 km, è seguita da un collasso
nel cratere centrale e da un periodo di quiescenza che persiste per vari anni. L’emissione di lava
marca sempre l’inizio di una nuova attività. L’ultima emissione è avvenuta nel 1944 e ancora oggi
perdura una fase di quiescenza (Scandone et al. ,1991).
Recenti ricerche (G. De Natale et al., 2006) sul Somma - Vesuvio ci hanno dato informazioni sulla
conoscenza strutturale dell’edificio e sull’ambiente vulcano-tettonico. Possiamo dividere la struttura
di velocità al di sotto del vulcano in tre regioni fondamentali: zona superficiale nei primi 5 km di
crosta, zona intermedia compresa tra 5 e 15 km e una più profonda al di sotto della Moho. Le
tomografie sismiche ci danno informazioni importanti sulle strutture della zona superficiale, si
riscontra infatti un anomalia positiva delle Vp e Vs lungo l’asse del vulcano che indica la presenza
di un corpo rigido centrato al di sotto del cratere. Questa anomalia si propaga in direzione W-SW a
una profondità di 2-3 km ed è in contrasto con un anomalia di bassa velocità sulle rocce circostanti.
L’estensione dell’anomalia di alta velocità, nell’ordine di 5-7 km3
, suggerisce la presenza del
magma residuale solidificato da uno o più cicli dell’attività del vulcano. Al di sotto dei 5 km
l’assenza di terremoti non ci da informazioni sulle strutture più profonde, le uniche informazioni ci
vengono date da onde riflesse e da onde P-S convertite. Questi dati attestano la presenza di un Sill
magmatico a una profondità di 12-15 km, mentre a profondità ancora maggiori (9-17 km) si trova
6
una zona di diminuzione marcata della Vs. In base ai dati recenti si può, quindi, fare un quadro
completo che consiste nella presenza di tre profondità principali di accumulo del magma, il primo
molto superficiale (4-6 km) che alimenta le eruzioni pliniane e sub-pliniane, un altro localizzato a
una profondità maggiore (10-15 km) e che forma una struttura simile a un Sill e infine una zona di
bassa velocità a profondità superiore ai 15 km (15-30 km), che possibilmente indica le radici più
profonde del magma che alimenta i serbatoi della crosta superiore.
1.3La successione di Pollena e la ricostruzione dell’eruzione
Dalle mappe delle isopache e delle isoplete si possono ricavare i parametri fisici dell’eruzione
(volume, altezza della colonna eruttiva e MDR). Secondo alcuni autori (Sulpizio et al., 2005)
l’altezza della colonna varia tra 14 e 22 km con una velocità massima del vento di 30 m/s. Gli strati
di caduta di Pollena possono essere tutti classificati come Subpliniani, con l’unica eccezione dello
strato L1 che appartiene più a un campo classificativo Pliniano. Inoltre le mappe isopache
permettono la stima del volume dei depositi di caduta, che è di 0,44 km3
.
La storia deposizionale della successione dell’eruzione di Pollena può essere ricostruita anche con
l’aiuto di alcune caratteristiche dei depositi esposti. La successione continua degli strati di caduta
L1-L7 costituisce la prima fase dell’eruzione. La seconda fase è rappresentata dalla successione
stratigrafica da S1 a L9, caratterizzata dall’alternanza di depositi di PDC e di caduta. La terza fase è
dominata dalla deposizione di PDC e comprende gli strati Sy e Fy.
FASE 1: il primo deposito (L1) è massivo, ben classato ed è un deposito di caduta a lapilli che
registra lo sviluppo di una colonna alta 13 km (MDR=9.
106
Kg/s), i frammenti iuvenili altamente
vescicolati hanno una composizione chimica molto evoluta che indica lo svuotamento di magma da
una camera zonata composizionalmente, la scarsezza di litici accidentali indica una minore erosione
nella parte superiore del condotto. L’abbondanza di litici accidentali aumenta negli strati L2 ed L3,
ciò suggerisce un intensa erosione sulle pareti del condotto o fenomeni di evoluzione del cratere, si
nota anche un aumento della colonna eruttiva fino a 16 km (MDR=2.
107
Kg/s). L4 si trova al di
sopra dello strato L2-L3 e rappresenta un abbassamento della colonna eruttiva a 12 km (MDR=7.
106
kg/s), inoltre presenta un piccolo aumento della componente di litici accidentali. Gli strati L5 ed L6
presentano un rapporto tra litici accidentali e frammenti iuvenili basso, l’altezza della colonna
eruttiva subisce un nuovo aumento a 14 km (MDR=1,2.
107
kg/s). La colonna convettiva subisce un
nuovo abbassamento nello strato L7 e la fase 1 termina con lo sviluppo dell’unità LRPF, che marca
la destabilizzazione della colonna convettiva; questa unità contiene frammenti di lava con patina
rossa che suggerisce la demolizione del condotto superiore.
7
FASE 2: in questa fase l’eruzione entra in una fase più complessa caratterizzati da episodi di
generazione di PDC (S1, S2, NA e Fg), interrotti da due intervalli di colonne convettive sub-pliniane
(L8 e L9). Sono state fatte molte teorie sulla generazione di PDC, la più plausibile indica che il
meccanismo per la deposizione dello strato S1 è quello di un espansione radiale laterale di una
mistura pressurizzata, in questo modo si genera un PDC diluito, comunemente noto come base
surge (Moore 1967; Cas and Wright 1987; Carey 1991). I depositi S1 mostrano una distribuzione
radiale nei settori N ed E, mentre la mancanza di strati affioranti impedisce la tracciatura delle linee
isopache nei settori W e S. I depositi dell’unità NA sono esposti nei settori a N del Monte Somma,
con solo pochi affioramenti presenti nel settore a SE. L’unità NA consiste in depositi che riempiono
le valli, sono da massivi a poco stratificati, mal classati, ricchi in bombe, mostrano una transizione
laterale a depositi mal classati, neri e composti da cenere grossolana nel settore a NE. Queste
caratteristiche sedimentologiche indicano la deposizione da una PDC capace di sorpassare il bordo
della caldera nel settore a N e di riempire le valli nel settore a SE. Dopo la deposizione di NA si
sviluppa una colonna convettiva che registra la più alta intensità dell’intera eruzione con lo sviluppo
dello strato L8. Un importante aspetto di questa eruzione è la presenza di litici accidentali derivanti
da marmi, sieniti e skarn. Per le unità S2 e Fg la ricostruzione è molto più difficile, a causa della
mancanza di dati sperimentali e di terreno. E’ possibile che si siano originati dalla colonna sostenuta
dello strato L8 o da un espansione radiale, tuttavia la presenza di litici accidentali simili a quelli
delle unità precedenti suggerisce un collegamento allo sviluppo della colonna convettiva. Quindi
l’interpretazione migliore è che da una colonna sostenuta (L8) si sia generato un PDC radiale e
turbolento (S2) seguito da flussi concentrati che riempirono le paleo valli nei settori a N e SE (Fg).
La seconda fase si chiude con la messa in posto dello strato L9 che indica la formazione di una
nuova colonna convettiva simile a quella sviluppatasi nello strato L8.
FASE 3: la fase finale dell’eruzione di Pollena è caratterizzata da un estesa attività
freatomagmatica, dovuta alla presenza di serbatoi d’acqua. Sy identifica l’inizio dell’attività e
mostra significativi cambi litologici (lapilli accrezionali, cenere fine, frammenti più grossolani con
strati di colore giallino e abbondanza di cristalli sciolti). Tale unità è stata probabilmente deposta
come un PDC simile a quello relativo alle unità S1 ed S2 e mostra una dispersione areale limitata ai
settori E e SE. Fy mostra dei caratteri litologici simili a quelli dell’unità Sy con aggiunte localizzate
di blocchi litici e scorie nere iuvenili. I depositi sono sempre massivi e tendono a riempire alcune
paleovalli soprattutto nel settore a SE. Le caratteristiche litologiche e sedimentologiche delle unità
Sy ed Fy suggerisce che essi si siano sviluppati durante esplosioni vulcaniane, senza lo sviluppo di
alcuna colonna convettiva.
8
Come dimostrato da Sulpizio et al. (2005) nella successione di Pollena si possono distinguere nove
depositi di caduta (da L1 a L9) con cenere, pomici, scorie e lapilli, quattro strati con solo cenere (da
A1 a A4) e depositi di PDC da massivi a strati di dune (S1, S2, Sy, NA, LRPF, Fg, Fy).
Gli strati L1-L9 ed A1-A4 sono letti di caduta e mostrano una variazione in spessore e litologia lungo
la sequenza stratigrafica. Tendono ad ammantare e sono generalmente dispersi nella zona a NE,
dove sono stati trovati anche a distanze di 45 km dal condotto. Gli strati L2-L9 consistono in scorie e
lapilli angolati e con contenuto in cristalli mentre lo strato L1 è dominato da lapilli e pomici di
colore chiaro, nelle zone prossimali L2 ed L3 sono separati da A1, che è composto da cenere
grossolana, mentre nelle zone distali tendono a convergere in un unico strato. Le isopache di L1, L4,
L5 ed L6 mostrano una curvatura verso est nelle zone mediali, mentre L2 ed L3 mostrano una forma
ellittica. Lo strato L7 è meno disperso e diventa rapidamente fine nelle zone mediali (4-10 km), da
questo punto avviene la transizione a una granulometria fine e a cenere vescicolata. Infine gli strati
L8 ed L9 sono i più estesi strati di caduta e mostrano una dispersione verso NE con isopache molto
allungate ed ellittiche. La vescicolarità lungo la sezione L1-L9 è un parametro molto variabile, in
quanto si trovano frammenti iuvenili poco vescicolati e molto vescicolati allo stesso tempo,
generalmente nelle pomici si presentano di forma poco allungata fino a tabulare mentre nelle scorie
le bolle sono di forma tipicamente sferica; nello strato L1 a volte si trovano frammenti di pomice a
bande. I frammenti di lava predominano su tutti gli strati con cenere e lapilli, alcuni di essi hanno
subito alterazione idrotermale e mostrano delle patine di ossidazione di colore rosso, esse sono
abbondanti negli strati L2 ed L3, inoltre nello strato L8 si trovano frammenti litici di rocce marine
(Carbonati, Sieniti e Skarn).
Per quanto riguarda gli strati A1-A4, essi come detto prima sono composti da cenere grossolana ma
si alternato con strati di lapilli nella parte basale della successione. Questi strati tendono ad
ammantare e hanno uno spessore molto basso (massimo spesso di 3-5 cm), sono inoltre massivi e
composti da cenere grossolana e lapilli da mediamente a ben classati. La transizione da lapilli a
cenere grossolana è generalmente gradazionale nei siti prossimali e medio-distali (più di 30 km
dalla sorgente).
Nella successione dell’eruzione di Pollena compaiono, come detto prima, due tipi di depositi di
PDC. I depositi con dune e stratificazione interna incrociata sono molto comuni nella parte
superiore della successione e sono identificati dalla loro posizione stratigrafia e dal colore della
cenere (grigia per S1 ed S2, gialla per Sy). Gli strati S mostrano variazione laterale nella
granulometria e strutture sedimentarie, inoltre diventano a granulometria fine e debolmente laminati
nella pianura circostante. Nel settore a nord, lo strato S1 è esposto alla base di NA mentre nel settore
a E e a SE si trova alla base dello strato L8; gli strati S1 ed S2 sono i più spessi nel settore NNW e
9
ESE. Sy è esposto solo nel settore a SE alla base o interstratificato a Fy, mostra caratteristiche
sedimentologiche simile agli strati S1 ed S2 ma è generalmente a granulometria fine e contiene litici
accidentali abbondanti e ossidati con clasti iuvenili scarsi. I depositi di PDC controllati
topograficamente, ricchi in litici e cenere e massivi (strati F) affiorano in alcune paleo valli dei
settori a NW e SE, molti di questi strati sono Fy mentre i depositi di Fg hanno aree di esposizione
più piccole.
LRPF ed NA rappresentano due depositi litologicamente distinti nella successione statigrafica di
Pollena. Lo strato LRPF è esposto in un’area limitata del settore a NW, è massivo e contiene fino al
40-50% di blocchi di lava alterata idrotermalicamente, inoltre può presentare una transizione
laterale allo strato L7. Lo strato NA invece si trova a 20-50 m di altezza nel settore a NW oppure
nelle paleo valli e tende a riempire la topografia. NA è generalmente identificabile come uno strato
massivo o poco stratificato, che mostra una transizione a cenere grossolana nera con lenti di lapilli
grossolani nei settori N e NE.
Figura 1.3.1: Foto satellitare del Somma-Vesuvio in cui sono rappresentati i luoghi di
campionamento
10
Figura 1.3.2: Log stratigrafico della Successione di Pollena (Sulpizio et al. 2005)
Fy: Depositi da flusso di cenere fine, massivi, topograficamente controllati. Generalmente contengono litici accidentali e
iuvenili dispersi. Alcune unità di flusso contengono frammenti di lava in una matrice cineritica. Nel settore meridionale,
sono presenti alternanze di depositi di surge all’interno delle unità di flusso.
Sy: Cenere giallastra con lenti di lapilli che forma dune con stratificazione incrociata interna. Nei rilievi dell’area prossimale
e negli affioramenti mediali mostrano una transizione a cenere fine e massiva con lapilli accrezionali.
L9: Unità massiva e ben classata di lapilli che comprende scorie nere e minori litici accidentali. I frammenti iuvenili sono
porfirici e contengono cristalli di Sanidino, Leucite, Biotite e Pirosseno.
Fg: Depositi di “Block & Ash flow” massivi e controllati dalla topografia. Hanno un contenuto variabile di iuvenili e
frammenti di litici accidentali. La matrice è composta da cenere grossolana, maronne-grigia
S2: Vedi la descrizione di S1
L8: Unità di lapilli massiva e ben classata che comprende scoria nera porfirica. I litici accidentali sono subordinati e
comprendono lave, carbonati, sieniti, skarn e rocce cumulitiche. Sono presenti clasti occasionali imbricati al top del
deposito che indicano la trazione esercitata dal soprastante S2.
NA: Unità di bombe e lapilli moderatamente classata e da massiva a poco stratificata, con abbondanti scorie nere non
vescicolare e altamente porfiriche. Il deposito mostra uno spessore di 4-5 m nel settore a NW e mostra una transizione a
cenere nera, grossolana e di spessore decimetrico nei settori a N-NE. I litici accidentali sono subordinati (soprattutto lave).
S1: Cenere grigia con lenti di lapilli che formano dune spaziate (spaziatura metrica) con stratificazione incrociata interna.
LRPF, L7: Unità di caduta di cenere e lapilli massiva, moderatamente classata e ricca in litici accidentali, soprattutto
frammenti di lava con alterazione idrotermale. I frammenti iuvenili sono subordinati e comprendono scorie nere porfiriche
e moderatamente vescicolare. Nel settore a NW mostra la transizione a un deposito di flusso piroclastico di spessore deca
metrico e molto grossolano, ricco in massi di lava alterata (LRPF).
L6, A4,L5: Unità massiva e ben classata di lapilli che comprendono scorie nere-grigie e porfiriche. I litici accidentali,
soprattutto lave, sono subordinati. Uno strato di cenere grossolana separa le due unità con i lapilli.
A3, L4, A2: Unità di lapilli di caduta da ben a moderatamente classata che mostra una variazione di granulometria dovuta
all’alternanza di strati di lapilli e cenere grossolana. I frammenti iuvenili sono scorie verdastre-grigie, moderatamente
vescicolate e porfiriche. I litici accidentali sono subordinati e consistono soprattutto in frammenti di lava con patine
rossiccie dovute all’alterazione idrotermale. Due strati di cenere grossolana e lapilli si trova alla base e al top dello strato
principale di lapilli.
L3, A1, L2: Unità massive e ben classate di lapilli che comprendono abbondanti frammenti di litici accidentali e scorie nere-
grigie, porfiriche e da moderatamente a poco vescicolare. I litici sono particolarmente abbondanti nello strato L3 e
comprendono frammenti di lava ossidata. Negli affioramenti prossimali i due strati di lapilli sono separati da uno strato di
cenere grossolana, che manca in affioramento nelle zone distali, dove L2 ed L3 formano uno strato unico.
Unità massive e ben classate di lapilli che comprendono pomici e scorie di colore verde-grigio, da moderatamente a ben
vescicolate e porfiriche. I litici accidentali sono subordinati (soprattutto lave).
11
1.4 Esperimenti di cristallizzazione e stato dell’arte
Lo studio della nucleazione e crescita dei cristalli ha origine agli inizi del ‘900. Tamman nel 1925
fu il primo a compiere delle analisi su dei cristalli di BaTiO3 in relazione alla pressione, alla
temperatura e al tempo. Dagli anni ’70, con l’aumentare delle conoscenze teoriche sulla cinetica di
cristallizzazione dei magmi, si osserva un vero e proprio incremento di studi sulla nucleazione e la
crescita. Alcuni autori hanno compiuto esperimenti sulla velocità di crescita di alcuni minerali
(clinopirosseni e pirosseni) in fusi monofasici (Kirkpatrick, 1974; Kirkpatrick et al. 1976) o in
sistemi bifasici (Kirkpatrick et al., 1979) nonché esperimenti di raffreddamento (Kirkpatrick et al.
1978); le stesse conoscenze sono state applicate da Kirkpatrick a studi di cristallizzazione di corpi
ignei o di nucleazione e crescita all’interno delle lave. I primi esperimenti in laboratorio di
cristallizzazione indotta e a pressione costante di 800 MPa furono compiuti da Swanson (1977). Il
suo esperimento ebbe una durata tra le 24 e le 144 ore, con intervalli di raffreddamento di 50° per
temperature comprese tra 900° e 600° e 100° per temperature comprese tra 600° e 400°, su fusi
granitici e granodioritici. Con queste procedure Swanson riuscì a ricavare la velocità di crescita dei
feldspati alcalini. Anche Fenn (1977) effettuò misure sulla densità di nucleazione e la crescita, con
un esperimento simile ma di durata (6-240 ore) e pressione (250 MPa) diversa applicato su una
miscela di Albite, Ortoclasio e Acqua. Successivamente a questi due esperimenti, lo studio sulla
nucleazione e la velocità di crescita è continuato con lo sviluppo di prove di cristallizzazione per
decompressione e a temperatura costante come quella di Geschwind et al. (1995) sulle daciti del Mt.
St. Helens.
Recentemente Zieg e Logfren (2006) hanno effettuato esperimenti di raffreddamento dinamico a un
tasso costante di 92°C/h su condrule sintetiche a composizione olivinica, quantificando l’evoluzione
tessiturale con l’ausilio della Crystal Size Distribution (CSD). Iezzi et al. (2008) hanno svolto due
set di esperimenti di raffreddamento a pressione atmosferica su due fusi anidri di composizione
trachitica e latitica. L’esperimento è stato condotto a una temperatura compresa tra 1300 e 800 °C,
usando cinque tassi di raffreddamento diversi (25, 12.5, 3, 0.5 e 0.125 °C/min). Iezzi et al. (2011)
hanno compiuto esperimenti di solidificazione su un fuso di composizione andesitica, scegliendo gli
stessi tassi di raffreddamento utilizzati nell’esperimento del 2008. Infine Vona e Romano (2013)
hanno svolto un esperimento di cinetica di cristallizzazione su dei campioni basaltici di Stromboli e
dell’Etna. L’esperimento è stato effettuato a una pressione di 1 atm e in un forno scaldato da
elementi in MoSi2, e la cristallizzazione è stata sviluppata a diversi gradi di sottoraffreddamento in
un range di temperatura di T = 1157 – 1187 °C per i campioni di Stromboli e di T = 1131 – 1182 °C
per i campioni dell’Etna.
12
1.5 Nucleazione e Crescita dei cristalli
Le rocce magmatiche sono in origine dei fusi silicatici variabili in composizione, temperatura,
contenuto in cristalli e contenuto in volatili. La forte variabilità strutturale e tessiturale dei magmi
riflette la loro storia evolutiva. Dopo la formazione i magmi, infatti, possono subire dei
cambiamenti notevoli prima di arrivare in superficie. In questi cambiamenti sono compresi
fenomeni di cristallizzazione e frazionamento dei magmi oltre a reazioni con le rocce circostanti
(assimilazione magmatica). La struttura di una roccia magmatica si realizza quando avviene il
raffreddamento del sistema, questa struttura può essere sia ordinata e in questo caso si formeranno
fasi solide cristalline o disordinata e in questo altro caso avremo la formazione di vetri vulcanici
naturali. Come si può, quindi, dedurre, la velocità di raffreddamento è il parametro fondamentale
che condiziona l’evoluzione del sistema magmatico. La cristallizzazione di un fuso avviene in due
passaggi fondamentali: nucleazione (formazione di un germe cristallino) e crescita (nuclei che si
accrescono a spese delle fasi reagenti). In un sistema monofasico, ad una data pressione, esiste una
temperatura d’equilibrio (Te) in cui la fase solida e la fase liquida sono in equilibrio; i primi nuclei
di fase solida si formano quando esiste un certo grado di sottoraffreddamento (ΔT), che è definito
come la differenza tra la temperatura di liquidus di una fase cristallina e la temperatura del sistema
(ΔT= Te-T). I tassi di nucleazione e crescita sono connessi strettamente alla pressione e alla
temperatura, e sono fortemente influenzato anche dal ΔT. Per basso ΔT il processo di
cristallizzazione è dominato dalla crescita, mentre per valori più alti di ΔT la nucleazione prevale.
Ad alti ΔT i tassi di nucleazione e crescita sono entrambi bassi e portano alla formazione di piccoli
cristalli e/o vetro.
Figura 1.5.1: Curve di nucleazione e crescita di cristalli da un fuso, rispetto al ΔT (Arzilli 2012)
13
NUCLEAZIONE
La nucleazione è un processo submicroscopico che avviene come primo step della cristallizzazione
e consiste nella formazione di germi cristallini attraverso l’aggregazione di atomi, ioni e gruppi di
ioni che, grazie alla loro mobilità nel fuso, possono unirsi e formare nuclei con volume e superficie
limitata (Kirkpatrick, 1981). Durante il processo di nucleazione, gli atomi di una fase reagente si
riuniscono insieme in una parte della fase prodotta grande abbastanza da essere
termodinamicamente stabile (Kirkpatrick, 1981). La visione tradizionale della teoria di nucleazione
è che ammassi di atomi, che posseggono le proprietà fisiche e chimiche dei solidi cristallini
macroscopici, si formano per fluttuazioni casuali nel fuso, quando si trova al di sotto della sua
temperatura di liquidus (Volmer and Weber, 1926). La nucleazione può essere omogenea ed
eterogenea. La nucleazione omogenea avviene tramite aggregazione spontanea di particelle in una
condizione di stato costante ed è causata da fluttuazioni termiche, mentre nella nucleazione
eterogenea l’arrangiamento degli atomi è aiutato dalla presenza di un’altra fase in contatto con il
fuso, che da un punto di vista energetico facilita la formazione di germi cristallini (Arzilli, 2012).
Nel corso della nucleazione omogenea, la formazione del germe cristallino causa una diminuzione
di energia libera, infatti le particelle in contatto tra loro e organizzate secondo un reticolo cristallino
hanno un energia potenziale minore. Tuttavia la formazione di superfici cristalline implica anche la
presenza di legami liberi, che comportano uno stato energetico superiore. Avremo, quindi, una
tendenza di aumento dell’energia libera in relazione all’aumento delle superfici cristalline e una
tendenza di diminuzione dell’energia libera in relazione all’aumento del volume del cristallo.
All’interno di un sistema fluido la variazione di energia libera totale durante la nucleazione (ΔGt) è
uguale alla somma di energia libera di volume (ΔGv) ed energia libera di superficie (ΔGs), come
detto prima un valore negativo di ΔGv favorisce la diminuzione dell’energia libera e quindi
favorisce la cristallizzazione.
14
Figura 1.5.2: ΔGv, ΔGs e ΔG in un sistema liquido, durante la nucleazione omogenea di un seme
cristallino, assunto di forma sferica (Campagnola 2009).
Per nuclei cristallini piccoli caratterizzati da elevato rapporto superficie/volume prevale l’effetto
energia di superficie che inibisce l’aggregazione delle particelle, mentre nel caso di nuclei di
dimensioni più grandi prevale l’effetto volume. Si può definire, quindi, un valore critico di volume
(pari a quello di una sfera di raggio Rc) che rappresenta la condizione limite tra lo sviluppo del
cristallo e la sua dissoluzione: per valori superiori si ha lo sviluppo del cristallo mentre per valori
inferiori si ha la disgregazione dei semi cristallini e la dispersione delle particelle. Interessante è il
comportamento dell’energia libera totale del sistema al variare del valore critico del raggio del
nucleo che si forma, per bassi valori di R l’energia libera assume valori positivi mentre al
raggiungimento di un raggio critico del nucleo (Rc), l’energia libera inverte il suo andamento. Il
valore di Rc è fortemente influenzato dal grado di sottoraffreddamento e diventa infinito quando la
temperatura supera il liquidus, mentre raggiunge valori molto piccoli per elevati valori di ΔT.
15
Figura 1.5.3: Andamento delle curve di equilibrio secondo il ΔT (Campagnola, 2009)
La nucleazione eterogenea assume una notevole importanza nelle pareti magmatiche e nei condotti,
seppur limitata dall’alto rapporto volume/superficie, in quanto un magma non è mai privo di
materiale in sospensione, quindi assume una rilevante importanza nella cristallizzazione dei magmi;
in particolare i germi di fasi pre-esistenti sono un contributo notevole alla generazione di fasi
cristallografiche simili.
CRISTALLIZZAZIONE
Dopo che la barriera per la formazione di un nuovo cristallo viene sormontata (nucleazione), il
sistema tende ad equilibrarsi in una fase più stabile attraverso un processo di crescita, le
considerazioni sui tassi di crescita diventano rilevanti quando il nucleo raggiunge la sua taglia
critica (Cashman, 1990). Il processo di crescita, quindi, avviene per la crescita di questi nuclei e
passa attraverso la formazione delle facce dei poliedri cristallini. Avviene una deposizione di strati
paralleli e successivi su ciascuna faccia e, poiché le facce mostrano ciascuna una struttura
superficiale differente, si formerà un abito cristallino con facce cresciute a velocità diverse. Quindi,
in sintesi, si può dire che la crescita di un cristallo avviene per aggiunta di atomi e/o molecole su un
nucleo stabile. Questo processo è il risultato di diffusione di atomi e ioni nel sistema e della loro
organizzazione in gruppi poliatomici che rappresentano le unità strutturali dei minerali. Nella
crescita di un cristallo dobbiamo considerare quattro processi fondamentali: le reazioni
all’interfaccia tra solido e liquido, la diffusione degli elementi nel fuso, la rimozione del calore
latente generato all’interfaccia e i movimenti di massa nel fluido. Tra questi fattori è molto
importante la diffusione in quanto, attraverso questo meccanismo, la materia, in forma ionica e
molecolare, viene trasportata da un punto a un altro del sistema sotto l’azione di un gradiente del
potenziale chimico. Il movimento degli elementi del fuso che porta alla formazione delle fasi
cristalline è proprio frutto dei meccanismi di diffusione. La diffusione fa sì che atomi, ioni e
16
molecole vengano adsorbite sulle superficie, la stessa velocità di crescita di una faccia dipende dalla
velocità relativa di questi processi. Si può dire, quindi, che all’interno di un fuso silicatico i processi
più importanti sono quelli all’interfaccia solido-liquido e di diffusione degli elementi nel fuso. Da
queste considerazioni possiamo riconoscere due condizioni fondamentali: la prima è quando i
processi di diffusione sono sufficientemente veloci da mantenere costante la composizione
all’interfaccia rispetto a quella del fuso totale, viene detta “crescita controllata all’interfaccia”; la
seconda quando i processi di dissoluzione o aggregazione alla superficie del cristallo sono più
veloci rispetto a quelli di diffusione nel fuso, la composizione del fuso rimane costante e questo tipo
di crescita viene detto “crescita controllata dalla diffusione”. Entrambi i processi sono influenzati
dal tasso di sottoraffreddamento, per piccoli sottoraffreddamenti prevale, infatti, la crescita
controllata all’interfaccia (crescita lenta e diffusione più efficace), mentre per sottoraffreddamenti
alti prevale la crescita controllata dalla diffusione (crescita alta e diffusione meno efficace).
CRESCITA CONTROLLATA ALL’INTERFACCIA:
La crescita controllata all’interfaccia avviene quando l’attaccamento degli atomi alla faccia è lento
rispetto alla migrazione degli elementi compatibili attraverso il mezzo circostante sulla superficie e
la migrazione degli atomi emessi dalla superficie (Hammer, 2008). La prima teoria sul tasso di
crescita controllata all’interfaccia è stata sviluppata da Turnbull e Cohen (1960) e considera i tassi
a cui i gruppi molecolari e atomi si attaccano o si distaccano da una superficie cristallina. Secondo
questa teoria si avranno, quindi, due tassi che sono il tasso di attaccamento (ra) e il tasso di
distaccamento (rd). In base a questa teoria, se un atomo o una molecola si muove dal fuso al
cristallo, lascia il suo stato di energia nel fuso e passa prima attraverso uno stato attivato e poi
decade nello stato cristallino (Kirkpatrick, 1975). Inoltre i tassi di crescita sono funzione della forza
termodinamica e dell’energia di attivazione per l’attaccamento, che è simile alla barriera cinetica
per la nucleazione. Quindi l’espressione del tasso di crescita è di solito scritto come un bilancio tra
il tasso di attaccamento e il tasso di distaccamento moltiplicato per lo spessore di ogni strato
aggiunto e la frazione di sito sulla superficie del cristallo per l’attaccamento (f):
Y = f α ν exp ( -ΔG+
/RT ) [1- exp ( -ΔGc/RT )] eq 1.1
In questa equazione (Cashman, 1990), il termine ΔG+
è l’energia di attivazione per l’attaccamento,
ΔGc è la forza termodinamica e α indica la distanza interatomica. Sembra giusto uguagliare
l’energia di attivazione ΔG+
con la rottura dei legami, che dovrebbe essere relazionata alla viscosità
del fuso, in questo caso possiamo citare l’equazione di Stokes-Einstein (Cashman, 1990) che
riformula il tasso di crescita in questo modo:
17
Y= Yr/η[1- exp (ΔHf ΔT/RT Tl)] eq 1.2
dove η è la viscosità e Yr è il tasso di crescita ridotto e rappresenta la dipendenza della crescita dalla
temperatura, quindi la frazione dei siti di crescita disponibili sulla superficie di un cristallo. Il
controllo all’interfaccia è il caso prevalente a bassi gradi di sottoraffreddamento, dove alte
temperature (e/o alti contenuti in H2O) permettono la rapida diffusione all’interno del fuso.
CRESCITA CONTROLLATA DALLA DIFFUSIONE:
Questo tipo di crescita prevale ad alto ΔT dove il potenziale chimico, che guida la solidificazione, è
grande ancora a basse temperature o in caso di fusi multicomponente, che cristallizzano con un
grande cambio di composizione e/o di contenuti in acqua (Cashman, 1990; Hammer, 2008). Se la
mobilità dei componenti è molto lenta rispetto al tasso di attaccamento, allora il tasso di crescita
evolve nel tempo secondo questa formula:
Y= k √D/T eq 1.3 (Arzilli, 2012)
k è un termine di correzione, D è il coefficiente di diffusione e T è il tempo di cristallizzazione.
Le morfologie dei cristalli cresciuti in questo regime sono generalmente anedrali e includono forme
tabulari, aghiformi, dendritiche e scheletriche (Sunagawa, 1981). Per esempio le forme dendritiche
tendono a svilupparsi a grandi ΔT. Queste equazioni trovano la loro applicazione in casi molto
particolari, cioè quando negli esperimenti si trattano sistemi monofasici; per questo motivo è stata
sviluppata la teoria CSD che trova applicazione anche nei sistemi a più fasi. La teoria della CSD
verrà descritta sommariamente nel paragrafo successivo.
1.6 Teoria della CSD (Crystal Size Distribution)
La teoria della Crystal Size Distribution (Marsh, 1988; Cashman e Marsh, 1988) fornisce un
formalismo per lo studio macroscopico della cinetica di cristallizzazione e dei processi fisici che
influenzano la cristallizzazione e assume che la distribuzione delle taglie dei cristalli in una roccia
dipende dai tassi di nucleazione e crescita e dal tempo di residenza nella camera magmatica. Questa
teoria permette, quindi, l’estrapolazione di dati quantitativi su alcuni parametri fondamentali come
il tasso di crescita cristallina, la densità di nucleazione e il tasso di nucleazione; inoltre è importante
nella valutazione di alcuni processi molto importanti come l’accumulo di cristalli e il frazionamento
all’interno dei sistemi petrologici. Combinando i dati della CSD con altri fattori è possibile
ricostruire l’evoluzione dei sistemi ignei.
18
Figura 1.6.1: Esempi di CSD dei pirosseni delle rocce vulcaniche. La densità di popolazione (ln
n) è espressa come numero di cristalli per taglia (L) per il volume contro la taglia dei cristalli L
(mm) (Marsh, 1988).
Il cuore della CSD è la creazione di un’equazione che governa la conservazione del numero dei
cristalli quando nucleano o crescono all’interno di un ambiente liquido o solido. Questa equazione è
bilancio di popolazione che descrive il cambio nel numero e nella taglia dei cristalli come una
funzione dei loro tempi di residenza nel sistema e come una funzione che indica l’afflusso e la
perdita di cristalli nel sistema. Questa equazione varia a seconda che il nostro sistema sia chiuso o
aperto. Nel caso di un sistema aperto l’equazione è:
dn/dt + Go dn/dL + n/tr = 0 eq 1.4
dove il primo termine rappresenta la variazione del numero di cristalli (nucleazione o J), G0 è il
tasso di crescita iniziale, il secondo termine indica la variazione del numero di cristalli sulla
lunghezza (crescita o G) e l’ultimo termine indica il numero di cristalli in uscita dopo un certo
tempo di residenza. In un sistema stazionario (steady-state) l’equazione considera costanti i termini
G e J, in questo modo il termine dn/dt diventa nullo è l’espressione assume una forma diversa:
dn/dL = - n/G0tr eq 1.5
questa espressione può essere riscritta, infine, con un ulteriore modifica
ln (n) = ln (n0)- L/G0tr eq 1.6
Nel caso di un sistema chiuso l’equazione assume invece la forma di:
dn/dt + G0 dn/dL=0 eq 1.7
Per una popolazione cristallina che ha un processo di crescita semplice (senza mixing e senza
ricarica del sistema), ci si aspetta una relazione lineare tra il logaritmo naturale della densità
cristallina e la dimensione dei cristalli.
Per una fase nel sistema:
n’
v (L) = n’
v (0) e- L/Gt
r eq 1.8
19
dove n’
v (L) è la densità di popolazione dei cristalli per la misura L, n’
v (0) è la densità di
nucleazione finale, G è il tasso di crescita e tr è il tempo di residenza. Il parametro n’v (L) può essere
espresso anche in un altro modo, derivando questo rispetto a L.
n’v (L) = dNv (L)/dL eq 1.9
Ancora, questo calcolo può essere esteso a un solo intervallo di taglia cristallina e chiameremo
questo parametro n’v (Lj). La densità di popolazione può essere scritta quindi facendo il rapporto tra
la number density dei cristalli in un intervallo dimensionale e lo spessore dell’intervallo (Wj).
n’v (Lj) = nv (Lj)/Wj eq 1.10
La lunghezza caratteristica C è definita come C = Gtr ed è uguale alla lunghezza media di tutti i
cristalli in una CSD retta che va da zero a infinito. Questa distribuzione in un grafico ln (population
density) su taglia L, ha un andamento lineare. L’intercetta è ln (n’
v (0)) mentre lo slope è definito
come 1/C. Sostituendo al posto di C il termine descritto sopra:
slope = -1/Gtr
dove G indica sempre il tasso di crescita e tr il tempo di residenza del magma all’interno della
camera magmatica o nel condotto.
Figura 1.6.2: Relazione linerare tra ln(densità di popolazione) e la misura dei cristalli (Higgins,
2006).
Lo slope identifica il sorting delle dimensioni dei cristalli: se è alto, i cristalli hanno un range
limitato di dimensioni (sorting dei cristalli scarso), mentre se lo slope è basso i cristalli si
sviluppano bene e avremo un range di dimensioni molto più grande. Una variazione dello slope
indica una variazione della velocità di nucleazione (J). Questo modello di cristallizzazione spiega la
CSD di un sistema steady-state, modelli più complicati dimostrano come i parametri si disperdano
nel sistema. Per esempio, se il tempo di residenza rimane costante ma avviene un incremento nella
densità di nucleazione, le CSD saranno parallele. Un incremento di densità di nucleazione può
verificarsi per l’aumento del tasso di sottoraffreddamento. Invece nel caso in cui la densità di
20
nucleazione rimane costante e avviene un incremento del tempo di residenza, le CSD scivoleranno
su un punto vicino all’asse verticale.
Figura 1.6.3: Dispersioni teoriche delle CSD in sistemi di cristallizzazione continuamente
alimentati. Nell’immagine a sinistra aumenta la densità di nucleazione, nell’immagine a destra
aumenta il tempo di residenza.
Cambi nei parametri di cristallizzazione durante la solidificazione, come il tasso di raffreddamento,
possono cambiare le caratteristiche della CSD. Il sistema avrà bisogno di tempo per ristabilirsi in
base alle nuove condizioni e durante questo tempo l’andamento della CSD subirà un curvamento
(Marsh, 1988b; Maaloe et al., 1989; Armienti et al., 1994). Questa transizione cambierà il tasso di
nucleazione del magma e produrrà nella CSD un primo tratto più curvo per piccoli valori di taglia
dei cristalli. Cashman (1993) ha ipotizzato che il primo tratto curvo delle CSD potrebbe essere
prodotto per un tasso di raffreddamento costante, se si verifica un cambio nella natura delle fasi
precipitate. Marsh (1998) ha dimostrato che il modello applicato nei sistemi steady-state può essere
utilizzato anche in altri sistemi chiusi sotto alcune condizioni, sebbene la CSD, in caso di alti
contenuti in cristalli, presenti un andamento non lineare per i piccoli cristalli. In questo sistema la
correlazione logaritmico-lineare è prodotta dall’incremento esponenziale della densità di
nucleazione nel tempo.
Figura 1.6.4: Sviluppo delle CSD all’interno di un sistema chiuso con aumento nel contenuto in
cristalli (Higgins, 2006).
21
2. Procedure e metodi di analisi
In questo capitolo vengono esposte le procedure sperimentali adottate in questo lavoro.
2.1 Fusione dei campioni
Il materiale di partenza è stato macinato il più finemente possibile con l’aiuto di un martello da
geologo per aumentare la superficie di reazione (nel nostro caso per rendere il più possibile
omogeneo il nostro campione e facilitare così la sua fusione e il suo mescolamento).
L’esperimento di fusione è avvenuto attraverso l’utilizzo di un forno ad alta temperatura della
Nabertherm.
Questo forno è costituito da:
- un’isolante a bassa massa termica che assicura un riscaldamento rapido della fornace.
- apertura della fornace attraverso un portellone a maniglia di sicurezza per proteggere gli operatori
dalla vampata.
- un dispositivo di sicurezza applicato al portellone che consente di interrompere la tensione
all’apertura del portellone della fornace.
- una doppia parete metallica attorno alla fornace che consente di creare un flusso d’aria per
mantenere fredde le pareti all’esterno della fornace (EN61010).
- un programmatore a rampe su 8 o 16 segmenti.
- Temperatura massima di lavoro di 1750°.
- una camera da 16 litri.
- elementi riscaldanti in disiliciuro di molibdeno disposti sui due lati verticali della fornace, che
assicurano una buona uniformità termica, sono stati creati per resistere ad utilizzi frequenti della
fornace garantendo la longevità dello strumento.
- contatore di corrente applicata.
22
Figura 2.1.1: forno di fusione della Nabertherm usato nell’esperimento.
Figura 2.1.2: Foto del campione portato a fusione
La polvere del campione, dopo essere stata macinata, è stata alloggiata all’interno di un crogiolo di
platino, dapprima inserito all’interno del forno per essere scaldato. La sintesi è avvenuta per tappe,
aggiungendo ad ogni intervallo un lieve quantitativo di materiale e creando una sovrapposizione di
strati con la polvere finché il nostro campione fuso non è pronto per essere colato. Una volta
raggiunta la temperatura in cui il campione è tutto fuso questo è stato colato all’interno di un piatto
di acciaio. Il piatto di acciaio poi è stato inserito all’interno di un beaker di acqua fredda
23
per accelerare il raffreddamento del materiale di fondo. Il risultato finale ottenuto da questa sintesi è
un vetro omogeneo, materiale di partenza per tutte le misure sia di viscosità che di cristallizzazione
e fattore fondamentale per una valida reattività del campione e per eliminare il contenuto in volatili.
La durata di questa sintesi dipende dalla temperatura, poiché si è osservato che quanto più questa è
bassa tanto più lentamente il sistema raggiunge una fase di equilibrio.
2.2 Esperimento di cristallizzazione
Il vetro ottenuto dalla precedente sintesi è stato inserito all’interno di un crogiuolo cilindrico
(Pt80Rh20, altezza di 5,1 cm, 2,56 cm di diametro interno, 0,1 cm di spessore) ed è stato portato a
fusione all’interno di un reometro a cilindri concentrici, per l’effettuazione dell’esperimento di
cristallizzazione.
2.2.1Reometro a cilindri concentrici
Lo strumento utilizzato è chiamato Reometro a cilindri concentrici Anton Paar RheolabQC e si
trova presso il laboratorio di vulcanologia sperimentale di Geologia dell’università di Roma Tre.
Lo parte sommitale dello strumento è costituita da un’asta (spindle) che ruota su sé stessa a una
velocità angolare costante. Il crogiuolo di platino viene inserito all’interno di un forno tubolare e
l’asticella di platino viene inserita lei stessa all’interno del crogiuolo e fatta ruotare a velocità
desiderata. Lo strumento misura il momento torcente, cioè la resistenza opposta dal fuso al
movimento dell’asticella, e converte tale misura in viscosità. La velocità angolare dell’asticella di
platino viene sempre stabilita all’inizio della misura e viene variata durante la misura stessa(da 0,5
a 100 rpm). Di seguito viene riportata l’equazione di funzionamento dello strumento con cui si
ricava la misura di viscosità:
η = torque . (- r2
spindle/r2
crogiuolo)/4πlΩr2
spindle (eq 2.1)
24
Figura 2.2.1.1: Nelle due immagini è rappresentato il Reometro a cilindri concentrici. La foto a
sinistra mostra le componenti principali e le misure.
2.2.2 Esperimento di cristallizzazione.
In questo lavoro si è effettuato un esperimento di cristallizzazione a partire da un fuso di
composizione fonolitica - tefrifonolitica derivante da pomici dell’eruzione del 472 A.D. di Pollena
(Vesuvio).
L’esperimento è stato condotto a 1200 °C per una durata complessiva di circa 3 ore.
Al termine dell’esperimento il crogiuolo di platino è stato estratto dal forno e raffreddato
velocemente in acqua.
Il prodotto sperimentale è stato di seguito carotato in un carotiere verticale e sono state preparate
sezioni longitudinali e laterali del campione per la successiva analisi tessiturale del prodotto.
25
2.3 Preparazione dei campioni
Le analisi tessiturali effettuate sui campioni hanno richiesto una fase di preparazione del materiale
che consiste, in generale, in una fase di inglobamento dei campioni e in una di lucidatura. I
campioni sperimentali ottenuti dall’esperimento di quenching sono stati prima carotati e poi
inglobati in resina epossidica. Il carotaggio ha permesso di isolare tre parti diverse del campione,
rispettivamente al tetto, alla base e al centro del crogiuolo di platino (Pn2 = top, Pn3 = middle,
Pn4 = bottom).
Il campione così preparato è stato inglobato in resina epossidica. Dopo aver colato la resina
all’interno del porta campione si è aspettato un giorno, in modo che il campione si possa solidificare
perfettamente. Le pasticche ottenute sono state, poi, abbassate per fare sì che le superfici cristalline
fossero ben visibili. L’abbassamento può essere fatto a mano tramite una carta abrasiva oppure con
una macchina lucidatrice in cui è sistemata la carta abrasiva. La procedura successiva è consistita
nella lucidatura ed è stata effettuata con la macchina lucidatrice, l’obiettivo è rimuovere l’effetto
opaco causato dall’inglobamento. La macchina lucidatrice a panno (Struers Labopol-5) è costituita
da:
- una testa porta campione (LaboForce)
- un giradisco dove viene alloggiato il panno per la lucidatura
- una manopola per regolare la velocità da 0 a 500 rpm
- tre tipologie di panni per la lucidatura
- diversi lubrificanti per ottenere migliori risultati
La procedura è avvenuta in 3 step utilizzando tre panni a di dimensione abrasiva sempre minore, il
primo con particelle abrasive in allumina della dimensione del micrometro, il secondo con le
dimensioni di 0,3 micrometri e il terzo con dimensioni di 0,1 micrometri accompagnando questi
step con l’utilizzo di paste lubrificanti in allumina.
Figura 2.3.1: La figura mostra le sezioni inglobate per l’acquisizione delle immagini, dopo
essere state lucidate. Da destra a sinistra Pn2, Pn3, Pn4.
26
2.4 Microscopio Ottico
Dopo aver lucidato i campioni, cercando di eliminare il più possibile i graffi che potrebbero essere
molto visibili ad ingrandimenti più alti, si è provveduto a mettere i campioni sotto al microscopio
ottico per ottenere delle immagini ingrandite delle sezioni inglobate ed ottenere più facilmente i
parametri tessiturali. Lo strumento usa come sorgente la luce, ha tre ingrandimenti 10 x, 50 x e
100 x e uno strumento di messa a fuoco. La procedura consiste nello scegliere, inizialmente, un
transetto da effettuare con il microscopio e poi orientare il campione e muovere la luce nel
microscopio in direzione del transetto scelto. Partendo dalla prima foto si sceglie un punto di
riferimento da seguire tra la foto precedente e quella successiva in modo da avere un transetto finale
con la giusta sovrapposizione tra le varie foto. Si è deciso, quindi, di fare sui tre campioni (Pn2, Pn3
e Pn4) vari transetti, rispettivamente uno per il campione 2, due per il campione 3 e tre per il
campione 4.
Figura 2.4.1: La figura mostra il microscopio che è stato utilizzato per ricavare le immagini dei
campioni sperimentali.
27
3. Presentazione dei dati
3.1 Analisi sui campioni sperimentali
Alla fine dell’esperimento il campione è stato raffreddato in aria, poi carotato a diverse altezze (top,
middle e bottom) e preparato per le successive analisi tessiturali. Questo paragrafo descrive le
analisi tessiturali effettuate sui campioni realizzati nell’esperimento del Reometro a 1200°. Le
analisi tessiturali sono fondamentali per ricostruire le dinamiche eruttive e hanno come fine la stima
dell’abbondanza, della distribuzione e della forma dei cristalli presenti all’interno dei campioni,
nonché la velocità di crescita di queste fasi cristalline. Per le analisi tessiturali sono state utilizzate
le foto dei transetti ottenute attraverso il microscopio ottico, queste immagini sono state processate
prima attraverso il programma “Adobe Illustrator” che ha permesso di estrarre le foto e di realizzare
delle strisce continue dei transetti realizzati. Poi per digitalizzare le immagini e misurare i parametri
geometrici delle varie componenti è stato utilizzato il software “Image J”. Per misurare i parametri
occorre per prima cosa convertire le immagini dei transetti in immagini binarie in bianco e nero.
Questa procedura può essere effettuate attraverso un’operazione di filtrazione automatica
(thresholding), isolando le tonalità necessarie e cercando di eliminare il più possibile i difetti
contenuti nell’immagine precedente (per esempio graffi rimasti dalla lucidatura), o ricalcando
semplicemente le aree dei cristalli presenti nel transetto. Prima di ogni operazione con le immagini
binarie è necessario impostare la barra della scala di riferimento immettendo nel software la
risoluzione dell’immagine in rapporto tra pixels e millimetri. Le immagini acquisite dal
microscopio ottico sono state impostate con una risoluzione di 1121,83 pixels/mm.
Figura 3.1.1: Esempio di immagini trattate con ImageJ, l’immagine superiore è il transetto
originale mentre quella inferiore rappresenta l’immagine binaria dopo il trattamento con ImageJ.
Per ottenere i dati per le analisi tessiturali sono state realizzate due immagini binarie dello stesso
transetto in modo da isolare le fasi cristalline presenti nel transetto ed avere così i dati separati di
entrambe le fasi; nella prima sono presenti solo leuciti mentre nella seconda sono presenti solo
28
pirosseni. Nei dati ottenuti dalle analisi tessiturali sui campioni Pn2, Pn3 e Pn4 si nota come il
contenuto cristallino vari notevolmente andando dal campione Pn2 al campione Pn4. Nel campione
Pn 2 (top) vengono contate 659 leuciti e 7936 pirosseni, nel campione Pn 3 (middle) vengono
contate circa 550 leuciti e 3654 pirosseni, infine nel campione Pn 4 (bottom) vengono contate 89
leuciti e 186 pirosseni.
Al fine di ottenere in un unico prodotto sperimentale, campioni a diverso grado di cristallinità, si è
scelto di inserire il crogiuolo di platino ad un’ altezza all’interno del forno leggermente dislocata
rispetto al punto caldo del forno (hot spot), soggetta quindi a un certo gradiente termico, di circa
30°C. L’esistenza di questo gradiente termico ha permesso infatti di avere, all’interno dello stesso
campione sperimentale, diverse sezioni di liquido sottoposte a temperature diverse, quindi a diversi
gradi di sottoraffreddamento e quindi a diversi gradi di cristallizzazione.
La presenza di una termocoppia interna ed esterna al crogiuolo di platino permette di conoscere con
esattezza il gradiente di temperatura lungo la verticale del forno e quindi di assegnare ad ogni punto
all’interno del liquido il preciso valore di temperatura e di sottoraffreddamento.
Sulla base di ciò, le temperature reali a cui il liquido di Pollena è stato sottoposto durante
l’esperimento di cristallizzazione sono le seguenti:
Pn2 – Top = 1184 °C
Pn3 – Middle = 1200 °C
Pn4 – Bottom = 1216 °C
Figura 3.1.2: Nella figura a sinistra è rappresentato l’esperimento a 1200°C mentre nella figura a
destra è rappresentata la collocazione dei campioni Pn2, Pn3 e Pn4 all’interno dello strumento.
Pn2
n2
Pn3
Pn4
29
Figura 3.1.3: Nell’immagine in alto sono rappresentati i campioni sperimentali mentre
nell’immagine in basso sono evidenziati i transetti realizzati con le immagini acquisite dal
microscopio ottico.
234
30
4A 4B 4C
Figura 3.1.4: Nella figura sono
rappresentati i transetti del campione Pn4
(Bottom).
31
4C4A 4B
Figura 3.1.5: Nella figura sono
rappresentati i transetti delle sole leuciti
del campione Pn4 (Bottom).
32
4B 4C
Figura 3.1.5: Nella figura sono
rappresentati i transetti dei soli pirosseni
del campione Pn4 (Bottom).
33
3A (1) 3A (2) 3B
Figura 3.1.6: Nella figura sono
rappresentati i transetti del campione Pn3
(Middle).
34
Figura 3.1.7: Nella figura sono
rappresentati i transetti delle sole Leuciti
del campione Pn3 (Middle).
3B3A (2)3A (1)
35
Figura 3.1.8: Nella figura sono
rappresentati i transetti dei soli Pirosseni
del campione Pn3 (Middle).
3B3A (2)3A (1)
36
Figura 3.1.9: Andando dall’alto verso il basso, nella prima e seconda immagine è possibile
vedere il campione Pn2 in cui sono messi in evidenza prima i cristalli di Leucite e poi quelli di
Pirosseno, nella terza e quarta è presente il transetto in Image J con i cristalli di Leucite e quelli di
Pirosseno isolati.
L’analisi delle immagini con Image J ci ha permesso di ricavare i parametri fondamentali delle fasi
cristalline come: l’area del cristallo, i valori dell’asse maggiore e dell’asse minore, l’angolo, la
circolarità, l’area fraction, la rotondità, la solidità e l’aspect ratio.
Il primo parametro utile è stato ricavato dall’analisi delle forme cristalline che, data la loro
complessità, è stato necessario trattare attraverso l’utilizzo del software CSD SLICE (Morgan and
Jerram, 2006). CSD SLICE incorpora al suo interno un database con le forme cristalline e
,attraverso il confronto con 703 abiti cristallini, trova la curva che approssima in modo migliore la
forma in 2D della popolazione di cristalli che si sta analizzando. I dati ottenuti da CSD SLICE
verranno utilizzati per la costruzione delle curve di CSD (crystal size distribution).
37
0.0000
0.0200
0.0400
0.0600
0.0800
0.1000
0.1200
0.04
0.12
0.2
0.28
0.36
0.44
0.52
0.6
0.68
0.76
0.84
0.92
1
normalisedfreq
2D sa/la
Best fit shape curve
Leuciti Pn4
1.00 1.25 1.40
0.0000
0.0200
0.0400
0.0600
0.0800
0.1000
0.1200
0.04
0.12
0.2
0.28
0.36
0.44
0.52
0.6
0.68
0.76
0.84
0.92
1
normalisedfreq
2D sa/la
Best fit shape curve
Pirosseni Pn4
1.00 1.70 6.00
B
A
38
0.0000
0.0200
0.0400
0.0600
0.0800
0.1000
0.1200 0.04
0.12
0.2
0.28
0.36
0.44
0.52
0.6
0.68
0.76
0.84
0.92
1
normalisedfreq
2D sa/la
Best fit shape curve
Leuciti Pn3
1.00 1.15 1.60
0.0000
0.0200
0.0400
0.0600
0.0800
0.1000
0.1200
0.04
0.12
0.2
0.28
0.36
0.44
0.52
0.6
0.68
0.76
0.84
0.92
1
normalisedfreq
2D sa/la
Best fit shape curve
Pirosseni Pn3
1.00 1.60 3.60
C
D
39
Figura 3.1.8: Andando dall’alto verso il basso vengono mostrati i grafici (A, B, C, D, E, F),
realizzati col software di Morgan e Jerran, che indicano la forma dei cristalli in 3D di Pn4, Pn3 e
Pn2. Il foglio di calcolo di Morgan e Jerran permette una stima oggettiva dell’abito di un cristallo,
da prime misurazioni in 2D. La linea tratteggiata rappresenta il modello ideale e le linee continue
colorate sono relative ai dati delle analisi.
0.0000
0.0200
0.0400
0.0600
0.0800
0.1000
0.1200
0.04
0.12
0.2
0.28
0.36
0.44
0.52
0.6
0.68
0.76
0.84
0.92
1
normalisedfreq
2D sa/la
Best fit shape curve
Leuciti Pn2
1.00 1.30 1.60
0.0000
0.0200
0.0400
0.0600
0.0800
0.1000
0.1200
0.04
0.12
0.2
0.28
0.36
0.44
0.52
0.6
0.68
0.76
0.84
0.92
1
normalisedfreq
2D sa/la
Best fit shape curve
Pirosseni Pn2
1.00 1.15 1.60
E
F
40
Come si può vedere dai grafici, i dati di CSD SLICE suggeriscono la presenza di abiti cristallini
diversi nei campioni Pn 2, Pn 3 e Pn 4 ,sia nelle leuciti sia nei pirosseni, nonché andamenti delle
popolazioni di cristalli diversi. Di seguito sono riportati i dati sugli abiti cristallini esaminati,
ottenuti dal rapporto tra l’asse maggiore e minore degli oggetti:
Leuciti Pn4 = 1.0 : 1.25 : 1.40
Leuciti Pn3 = 1.0 : 1.15 : 1.60
Leuciti Pn2 = 1.0 : 1.30 : 1.60
Pirosseni Pn4 = 1.0 : 1.70 : 6.0
Pirosseni Pn3 = 1.0 : 1.60 : 3.60
Pirosseni Pn2 = 1.0 : 1.15 : 1.60
I dati di CSD SLICE sono stati fondamentali per la realizzazione delle curve di CSD. La
realizzazione delle curve di CSD è avvenuta con l’utilizzo del programma “CSD Corrections” in cui
sono stati inseriti alcuni dati ottenuti dall’analisi delle immagini in Image J. Come fatto
precedentemente, sono state realizzate per ogni campione sperimentale due CSD, una per le leuciti e
una per i pirosseni.
Nelle figure successive vengono riportate le CSD dei campioni sperimentali esaminati:
Figura 3.1.9: Grafico relativo alla distribuzione dei cristalli di leucite (CSD) nel campione
Pn4.
0
1
2
3
4
5
6
7
8
0 0.1 0.2 0.3 0.4 0.5 0.6 0.7 0.8
lnpopulationdensity(mm-4)
L (mm)
41
Figura 3.1.10: Grafico relativo alla distribuzione dei cristalli di pirosseno (CSD) nel campione
Pn4.
Figura 3.1.11: Grafico relativo alla distribuzione dei cristalli di leucite (CSD) nel campione
Pn3.
0
2
4
6
8
10
12
0 0.05 0.1 0.15 0.2
lnpopulationdensity(mm-4)
L (mm)
0
2
4
6
8
10
12
0 0.1 0.2 0.3 0.4 0.5
lnpopulationdensity(mm-4)
L (mm)
42
Figura 3.1.12: Grafico relativo alla distribuzione dei cristalli di pirosseno (CSD) nel campione
Pn3.
Figura 3.1.13: Grafico relativo alla distribuzione dei cristalli di leucite (CSD) nel campione
Pn2.
0
2
4
6
8
10
12
14
0 0.1 0.2 0.3 0.4 0.5 0.6
lnpopulationdensity(mm-4)
L (mm)
0
2
4
6
8
10
12
14
16
18
0 0.05 0.1 0.15 0.2 0.25 0.3 0.35
lnpopulationdensity(mm-4)
L(mm)
43
Figura 3.1.14: Grafico relativo alla distribuzione dei cristalli di pirosseno (CSD) nel campione
Pn2.
Per evidenziare meglio le eventuali differenze tra i campioni, nelle due figure successive vengono
mostrate le curve di CSD di leuciti e pirosseni per tutti i campioni esaminati.
Figura 3.1.15: Grafico che mette a confronto le CSD delle leuciti nei campioni Pn 2, Pn 3 e
Pn 4.
0
2
4
6
8
10
12
14
16
18
0 0.05 0.1 0.15 0.2 0.25 0.3 0.35
lnpopulationdensity(mm-4)
L (mm)
0
2
4
6
8
10
12
0 0.2 0.4 0.6 0.8
lnpopulationdensity(mm-4)
L (mm)
Lct Pn4
Lct Pn3
Lct Pn2
44
Figura 3.1.16: Grafico che mette a confronto le CSD dei pirosseni nei campioni Pn 2, Pn 3 e
Pn 4.
Come si può vedere dai grafici l’andamento della CSD, sia nei pirosseni che nelle leuciti, è
semilogaritmico ed è quindi in accordo con la teoria generale. Per ottenere dei buoni andamenti per
le CSD sono state considerate solo le taglie cristalline inferiori a 0,006 mm in quanto si è notato che
i valori minori di 0,006 mm non appartenevano alle fasi cristalline ed erano, quindi, dati da
escludere dal conteggio delle aree. Questo è ben visibile nella figura 3.1.13 dove gli spot gialli e
quelli arancioni rappresentano l’intervallo di taglie cristalline della CSD prima dell’esclusione.
Successivamente i dati, ricavati dall’analisi delle immagini, sono stati utilizzati per ricavare i tassi
di nucleazione e crescita di leuciti e pirosseni nei tre campioni. I tassi di nucleazione (J) e crescita
(G) sono stati calcolati seguendo la formulazione riportata in Vona e Romano (2013). I tassi di
crescita sono stati calcolati usando i dati di lunghezza e spessore dei dieci cristalli più grandi
presenti in ogni campione, secondo la seguente formula:
G = (l x w)0,5
/(2 x Δt) eq 3.1
dove l e w sono rispettivamente lunghezza e spessore, mentre Δt rappresenta il tempo
dell’esperimento che nel nostro caso è di circa 3 ore.
Sotto sono elencati i tassi di crescita media (GM) nei campioni Pn 2, Pn 3 e Pn 4:
0
2
4
6
8
10
12
14
16
18
0 0.1 0.2 0.3 0.4 0.5 0.6
lnpopulationdensity(mm-4)
L (mm)
px Pn4
px Pn3
px Pn2
45
GM leuciti Pn 4 = 1.16 .
10-8
m/s
GM leuciti Pn 3 = 8.29 .
10-9
m/s
GM leuciti Pn 2 = 5.12 .
10-9
m/s
GM pirosseni Pn 4 = 2.02 .
10-9
m/s
GM pirosseni Pn 3 = 3.34 .
10-9
m/s
GM pirosseni Pn 2 = 2.19 .
10-9
m/s
Il tasso medio di nucleazione può essere espresso come:
J = Nv/Δt eq 3.2
dove Nv è il volume number density e Δt indica sempre il tempo sperimentale. A sua volta il volume
number density può essere espresso come:
Nv = NA/Sn eq 3.3
dove NA è l’area number density e Sn indica la taglia cristallina caratteristica. NA e Sn sono
facilmente ricavabili dai dati dell’analisi delle immagini. NA si ottiene dividendo il numero totale di
cristalli per l’area occupata da essi e Sn dividendo l’area fraction per Na ed elevando tutto a un
fattore 0,5 (Sn = (φ/NA)0.5
). Con tutti i dati a disposizione si sono quindi ricavati i tassi di
nucleazione (J) per i campioni Pn 2, Pn 3 e Pn 4 come riportato di seguito:
J leuciti Pn 4 = 7,50 .
106
(m-3
/s)
J leuciti Pn 3 = 2,35 .
107
(m-3
/s)
J leuciti Pn 2 = 1,77 .
108
(m-3
/s)
J pirosseni Pn 4 = 8,60 .
107
(m-3
/s)
J pirosseni Pn 3 = 4,17 .
108
(m-3
/s)
J pirosseni Pn 2 = 7,63 .
109
(m-3
/s)
I tassi di nucleazione e crescita sono stati, poi, messi in relazione con il tasso di sottoraffreddamento
(ΔT = Tliq – Tsistema). Quindi abbiamo stabilito con l’utilizzo del software MELTS (Ghiorso and
Sack, 1995; Asimow and Ghiorso, 1998) che la temperatura di liquidus sia di 1285°C e abbiamo
sottratto ad essa rispettivamente i valori di 1184 °C per il campione Pn 2, 1200°C per il campione
Pn 3 e 1216°C per il campione Pn 4. Queste temperature corrispondono alle temperature
sperimentali a cui il liquido di Pollena è stato sottoposto alle diverse altezze all’interno del
crogiuolo sperimentale. I valori del tasso di sottoraffreddamento (ΔT) sono dunque: 69°C per il
campione Pn 4, 85°C per il campione Pn 3 e 101°C per il campione Pn 2. Unendo tutti i dati in un
46
grafico, tasso di nucleazione e crescita contro tasso di sottoraffreddamento si ottiene il seguente
risultato:
Figura 3.1.17: La figura rappresenta il tasso di nucleazione e crescita contro il tasso di
sottoraffreddamento, sopra per le leuciti e sotto per i pirosseni.
47
4. Discussione dei risultati
4.1 Introduzione
Dai campioni ottenuti durante l’esperimento di cristallizzazione, si può notare come il fattore
temperatura abbia fortemente influenzato le caratteristiche tessiturali e il contenuto in cristalli. I tre
campioni analizzati (Pn 2, Pn 3 e Pn 4) hanno cristallizzato a una temperatura diversa, grazie ad un
gradiente di temperatura tra il top e il bottom dello strumento di circa 32°C. Il campione Pn 2 (Top)
ha cristallizzato alla temperatura minore (1184°C) e presenta un contenuto in leuciti e pirosseni
notevole (leuciti: 659; pirosseni: 7936). Il campione Pn 3 (Middle) ha cristallizzato a una
temperatura media tra il top e il bottom (1200°C) e il contenuto in cristalli è abbastanza alto ma
comunque inferiore a quello del campione Pn 2, soprattutto nei pirosseni (leuciti: 550; pirosseni:
3654). Infine il campione Pn 4 (Bottom) ha cristallizzato alla temperatura più alta (1216°C) e ha un
contenuto in cristalli molto basso sia nel caso delle Leuciti che in quello dei pirosseni (leuciti: 89;
pirosseni: 186); da sottolineare è il fatto che in questo campione l’unico transetto che permette di
notare una discreta presenza di pirosseni è il 4C.
4.2 Analisi di CSD
Gli abiti cristallini dei campioni Pn 2, Pn 3 e Pn 4 sono stati valutati attraverso il software CSDslice
(Morgan and Jerram, 2006). I dati in 2D, espressi come asse maggiore e minore dell’ellisse meglio
rappresentato, sono stati confrontati a un database che contiene le curve di forma, e sono stati
convertiti nell’abito 3D con il miglior fitting in termini di asse minore, asse intermedio e asse
maggiore. Il range di valori per le Leuciti è tra 1.0 : 1.15 : 1.40 e 1.0 : 1.30 : 1.60, mentre per i
Pirosseni è tra 1 : 1.15 : 1.60 e 1 : 1.70 : 6.0. Sia nelle leuciti che nei pirosseni l’asse minore ha un
valore costante, l’asse intermedio ha il suo valore massimo nelle leuciti del campione Pn 2 e nei
pirosseni del campione Pn 4 e l’asse maggiore ha il suo valore maggiore nelle leuciti dei campioni
Pn 2 e Pn 3 e nei pirosseni del campione Pn 4. Inoltre l’asse intermedio ha il suo valore minimo
nelle leuciti del campione Pn 3 e nei pirosseni del campione Pn 2 e infine l’asse maggiore ha il suo
valore minimo nelle leuciti e nei pirosseni di Pn 2.
Gli stessi dati in 2D sono stati utili per ricavare le crystal size distribution (CSD) dei tre campioni,
la conversione stereologica è avvenuta, come spiegato nel capitolo precedente, attraverso l’utilizzo
di CSDCorrections. I diagrammi di CSD ottenuti sono semilogaritmici e mostrano in generale una
concavità verso l’alto. Essi mettono in relazione la densità di popolazione, n(L) (mm-4
), che è il
48
numero di cristalli di taglia L contenuti nell’unità di volume, con la lunghezza caratteristica dei
grani. Di seguito sono riportati i diagrammi delle CSD riassuntivi dei campioni Pn2, Pn3 e Pn4 sia
per le leuciti che per i pirosseni.
Il diagramma descrive bene le caratteristiche dei campioni sperimentali. Le leuciti dei campioni
Pn2 e Pn3 hanno un andamento abbastanza inclinato nei valori piccoli di taglia, non a caso
osservando l’analisi delle immagini si può verificare la presenza di Leuciti soprattutto di piccola
taglia che sono probabilmente cristalli di quenching. Nel caso del campione Pn4, si può notare
come l’andamento della curva sia molto più blando rispetto a quello degli altri due e si spinga a
valori di taglie cristalline molto più grandi. Questo è riscontrabile, di nuovo, dall’analisi delle
immagini che testimonia la formazione di cristalli di leucite molto grandi, che probabilmente si
sono formati durante la fase sperimentale principale.
0
2
4
6
8
10
12
0 0.2 0.4 0.6 0.8
lnpopulationdensity(mm-4)
L (mm)
Lct Pn4
Lct Pn3
Lct Pn2
49
Anche questo diagramma conferma le caratteristiche dei campioni sperimentali. L’andamento della
curva del campione Pn 2 presenta un inclinazione notevole per i pirosseni di taglia piccola, mentre
assume un inclinazione più blanda andando verso le taglie maggiori (0.29 mm). Da questo grafico si
può notare l’andamento incompleto del campione Pn 4, che in realtà non è da considerare affidabile
data la scarsità del numero di pirosseni all’interno del campione.
4.3 Nucleazione e crescita
I tassi di nucleazione e crescita delle leuciti e dei pirosseni sono stati calcolati a partire dall’analisi
tessiturale del prodotto sperimentale e sono stati analizzati rispetto al tasso di sottoraffreddamento.
Il grafico realizzato mette in relazione il GM dei 10 cristalli di leucite e pirosseno più grandi dei tre
campioni sperimentali, il tasso di nucleazione per la leucite e il pirosseno degli stessi campioni
sperimentali e il tasso di sottoraffreddamento. Il tasso di sottoraffreddamento è stato calcolato
utilizzando le temperature del campione Pn2, Pn3 e Pn4 e la temperatura di liquidus ricavata dai
calcoli del software MELTS (Ghiorso and Sack, 1995; Asimow and Ghiorso, 1998) in cui sono
state inserite le composizioni di Giordano et al. (2009). Gli ordini di grandezza dei GM variano per
le leuciti tra 8.29 .
10-9
m/s (Pn3) e 1.16 .
10-9
m/s (Pn4) e per i pirosseni tra 2.02 .
10-9
m/s (Pn3) e
3.34 .
10-9
m/s (Pn4). Per quanto riguarda gli ordini di grandezza dei J invece, le leuciti hanno valori
compresi tra 1.77 .
108
m-3
/s (Pn2) e 7.50 .
106
m-3
/s (Pn4) mentre i pirosseni hanno valori compresi
tra 8.60 .
107
m-3
/s (Pn4) e 7.63 .
109
m-3
/s (Pn2). Gli ordini di grandezza dei GM per le Leuciti hanno
valori leggermente superiori a quelli calcolati da Shea sull’eruzione del 79 d.c. (Shea et al. 2009).
Mentre per quanto riguarda i Pirosseni, i valori sono inferiori a quelli calcolati da Campagnola
(2009) e da altri autori (Piermattei, 2005; Agostini 2009).
0
2
4
6
8
10
12
14
16
18
0 0.1 0.2 0.3 0.4 0.5 0.6
lnpopulationdensity(mm-4)
L (mm)
px Pn4
px Pn3
px Pn2
50
Di seguito viene riproposto il grafico che mette in relazione il tasso di nucleazione e crescita e il
sottoraffreddamento.
Nei grafici sono rappresentate le campane di nucleazione e crescita di leuciti e pirosseni. Come si
può vedere per bassi valori di sottoraffreddamento viene favorita la crescita, la campana di crescita
ha il suo picco a ΔT = 60°C nelle leuciti e a ΔT = 80°C nei pirosseni. Per valori medi di
sottoraffreddamento viene favorita la nucleazione, la campana di nucleazione ha il suo picco a
51
ΔT = 120°C nelle leuciti e a ΔT = 110°C nei pirosseni. Infine per valori di sottoraffreddamento alti,
si ha nucleazione e crescita scarsa o nulla.
Inoltre combinando i valori delle velocità di crescita di Leucite e Pirosseno con i parametri delle
analisi di CSD effettuate sui campioni naturali di Pollena, è stato possibile ricavare il tempo di
residenza del magma. I grafici di CSD dei campioni naturali sono mostrati sotto:
9
11
13
15
17
19
21
0 0.01 0.02 0.03 0.04 0.05
lnpopulationdensity(mm-4)
L (mm)
CSD Leucite
Po3(L4t)
Po5(L4b)
Po8(L3)
Po10(L2)
Po11(L1t)
Po13(L1b)
52
Figura 4.3.1: Nei grafici a e b sono rappresentate le CSD dei campioni naturali, per le Leuciti e
per i Pirosseni. Con le sigle L1 - L4 sono indicati gli strati analizzati mentre con Po (3, 5, 8, 10, 11,
13) sono indicati i rispettivi campioni. Le linee nere indicano le rette di interpolazione usate per
calcolare lo slope.
Il tempo di residenza del magma è facilmente calcolabile attraverso questa relazione, già
precedentemente definita:
slope = -1/Gtr
Il valore dello slope è ricavabile direttamente dal grafico, calcolando il coefficiente angolare della
retta di interpolazione. Unendo questo valore a quelli delle velocità di crescita calcolati in
precedenza si ottiene il tempo di residenza. Per le Leuciti il tempo di residenza calcolato è di circa 2
ore. Per i Pirosseni di taglia inferiore ai 0.05 mm il tempo di residenza è di circa 4 ore, mentre per i
Pirosseni di taglia superiore ai 0.05 mm il tempo di residenza è di circa 28 ore.
5. Conclusioni
L’obiettivo di questa tesi è stato quello di ottenere, con degli esperimenti, la cinetica di
cristallizzazione dei magmi dell’eruzione di Pollena (472 d.c.). Studiare la cinetica di
cristallizzazione in varie condizioni, permette di ottenere dati utilizzabili per investigare la storia
5
7
9
11
13
15
17
19
0 0.05 0.1 0.15
lnpopulationdensity(mm-4)
L (mm)
CSD Clinopyroxene
Po3(L4t)
Po5(L4b)
Po8(L3b)
Po10(L2b)
Po11(L1t)
Po13(L1b)
53
evolutiva del magma, i processi di risalita e la dinamica eruttiva. Un ulteriore risultato è quello di
relazionare la formazione dei cristalli con la viscosità che è uno dei fattori fondamentali per definire
l’esplosività di un’ eruzione vulcanica. L’esperimento svolto a 1200°C ha permesso di ottenere dei
campioni sottoposti a un gradiente di temperatura. E’ stato possibile, quindi, mettere a confronto
questi tre campioni a diversa temperatura in termini di contenuto in cristalli e di velocità di crescita
e di nucleazione degli stessi. La realizzazione dei diagrammi CSD ha permesso di avere una stima
sulla distribuzione delle taglie cristalline dei tre campioni.
Le velocità medie di crescita (GM) sono state stimate dagli esperimenti di cristallizzazione. Di
seguito, sono riassunte nuovamente le velocità di crescita di leuciti e pirosseni nei tre campioni:
GM leuciti Pn4 = 1.16 .
10-9
m/s; T = 1216°C
GM leuciti Pn3 = 8.29 .
10-9
m/s; T = 1200°C
GM leuciti Pn2 = 5.12 .
10-9
m/s; T = 1184°C
GM pirosseni Pn4 = 2.02 .
10-9
m/s = 1216°C
GM pirosseni Pn3 = 3.34 .
10-9
m/s = 1200°C
GM pirosseni Pn2 = 2.19 .
10-9
m/s = 1184°C
Come precedentemente sottolineato, questi valori hanno un ordine di grandezza confrontabile a
quello dei risultati di altri studi di cinetica di cristallizzazione.
Oltre alle velocità di crescita si è ricavato anche il tasso di nucleazione J, i risultati nelle leuciti e nei
pirosseni dei tre campioni sono riassunte sotto:
J Leuciti Pn4 = 7.50 .
106
(m-3
/s); T = 1216°C
J Leuciti Pn3 = 2.35 .
107
(m-3
/s); T = 1200°C
J Leuciti Pn2 = 1.77 .
108
(m-3
/s); T = 1184°C
J Pirosseni Pn4 = 8.60 .
107
(m-3
/s); T = 1216°C
J Pirosseni Pn3 = 4.17 .
108
(m-3
/s); T = 1200°C
J Pirosseni Pn2 = 7.63 .
109
(m-3
/s); T = 1184°C
Relazionando questi dati al tasso di sottoraffreddamento, si è riuscito a realizzare un grafico che
riproduce, in accordo con la teoria generale di nucleazione e crescita, l’andamento del tasso di
nucleazione e crescita con il sottoraffreddamento.
Infine utilizzando questi dati, in congiunzione con analisi tessiturali effettuate su campioni naturali
dell’eruzione di Pollena, si sono ricavati i tempi di residenza del magma in camera magmatica e il
tempo di risalita, parametri molto importanti per determinare le dinamiche eruttive.
54
Bibliografia
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55
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Hammer J. E. (2008). Experimental studies of the kinetics and energetics of magma
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distribution analysis. Journal of Volcanology and Geothermal Research, Vol. 154, pag. 1-7.
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56
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the activity of the Neapolitan volcanoes (Italy). Journal of Volcanology and Geothermal research
Vol. 48, pag. 1 – 31.
Shea T., Larsen J. F., Gurioli L., Hammer J. E., Houghton B. F., Cioni R. (2009). Leucite crystals:
Surviving witnesses of magmatic processes preceding the 79AD eruption at Vesuvius, Italy.
Earth and Planetary Science Letters Vol. 281, pag. 88 – 98.
Sulpizio R., Mele D., Dellino P., La Volpe L. (2005). A complex, Subplinian-type eruption from
low-viscosity, phonolitic to tephri-phonolitic magma: the AD 472 (Pollena)eruption of
Somma-Vesuvius, Italy. Bull. Volcanol. Vol. 67, pag. 743 – 767.
Sulpizio R., Mele D., Dellino P., La Volpe L. (2007). Deposits and physical properties of
pyroclastic density currents during complex Subplinian eruptions: the AD 472 (Pollena)
eruption of Somma-Vesuvius, Italy. Sedimentology Vol. 54, pag. 607 – 635.
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Physikalische Chemie. Vol. 119, pag. 277 – 301.
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crystallization kinetics of Stromboli and Etna basalts, Contrib. Mineral. Petrol. Vol. 166, pag.
491 – 509.
57
Ringraziamenti
Al termine di questo lavoro tesi, è per me doveroso ringraziare la mia relatrice, la professoressa
Claudia Romano per avermi dato la possibilità di svolgere questo lavoro.
Ringrazio il Dott. Alessandro Vona per l’aiuto che mi ha fornito durante la tesi e per la sua simpatia
che ha alleggerito questo percorso.
Ringrazio la mia famiglia e tutti gli amici che mi hanno accompagnato in questo percorso.
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Tesi Finale

  • 1. 1 Facoltà di Scienze Matematiche, Fisiche e Naturali Laurea triennale in Scienze geologiche (DM270) Indagine sperimentale sulla cinetica di cristallizzazione dei magmi dell’eruzione di Pollena (472d.c.), Vesuvio Candidato: Paolo Martizzi MAT 427202 Relatore: Prof.ssa Claudia Romano Correlatore: Dott. Alessandro Vona Roma, 1 ottobre 2013 Anno accademico 2012/2013
  • 2. 2 Sommario Capitolo 1: Introduzione……………………………………………………………………………..3 1.1: Inquadramento geologico della pianura campana….................................................3 1.2: Morfologia e attività del Somma-Vesuvio…………………………………………4 1.3: La successione di Pollena e la ricostruzione dell’eruzione………………………...6 1.4: Esperimenti di cristallizzazione e stato dell’arte…………………………………..11 1.5: Nucleazione e crescita dei cristalli………………………………………………...12 1.6: Teoria della CSD (Crystal Size Distribution)……………………………………..17 Capitolo 2: Procedure e metodi di analisi…………………………………………………………...21 2.1: Fusione dei campioni………………………………………...................................21 2.2: Esperimento di cristallizzazione…………………………......................................23 2.2.1: Reometro a cilindri concentrici………………………………………………….23 2.2.2: Esperimento di cristallizzazione………………………………………………...24 2.3:Preparazione dei campioni…………………………………………………………25 2.4:Microscopio ottico…………………………………………………………………26 Capitolo 3: Presentazione dei dati…………………………………………………………………..27 3.1:Analisi sui campioni sperimentali………………………………………………….27 Capitolo 4: Discussione dei risultati……………………………………………………………...... 47 4.1:Introduzione………………………………………………………………………..47 4.2:Analisi di CSD……………………………………………………………………..47 4.3:Nucleazione e crescita……………………………………………………………...49 Capitolo 5: Conclusioni……………………………………………………………………………..52 Bibliografia………………………………………………………………………………………….54 Ringraziamenti……………………………………………………………………………………...57
  • 3. 3 1.Introduzione In questo lavoro di tesi triennale viene analizzato il processo di cristallizzazione dei magmi dell’eruzione di Pollena, Somma-Vesuvio (472 d.c.) attraverso la realizzazione di esperimenti, al fine di investigare la cinetica di cristallizzazione di questi magmi. Gli studi sulla cinetica di cristallizzazione sono utili per migliorare l’interpretazione delle dinamiche di un eruzione e per quantificare i tempi di residenza e di risalita di un magma. E’ importante studiare l’eruzione di Pollena per fornire un ulteriore contributo alla delineazione delle aree di rischio nell’area vesuviana; si pensa, infatti, che lo stile e la misura di questo evento si avvicini a quello del massimo evento atteso nell’area del Somma-Vesuvio (Barberi et al. 1990). La cinetica di cristallizzazione è stata misurata attraverso esperimenti di cristallizzazione effettuati tramite un reometro a cilindri concentrici. I prodotti sperimentali sono stati analizzati al microscopio ottico. Attraverso le analisi delle immagini acquisite sono stati misurati i parametri tessiturali più importanti delle fasi cristallizzate, e utilizzando questi dati si è ricavato per i singoli campioni il tasso di crescita e di nucleazione e le curve di Crystal Size Distribution (CSD) (Marsh, 1988; Cashman & Marsh, 1988). Combinando i dati di CSD e i valori del tasso di crescita, inoltre, sono stati calcolati i tempi di residenza del magma. Dai risultati ottenuti è stato possibile notare come i risultati delle misure effettuate su questi campioni siano fortemente condizionate dal contenuto in cristalli differente nei vari campioni. 1.1Inquadramento geologico della pianura campana La regione della pianura campana è situata in un graben delimitato dalle piattaforme carbonatiche del Mesozoico. La sua origine è stata relazionata alla rotazione antioraria della penisola italiana e alla contemporanea apertura del Tirreno con la conseguente subsidenza della piattaforma carbonatica lungo la costa tirrenica (Scandone 1979). L’attività vulcanica avviene nelle aree di subsidenza della piattaforma mesozoica, essa è avvenuta negli ultimi 50.000 anni e ha come principali centri eruttivi i Campi Flegrei, il Vesuvio e l’isola di Procida.
  • 4. 4 Figura 1.1.1: Foto satellitare dell’area campana. 1.2Morfologia e attività del Somma-Vesuvio Il complesso vulcanico del Vesuvio (1281 m) comprende il semirecinto calderico del monte Somma (1131 m, punta del Nasone) e l’attuale cono craterico (Gran Cono) del Vesuvio, che occupa la porzione occidentale e meridionale della depressione calderica. La contemporanea presenza di forme calderiche e crateriche testimonia la diversità tipologica ed energetica delle eruzioni che hanno caratterizzato la storia del complesso vulcanico. La forma generale del complesso vulcanico è tronco-conica, con versanti interni sub-verticali e versanti esterni acclivi e con profilo concavo. I versanti del Somma, in quanto più antichi, presentano un reticolo idrografico ben sviluppato e articolato; le linee di drenaggio sono troncate dalla calderizzazione. Al contrario la superficie
  • 5. 5 topografica vesuviana, essendo di età più giovane, presenta un drenaggio molto meno sviluppato rispetto al settore del Somma. Sull’attività vulcanica antica del complesso si conosce poco, alcuni autori (Santacroce, 1987) sostengono che l’attività iniziò con tipologie eruttive prevalentemente laviche ed in ambiente verosimilmente sottomarino. Le vulcaniti affioranti non sono più antiche di 25.000 anni e testimoniano un attività eruttiva parossistica di tipo esplosivo che solo negli ultimi tempi, prevalentemente storici, si è accompagnata ad attività a carattere effusivo o misto. I prodotti più antichi tendono a ricoprire l’Ignimbrite Campana e fanno parte della formazione di Condola di composizione pomicea datata 25.000 anni fa (Alessio et al. , 1974). La più importante eruzione pliniana del Vesuvio è datata circa 22.000 anni fa ed è chiamata “Eruzione di Sarno”. Dopo circa 17.000 anni si verificarono, sempre nel Vesuvio, una serie di otto eruzioni a carattere pliniano – sub pliniano; le ultime tre sono avvenute rispettivamente nel 79 d.c., nel 472 d.c. e nel 1631. Dopo il 1631 il Vesuvio è entrato in una fase di attività persistente caratterizzata da eruzioni a carattere effusivo - esplosivo con un limitato VEI (VEI=3) e con un trend ben definito. Le eruzioni iniziano sempre con una fase effusiva caratterizzata da emissioni di lava da una frattura nel cono o dal bordo del cono. Dopo pochi giorni l’attività, accompagnata da esplosioni stromboliane, presenta una fase più esplosiva con fontane di lava alte 2 - 4 km. L’ultima fase, caratterizzata dalla formazione di una colonna sostenuta con altezza compresa tra 5 e 15 km, è seguita da un collasso nel cratere centrale e da un periodo di quiescenza che persiste per vari anni. L’emissione di lava marca sempre l’inizio di una nuova attività. L’ultima emissione è avvenuta nel 1944 e ancora oggi perdura una fase di quiescenza (Scandone et al. ,1991). Recenti ricerche (G. De Natale et al., 2006) sul Somma - Vesuvio ci hanno dato informazioni sulla conoscenza strutturale dell’edificio e sull’ambiente vulcano-tettonico. Possiamo dividere la struttura di velocità al di sotto del vulcano in tre regioni fondamentali: zona superficiale nei primi 5 km di crosta, zona intermedia compresa tra 5 e 15 km e una più profonda al di sotto della Moho. Le tomografie sismiche ci danno informazioni importanti sulle strutture della zona superficiale, si riscontra infatti un anomalia positiva delle Vp e Vs lungo l’asse del vulcano che indica la presenza di un corpo rigido centrato al di sotto del cratere. Questa anomalia si propaga in direzione W-SW a una profondità di 2-3 km ed è in contrasto con un anomalia di bassa velocità sulle rocce circostanti. L’estensione dell’anomalia di alta velocità, nell’ordine di 5-7 km3 , suggerisce la presenza del magma residuale solidificato da uno o più cicli dell’attività del vulcano. Al di sotto dei 5 km l’assenza di terremoti non ci da informazioni sulle strutture più profonde, le uniche informazioni ci vengono date da onde riflesse e da onde P-S convertite. Questi dati attestano la presenza di un Sill magmatico a una profondità di 12-15 km, mentre a profondità ancora maggiori (9-17 km) si trova
  • 6. 6 una zona di diminuzione marcata della Vs. In base ai dati recenti si può, quindi, fare un quadro completo che consiste nella presenza di tre profondità principali di accumulo del magma, il primo molto superficiale (4-6 km) che alimenta le eruzioni pliniane e sub-pliniane, un altro localizzato a una profondità maggiore (10-15 km) e che forma una struttura simile a un Sill e infine una zona di bassa velocità a profondità superiore ai 15 km (15-30 km), che possibilmente indica le radici più profonde del magma che alimenta i serbatoi della crosta superiore. 1.3La successione di Pollena e la ricostruzione dell’eruzione Dalle mappe delle isopache e delle isoplete si possono ricavare i parametri fisici dell’eruzione (volume, altezza della colonna eruttiva e MDR). Secondo alcuni autori (Sulpizio et al., 2005) l’altezza della colonna varia tra 14 e 22 km con una velocità massima del vento di 30 m/s. Gli strati di caduta di Pollena possono essere tutti classificati come Subpliniani, con l’unica eccezione dello strato L1 che appartiene più a un campo classificativo Pliniano. Inoltre le mappe isopache permettono la stima del volume dei depositi di caduta, che è di 0,44 km3 . La storia deposizionale della successione dell’eruzione di Pollena può essere ricostruita anche con l’aiuto di alcune caratteristiche dei depositi esposti. La successione continua degli strati di caduta L1-L7 costituisce la prima fase dell’eruzione. La seconda fase è rappresentata dalla successione stratigrafica da S1 a L9, caratterizzata dall’alternanza di depositi di PDC e di caduta. La terza fase è dominata dalla deposizione di PDC e comprende gli strati Sy e Fy. FASE 1: il primo deposito (L1) è massivo, ben classato ed è un deposito di caduta a lapilli che registra lo sviluppo di una colonna alta 13 km (MDR=9. 106 Kg/s), i frammenti iuvenili altamente vescicolati hanno una composizione chimica molto evoluta che indica lo svuotamento di magma da una camera zonata composizionalmente, la scarsezza di litici accidentali indica una minore erosione nella parte superiore del condotto. L’abbondanza di litici accidentali aumenta negli strati L2 ed L3, ciò suggerisce un intensa erosione sulle pareti del condotto o fenomeni di evoluzione del cratere, si nota anche un aumento della colonna eruttiva fino a 16 km (MDR=2. 107 Kg/s). L4 si trova al di sopra dello strato L2-L3 e rappresenta un abbassamento della colonna eruttiva a 12 km (MDR=7. 106 kg/s), inoltre presenta un piccolo aumento della componente di litici accidentali. Gli strati L5 ed L6 presentano un rapporto tra litici accidentali e frammenti iuvenili basso, l’altezza della colonna eruttiva subisce un nuovo aumento a 14 km (MDR=1,2. 107 kg/s). La colonna convettiva subisce un nuovo abbassamento nello strato L7 e la fase 1 termina con lo sviluppo dell’unità LRPF, che marca la destabilizzazione della colonna convettiva; questa unità contiene frammenti di lava con patina rossa che suggerisce la demolizione del condotto superiore.
  • 7. 7 FASE 2: in questa fase l’eruzione entra in una fase più complessa caratterizzati da episodi di generazione di PDC (S1, S2, NA e Fg), interrotti da due intervalli di colonne convettive sub-pliniane (L8 e L9). Sono state fatte molte teorie sulla generazione di PDC, la più plausibile indica che il meccanismo per la deposizione dello strato S1 è quello di un espansione radiale laterale di una mistura pressurizzata, in questo modo si genera un PDC diluito, comunemente noto come base surge (Moore 1967; Cas and Wright 1987; Carey 1991). I depositi S1 mostrano una distribuzione radiale nei settori N ed E, mentre la mancanza di strati affioranti impedisce la tracciatura delle linee isopache nei settori W e S. I depositi dell’unità NA sono esposti nei settori a N del Monte Somma, con solo pochi affioramenti presenti nel settore a SE. L’unità NA consiste in depositi che riempiono le valli, sono da massivi a poco stratificati, mal classati, ricchi in bombe, mostrano una transizione laterale a depositi mal classati, neri e composti da cenere grossolana nel settore a NE. Queste caratteristiche sedimentologiche indicano la deposizione da una PDC capace di sorpassare il bordo della caldera nel settore a N e di riempire le valli nel settore a SE. Dopo la deposizione di NA si sviluppa una colonna convettiva che registra la più alta intensità dell’intera eruzione con lo sviluppo dello strato L8. Un importante aspetto di questa eruzione è la presenza di litici accidentali derivanti da marmi, sieniti e skarn. Per le unità S2 e Fg la ricostruzione è molto più difficile, a causa della mancanza di dati sperimentali e di terreno. E’ possibile che si siano originati dalla colonna sostenuta dello strato L8 o da un espansione radiale, tuttavia la presenza di litici accidentali simili a quelli delle unità precedenti suggerisce un collegamento allo sviluppo della colonna convettiva. Quindi l’interpretazione migliore è che da una colonna sostenuta (L8) si sia generato un PDC radiale e turbolento (S2) seguito da flussi concentrati che riempirono le paleo valli nei settori a N e SE (Fg). La seconda fase si chiude con la messa in posto dello strato L9 che indica la formazione di una nuova colonna convettiva simile a quella sviluppatasi nello strato L8. FASE 3: la fase finale dell’eruzione di Pollena è caratterizzata da un estesa attività freatomagmatica, dovuta alla presenza di serbatoi d’acqua. Sy identifica l’inizio dell’attività e mostra significativi cambi litologici (lapilli accrezionali, cenere fine, frammenti più grossolani con strati di colore giallino e abbondanza di cristalli sciolti). Tale unità è stata probabilmente deposta come un PDC simile a quello relativo alle unità S1 ed S2 e mostra una dispersione areale limitata ai settori E e SE. Fy mostra dei caratteri litologici simili a quelli dell’unità Sy con aggiunte localizzate di blocchi litici e scorie nere iuvenili. I depositi sono sempre massivi e tendono a riempire alcune paleovalli soprattutto nel settore a SE. Le caratteristiche litologiche e sedimentologiche delle unità Sy ed Fy suggerisce che essi si siano sviluppati durante esplosioni vulcaniane, senza lo sviluppo di alcuna colonna convettiva.
  • 8. 8 Come dimostrato da Sulpizio et al. (2005) nella successione di Pollena si possono distinguere nove depositi di caduta (da L1 a L9) con cenere, pomici, scorie e lapilli, quattro strati con solo cenere (da A1 a A4) e depositi di PDC da massivi a strati di dune (S1, S2, Sy, NA, LRPF, Fg, Fy). Gli strati L1-L9 ed A1-A4 sono letti di caduta e mostrano una variazione in spessore e litologia lungo la sequenza stratigrafica. Tendono ad ammantare e sono generalmente dispersi nella zona a NE, dove sono stati trovati anche a distanze di 45 km dal condotto. Gli strati L2-L9 consistono in scorie e lapilli angolati e con contenuto in cristalli mentre lo strato L1 è dominato da lapilli e pomici di colore chiaro, nelle zone prossimali L2 ed L3 sono separati da A1, che è composto da cenere grossolana, mentre nelle zone distali tendono a convergere in un unico strato. Le isopache di L1, L4, L5 ed L6 mostrano una curvatura verso est nelle zone mediali, mentre L2 ed L3 mostrano una forma ellittica. Lo strato L7 è meno disperso e diventa rapidamente fine nelle zone mediali (4-10 km), da questo punto avviene la transizione a una granulometria fine e a cenere vescicolata. Infine gli strati L8 ed L9 sono i più estesi strati di caduta e mostrano una dispersione verso NE con isopache molto allungate ed ellittiche. La vescicolarità lungo la sezione L1-L9 è un parametro molto variabile, in quanto si trovano frammenti iuvenili poco vescicolati e molto vescicolati allo stesso tempo, generalmente nelle pomici si presentano di forma poco allungata fino a tabulare mentre nelle scorie le bolle sono di forma tipicamente sferica; nello strato L1 a volte si trovano frammenti di pomice a bande. I frammenti di lava predominano su tutti gli strati con cenere e lapilli, alcuni di essi hanno subito alterazione idrotermale e mostrano delle patine di ossidazione di colore rosso, esse sono abbondanti negli strati L2 ed L3, inoltre nello strato L8 si trovano frammenti litici di rocce marine (Carbonati, Sieniti e Skarn). Per quanto riguarda gli strati A1-A4, essi come detto prima sono composti da cenere grossolana ma si alternato con strati di lapilli nella parte basale della successione. Questi strati tendono ad ammantare e hanno uno spessore molto basso (massimo spesso di 3-5 cm), sono inoltre massivi e composti da cenere grossolana e lapilli da mediamente a ben classati. La transizione da lapilli a cenere grossolana è generalmente gradazionale nei siti prossimali e medio-distali (più di 30 km dalla sorgente). Nella successione dell’eruzione di Pollena compaiono, come detto prima, due tipi di depositi di PDC. I depositi con dune e stratificazione interna incrociata sono molto comuni nella parte superiore della successione e sono identificati dalla loro posizione stratigrafia e dal colore della cenere (grigia per S1 ed S2, gialla per Sy). Gli strati S mostrano variazione laterale nella granulometria e strutture sedimentarie, inoltre diventano a granulometria fine e debolmente laminati nella pianura circostante. Nel settore a nord, lo strato S1 è esposto alla base di NA mentre nel settore a E e a SE si trova alla base dello strato L8; gli strati S1 ed S2 sono i più spessi nel settore NNW e
  • 9. 9 ESE. Sy è esposto solo nel settore a SE alla base o interstratificato a Fy, mostra caratteristiche sedimentologiche simile agli strati S1 ed S2 ma è generalmente a granulometria fine e contiene litici accidentali abbondanti e ossidati con clasti iuvenili scarsi. I depositi di PDC controllati topograficamente, ricchi in litici e cenere e massivi (strati F) affiorano in alcune paleo valli dei settori a NW e SE, molti di questi strati sono Fy mentre i depositi di Fg hanno aree di esposizione più piccole. LRPF ed NA rappresentano due depositi litologicamente distinti nella successione statigrafica di Pollena. Lo strato LRPF è esposto in un’area limitata del settore a NW, è massivo e contiene fino al 40-50% di blocchi di lava alterata idrotermalicamente, inoltre può presentare una transizione laterale allo strato L7. Lo strato NA invece si trova a 20-50 m di altezza nel settore a NW oppure nelle paleo valli e tende a riempire la topografia. NA è generalmente identificabile come uno strato massivo o poco stratificato, che mostra una transizione a cenere grossolana nera con lenti di lapilli grossolani nei settori N e NE. Figura 1.3.1: Foto satellitare del Somma-Vesuvio in cui sono rappresentati i luoghi di campionamento
  • 10. 10 Figura 1.3.2: Log stratigrafico della Successione di Pollena (Sulpizio et al. 2005) Fy: Depositi da flusso di cenere fine, massivi, topograficamente controllati. Generalmente contengono litici accidentali e iuvenili dispersi. Alcune unità di flusso contengono frammenti di lava in una matrice cineritica. Nel settore meridionale, sono presenti alternanze di depositi di surge all’interno delle unità di flusso. Sy: Cenere giallastra con lenti di lapilli che forma dune con stratificazione incrociata interna. Nei rilievi dell’area prossimale e negli affioramenti mediali mostrano una transizione a cenere fine e massiva con lapilli accrezionali. L9: Unità massiva e ben classata di lapilli che comprende scorie nere e minori litici accidentali. I frammenti iuvenili sono porfirici e contengono cristalli di Sanidino, Leucite, Biotite e Pirosseno. Fg: Depositi di “Block & Ash flow” massivi e controllati dalla topografia. Hanno un contenuto variabile di iuvenili e frammenti di litici accidentali. La matrice è composta da cenere grossolana, maronne-grigia S2: Vedi la descrizione di S1 L8: Unità di lapilli massiva e ben classata che comprende scoria nera porfirica. I litici accidentali sono subordinati e comprendono lave, carbonati, sieniti, skarn e rocce cumulitiche. Sono presenti clasti occasionali imbricati al top del deposito che indicano la trazione esercitata dal soprastante S2. NA: Unità di bombe e lapilli moderatamente classata e da massiva a poco stratificata, con abbondanti scorie nere non vescicolare e altamente porfiriche. Il deposito mostra uno spessore di 4-5 m nel settore a NW e mostra una transizione a cenere nera, grossolana e di spessore decimetrico nei settori a N-NE. I litici accidentali sono subordinati (soprattutto lave). S1: Cenere grigia con lenti di lapilli che formano dune spaziate (spaziatura metrica) con stratificazione incrociata interna. LRPF, L7: Unità di caduta di cenere e lapilli massiva, moderatamente classata e ricca in litici accidentali, soprattutto frammenti di lava con alterazione idrotermale. I frammenti iuvenili sono subordinati e comprendono scorie nere porfiriche e moderatamente vescicolare. Nel settore a NW mostra la transizione a un deposito di flusso piroclastico di spessore deca metrico e molto grossolano, ricco in massi di lava alterata (LRPF). L6, A4,L5: Unità massiva e ben classata di lapilli che comprendono scorie nere-grigie e porfiriche. I litici accidentali, soprattutto lave, sono subordinati. Uno strato di cenere grossolana separa le due unità con i lapilli. A3, L4, A2: Unità di lapilli di caduta da ben a moderatamente classata che mostra una variazione di granulometria dovuta all’alternanza di strati di lapilli e cenere grossolana. I frammenti iuvenili sono scorie verdastre-grigie, moderatamente vescicolate e porfiriche. I litici accidentali sono subordinati e consistono soprattutto in frammenti di lava con patine rossiccie dovute all’alterazione idrotermale. Due strati di cenere grossolana e lapilli si trova alla base e al top dello strato principale di lapilli. L3, A1, L2: Unità massive e ben classate di lapilli che comprendono abbondanti frammenti di litici accidentali e scorie nere- grigie, porfiriche e da moderatamente a poco vescicolare. I litici sono particolarmente abbondanti nello strato L3 e comprendono frammenti di lava ossidata. Negli affioramenti prossimali i due strati di lapilli sono separati da uno strato di cenere grossolana, che manca in affioramento nelle zone distali, dove L2 ed L3 formano uno strato unico. Unità massive e ben classate di lapilli che comprendono pomici e scorie di colore verde-grigio, da moderatamente a ben vescicolate e porfiriche. I litici accidentali sono subordinati (soprattutto lave).
  • 11. 11 1.4 Esperimenti di cristallizzazione e stato dell’arte Lo studio della nucleazione e crescita dei cristalli ha origine agli inizi del ‘900. Tamman nel 1925 fu il primo a compiere delle analisi su dei cristalli di BaTiO3 in relazione alla pressione, alla temperatura e al tempo. Dagli anni ’70, con l’aumentare delle conoscenze teoriche sulla cinetica di cristallizzazione dei magmi, si osserva un vero e proprio incremento di studi sulla nucleazione e la crescita. Alcuni autori hanno compiuto esperimenti sulla velocità di crescita di alcuni minerali (clinopirosseni e pirosseni) in fusi monofasici (Kirkpatrick, 1974; Kirkpatrick et al. 1976) o in sistemi bifasici (Kirkpatrick et al., 1979) nonché esperimenti di raffreddamento (Kirkpatrick et al. 1978); le stesse conoscenze sono state applicate da Kirkpatrick a studi di cristallizzazione di corpi ignei o di nucleazione e crescita all’interno delle lave. I primi esperimenti in laboratorio di cristallizzazione indotta e a pressione costante di 800 MPa furono compiuti da Swanson (1977). Il suo esperimento ebbe una durata tra le 24 e le 144 ore, con intervalli di raffreddamento di 50° per temperature comprese tra 900° e 600° e 100° per temperature comprese tra 600° e 400°, su fusi granitici e granodioritici. Con queste procedure Swanson riuscì a ricavare la velocità di crescita dei feldspati alcalini. Anche Fenn (1977) effettuò misure sulla densità di nucleazione e la crescita, con un esperimento simile ma di durata (6-240 ore) e pressione (250 MPa) diversa applicato su una miscela di Albite, Ortoclasio e Acqua. Successivamente a questi due esperimenti, lo studio sulla nucleazione e la velocità di crescita è continuato con lo sviluppo di prove di cristallizzazione per decompressione e a temperatura costante come quella di Geschwind et al. (1995) sulle daciti del Mt. St. Helens. Recentemente Zieg e Logfren (2006) hanno effettuato esperimenti di raffreddamento dinamico a un tasso costante di 92°C/h su condrule sintetiche a composizione olivinica, quantificando l’evoluzione tessiturale con l’ausilio della Crystal Size Distribution (CSD). Iezzi et al. (2008) hanno svolto due set di esperimenti di raffreddamento a pressione atmosferica su due fusi anidri di composizione trachitica e latitica. L’esperimento è stato condotto a una temperatura compresa tra 1300 e 800 °C, usando cinque tassi di raffreddamento diversi (25, 12.5, 3, 0.5 e 0.125 °C/min). Iezzi et al. (2011) hanno compiuto esperimenti di solidificazione su un fuso di composizione andesitica, scegliendo gli stessi tassi di raffreddamento utilizzati nell’esperimento del 2008. Infine Vona e Romano (2013) hanno svolto un esperimento di cinetica di cristallizzazione su dei campioni basaltici di Stromboli e dell’Etna. L’esperimento è stato effettuato a una pressione di 1 atm e in un forno scaldato da elementi in MoSi2, e la cristallizzazione è stata sviluppata a diversi gradi di sottoraffreddamento in un range di temperatura di T = 1157 – 1187 °C per i campioni di Stromboli e di T = 1131 – 1182 °C per i campioni dell’Etna.
  • 12. 12 1.5 Nucleazione e Crescita dei cristalli Le rocce magmatiche sono in origine dei fusi silicatici variabili in composizione, temperatura, contenuto in cristalli e contenuto in volatili. La forte variabilità strutturale e tessiturale dei magmi riflette la loro storia evolutiva. Dopo la formazione i magmi, infatti, possono subire dei cambiamenti notevoli prima di arrivare in superficie. In questi cambiamenti sono compresi fenomeni di cristallizzazione e frazionamento dei magmi oltre a reazioni con le rocce circostanti (assimilazione magmatica). La struttura di una roccia magmatica si realizza quando avviene il raffreddamento del sistema, questa struttura può essere sia ordinata e in questo caso si formeranno fasi solide cristalline o disordinata e in questo altro caso avremo la formazione di vetri vulcanici naturali. Come si può, quindi, dedurre, la velocità di raffreddamento è il parametro fondamentale che condiziona l’evoluzione del sistema magmatico. La cristallizzazione di un fuso avviene in due passaggi fondamentali: nucleazione (formazione di un germe cristallino) e crescita (nuclei che si accrescono a spese delle fasi reagenti). In un sistema monofasico, ad una data pressione, esiste una temperatura d’equilibrio (Te) in cui la fase solida e la fase liquida sono in equilibrio; i primi nuclei di fase solida si formano quando esiste un certo grado di sottoraffreddamento (ΔT), che è definito come la differenza tra la temperatura di liquidus di una fase cristallina e la temperatura del sistema (ΔT= Te-T). I tassi di nucleazione e crescita sono connessi strettamente alla pressione e alla temperatura, e sono fortemente influenzato anche dal ΔT. Per basso ΔT il processo di cristallizzazione è dominato dalla crescita, mentre per valori più alti di ΔT la nucleazione prevale. Ad alti ΔT i tassi di nucleazione e crescita sono entrambi bassi e portano alla formazione di piccoli cristalli e/o vetro. Figura 1.5.1: Curve di nucleazione e crescita di cristalli da un fuso, rispetto al ΔT (Arzilli 2012)
  • 13. 13 NUCLEAZIONE La nucleazione è un processo submicroscopico che avviene come primo step della cristallizzazione e consiste nella formazione di germi cristallini attraverso l’aggregazione di atomi, ioni e gruppi di ioni che, grazie alla loro mobilità nel fuso, possono unirsi e formare nuclei con volume e superficie limitata (Kirkpatrick, 1981). Durante il processo di nucleazione, gli atomi di una fase reagente si riuniscono insieme in una parte della fase prodotta grande abbastanza da essere termodinamicamente stabile (Kirkpatrick, 1981). La visione tradizionale della teoria di nucleazione è che ammassi di atomi, che posseggono le proprietà fisiche e chimiche dei solidi cristallini macroscopici, si formano per fluttuazioni casuali nel fuso, quando si trova al di sotto della sua temperatura di liquidus (Volmer and Weber, 1926). La nucleazione può essere omogenea ed eterogenea. La nucleazione omogenea avviene tramite aggregazione spontanea di particelle in una condizione di stato costante ed è causata da fluttuazioni termiche, mentre nella nucleazione eterogenea l’arrangiamento degli atomi è aiutato dalla presenza di un’altra fase in contatto con il fuso, che da un punto di vista energetico facilita la formazione di germi cristallini (Arzilli, 2012). Nel corso della nucleazione omogenea, la formazione del germe cristallino causa una diminuzione di energia libera, infatti le particelle in contatto tra loro e organizzate secondo un reticolo cristallino hanno un energia potenziale minore. Tuttavia la formazione di superfici cristalline implica anche la presenza di legami liberi, che comportano uno stato energetico superiore. Avremo, quindi, una tendenza di aumento dell’energia libera in relazione all’aumento delle superfici cristalline e una tendenza di diminuzione dell’energia libera in relazione all’aumento del volume del cristallo. All’interno di un sistema fluido la variazione di energia libera totale durante la nucleazione (ΔGt) è uguale alla somma di energia libera di volume (ΔGv) ed energia libera di superficie (ΔGs), come detto prima un valore negativo di ΔGv favorisce la diminuzione dell’energia libera e quindi favorisce la cristallizzazione.
  • 14. 14 Figura 1.5.2: ΔGv, ΔGs e ΔG in un sistema liquido, durante la nucleazione omogenea di un seme cristallino, assunto di forma sferica (Campagnola 2009). Per nuclei cristallini piccoli caratterizzati da elevato rapporto superficie/volume prevale l’effetto energia di superficie che inibisce l’aggregazione delle particelle, mentre nel caso di nuclei di dimensioni più grandi prevale l’effetto volume. Si può definire, quindi, un valore critico di volume (pari a quello di una sfera di raggio Rc) che rappresenta la condizione limite tra lo sviluppo del cristallo e la sua dissoluzione: per valori superiori si ha lo sviluppo del cristallo mentre per valori inferiori si ha la disgregazione dei semi cristallini e la dispersione delle particelle. Interessante è il comportamento dell’energia libera totale del sistema al variare del valore critico del raggio del nucleo che si forma, per bassi valori di R l’energia libera assume valori positivi mentre al raggiungimento di un raggio critico del nucleo (Rc), l’energia libera inverte il suo andamento. Il valore di Rc è fortemente influenzato dal grado di sottoraffreddamento e diventa infinito quando la temperatura supera il liquidus, mentre raggiunge valori molto piccoli per elevati valori di ΔT.
  • 15. 15 Figura 1.5.3: Andamento delle curve di equilibrio secondo il ΔT (Campagnola, 2009) La nucleazione eterogenea assume una notevole importanza nelle pareti magmatiche e nei condotti, seppur limitata dall’alto rapporto volume/superficie, in quanto un magma non è mai privo di materiale in sospensione, quindi assume una rilevante importanza nella cristallizzazione dei magmi; in particolare i germi di fasi pre-esistenti sono un contributo notevole alla generazione di fasi cristallografiche simili. CRISTALLIZZAZIONE Dopo che la barriera per la formazione di un nuovo cristallo viene sormontata (nucleazione), il sistema tende ad equilibrarsi in una fase più stabile attraverso un processo di crescita, le considerazioni sui tassi di crescita diventano rilevanti quando il nucleo raggiunge la sua taglia critica (Cashman, 1990). Il processo di crescita, quindi, avviene per la crescita di questi nuclei e passa attraverso la formazione delle facce dei poliedri cristallini. Avviene una deposizione di strati paralleli e successivi su ciascuna faccia e, poiché le facce mostrano ciascuna una struttura superficiale differente, si formerà un abito cristallino con facce cresciute a velocità diverse. Quindi, in sintesi, si può dire che la crescita di un cristallo avviene per aggiunta di atomi e/o molecole su un nucleo stabile. Questo processo è il risultato di diffusione di atomi e ioni nel sistema e della loro organizzazione in gruppi poliatomici che rappresentano le unità strutturali dei minerali. Nella crescita di un cristallo dobbiamo considerare quattro processi fondamentali: le reazioni all’interfaccia tra solido e liquido, la diffusione degli elementi nel fuso, la rimozione del calore latente generato all’interfaccia e i movimenti di massa nel fluido. Tra questi fattori è molto importante la diffusione in quanto, attraverso questo meccanismo, la materia, in forma ionica e molecolare, viene trasportata da un punto a un altro del sistema sotto l’azione di un gradiente del potenziale chimico. Il movimento degli elementi del fuso che porta alla formazione delle fasi cristalline è proprio frutto dei meccanismi di diffusione. La diffusione fa sì che atomi, ioni e
  • 16. 16 molecole vengano adsorbite sulle superficie, la stessa velocità di crescita di una faccia dipende dalla velocità relativa di questi processi. Si può dire, quindi, che all’interno di un fuso silicatico i processi più importanti sono quelli all’interfaccia solido-liquido e di diffusione degli elementi nel fuso. Da queste considerazioni possiamo riconoscere due condizioni fondamentali: la prima è quando i processi di diffusione sono sufficientemente veloci da mantenere costante la composizione all’interfaccia rispetto a quella del fuso totale, viene detta “crescita controllata all’interfaccia”; la seconda quando i processi di dissoluzione o aggregazione alla superficie del cristallo sono più veloci rispetto a quelli di diffusione nel fuso, la composizione del fuso rimane costante e questo tipo di crescita viene detto “crescita controllata dalla diffusione”. Entrambi i processi sono influenzati dal tasso di sottoraffreddamento, per piccoli sottoraffreddamenti prevale, infatti, la crescita controllata all’interfaccia (crescita lenta e diffusione più efficace), mentre per sottoraffreddamenti alti prevale la crescita controllata dalla diffusione (crescita alta e diffusione meno efficace). CRESCITA CONTROLLATA ALL’INTERFACCIA: La crescita controllata all’interfaccia avviene quando l’attaccamento degli atomi alla faccia è lento rispetto alla migrazione degli elementi compatibili attraverso il mezzo circostante sulla superficie e la migrazione degli atomi emessi dalla superficie (Hammer, 2008). La prima teoria sul tasso di crescita controllata all’interfaccia è stata sviluppata da Turnbull e Cohen (1960) e considera i tassi a cui i gruppi molecolari e atomi si attaccano o si distaccano da una superficie cristallina. Secondo questa teoria si avranno, quindi, due tassi che sono il tasso di attaccamento (ra) e il tasso di distaccamento (rd). In base a questa teoria, se un atomo o una molecola si muove dal fuso al cristallo, lascia il suo stato di energia nel fuso e passa prima attraverso uno stato attivato e poi decade nello stato cristallino (Kirkpatrick, 1975). Inoltre i tassi di crescita sono funzione della forza termodinamica e dell’energia di attivazione per l’attaccamento, che è simile alla barriera cinetica per la nucleazione. Quindi l’espressione del tasso di crescita è di solito scritto come un bilancio tra il tasso di attaccamento e il tasso di distaccamento moltiplicato per lo spessore di ogni strato aggiunto e la frazione di sito sulla superficie del cristallo per l’attaccamento (f): Y = f α ν exp ( -ΔG+ /RT ) [1- exp ( -ΔGc/RT )] eq 1.1 In questa equazione (Cashman, 1990), il termine ΔG+ è l’energia di attivazione per l’attaccamento, ΔGc è la forza termodinamica e α indica la distanza interatomica. Sembra giusto uguagliare l’energia di attivazione ΔG+ con la rottura dei legami, che dovrebbe essere relazionata alla viscosità del fuso, in questo caso possiamo citare l’equazione di Stokes-Einstein (Cashman, 1990) che riformula il tasso di crescita in questo modo:
  • 17. 17 Y= Yr/η[1- exp (ΔHf ΔT/RT Tl)] eq 1.2 dove η è la viscosità e Yr è il tasso di crescita ridotto e rappresenta la dipendenza della crescita dalla temperatura, quindi la frazione dei siti di crescita disponibili sulla superficie di un cristallo. Il controllo all’interfaccia è il caso prevalente a bassi gradi di sottoraffreddamento, dove alte temperature (e/o alti contenuti in H2O) permettono la rapida diffusione all’interno del fuso. CRESCITA CONTROLLATA DALLA DIFFUSIONE: Questo tipo di crescita prevale ad alto ΔT dove il potenziale chimico, che guida la solidificazione, è grande ancora a basse temperature o in caso di fusi multicomponente, che cristallizzano con un grande cambio di composizione e/o di contenuti in acqua (Cashman, 1990; Hammer, 2008). Se la mobilità dei componenti è molto lenta rispetto al tasso di attaccamento, allora il tasso di crescita evolve nel tempo secondo questa formula: Y= k √D/T eq 1.3 (Arzilli, 2012) k è un termine di correzione, D è il coefficiente di diffusione e T è il tempo di cristallizzazione. Le morfologie dei cristalli cresciuti in questo regime sono generalmente anedrali e includono forme tabulari, aghiformi, dendritiche e scheletriche (Sunagawa, 1981). Per esempio le forme dendritiche tendono a svilupparsi a grandi ΔT. Queste equazioni trovano la loro applicazione in casi molto particolari, cioè quando negli esperimenti si trattano sistemi monofasici; per questo motivo è stata sviluppata la teoria CSD che trova applicazione anche nei sistemi a più fasi. La teoria della CSD verrà descritta sommariamente nel paragrafo successivo. 1.6 Teoria della CSD (Crystal Size Distribution) La teoria della Crystal Size Distribution (Marsh, 1988; Cashman e Marsh, 1988) fornisce un formalismo per lo studio macroscopico della cinetica di cristallizzazione e dei processi fisici che influenzano la cristallizzazione e assume che la distribuzione delle taglie dei cristalli in una roccia dipende dai tassi di nucleazione e crescita e dal tempo di residenza nella camera magmatica. Questa teoria permette, quindi, l’estrapolazione di dati quantitativi su alcuni parametri fondamentali come il tasso di crescita cristallina, la densità di nucleazione e il tasso di nucleazione; inoltre è importante nella valutazione di alcuni processi molto importanti come l’accumulo di cristalli e il frazionamento all’interno dei sistemi petrologici. Combinando i dati della CSD con altri fattori è possibile ricostruire l’evoluzione dei sistemi ignei.
  • 18. 18 Figura 1.6.1: Esempi di CSD dei pirosseni delle rocce vulcaniche. La densità di popolazione (ln n) è espressa come numero di cristalli per taglia (L) per il volume contro la taglia dei cristalli L (mm) (Marsh, 1988). Il cuore della CSD è la creazione di un’equazione che governa la conservazione del numero dei cristalli quando nucleano o crescono all’interno di un ambiente liquido o solido. Questa equazione è bilancio di popolazione che descrive il cambio nel numero e nella taglia dei cristalli come una funzione dei loro tempi di residenza nel sistema e come una funzione che indica l’afflusso e la perdita di cristalli nel sistema. Questa equazione varia a seconda che il nostro sistema sia chiuso o aperto. Nel caso di un sistema aperto l’equazione è: dn/dt + Go dn/dL + n/tr = 0 eq 1.4 dove il primo termine rappresenta la variazione del numero di cristalli (nucleazione o J), G0 è il tasso di crescita iniziale, il secondo termine indica la variazione del numero di cristalli sulla lunghezza (crescita o G) e l’ultimo termine indica il numero di cristalli in uscita dopo un certo tempo di residenza. In un sistema stazionario (steady-state) l’equazione considera costanti i termini G e J, in questo modo il termine dn/dt diventa nullo è l’espressione assume una forma diversa: dn/dL = - n/G0tr eq 1.5 questa espressione può essere riscritta, infine, con un ulteriore modifica ln (n) = ln (n0)- L/G0tr eq 1.6 Nel caso di un sistema chiuso l’equazione assume invece la forma di: dn/dt + G0 dn/dL=0 eq 1.7 Per una popolazione cristallina che ha un processo di crescita semplice (senza mixing e senza ricarica del sistema), ci si aspetta una relazione lineare tra il logaritmo naturale della densità cristallina e la dimensione dei cristalli. Per una fase nel sistema: n’ v (L) = n’ v (0) e- L/Gt r eq 1.8
  • 19. 19 dove n’ v (L) è la densità di popolazione dei cristalli per la misura L, n’ v (0) è la densità di nucleazione finale, G è il tasso di crescita e tr è il tempo di residenza. Il parametro n’v (L) può essere espresso anche in un altro modo, derivando questo rispetto a L. n’v (L) = dNv (L)/dL eq 1.9 Ancora, questo calcolo può essere esteso a un solo intervallo di taglia cristallina e chiameremo questo parametro n’v (Lj). La densità di popolazione può essere scritta quindi facendo il rapporto tra la number density dei cristalli in un intervallo dimensionale e lo spessore dell’intervallo (Wj). n’v (Lj) = nv (Lj)/Wj eq 1.10 La lunghezza caratteristica C è definita come C = Gtr ed è uguale alla lunghezza media di tutti i cristalli in una CSD retta che va da zero a infinito. Questa distribuzione in un grafico ln (population density) su taglia L, ha un andamento lineare. L’intercetta è ln (n’ v (0)) mentre lo slope è definito come 1/C. Sostituendo al posto di C il termine descritto sopra: slope = -1/Gtr dove G indica sempre il tasso di crescita e tr il tempo di residenza del magma all’interno della camera magmatica o nel condotto. Figura 1.6.2: Relazione linerare tra ln(densità di popolazione) e la misura dei cristalli (Higgins, 2006). Lo slope identifica il sorting delle dimensioni dei cristalli: se è alto, i cristalli hanno un range limitato di dimensioni (sorting dei cristalli scarso), mentre se lo slope è basso i cristalli si sviluppano bene e avremo un range di dimensioni molto più grande. Una variazione dello slope indica una variazione della velocità di nucleazione (J). Questo modello di cristallizzazione spiega la CSD di un sistema steady-state, modelli più complicati dimostrano come i parametri si disperdano nel sistema. Per esempio, se il tempo di residenza rimane costante ma avviene un incremento nella densità di nucleazione, le CSD saranno parallele. Un incremento di densità di nucleazione può verificarsi per l’aumento del tasso di sottoraffreddamento. Invece nel caso in cui la densità di
  • 20. 20 nucleazione rimane costante e avviene un incremento del tempo di residenza, le CSD scivoleranno su un punto vicino all’asse verticale. Figura 1.6.3: Dispersioni teoriche delle CSD in sistemi di cristallizzazione continuamente alimentati. Nell’immagine a sinistra aumenta la densità di nucleazione, nell’immagine a destra aumenta il tempo di residenza. Cambi nei parametri di cristallizzazione durante la solidificazione, come il tasso di raffreddamento, possono cambiare le caratteristiche della CSD. Il sistema avrà bisogno di tempo per ristabilirsi in base alle nuove condizioni e durante questo tempo l’andamento della CSD subirà un curvamento (Marsh, 1988b; Maaloe et al., 1989; Armienti et al., 1994). Questa transizione cambierà il tasso di nucleazione del magma e produrrà nella CSD un primo tratto più curvo per piccoli valori di taglia dei cristalli. Cashman (1993) ha ipotizzato che il primo tratto curvo delle CSD potrebbe essere prodotto per un tasso di raffreddamento costante, se si verifica un cambio nella natura delle fasi precipitate. Marsh (1998) ha dimostrato che il modello applicato nei sistemi steady-state può essere utilizzato anche in altri sistemi chiusi sotto alcune condizioni, sebbene la CSD, in caso di alti contenuti in cristalli, presenti un andamento non lineare per i piccoli cristalli. In questo sistema la correlazione logaritmico-lineare è prodotta dall’incremento esponenziale della densità di nucleazione nel tempo. Figura 1.6.4: Sviluppo delle CSD all’interno di un sistema chiuso con aumento nel contenuto in cristalli (Higgins, 2006).
  • 21. 21 2. Procedure e metodi di analisi In questo capitolo vengono esposte le procedure sperimentali adottate in questo lavoro. 2.1 Fusione dei campioni Il materiale di partenza è stato macinato il più finemente possibile con l’aiuto di un martello da geologo per aumentare la superficie di reazione (nel nostro caso per rendere il più possibile omogeneo il nostro campione e facilitare così la sua fusione e il suo mescolamento). L’esperimento di fusione è avvenuto attraverso l’utilizzo di un forno ad alta temperatura della Nabertherm. Questo forno è costituito da: - un’isolante a bassa massa termica che assicura un riscaldamento rapido della fornace. - apertura della fornace attraverso un portellone a maniglia di sicurezza per proteggere gli operatori dalla vampata. - un dispositivo di sicurezza applicato al portellone che consente di interrompere la tensione all’apertura del portellone della fornace. - una doppia parete metallica attorno alla fornace che consente di creare un flusso d’aria per mantenere fredde le pareti all’esterno della fornace (EN61010). - un programmatore a rampe su 8 o 16 segmenti. - Temperatura massima di lavoro di 1750°. - una camera da 16 litri. - elementi riscaldanti in disiliciuro di molibdeno disposti sui due lati verticali della fornace, che assicurano una buona uniformità termica, sono stati creati per resistere ad utilizzi frequenti della fornace garantendo la longevità dello strumento. - contatore di corrente applicata.
  • 22. 22 Figura 2.1.1: forno di fusione della Nabertherm usato nell’esperimento. Figura 2.1.2: Foto del campione portato a fusione La polvere del campione, dopo essere stata macinata, è stata alloggiata all’interno di un crogiolo di platino, dapprima inserito all’interno del forno per essere scaldato. La sintesi è avvenuta per tappe, aggiungendo ad ogni intervallo un lieve quantitativo di materiale e creando una sovrapposizione di strati con la polvere finché il nostro campione fuso non è pronto per essere colato. Una volta raggiunta la temperatura in cui il campione è tutto fuso questo è stato colato all’interno di un piatto di acciaio. Il piatto di acciaio poi è stato inserito all’interno di un beaker di acqua fredda
  • 23. 23 per accelerare il raffreddamento del materiale di fondo. Il risultato finale ottenuto da questa sintesi è un vetro omogeneo, materiale di partenza per tutte le misure sia di viscosità che di cristallizzazione e fattore fondamentale per una valida reattività del campione e per eliminare il contenuto in volatili. La durata di questa sintesi dipende dalla temperatura, poiché si è osservato che quanto più questa è bassa tanto più lentamente il sistema raggiunge una fase di equilibrio. 2.2 Esperimento di cristallizzazione Il vetro ottenuto dalla precedente sintesi è stato inserito all’interno di un crogiuolo cilindrico (Pt80Rh20, altezza di 5,1 cm, 2,56 cm di diametro interno, 0,1 cm di spessore) ed è stato portato a fusione all’interno di un reometro a cilindri concentrici, per l’effettuazione dell’esperimento di cristallizzazione. 2.2.1Reometro a cilindri concentrici Lo strumento utilizzato è chiamato Reometro a cilindri concentrici Anton Paar RheolabQC e si trova presso il laboratorio di vulcanologia sperimentale di Geologia dell’università di Roma Tre. Lo parte sommitale dello strumento è costituita da un’asta (spindle) che ruota su sé stessa a una velocità angolare costante. Il crogiuolo di platino viene inserito all’interno di un forno tubolare e l’asticella di platino viene inserita lei stessa all’interno del crogiuolo e fatta ruotare a velocità desiderata. Lo strumento misura il momento torcente, cioè la resistenza opposta dal fuso al movimento dell’asticella, e converte tale misura in viscosità. La velocità angolare dell’asticella di platino viene sempre stabilita all’inizio della misura e viene variata durante la misura stessa(da 0,5 a 100 rpm). Di seguito viene riportata l’equazione di funzionamento dello strumento con cui si ricava la misura di viscosità: η = torque . (- r2 spindle/r2 crogiuolo)/4πlΩr2 spindle (eq 2.1)
  • 24. 24 Figura 2.2.1.1: Nelle due immagini è rappresentato il Reometro a cilindri concentrici. La foto a sinistra mostra le componenti principali e le misure. 2.2.2 Esperimento di cristallizzazione. In questo lavoro si è effettuato un esperimento di cristallizzazione a partire da un fuso di composizione fonolitica - tefrifonolitica derivante da pomici dell’eruzione del 472 A.D. di Pollena (Vesuvio). L’esperimento è stato condotto a 1200 °C per una durata complessiva di circa 3 ore. Al termine dell’esperimento il crogiuolo di platino è stato estratto dal forno e raffreddato velocemente in acqua. Il prodotto sperimentale è stato di seguito carotato in un carotiere verticale e sono state preparate sezioni longitudinali e laterali del campione per la successiva analisi tessiturale del prodotto.
  • 25. 25 2.3 Preparazione dei campioni Le analisi tessiturali effettuate sui campioni hanno richiesto una fase di preparazione del materiale che consiste, in generale, in una fase di inglobamento dei campioni e in una di lucidatura. I campioni sperimentali ottenuti dall’esperimento di quenching sono stati prima carotati e poi inglobati in resina epossidica. Il carotaggio ha permesso di isolare tre parti diverse del campione, rispettivamente al tetto, alla base e al centro del crogiuolo di platino (Pn2 = top, Pn3 = middle, Pn4 = bottom). Il campione così preparato è stato inglobato in resina epossidica. Dopo aver colato la resina all’interno del porta campione si è aspettato un giorno, in modo che il campione si possa solidificare perfettamente. Le pasticche ottenute sono state, poi, abbassate per fare sì che le superfici cristalline fossero ben visibili. L’abbassamento può essere fatto a mano tramite una carta abrasiva oppure con una macchina lucidatrice in cui è sistemata la carta abrasiva. La procedura successiva è consistita nella lucidatura ed è stata effettuata con la macchina lucidatrice, l’obiettivo è rimuovere l’effetto opaco causato dall’inglobamento. La macchina lucidatrice a panno (Struers Labopol-5) è costituita da: - una testa porta campione (LaboForce) - un giradisco dove viene alloggiato il panno per la lucidatura - una manopola per regolare la velocità da 0 a 500 rpm - tre tipologie di panni per la lucidatura - diversi lubrificanti per ottenere migliori risultati La procedura è avvenuta in 3 step utilizzando tre panni a di dimensione abrasiva sempre minore, il primo con particelle abrasive in allumina della dimensione del micrometro, il secondo con le dimensioni di 0,3 micrometri e il terzo con dimensioni di 0,1 micrometri accompagnando questi step con l’utilizzo di paste lubrificanti in allumina. Figura 2.3.1: La figura mostra le sezioni inglobate per l’acquisizione delle immagini, dopo essere state lucidate. Da destra a sinistra Pn2, Pn3, Pn4.
  • 26. 26 2.4 Microscopio Ottico Dopo aver lucidato i campioni, cercando di eliminare il più possibile i graffi che potrebbero essere molto visibili ad ingrandimenti più alti, si è provveduto a mettere i campioni sotto al microscopio ottico per ottenere delle immagini ingrandite delle sezioni inglobate ed ottenere più facilmente i parametri tessiturali. Lo strumento usa come sorgente la luce, ha tre ingrandimenti 10 x, 50 x e 100 x e uno strumento di messa a fuoco. La procedura consiste nello scegliere, inizialmente, un transetto da effettuare con il microscopio e poi orientare il campione e muovere la luce nel microscopio in direzione del transetto scelto. Partendo dalla prima foto si sceglie un punto di riferimento da seguire tra la foto precedente e quella successiva in modo da avere un transetto finale con la giusta sovrapposizione tra le varie foto. Si è deciso, quindi, di fare sui tre campioni (Pn2, Pn3 e Pn4) vari transetti, rispettivamente uno per il campione 2, due per il campione 3 e tre per il campione 4. Figura 2.4.1: La figura mostra il microscopio che è stato utilizzato per ricavare le immagini dei campioni sperimentali.
  • 27. 27 3. Presentazione dei dati 3.1 Analisi sui campioni sperimentali Alla fine dell’esperimento il campione è stato raffreddato in aria, poi carotato a diverse altezze (top, middle e bottom) e preparato per le successive analisi tessiturali. Questo paragrafo descrive le analisi tessiturali effettuate sui campioni realizzati nell’esperimento del Reometro a 1200°. Le analisi tessiturali sono fondamentali per ricostruire le dinamiche eruttive e hanno come fine la stima dell’abbondanza, della distribuzione e della forma dei cristalli presenti all’interno dei campioni, nonché la velocità di crescita di queste fasi cristalline. Per le analisi tessiturali sono state utilizzate le foto dei transetti ottenute attraverso il microscopio ottico, queste immagini sono state processate prima attraverso il programma “Adobe Illustrator” che ha permesso di estrarre le foto e di realizzare delle strisce continue dei transetti realizzati. Poi per digitalizzare le immagini e misurare i parametri geometrici delle varie componenti è stato utilizzato il software “Image J”. Per misurare i parametri occorre per prima cosa convertire le immagini dei transetti in immagini binarie in bianco e nero. Questa procedura può essere effettuate attraverso un’operazione di filtrazione automatica (thresholding), isolando le tonalità necessarie e cercando di eliminare il più possibile i difetti contenuti nell’immagine precedente (per esempio graffi rimasti dalla lucidatura), o ricalcando semplicemente le aree dei cristalli presenti nel transetto. Prima di ogni operazione con le immagini binarie è necessario impostare la barra della scala di riferimento immettendo nel software la risoluzione dell’immagine in rapporto tra pixels e millimetri. Le immagini acquisite dal microscopio ottico sono state impostate con una risoluzione di 1121,83 pixels/mm. Figura 3.1.1: Esempio di immagini trattate con ImageJ, l’immagine superiore è il transetto originale mentre quella inferiore rappresenta l’immagine binaria dopo il trattamento con ImageJ. Per ottenere i dati per le analisi tessiturali sono state realizzate due immagini binarie dello stesso transetto in modo da isolare le fasi cristalline presenti nel transetto ed avere così i dati separati di entrambe le fasi; nella prima sono presenti solo leuciti mentre nella seconda sono presenti solo
  • 28. 28 pirosseni. Nei dati ottenuti dalle analisi tessiturali sui campioni Pn2, Pn3 e Pn4 si nota come il contenuto cristallino vari notevolmente andando dal campione Pn2 al campione Pn4. Nel campione Pn 2 (top) vengono contate 659 leuciti e 7936 pirosseni, nel campione Pn 3 (middle) vengono contate circa 550 leuciti e 3654 pirosseni, infine nel campione Pn 4 (bottom) vengono contate 89 leuciti e 186 pirosseni. Al fine di ottenere in un unico prodotto sperimentale, campioni a diverso grado di cristallinità, si è scelto di inserire il crogiuolo di platino ad un’ altezza all’interno del forno leggermente dislocata rispetto al punto caldo del forno (hot spot), soggetta quindi a un certo gradiente termico, di circa 30°C. L’esistenza di questo gradiente termico ha permesso infatti di avere, all’interno dello stesso campione sperimentale, diverse sezioni di liquido sottoposte a temperature diverse, quindi a diversi gradi di sottoraffreddamento e quindi a diversi gradi di cristallizzazione. La presenza di una termocoppia interna ed esterna al crogiuolo di platino permette di conoscere con esattezza il gradiente di temperatura lungo la verticale del forno e quindi di assegnare ad ogni punto all’interno del liquido il preciso valore di temperatura e di sottoraffreddamento. Sulla base di ciò, le temperature reali a cui il liquido di Pollena è stato sottoposto durante l’esperimento di cristallizzazione sono le seguenti: Pn2 – Top = 1184 °C Pn3 – Middle = 1200 °C Pn4 – Bottom = 1216 °C Figura 3.1.2: Nella figura a sinistra è rappresentato l’esperimento a 1200°C mentre nella figura a destra è rappresentata la collocazione dei campioni Pn2, Pn3 e Pn4 all’interno dello strumento. Pn2 n2 Pn3 Pn4
  • 29. 29 Figura 3.1.3: Nell’immagine in alto sono rappresentati i campioni sperimentali mentre nell’immagine in basso sono evidenziati i transetti realizzati con le immagini acquisite dal microscopio ottico. 234
  • 30. 30 4A 4B 4C Figura 3.1.4: Nella figura sono rappresentati i transetti del campione Pn4 (Bottom).
  • 31. 31 4C4A 4B Figura 3.1.5: Nella figura sono rappresentati i transetti delle sole leuciti del campione Pn4 (Bottom).
  • 32. 32 4B 4C Figura 3.1.5: Nella figura sono rappresentati i transetti dei soli pirosseni del campione Pn4 (Bottom).
  • 33. 33 3A (1) 3A (2) 3B Figura 3.1.6: Nella figura sono rappresentati i transetti del campione Pn3 (Middle).
  • 34. 34 Figura 3.1.7: Nella figura sono rappresentati i transetti delle sole Leuciti del campione Pn3 (Middle). 3B3A (2)3A (1)
  • 35. 35 Figura 3.1.8: Nella figura sono rappresentati i transetti dei soli Pirosseni del campione Pn3 (Middle). 3B3A (2)3A (1)
  • 36. 36 Figura 3.1.9: Andando dall’alto verso il basso, nella prima e seconda immagine è possibile vedere il campione Pn2 in cui sono messi in evidenza prima i cristalli di Leucite e poi quelli di Pirosseno, nella terza e quarta è presente il transetto in Image J con i cristalli di Leucite e quelli di Pirosseno isolati. L’analisi delle immagini con Image J ci ha permesso di ricavare i parametri fondamentali delle fasi cristalline come: l’area del cristallo, i valori dell’asse maggiore e dell’asse minore, l’angolo, la circolarità, l’area fraction, la rotondità, la solidità e l’aspect ratio. Il primo parametro utile è stato ricavato dall’analisi delle forme cristalline che, data la loro complessità, è stato necessario trattare attraverso l’utilizzo del software CSD SLICE (Morgan and Jerram, 2006). CSD SLICE incorpora al suo interno un database con le forme cristalline e ,attraverso il confronto con 703 abiti cristallini, trova la curva che approssima in modo migliore la forma in 2D della popolazione di cristalli che si sta analizzando. I dati ottenuti da CSD SLICE verranno utilizzati per la costruzione delle curve di CSD (crystal size distribution).
  • 37. 37 0.0000 0.0200 0.0400 0.0600 0.0800 0.1000 0.1200 0.04 0.12 0.2 0.28 0.36 0.44 0.52 0.6 0.68 0.76 0.84 0.92 1 normalisedfreq 2D sa/la Best fit shape curve Leuciti Pn4 1.00 1.25 1.40 0.0000 0.0200 0.0400 0.0600 0.0800 0.1000 0.1200 0.04 0.12 0.2 0.28 0.36 0.44 0.52 0.6 0.68 0.76 0.84 0.92 1 normalisedfreq 2D sa/la Best fit shape curve Pirosseni Pn4 1.00 1.70 6.00 B A
  • 38. 38 0.0000 0.0200 0.0400 0.0600 0.0800 0.1000 0.1200 0.04 0.12 0.2 0.28 0.36 0.44 0.52 0.6 0.68 0.76 0.84 0.92 1 normalisedfreq 2D sa/la Best fit shape curve Leuciti Pn3 1.00 1.15 1.60 0.0000 0.0200 0.0400 0.0600 0.0800 0.1000 0.1200 0.04 0.12 0.2 0.28 0.36 0.44 0.52 0.6 0.68 0.76 0.84 0.92 1 normalisedfreq 2D sa/la Best fit shape curve Pirosseni Pn3 1.00 1.60 3.60 C D
  • 39. 39 Figura 3.1.8: Andando dall’alto verso il basso vengono mostrati i grafici (A, B, C, D, E, F), realizzati col software di Morgan e Jerran, che indicano la forma dei cristalli in 3D di Pn4, Pn3 e Pn2. Il foglio di calcolo di Morgan e Jerran permette una stima oggettiva dell’abito di un cristallo, da prime misurazioni in 2D. La linea tratteggiata rappresenta il modello ideale e le linee continue colorate sono relative ai dati delle analisi. 0.0000 0.0200 0.0400 0.0600 0.0800 0.1000 0.1200 0.04 0.12 0.2 0.28 0.36 0.44 0.52 0.6 0.68 0.76 0.84 0.92 1 normalisedfreq 2D sa/la Best fit shape curve Leuciti Pn2 1.00 1.30 1.60 0.0000 0.0200 0.0400 0.0600 0.0800 0.1000 0.1200 0.04 0.12 0.2 0.28 0.36 0.44 0.52 0.6 0.68 0.76 0.84 0.92 1 normalisedfreq 2D sa/la Best fit shape curve Pirosseni Pn2 1.00 1.15 1.60 E F
  • 40. 40 Come si può vedere dai grafici, i dati di CSD SLICE suggeriscono la presenza di abiti cristallini diversi nei campioni Pn 2, Pn 3 e Pn 4 ,sia nelle leuciti sia nei pirosseni, nonché andamenti delle popolazioni di cristalli diversi. Di seguito sono riportati i dati sugli abiti cristallini esaminati, ottenuti dal rapporto tra l’asse maggiore e minore degli oggetti: Leuciti Pn4 = 1.0 : 1.25 : 1.40 Leuciti Pn3 = 1.0 : 1.15 : 1.60 Leuciti Pn2 = 1.0 : 1.30 : 1.60 Pirosseni Pn4 = 1.0 : 1.70 : 6.0 Pirosseni Pn3 = 1.0 : 1.60 : 3.60 Pirosseni Pn2 = 1.0 : 1.15 : 1.60 I dati di CSD SLICE sono stati fondamentali per la realizzazione delle curve di CSD. La realizzazione delle curve di CSD è avvenuta con l’utilizzo del programma “CSD Corrections” in cui sono stati inseriti alcuni dati ottenuti dall’analisi delle immagini in Image J. Come fatto precedentemente, sono state realizzate per ogni campione sperimentale due CSD, una per le leuciti e una per i pirosseni. Nelle figure successive vengono riportate le CSD dei campioni sperimentali esaminati: Figura 3.1.9: Grafico relativo alla distribuzione dei cristalli di leucite (CSD) nel campione Pn4. 0 1 2 3 4 5 6 7 8 0 0.1 0.2 0.3 0.4 0.5 0.6 0.7 0.8 lnpopulationdensity(mm-4) L (mm)
  • 41. 41 Figura 3.1.10: Grafico relativo alla distribuzione dei cristalli di pirosseno (CSD) nel campione Pn4. Figura 3.1.11: Grafico relativo alla distribuzione dei cristalli di leucite (CSD) nel campione Pn3. 0 2 4 6 8 10 12 0 0.05 0.1 0.15 0.2 lnpopulationdensity(mm-4) L (mm) 0 2 4 6 8 10 12 0 0.1 0.2 0.3 0.4 0.5 lnpopulationdensity(mm-4) L (mm)
  • 42. 42 Figura 3.1.12: Grafico relativo alla distribuzione dei cristalli di pirosseno (CSD) nel campione Pn3. Figura 3.1.13: Grafico relativo alla distribuzione dei cristalli di leucite (CSD) nel campione Pn2. 0 2 4 6 8 10 12 14 0 0.1 0.2 0.3 0.4 0.5 0.6 lnpopulationdensity(mm-4) L (mm) 0 2 4 6 8 10 12 14 16 18 0 0.05 0.1 0.15 0.2 0.25 0.3 0.35 lnpopulationdensity(mm-4) L(mm)
  • 43. 43 Figura 3.1.14: Grafico relativo alla distribuzione dei cristalli di pirosseno (CSD) nel campione Pn2. Per evidenziare meglio le eventuali differenze tra i campioni, nelle due figure successive vengono mostrate le curve di CSD di leuciti e pirosseni per tutti i campioni esaminati. Figura 3.1.15: Grafico che mette a confronto le CSD delle leuciti nei campioni Pn 2, Pn 3 e Pn 4. 0 2 4 6 8 10 12 14 16 18 0 0.05 0.1 0.15 0.2 0.25 0.3 0.35 lnpopulationdensity(mm-4) L (mm) 0 2 4 6 8 10 12 0 0.2 0.4 0.6 0.8 lnpopulationdensity(mm-4) L (mm) Lct Pn4 Lct Pn3 Lct Pn2
  • 44. 44 Figura 3.1.16: Grafico che mette a confronto le CSD dei pirosseni nei campioni Pn 2, Pn 3 e Pn 4. Come si può vedere dai grafici l’andamento della CSD, sia nei pirosseni che nelle leuciti, è semilogaritmico ed è quindi in accordo con la teoria generale. Per ottenere dei buoni andamenti per le CSD sono state considerate solo le taglie cristalline inferiori a 0,006 mm in quanto si è notato che i valori minori di 0,006 mm non appartenevano alle fasi cristalline ed erano, quindi, dati da escludere dal conteggio delle aree. Questo è ben visibile nella figura 3.1.13 dove gli spot gialli e quelli arancioni rappresentano l’intervallo di taglie cristalline della CSD prima dell’esclusione. Successivamente i dati, ricavati dall’analisi delle immagini, sono stati utilizzati per ricavare i tassi di nucleazione e crescita di leuciti e pirosseni nei tre campioni. I tassi di nucleazione (J) e crescita (G) sono stati calcolati seguendo la formulazione riportata in Vona e Romano (2013). I tassi di crescita sono stati calcolati usando i dati di lunghezza e spessore dei dieci cristalli più grandi presenti in ogni campione, secondo la seguente formula: G = (l x w)0,5 /(2 x Δt) eq 3.1 dove l e w sono rispettivamente lunghezza e spessore, mentre Δt rappresenta il tempo dell’esperimento che nel nostro caso è di circa 3 ore. Sotto sono elencati i tassi di crescita media (GM) nei campioni Pn 2, Pn 3 e Pn 4: 0 2 4 6 8 10 12 14 16 18 0 0.1 0.2 0.3 0.4 0.5 0.6 lnpopulationdensity(mm-4) L (mm) px Pn4 px Pn3 px Pn2
  • 45. 45 GM leuciti Pn 4 = 1.16 . 10-8 m/s GM leuciti Pn 3 = 8.29 . 10-9 m/s GM leuciti Pn 2 = 5.12 . 10-9 m/s GM pirosseni Pn 4 = 2.02 . 10-9 m/s GM pirosseni Pn 3 = 3.34 . 10-9 m/s GM pirosseni Pn 2 = 2.19 . 10-9 m/s Il tasso medio di nucleazione può essere espresso come: J = Nv/Δt eq 3.2 dove Nv è il volume number density e Δt indica sempre il tempo sperimentale. A sua volta il volume number density può essere espresso come: Nv = NA/Sn eq 3.3 dove NA è l’area number density e Sn indica la taglia cristallina caratteristica. NA e Sn sono facilmente ricavabili dai dati dell’analisi delle immagini. NA si ottiene dividendo il numero totale di cristalli per l’area occupata da essi e Sn dividendo l’area fraction per Na ed elevando tutto a un fattore 0,5 (Sn = (φ/NA)0.5 ). Con tutti i dati a disposizione si sono quindi ricavati i tassi di nucleazione (J) per i campioni Pn 2, Pn 3 e Pn 4 come riportato di seguito: J leuciti Pn 4 = 7,50 . 106 (m-3 /s) J leuciti Pn 3 = 2,35 . 107 (m-3 /s) J leuciti Pn 2 = 1,77 . 108 (m-3 /s) J pirosseni Pn 4 = 8,60 . 107 (m-3 /s) J pirosseni Pn 3 = 4,17 . 108 (m-3 /s) J pirosseni Pn 2 = 7,63 . 109 (m-3 /s) I tassi di nucleazione e crescita sono stati, poi, messi in relazione con il tasso di sottoraffreddamento (ΔT = Tliq – Tsistema). Quindi abbiamo stabilito con l’utilizzo del software MELTS (Ghiorso and Sack, 1995; Asimow and Ghiorso, 1998) che la temperatura di liquidus sia di 1285°C e abbiamo sottratto ad essa rispettivamente i valori di 1184 °C per il campione Pn 2, 1200°C per il campione Pn 3 e 1216°C per il campione Pn 4. Queste temperature corrispondono alle temperature sperimentali a cui il liquido di Pollena è stato sottoposto alle diverse altezze all’interno del crogiuolo sperimentale. I valori del tasso di sottoraffreddamento (ΔT) sono dunque: 69°C per il campione Pn 4, 85°C per il campione Pn 3 e 101°C per il campione Pn 2. Unendo tutti i dati in un
  • 46. 46 grafico, tasso di nucleazione e crescita contro tasso di sottoraffreddamento si ottiene il seguente risultato: Figura 3.1.17: La figura rappresenta il tasso di nucleazione e crescita contro il tasso di sottoraffreddamento, sopra per le leuciti e sotto per i pirosseni.
  • 47. 47 4. Discussione dei risultati 4.1 Introduzione Dai campioni ottenuti durante l’esperimento di cristallizzazione, si può notare come il fattore temperatura abbia fortemente influenzato le caratteristiche tessiturali e il contenuto in cristalli. I tre campioni analizzati (Pn 2, Pn 3 e Pn 4) hanno cristallizzato a una temperatura diversa, grazie ad un gradiente di temperatura tra il top e il bottom dello strumento di circa 32°C. Il campione Pn 2 (Top) ha cristallizzato alla temperatura minore (1184°C) e presenta un contenuto in leuciti e pirosseni notevole (leuciti: 659; pirosseni: 7936). Il campione Pn 3 (Middle) ha cristallizzato a una temperatura media tra il top e il bottom (1200°C) e il contenuto in cristalli è abbastanza alto ma comunque inferiore a quello del campione Pn 2, soprattutto nei pirosseni (leuciti: 550; pirosseni: 3654). Infine il campione Pn 4 (Bottom) ha cristallizzato alla temperatura più alta (1216°C) e ha un contenuto in cristalli molto basso sia nel caso delle Leuciti che in quello dei pirosseni (leuciti: 89; pirosseni: 186); da sottolineare è il fatto che in questo campione l’unico transetto che permette di notare una discreta presenza di pirosseni è il 4C. 4.2 Analisi di CSD Gli abiti cristallini dei campioni Pn 2, Pn 3 e Pn 4 sono stati valutati attraverso il software CSDslice (Morgan and Jerram, 2006). I dati in 2D, espressi come asse maggiore e minore dell’ellisse meglio rappresentato, sono stati confrontati a un database che contiene le curve di forma, e sono stati convertiti nell’abito 3D con il miglior fitting in termini di asse minore, asse intermedio e asse maggiore. Il range di valori per le Leuciti è tra 1.0 : 1.15 : 1.40 e 1.0 : 1.30 : 1.60, mentre per i Pirosseni è tra 1 : 1.15 : 1.60 e 1 : 1.70 : 6.0. Sia nelle leuciti che nei pirosseni l’asse minore ha un valore costante, l’asse intermedio ha il suo valore massimo nelle leuciti del campione Pn 2 e nei pirosseni del campione Pn 4 e l’asse maggiore ha il suo valore maggiore nelle leuciti dei campioni Pn 2 e Pn 3 e nei pirosseni del campione Pn 4. Inoltre l’asse intermedio ha il suo valore minimo nelle leuciti del campione Pn 3 e nei pirosseni del campione Pn 2 e infine l’asse maggiore ha il suo valore minimo nelle leuciti e nei pirosseni di Pn 2. Gli stessi dati in 2D sono stati utili per ricavare le crystal size distribution (CSD) dei tre campioni, la conversione stereologica è avvenuta, come spiegato nel capitolo precedente, attraverso l’utilizzo di CSDCorrections. I diagrammi di CSD ottenuti sono semilogaritmici e mostrano in generale una concavità verso l’alto. Essi mettono in relazione la densità di popolazione, n(L) (mm-4 ), che è il
  • 48. 48 numero di cristalli di taglia L contenuti nell’unità di volume, con la lunghezza caratteristica dei grani. Di seguito sono riportati i diagrammi delle CSD riassuntivi dei campioni Pn2, Pn3 e Pn4 sia per le leuciti che per i pirosseni. Il diagramma descrive bene le caratteristiche dei campioni sperimentali. Le leuciti dei campioni Pn2 e Pn3 hanno un andamento abbastanza inclinato nei valori piccoli di taglia, non a caso osservando l’analisi delle immagini si può verificare la presenza di Leuciti soprattutto di piccola taglia che sono probabilmente cristalli di quenching. Nel caso del campione Pn4, si può notare come l’andamento della curva sia molto più blando rispetto a quello degli altri due e si spinga a valori di taglie cristalline molto più grandi. Questo è riscontrabile, di nuovo, dall’analisi delle immagini che testimonia la formazione di cristalli di leucite molto grandi, che probabilmente si sono formati durante la fase sperimentale principale. 0 2 4 6 8 10 12 0 0.2 0.4 0.6 0.8 lnpopulationdensity(mm-4) L (mm) Lct Pn4 Lct Pn3 Lct Pn2
  • 49. 49 Anche questo diagramma conferma le caratteristiche dei campioni sperimentali. L’andamento della curva del campione Pn 2 presenta un inclinazione notevole per i pirosseni di taglia piccola, mentre assume un inclinazione più blanda andando verso le taglie maggiori (0.29 mm). Da questo grafico si può notare l’andamento incompleto del campione Pn 4, che in realtà non è da considerare affidabile data la scarsità del numero di pirosseni all’interno del campione. 4.3 Nucleazione e crescita I tassi di nucleazione e crescita delle leuciti e dei pirosseni sono stati calcolati a partire dall’analisi tessiturale del prodotto sperimentale e sono stati analizzati rispetto al tasso di sottoraffreddamento. Il grafico realizzato mette in relazione il GM dei 10 cristalli di leucite e pirosseno più grandi dei tre campioni sperimentali, il tasso di nucleazione per la leucite e il pirosseno degli stessi campioni sperimentali e il tasso di sottoraffreddamento. Il tasso di sottoraffreddamento è stato calcolato utilizzando le temperature del campione Pn2, Pn3 e Pn4 e la temperatura di liquidus ricavata dai calcoli del software MELTS (Ghiorso and Sack, 1995; Asimow and Ghiorso, 1998) in cui sono state inserite le composizioni di Giordano et al. (2009). Gli ordini di grandezza dei GM variano per le leuciti tra 8.29 . 10-9 m/s (Pn3) e 1.16 . 10-9 m/s (Pn4) e per i pirosseni tra 2.02 . 10-9 m/s (Pn3) e 3.34 . 10-9 m/s (Pn4). Per quanto riguarda gli ordini di grandezza dei J invece, le leuciti hanno valori compresi tra 1.77 . 108 m-3 /s (Pn2) e 7.50 . 106 m-3 /s (Pn4) mentre i pirosseni hanno valori compresi tra 8.60 . 107 m-3 /s (Pn4) e 7.63 . 109 m-3 /s (Pn2). Gli ordini di grandezza dei GM per le Leuciti hanno valori leggermente superiori a quelli calcolati da Shea sull’eruzione del 79 d.c. (Shea et al. 2009). Mentre per quanto riguarda i Pirosseni, i valori sono inferiori a quelli calcolati da Campagnola (2009) e da altri autori (Piermattei, 2005; Agostini 2009). 0 2 4 6 8 10 12 14 16 18 0 0.1 0.2 0.3 0.4 0.5 0.6 lnpopulationdensity(mm-4) L (mm) px Pn4 px Pn3 px Pn2
  • 50. 50 Di seguito viene riproposto il grafico che mette in relazione il tasso di nucleazione e crescita e il sottoraffreddamento. Nei grafici sono rappresentate le campane di nucleazione e crescita di leuciti e pirosseni. Come si può vedere per bassi valori di sottoraffreddamento viene favorita la crescita, la campana di crescita ha il suo picco a ΔT = 60°C nelle leuciti e a ΔT = 80°C nei pirosseni. Per valori medi di sottoraffreddamento viene favorita la nucleazione, la campana di nucleazione ha il suo picco a
  • 51. 51 ΔT = 120°C nelle leuciti e a ΔT = 110°C nei pirosseni. Infine per valori di sottoraffreddamento alti, si ha nucleazione e crescita scarsa o nulla. Inoltre combinando i valori delle velocità di crescita di Leucite e Pirosseno con i parametri delle analisi di CSD effettuate sui campioni naturali di Pollena, è stato possibile ricavare il tempo di residenza del magma. I grafici di CSD dei campioni naturali sono mostrati sotto: 9 11 13 15 17 19 21 0 0.01 0.02 0.03 0.04 0.05 lnpopulationdensity(mm-4) L (mm) CSD Leucite Po3(L4t) Po5(L4b) Po8(L3) Po10(L2) Po11(L1t) Po13(L1b)
  • 52. 52 Figura 4.3.1: Nei grafici a e b sono rappresentate le CSD dei campioni naturali, per le Leuciti e per i Pirosseni. Con le sigle L1 - L4 sono indicati gli strati analizzati mentre con Po (3, 5, 8, 10, 11, 13) sono indicati i rispettivi campioni. Le linee nere indicano le rette di interpolazione usate per calcolare lo slope. Il tempo di residenza del magma è facilmente calcolabile attraverso questa relazione, già precedentemente definita: slope = -1/Gtr Il valore dello slope è ricavabile direttamente dal grafico, calcolando il coefficiente angolare della retta di interpolazione. Unendo questo valore a quelli delle velocità di crescita calcolati in precedenza si ottiene il tempo di residenza. Per le Leuciti il tempo di residenza calcolato è di circa 2 ore. Per i Pirosseni di taglia inferiore ai 0.05 mm il tempo di residenza è di circa 4 ore, mentre per i Pirosseni di taglia superiore ai 0.05 mm il tempo di residenza è di circa 28 ore. 5. Conclusioni L’obiettivo di questa tesi è stato quello di ottenere, con degli esperimenti, la cinetica di cristallizzazione dei magmi dell’eruzione di Pollena (472 d.c.). Studiare la cinetica di cristallizzazione in varie condizioni, permette di ottenere dati utilizzabili per investigare la storia 5 7 9 11 13 15 17 19 0 0.05 0.1 0.15 lnpopulationdensity(mm-4) L (mm) CSD Clinopyroxene Po3(L4t) Po5(L4b) Po8(L3b) Po10(L2b) Po11(L1t) Po13(L1b)
  • 53. 53 evolutiva del magma, i processi di risalita e la dinamica eruttiva. Un ulteriore risultato è quello di relazionare la formazione dei cristalli con la viscosità che è uno dei fattori fondamentali per definire l’esplosività di un’ eruzione vulcanica. L’esperimento svolto a 1200°C ha permesso di ottenere dei campioni sottoposti a un gradiente di temperatura. E’ stato possibile, quindi, mettere a confronto questi tre campioni a diversa temperatura in termini di contenuto in cristalli e di velocità di crescita e di nucleazione degli stessi. La realizzazione dei diagrammi CSD ha permesso di avere una stima sulla distribuzione delle taglie cristalline dei tre campioni. Le velocità medie di crescita (GM) sono state stimate dagli esperimenti di cristallizzazione. Di seguito, sono riassunte nuovamente le velocità di crescita di leuciti e pirosseni nei tre campioni: GM leuciti Pn4 = 1.16 . 10-9 m/s; T = 1216°C GM leuciti Pn3 = 8.29 . 10-9 m/s; T = 1200°C GM leuciti Pn2 = 5.12 . 10-9 m/s; T = 1184°C GM pirosseni Pn4 = 2.02 . 10-9 m/s = 1216°C GM pirosseni Pn3 = 3.34 . 10-9 m/s = 1200°C GM pirosseni Pn2 = 2.19 . 10-9 m/s = 1184°C Come precedentemente sottolineato, questi valori hanno un ordine di grandezza confrontabile a quello dei risultati di altri studi di cinetica di cristallizzazione. Oltre alle velocità di crescita si è ricavato anche il tasso di nucleazione J, i risultati nelle leuciti e nei pirosseni dei tre campioni sono riassunte sotto: J Leuciti Pn4 = 7.50 . 106 (m-3 /s); T = 1216°C J Leuciti Pn3 = 2.35 . 107 (m-3 /s); T = 1200°C J Leuciti Pn2 = 1.77 . 108 (m-3 /s); T = 1184°C J Pirosseni Pn4 = 8.60 . 107 (m-3 /s); T = 1216°C J Pirosseni Pn3 = 4.17 . 108 (m-3 /s); T = 1200°C J Pirosseni Pn2 = 7.63 . 109 (m-3 /s); T = 1184°C Relazionando questi dati al tasso di sottoraffreddamento, si è riuscito a realizzare un grafico che riproduce, in accordo con la teoria generale di nucleazione e crescita, l’andamento del tasso di nucleazione e crescita con il sottoraffreddamento. Infine utilizzando questi dati, in congiunzione con analisi tessiturali effettuate su campioni naturali dell’eruzione di Pollena, si sono ricavati i tempi di residenza del magma in camera magmatica e il tempo di risalita, parametri molto importanti per determinare le dinamiche eruttive.
  • 54. 54 Bibliografia Alessio M., Bella F., Improta S., Belluomini G., Cortesi C., Turi B. (1974). University of Rome Carbon-14 Dates XII. Radiocarbon Vol. 16, pag. 358 – 367. Arzilli F. (2012). Tesi di dottorato: Experimental study of crystallization kinetics and eruption dynamics in Campi Flegrei trachytic melts, Università degli studi di Camerino. Asimow PD, Ghiorso MS (1998). Algorithmic modifications extending MELTS to calculate subsolidus phase relations. Am Mineral Vol. 83, pag. 1127 – 1132. Barberi F., Innocenti F., Lirer L., Munno R., Pescatore T., Santacroce R. (1978). The Campanian Ignimbrite: a major prehistoric eruption in the Neapolitan area (Italy). Bull. Volcanol. Vol. 41, pag. 1 – 22. Barberi F., Macedonio G., Pareschi MT., Santacroce R. (1990). Mapping the tephra fallout risk: an example from Vesuvius (Italy). Nature Vol. 344, pag. 142 – 144. Campagnola S. (2009). Tesi di laurea magistrale: Studio sperimentale sulle cinetiche di crescita dei Pirosseni e di dissoluzione nei Pirosseni dei magmi di Stromboli, Università degli studi di Camerino. Carey SN (1991). Transport and deposition of tephra by pyroclastic flows and surges. In: Fisher RV, Smith GA(eds) Sedimentation in volcanic settings. SEPM special publication no. 45, Tulsa, pag. 39 – 58. Cas R., Wright JW (1987). Volcanic Succession: Modern and Ancient. Allen and Unwin, London, 528 pp. Cashman K. V., Marsh B. D. (1988). Crystal Size Distribution (CSD) in rocks and the kinetics and dynamics of crystallization. Contrib. Mineral. Petrol. Vol. 99, pag. 292 – 305. Cashman K. V. (1990). Textural constraints on the kinetics of crystallization of igneous rocks. Review in Mineralogy and Petrology, Vol. 24, pag. 259 – 314.
  • 55. 55 De Natale G., Troise C., Pingue F., Mastrolorenzo G., Pappalardo L. (2006). The Somma- Vesuvius volcano (Southern Italy): Structure, dynamics and hazard evaluation. Earth-Science Reviews Vol. 74, pag. 73 – 111. Di Girolamo P. (1968). Petrografia dei tufi campani: il processo di pipernizzazione. Rend. Acc. Sci. Fis. Mat. Napoli. Vol. 5, pag. 4 – 25. Di Girolamo P. (1970). Differenziazione gravitativa e curve isochimiche nell’ignimbrite Campana. Rend. Soc. Ital. Mineral. Petrogr. Vol. 26, pag. 547 – 588. Ghiorso MS, Sack RO (1995). Chemical mass transfer in magmatic processes IV. A revised and internally consistent thermodynamic model for the interpolation and extrapolation of liquid – solid equilibria in magmatic systems at elevated temperatures and pressures. Contrib. Miner. Petrol. Vol. 119, pag. 197 – 212. D. Giordano, P. Ardia, C. Romano, D.B. Dingwell, A. Di Muro, M. W. Schmidt, A. Mangiacapra, K. U. Hess (2009). The rheological evolution of alkaline Vesuvius magmas and comparison with alkaline series from the Phlegrean Fields, Etna, Stromboli and Teide. Geochimica et Cosmochimica Acta Vol. 73, pag. 6613 – 6630. Hammer J. E. (2008). Experimental studies of the kinetics and energetics of magma crystallization. Review in Mineralogy and Petrology, Vol. 69, pag. 9 – 59. Higgins M. D. (2006). Quantitative textural measurements in igneous and metamorphic petrology, Cambridge University press, pag. 265. Kirkpatrick R. J. (1975). Crystal growth from the melt: a review. American Mineralogist Vol. 60, pag. 798 – 814. Kirkpatrick, R. J. (1981). Kynetics of crystallization of igneous rocks, Rewiew in Mineralogy and Geomochemistry, Vol. 8, pag. 321 – 398. Marsh B. D. (1988). Crystal Size Distribution (CSD) in rocks and the kinetics and dynamics of crystallization I. Theory Contrib. Mineral. Petrol. Vol. 99, Pag. 277 – 291. Morgan Dan J., Jerram Dougal A. (2006). On estimating crystal shape for crystal size distribution analysis. Journal of Volcanology and Geothermal Research, Vol. 154, pag. 1-7. Santacroce R. (1987). Somma-Vesuvius. CNR Quad. Ric. Sci. Vol. 8, pag. 114 – 251.
  • 56. 56 Scandone R., Bellucci F., Lirer L., Rolandi G. (1991). The structure of the Campanian Plain and the activity of the Neapolitan volcanoes (Italy). Journal of Volcanology and Geothermal research Vol. 48, pag. 1 – 31. Shea T., Larsen J. F., Gurioli L., Hammer J. E., Houghton B. F., Cioni R. (2009). Leucite crystals: Surviving witnesses of magmatic processes preceding the 79AD eruption at Vesuvius, Italy. Earth and Planetary Science Letters Vol. 281, pag. 88 – 98. Sulpizio R., Mele D., Dellino P., La Volpe L. (2005). A complex, Subplinian-type eruption from low-viscosity, phonolitic to tephri-phonolitic magma: the AD 472 (Pollena)eruption of Somma-Vesuvius, Italy. Bull. Volcanol. Vol. 67, pag. 743 – 767. Sulpizio R., Mele D., Dellino P., La Volpe L. (2007). Deposits and physical properties of pyroclastic density currents during complex Subplinian eruptions: the AD 472 (Pollena) eruption of Somma-Vesuvius, Italy. Sedimentology Vol. 54, pag. 607 – 635. Sunagawa I. (1981). Characteristic of crystal growth in nature as seen from the morphology of mineral crystals. Bullettin of Volcanology, Vol. 104, pag. 81 – 87. Turnbull D. and M. Cohen (1960). Crystallization kinetics and glass formation. Modern aspects of the vitreous state, pag. 38 – 62. Volmer M. and A. Weber (1926). Nucleation in super-saturated products, Zeitschrift fuer Physikalische Chemie. Vol. 119, pag. 277 – 301. Vona A. and Romano C. (2013). The effects of undercooling and deformation rates on the crystallization kinetics of Stromboli and Etna basalts, Contrib. Mineral. Petrol. Vol. 166, pag. 491 – 509.
  • 57. 57 Ringraziamenti Al termine di questo lavoro tesi, è per me doveroso ringraziare la mia relatrice, la professoressa Claudia Romano per avermi dato la possibilità di svolgere questo lavoro. Ringrazio il Dott. Alessandro Vona per l’aiuto che mi ha fornito durante la tesi e per la sua simpatia che ha alleggerito questo percorso. Ringrazio la mia famiglia e tutti gli amici che mi hanno accompagnato in questo percorso.
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