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Storia dell’arte 2012/2013

Biennio specialistico : storia dell’arte
          contemporanea,
La fotografia «artistica»


Sperimentata da Nicéphore Niepce nel 1816 con
il nome di «heliographie» (disegno solare),
perfezionata nel 1829 da Daguerre (da cui la
parola «dagherrotipo»), la fotografia nasce
ufficialmente nel 1839 quando François Arago
presenta il procedimento davanti agli
accademici delle Scienze e delle Belle Arti. La
scelta di questo doppio pubblico non è casuale:
tecnica scientifica, la fotografia rientra anche nel
campo dell’arte.
Soggetti nobili

Durante la seconda metà del XIX secolo, cioè
ancora alle origini, i critici cercano di persuadere
i fotografi a scegliere certi temi e una certa
maniera di trattarli. Non devono contentarsi di
presentare situazioni naturaliste, ma incarnare
sentimenti elevati. Si chiede loro di essere fedeli
e ispirati; si domanda di fare delle nature morte,
scene di genere, ritratti in costume allegorico e
composizioni che possano fare concorrenza al
«gran genere»
Henri Peach Robinson, Ultimo respiro, 1858, Bath, Royal
                 Photographic Society
In Inghilterra in particolare, alcuni fotografi realizzano allora dei racconti, veri «quadri
viventi» risultanti dalla combinazione di diverse immagini, con lo scopo di formare una
composizione edificante per il pubblico. Oscar Gustave Rejlander e Henri Peach
Robinson sono i rappresentanti di questa tendenza negli anni 1860. Questa immagine,
forse la più famosa di Peach Robinson, è costruita con cinque diversi negativi. .
When the day’s Work is done, 1895, Edinbourg
Photographic Society
The Lady of Shalott by Henry Peach Robinson (1830-1901). 1861. Albumen print from two negatives,
30.4 x 50.8 cm.). The Harry Ransom Humanities Research Center, University of Texas (ace.
no.964:057:068) Helmut Gernscheim Collection.
Fu il fondatore del circolo fotografico "Linked Ring", ed un membro della Compagnia d'Onore della Royal
Photographic. Henry Peach Robinson (1830-1901) fu certamente il più noto ed importante dei pittorialisti; non
solo per il suo enorme contributo fotografico, ma anche per i numerosi saggi che teorizzavano la riqualificazione
della fotografia in senso artistico
John Everett Millais, Ophelia, 1852
Le sue fotografie sono di evidente derivazione pittorica, al punto che addirittura,
nel 1856, finì in tribunale con l'accusa di avere plagiato il dipinto del preraffaelita
Henry Wallis. Le sue composizioni erano frutto di un complesso e maniacale
lavoro. Le sue opere più belle sono state realizzate tramite il fotomontaggio
manuale di diversi negativi su un unica stampa positiva. Si partiva da un disegno
iniziale su cui venivano in seguito applicate, grazie al fotomontaggio, le immagini
fotografiche vere e proprie. Il fotomontaggio aveva, anche, il compito di
eliminare le perdite di nitidezza ai bordi dovute agli obiettivi del tempo.
Fotografando le figure centralmente e mettendole poi insieme mediante
fotomontaggio si poteva godere di una nitidezza ineguagliabile su tutta l'area
dell'immagine. Di seguito si passava ad un puntiglioso lavoro di rifinitura,con tinta
e pennello, per suavizzare le piccole imprecisioni della composizione.
Peter Henri Emerson, Cantley: Wherries Waiting for the Turn of the Tide, c. 1884
Altri fotografi, anche loro incapaci di pensare la loro arte indipendentemente dalla pittura, sono
più vicini alle correnti moderne: realismo e impressionismo. Il fotografo e teorico Peter Henry
Emerson, nella sua opera Naturalistic Photography (1889) afferma che la fotografia ha come
primo compito quello di fissare la natura – ciò che fa lui stesso, per una decina d’anni, alla metà
del decennio 1880, nella zona paludosa dell’East Anglia.
L’artista fotografo


Dagli inizi degli anni 1850, Delacroix fa realizzare foto di
uomini e donne nudi che interpreta a disegno: dopo
questo procedimento si generalizza e negli anni 1870-
1880 gli artisti cominciano a lavorare con uno o più
fotografi che eseguono per loro una o più prese da punti
di vista diversi. Da un punto di vista pratico fa risparmiare
sulle ore di posa del modello.
Alcuni fotografi, poi concepiscono il loro rapporto con
l’arte in termini molto stretti e dalla metà del XIX secolo
cominciano a diffondere riproduzioni di grandi capolavori.
E questo è un campo che si svilupperà particolarmente in
Italia, soprattutto a Firenze con gli Alinari, ma anche a
Roma e in Provincia..
Eugène Durieu
Eugene Durieu and Eugene Delacroix, Draped Model (back view), ca. 1854. Albumen print, 7 5/16” x 5 1/8”. J.
                        Paul Getty Museum, Los Angeles. Nudo maschile, 1860.
Nadar
Félix Tournachon già illustratore e caricaturista,
diventa celebre con questo pseudonimo quando
si installa in un piccola atelier vicino alla stazione
Saint-Lazare. Divenuto celebre inaugura un
grande studio vicino all’Opéra e diventerà il
fotografo alla moda.
.
• “La teoria fotografica si impara in un’ora; le
  prime nozioni pratiche in un giorno [...] quello
  che non si impara [...] è il senso della luce [...] è
  la valutazione artistica degli effetti prodotti dalle
  luci diverse e combinate [...] quello che s’impara
  ancora meno, è l’intelligenza morale del tuo
  soggetto, è quell’intuizione che ti mette in
  comunicazione col modello, te lo fa giudicare, ti
  guida verso le sue abitudini, le sue idee, il suo
  carattere, e ti permette di ottenere, non già
  banalmente e a caso, una riproduzione plastica
  qualsiasi, alla portata dell’ultimo inserviente di
  laboratorio, bensì la somiglianza più familiare e
  più favorevole, la somiglianza intima.” (Nadar)
.




“Non esiste la fotografia artistica.
Nella fotografia esistono, come in
tutte le cose, delle persone che sanno
vedere e altre che non sanno
nemmeno guardare.” (Nadar)

In questa foto è ritratto Charles
Baudelaire, che non riconobbe mai
valore artistico alla fotografia.
.
Gaspar-Fèlix Tournachon, che cominciò
a farsi chiamare Nadar nel 1838, iniziò
la sua carriera artistica come critico
teatrale, giornalista e caricaturista. Le
sue prime fotografie risalgono al 1853:
si affinò in quest’arte attraverso i
numerosi ritratti che fece agli amici,
personaggi celebri della sua epoca,
quali Baudelaire, Doré, Rossini,
Champfleury, Delacroix, Berlioz.
.
La sua innata curiosità verso l’umana
natura, affinata dalla passata
esperienza di caricaturista, lo portò a
dei risultati mirabili e sorprendenti nei
suoi ritratti fotografici, per l’indubbia
capacità dimostrata nel penetrare la
personalità celata sotto il velo
dell’apparenza. Egli riuscì, in questo
modo, ad elevare la fotografia al rango
di vera e propria opera d’arte.
.
Nel corso del 1864, in una data
imprecisata, la giovane Sarah Bernardt
si fece fare un ritratto da Nadar.
Nel 1864 la Bernhardt ha vent’anni ed
è agli inizi della sua promettente
carriera, fa parte della Comèdie-
Francaise, ed ha al suo attivo ruoli
nelle commedie di Racine e Molière.
Fino al momento del ritratto di Nadar,
però, l’attrice era nota più per i suoi
scandali ed atteggiamenti stravaganti
che per le sue doti di interprete
teatrale.quella che diverrà poi
soprannominata la voix d’or, si trovava
senza un ingaggio e in attesa di un
figlio; decise così di recarsi al numero
35 di Boulevard des Capucines, nello
studio del più noto e grande fotografo
di Parigi.
.
La Bernhardt si affidò, dunque,
all’oramai affermato Nadar per
promuovere la sua persona presso il
pubblico. I critici dell’epoca si
dimostrarono subito entusiasti di
questi scatti e li trovarono
particolarmente ispirati: il connubio
artistico tra la Bernhardt e Nadar era
stato siglato. Sarah Bernhardt, la
divina, si apprestava a divenire, così,
una leggenda.
.
Egli utilizzò sfondi neutri, privi di ogni
dettaglio, ed un’illuminazione naturale
di grande efficacia plastica e sfruttata
abilmente attraverso filtri di tende
bianche o grigie. I ritratti di Nadar si
caratterizzano per l’estrema semplicità
dello schema compositivo
dell’immagine: la personalità dei
soggetti emerge grazie alla sua
capacità sintetica e non analitica.
“Compito autentico del ritratto fotografico è di estrarre la
         verità psicologica del soggetto.” (Nadar)


• L’idea di “verità psicologica” implica la ricerca,
  nella fotografia, non di una semplice
  trasposizione oggettiva della realtà, ma di una
  sua interpretazione: la riproduzione di qualche
  cosa che vada oltre le semplici apparenze e riveli
  la natura più autentica dei soggetti.
• Nei suoi ritratti, definiti giustamente psicologici,
  Nadar tendeva a far emergere le personalità dei
  volti da lui fotografati, ricercando in loro
  l’espressione più intima.
August Sander
.
August Sander
.
Irving Penn, Marlene
Dietrich, New York, 1948

.
Irving Penn, Alfred
Hitchock, 1947
Penn photographed an
extraordinary range of sitters from
the worlds of literature, music and
the visual and performing arts.
Among those featured in the
exhibition are Truman Capote,
Salvador Dali, Christian Dior, T.S.
Eliot, Duke Ellington, Grace Kelly,
Rudolf Nureyev, Al Pacino, Edith
Piaf, Pablo Picasso and Harold
Pinter.
This fascinating survey brings to
light the significance of Penn's
visual language and provides a rare
opportunity to explore his
innovative use of composition, light
and printing techniques.
.

Non si può prescindere dal parlare di
fotografia di moda senza conoscere gli
scatti di uno dei suoi maestri indiscussi,
Irving Penn, morto a 92 anni a New York
nel 2009, figura storica i cui lavori sono
stati protagonisti delle copertine di Vogue
(più di 150 nell’arco di circa
cinquant’anni) e sono esposti nelle più
famose gallerie mondiali. Originario del
New Jersey, Penn inizia giovanissimo a
collaborare con la rivista “Harper’s
Bazaar” come illustratore, ma il suo
nome si lega presto a quello di Vogue
quando, abbandonata la pittura, diventa
nel 1943 assistente del direttore artistico
Alexander Liberman realizzando
nell’ottobre dello stesso anno la sua
prima copertina, una “natura morta”
composta da un set di accessori di moda
(una borsa, un guanto, una cintura) e
proponendo uno stile riconoscibile e
glamour, classico nella sua semplicità,
indubbiamente influenzato da ispirazioni
grafiche.
I viaggi del fotografo


• Per quanto innovative siano le esperienze della pittura
  (nuovi materiali, nuove tecniche, collages, etc.) si
  compiono sulla tela o sulla carta con l’aiuto di
  pigmenti disposti o proiettati, mischiati, a volte anche
  ad altri elementi. La mano rimane, il più delle volte, lo
  strumento principale. L’atelier può somigliare ad un
  laboratorio o a una soffitta. L’opera può tendere alla
  più strana complessità formale o alla più grande
  semplicità voluta, la più pura. La parola «pittura» e
  «disegno» non hanno perduto il loro significato anche
  se non designano più come prima un insieme
  predeterminato di regole e di pratiche.
Il fotografo: un artista che può avere il mondo come atelier
Ora ci sono altre pratiche in cui la mano non
interviene più se non attraverso un
«interruttore». È il caso in cui dell’atelier non
resta nulla perché in questo caso può non avere
più senso. Che si intende per atelier di un
fotografo? Il luogo dove lavora? Dove fa le
riprese? O dove stampa (parlando ancora di
fotografia argentica)? Ma questo vale solo per
quelli che lavorano le composizioni con le luci,
che istallano in uno spazio una scenografia o che
utilizzano materiali pesanti, quelli per i quali c’è
bisogno di uno studio.
Jacques-Henri Lartigue
Ma la fotografia non si fa solamente in studio. Per Lartigue,
per Henri Cartier-Besson, per Brassaï, per André Kertész, si
pratica dovunque ed è uno dei meriti essenziali. Dovunque: in
strada, da una finestra, da una macchina passando o
guatando, fino alle situazioni più difficili e improvvise, dove
nessun disegnatore – e ancor meno nessun pittore - avrebbe
il tempo di intervenire.
Importante è che gli apparecchi, dal 1910 diventano più
piccoli, più leggeri, maneggevoli e più rapidi. Durante la prima
guerra mondiale centinaia di soldati anonimi, di una o
dell’altra parte, si fanno reporter a loro rischio e pericolo e
delle riviste pubblicano le loro fotografie, le più
impressionanti (esplosioni, cadaveri, incursioni…). Le pellicole
migliorano per sensibilità e finezza di grana. Funzionano alla
luce elettrica, a quella del giorno, di un incendio o di una
esplosione : non ci sono più circostanze dove non si possa
fotografare.
Jacques-Henri Lartigue
Un’idea sula fotografia

«L’objectif qu’on met
au point : c’est flou
avant et après. C’est
extrêmement joli un
tout petit peu avant et
un tout petit peu
après. C’est trop net
quand le point est
exact. Les beautés
sont tuées par la
précision».
Journal, 21 juin 1926,
Paris.
Henri Cartier-Bresson
Dietro Saint-Lazare, 1932       Cordoba, Spagna, 1933
La Leica 1, prima macchina di Henri Cartier-Bresson
Una frase eloquente

•

•        For me the camera is a sketch book, an instrument of intuition
  and spontaneity, the master of the instant which, in visual terms,
  questions and decides simultaneously. In order to “give a meaning”
  to the world, one has to feel involved in what one frames through
  the viewfinder. This attitude requires concentration, discipline of
  mind, sensitivity, and a sense of geometry. It is by economy of
  means that one arrives at simplicity of expression.
• To take a photograph is to hold one’s breath when all faculties
  converge in a face of fleeing reality. It is at that moment that
  mastering an image becomes a great physical and intellectual joy.
• To take a photograph means to recognize – simultaneously and
  within a fraction of a second– both the fact itself and the rigorous
  organisation of visually perceived forms that give it meaning.
• It is putting one’s head, one’s eye, and one’s heart on the same axis.
•
•
•
Brassaï
Pont-neuf la nuit, 1933
..

Henri Miller, 1931        Pablo Picasso, 1932
Parigi da Notre-Dame, 1933
.
Robert Doisneau
Le meraviglie della vita quotidiana sono così eccitanti, nessun regista in
       grado di organizzare l’imprevisto che si trova in strada. ”
                            Robert Doisneau.
Un altro rapporto con il tempo
Che cosa si deve intendere allora per «lavoro» di un fotografo? Niente
sicuramente che rassomigli al lavoro di un pittore nel suo studio. Henri
Cartier-Bresson osa la nozione di «istante decisivo», che implica una
temporalità molto diversa da qiella che presuppone l’atto di disegnare o di
dipingere. «l’apparecchio fotografico – scriveva nel 1977 – è per me un
carnet di appunti, lo strumento dell’intuizione e della spontaneità, il padrone
dell’istante che, in termini visivi, domanda e decide allo stesso tempo. *…+
fotografare è riconoscere un fatto e l’organizzazione rigorosa delle forme
percepite visivamente che esprimono e significano questo fatto, in un solo
istante e in una frazione di secondo». Nessuna possibilità di pentimento in
questa estetica della rivelazione, nessun ripensamento e nessuna seconda
possibilità…e nessun bisogno dell’atelier. Basta un laboratorio dove specialisti
dotati di macchine procedono allo sviluppo e alla stampa. È possibile
reinquadrare, correggere una composizione, ottenere una tiratura più scura
o più chiara, più o meno contrastata, ma questi artifici non possono
modificare l’immagine in maniera decisiva quando questa si basa
sull’organizzazione rigorosa e sul fatto dei quali parla Cartier-Bresson.
Fotoreportage, fotogiornalismo
A maggior ragione, quanto abbiamo detto vale per
la fotografia di reportage che, a partire dal primo
dopoguerra, per riviste di grande tiratura, fissa
inesorabilmente gli avvenimenti e i contemporanei
in rappresentazioni espressive, allegoriche,
provocatrici, di denuncia, a volte insopportabili.
Nel 1947 quattro fotografi fondano a New York
l’agenzia fotografica Magnum : Henri Cartier-
Bresson, George Rodger, Robert Capa e David
Seymour detto Chim – gli ultimi due sono i padri del
reportage di guerra.
Robert Capa
Chim
Capa, che ha ripreso durante la guerra
civile spagnola l’immagine del soldato
repubblicano colpito dal proiettile
franchista, partecipa allo sbarco degli
alleati in Sicilia e in Normandia,
all’invasione della Germania nazista.
Muore in Indocina nel 1954, ucciso da
una mina. Chiem è anche lui in Spagna
nel 1937, poi in Germania nel 1944, e in
Israele durante la guerra d’indipendenza.
Muore colpito da una mitragliata durante
una spedizione franco-britannica sul
canale di Suez nel 1956. Queti fotografi
hanno per atelier il mondo intero e
«espongono» nelle riviste come Life, Vu,
Match. Lee Miller segue una ivisione
americana fino a Dachau e Buchenwald e,
nell’estrema urgenza, invia al suo datore
di lavoro, Vogue, le sue foto dei campi di
prigionia e di concentramento,
accompagnate da un telegramma «vi
supplico di credere che è la verità».
Il fotoreporter o la memoria critica del tempo

Evidente che in queste circostanze la fotografia
riguarda più la storia, militare e non, politica,
ideologica e morale, molto più che delle
considerazioni di ordine estetico. Va da sé allora
che per quelli come August Sander in Germania
prima del 1933 o Walker Evans negli Stati Uniti
dal 1929, prendono questa pratica come un
analisi più che una descrizione e che richiedono
alla fotografia molto di più di un frammento di
racconto : la spiegazione di una situazione.
Il bagno di Tomoko
Se Sander tenta l’inventario della società tedesca
dai mendicanti ai grandi capitalisti, Negli Stati Uniti
Dorothea Lange e Walker Evans, durante la grande
depressione, traversano le regioni rovinate dalla
crisi e fanno immagini che diventeranno il simbolo
della miseria. Eugene Smith dopo aver realizzato
immagini di combattimenti tra americani e
giapponesi nel Pacifico realizza dei reportages che
coniugano cronaca del quotidiano, sociologia e
denuncia dell’ingiustizia; la sua opera più celebre
rimane il bagno di Tomoko, tragica allegoria
dell’inquinamento al mercurio a Minamata.
Il bagno di Tomoko, 1972
Spanish Village, nella Spagna franchista del 1938
A cosa serve una grande profondità di
    campo se non c'è un'adeguata
      profondità di sentimento?
Eugene Williams Smith, Charlie Chaplin, 1952
Una e più generazioni dopo….
Qusta generazione, apparsa poco prima o durante
la Seconda Guerra mondiale, ha i suoi successori.
Nella seconda metà del XX secolo questi rischiano
in Vietnam, in Bengala o in Biafra, o ancora in
Ruanda o in Pakistan. È là che si rendono Don Mc
Cullin, Philip Jones Griffith, Jean-Claude Francolon o
Gilles Caron, dato per disperso in Cambogia poco
dopo essere stato uno dei maggiori fotografi del
maggio del ‘68 (si deve a lui una celebre fotografia
di Daniel Cohn-Bendit davanti un CRS). Più tardi
arrivarono i fotografi delle guerre in Libano,
(Raymond Depardon), della rivoluzione islamica, del
conflitto interetnico bosniaco e ancora più tardi,
oggi, il Pakistan (Torsello). … è il fotogiornalismo.
Gilles Caron
Parigi, la foto simbolo del          Soldato in riposo in Vietnam durante
movimento studentesco, 1968          la battaglia per la collina 875
Fotogiornalismo e arte

È una questione sulla quale ancora si discute. In
ogni caso l’artista continuamente in movimento,
l’artista del quale e per il quale il movimento è
uno dei fattori essenziali: questa figura è propria
del XX secolo, preparata e appena resa come
schizzo, come abbozzo dai disegnatori reporters
come Constantin Guys o gli esploratori-artisti
orientalisti e africanisti ai quali la fotografia del
resto deve un po’ la sua ragione di esistere.
Fotogiornalismo : genere a se stante, di fotografia, distinto dalla fotografia d’arte ,
nel fotogiornalismo le immagini esistono principalmente per il loro valore
informativo e non per il loro valore artistico ; sono immagine prese, istantanee per lo
più, ma anche immagini ricercate e trovate, e questo ricercare e trovare implica
alcune scelte che in fondo possiamo definire artistiche.

Nato tra l’Europa e gli Stati Uniti, il fotogiornalismo ha avuto grandi maestri come
ROBERT CAPA, del quale tutti conosciamo La morte del miliziano presa durante la
guerra in Spagna nel 1936 o le immagini di Dorothea Lange.

CAPA fu tra l’altro il fondatore della prima cooperativa di fotografi e della agenzia
Magnum, una agenzia storica con la quale hanno collaborato molti grandi fotografi.

Fotogiornalismo non è semplice cronaca, è la capacità di raccontare qualcosa
attraverso immagini fotografiche. Il fotografo sceglie cosa e come raccontare….
Le caratteristiche che distinguono il fotogiornalismo da altri generi
   fotografici sono sostanzialmente tre, e si possono riassumere nei
                        seguenti termini inglesi:

● Timeliness – le immagini hanno un senso se pubblicate nel
contesto del racconto di eventi accaduti di recente. La
pubblicazione delle fotografie deve quindi essere tanto
“veloce” quanto quella delle parole. Questo però non esclude
che immagini fotogiornalistiche restino impresse per anni
nell'immaginario del lettore, divenendo le icone di eventi
storici di grande rilevanza.
● Objectivity – la situazione ripresa nelle immagini deve
essere una fedele ed accurata rappresentazione degli eventi.
● Narrative – le immagini si relazionano ad altri elementi
della notizia per poter meglio coinvolgere il lettore o lo
spettatore.
La storia del fotogiornalismo
A pochi anni dalla sua nascita, il fotogiornalismo comincia a registrare i nomi
dei personaggi che daranno un'impronta decisiva al “fare informazione”
tramite le immagini. Roger Fenton, Jacob Riis, Lewis W. Hine e Walker Evans,
sono solo alcuni dei fotografi che imprimono al racconto per immagini il
proprio stile personale e la propria professionalità. Il Novecento può essere
definito, a ragione, il secolo della rappresentazione fotografica di storie ed
eventi. La storia del fotogiornalismo assume un andamento parabolico e
raggiunge il picco nel periodo fra la due guerre mondiali, il momento della
sua età d'oro. In questa fase, e immediatamente dopo, si realizzano le
esperienze più significative, fra tutte la nascita della cooperativa «Magnum»
(divenuta poi la più prestigiosa agenzia fotogiornalistica al mondo) ad opera
di Robert Capa, Henry Cartier-Bresson, David 'Chim' Seymour ed altri
“grandi”, e della rivista «Life» (che ha raccontato attraverso le sue copertine la
storia dei più importanti fatti e personaggi a partire dal secondo dopoguerra).
Negli anni Sessanta-Settanta, lo sviluppo incalzante della televisione, che
presenta un linguaggio immediato e spettacolare, accompagna il reportage
fotografico alla strada del suo declino. La fotografia torna a ricoprire il ruolo di
semplice illustrazione sui giornali e intanto si converte verso una tipologia di
largo uso e consumo, è il boom della stampa scandalistica e sensazionalistica.
..
Il fotogiornalismo comincia quindi a cercare nuove formule,
una nuova definizione dell'immagine che consiste soprattutto
nel trasgredire quella concezione di “obiettività” caratteristica
della fotografia, su tutti, di Cartier-Bresson. Anche il reportage
di guerra subisce una trasformazione decisiva, il conflitto
indocinese segna il punto oltre il quale i fotogiornalisti non si
troveranno più da soli sul teatro degli eventi, ma saranno
circondati dagli operatori televisivi. La guerra in Vietnam
rappresenterà l'ultimo conflitto con una forte componente
fotografica, scompare la figura “romantica” del fotoreporter
autonomo che da quel momento farà parte di singole unità di
soldati, diventando fotografo embedded. Di pari passo, le
fotografie cominceranno a perdere di quella veridicità che fino
a poco tempo prima le qualificava.
•
LIFE 1936 :
Vedere la vita, vedere il mondo, essere testimoni
oculari dei grandi avvenimenti : scrutare i visi
della povera gente e gli atteggiamenti dei
superbi; esaminare cose strane – macchine,
eserciti, folle ; scoprire ombre della giungla o
della luna; scoprire cose lontane migliaia di
chilometri, cose nascoste dietro i muri e dentro
le stanze, cose pericolose da avvicinare; vedere
le donne che gli uomini amano e molti bambini;
vedere e provarne gioia; vedere e stupire ;
vedere ed esserne arricchiti ….
Fotogiornalismo e storia
Ci si rende conto, sin da subito, che la fotografia rappresenta uno strumento
di persuasione forte: temuta dai governi e il più delle volte, per questo,
manipolata. Fotomontaggi, elaborazioni, scelte editoriali (pubblicare o meno
una foto, descriverla, contestualizzarla, richiedere un determinato tipo di
immagini), valutazioni fotografiche in fase di scatto, sono tutte occasioni
suscettibili di un apporto personale, quindi soggettivo e per definizione non
obiettivo. Detto ciò, può considerarsi ancora vera l'affermazione che «la
macchina fotografica [...] non mente mai»7?

In Afghanistan si semina guerra e nei campi crescono scatole metalliche
…..(Torselllo)

Il fotografo cambia la storia perché mostrando ciò che altrimenti sarebbe
invisibile fa conoscere certe situazioni e provoca prese di coscienza e reazioni

L’occhio di chi rispetta una cultura, di chi, per rispetto di una popolazione
ospite, rischia di essere preso per terrorista E TORSELLO entra molto
educatamente nella vita dei luoghi….
Un’opinione


• Fotografare è essenzialmente un atto di non
  intervento. L'orrore di certi «colpi» memorabili
  del fotogiornalismo contemporaneo, [...]
  deriva in parte dalla plausibilità che ha
  assunto, nelle situazioni in cui il fotografo può
  scegliere tra una fotografia e una vita, la
  scelta della fotografia. Chi interviene non può
  registrare, chi registra non può intervenire.
• Susan Sontag
… e qualche domanda
Qual è lo scopo del fotogiornalismo? Quali sono i parametri di riferimento
della comunicazione per immagini? Quali i suoi confini? La storia del
fotogiornalismo è sempre stata accompagnata da tali interrogativi. Con la
stampa sui giornali e la sua diffusione di massa, la fotografia incontra l'etica e
comincia ad affrontarla: cosa pubblicare, dove e come pubblicarlo.
L'affermazione del mestiere del fotogiornalista, poi, porta i professionisti
dell'immagine a darsi delle regole, codici deontologici con i quali confrontarsi.
Quanto può essere veritiero un reportage? Quali sono i motivi che possono
spingere a truccare un racconto per far passare un determinato messaggio,
falso? In più, una foto artistica, può elevarsi a documento storico? Arte e
giornalismo vanno d'accordo? Ci si rende conto, sin da subito, che la
fotografia è uno strumento di persuasione forte: temuta dai governi ed il più
delle volte, per questo, manipolata. Fotomontaggi, elaborazioni, scelte
editoriali (pubblicare o meno una foto, descriverla, contestualizzarla,
richiedere un determinato tipo di immagini), valutazioni fotografiche in fase
di scatto, sono tutte occasioni suscettibili di un apporto personale, quindi
soggettivo e per definizione non obiettivo.
Affrontiamo questo argomento con lo scopo di riflettere sulle motivazioni
che, in passato come nel presente, hanno spinto a manovrare la
comunicazione per immagini. Non solo, ci interesseremo delle regole del
fotogiornalismo, con un occhio attento alla deontologia della professione, per
scoprire se è vero che «la macchina fotografica [...] non mente mai».
… conclusione?
Vivere oggi nella società digitalizzata, società dell'immagine per
eccellenza, ci mette a maggior ragione in una condizione di serrata
convivenza con la fotografia, e di auspicabile e reciproco rispetto. Il
cittadino è cosciente di poter essere vittima di un'informazione
distorta e sa che oggi è molto più facile intervenire sulle fotografie per
modificarne il significato, ma è anche consapevole di poter essere – da
citizen journalist – protagonista del circuito mediatico e informativo. Le
regole deontologiche allora devono essere estese a tutti, professionisti
e non, perché tutti sono ora potenzialmente in grado di comunicare
con il linguaggio universale della fotografia. Purtroppo questa
evoluzione, quasi darwiniana, porta il fotogiornalismo come
“mestiere” alla tendenziale scomparsa (che sinceramente non
auspico), o comunque ad una sua determinante ridefinizione, in un
mondo che viaggia sempre più velocemente, dall'altra parte invece, «il
fotogiornalismo, come “genere”, dimostra ancora d'essere La
Fotografia per antonomasia; un'espressione alta, sublime, di un
linguaggio che offre insostituibili possibilità di memoria, di veicolazione
e, perché no, di poesia; senza queste qualità la fotografia stessa non
sarebbe probabilmente neppure stata inventata»
Metamorfosi del reale: le «ricostruzioni fotografiche» e la loro eredità


   Pertanto non si può trascurare un altro uso della
   fotografia che invece ha lo studio come luogo di
   lavoro, la manipolazione come risorsa e di cui il
   circuito espositivo e di commercializzazione è più
   strettamente artistico. Dagli inizi del XX secolo,
   presenti come «ricostruzioni fotografiche», alcune
   azioni permettono di modificare, alterare, calcolare
   gli effetti. In questi casi dei modelli posano in
   scenografie preparate, in pose dirette, sotto una
   illuminazione studiata. I negativi possono essere
   tagliati, sottomessi ad esposizioni particolari e ad
   alterazioni varie.
… ancora il Surrealismo …
Ai montaggi di Ernst corrispondono così, nel campo
fotografico, le esperienze del più grande esperto in
materia: Man Ray. Emmanuel Rudtinsky, americano
stabilito a Parigi, figura centrale della vita artistica e
notturna nella capitale francese degli anni 1920-
1930. Sovraespone le immagini e le sbianca
(solarizzazione), o le taglia e le rimonta per isolare
un elemento, o ancora poggia degli oggetti sulla
carta fotografica, illumina o lascia le loro ombre
scriversi, ottenendo nature morte fantastiche che
chiama Rayogrammes.
Man Ray

Marchesa Casati, 1927       Dora Maar, 1936
rayogram
… e gli altri…
In Germania, Lucia Moholy e Laslo Moholy-Nagy, originari
rispettivamente di Cecoslovacchia e Ungheria, che
lavorano al Bauhaus, a partire dal 1923 realizzano anche
loro delle immagini senza punto di ripresa che chiamano
«photogrammes» : considerano i clichés, con o senza
apparecchio fotografico, come semplice procedimento
meccanico che non deve riflettere alcuna emozione
personale ma tenersi strettamente alla forma e alla luce.
Se la riproducibilità della fotografia, ne fa ai loro occhi
l’arte più adatta all’epoca della meccanizzazione, i
fotogrammi che elaborano costituiscono
paradossalmente delle immagini uniche, che nessuna
matrice permette di riprodurre.
Il ritorno allo studio tra artificio e realtà
Che si basi sulla fotografia «pura» negli anni
1920, fotografia «creativa» negli anni 1950, o
fotografia «plastica» negli anni 1980,
l’ambizione dei fotografi interessati soprattutto
all’arte che al reportage rimane, alla fine del XX
secolo, essenzialmente la stessa : creare effetti
nuovi non importa se dalla meccanica della
macchina, dalla velocità di ripresa o al contrario
dalla sua lentezza, dalla composizione o dalla
stampa.
Gli artisti
Di spirito Dada o surrealista, o ancora vicini all’astrazione
pittorica, gli artisti che esemplificano questa tendenza si
chiamano Imogen Cunningham e Edward Weston nel
primo dopoguerra; più tardi Harry Callahan, Duane
Michals, Joel Peter Witkin o Joan Fontcuberta. I progressi
tecnici della fine del XX secolo danno loro nuovi mezzi,
nel senso di dove la numerizzazione e la virtualità
autorizzano ogni metamorfosi. Lo «studio» diventa allora
laboratorio informatizzato dove la «pantbox» diventa lo
strumento di distacco, ricucitura, sovrapposizione e
sintesi, alle quali funzioni si aggiunge la messa in scena, il
travestimento, i riferimenti pittorici, testi e assemblaggi.
Johan Fontcuberta
Duane Michals, Fallen Angel, 1968
…
Allora con Cindy Sherman o Christian Boltanski,
Nan Goldin o Paul Armand Gette, Bernard
Faucon o Florence Chevallier, Sophie Calle o
Jochen Gerz, la fotografia si impone come uno
dei medium di una pratica artistica più
complessa che tiene essenzialmente
dell’istallazione. In questo caso – altri nomi si
possono evocare – la nozione di atelier riprende
il suo posto : lo studio è il luogo dove immagini e
oggetti sono compresi e modificati in un
processo di creazione che pone la diversità dei
materiali e delle tecniche come punto di
partenza : l’arte contemporanea.
SOPHIE CALLE Hotel Room 28, 1983 Black and white and color photograph
with text 49 x 56 inches, each panel Edition of eight, Courtesy Donald Young
                               Gallery, Chicago
Take kare of yourself, 2007
Sophie Calle
Louise Bourgeois
Donne artiste, le nuove arrivate
      Donna e artista : fino alla fine del XIX secolo, queste parole
       suonavano come una sfida o una contraddizione. Ci sono
  sicuramente alcune donne pittrici (più spesso che scultrici) celebri
  nei secoli precedenti, come Artemisia Gentileschi, Rosalba Carriera
    o Elisabeth Vigée-Lebrun o Marguerite Gérard alla fine del XVIII
           secolo, ma sono e saranno ancora delle eccezioni….
..
Per diversi anni, la figura della donna pittrice resta legata
a quella di un amatore che deve rimanere nell’ombra. Se
bisogna attendere la fine del secolo per vedere le ragazze
entrare all’Ecole des Beaux-arts (1896),la maggior parte di
esse si rivolge ad ateliers privati tra i quali quello Léon
Cogniet et Charles Chaplin che sono i più importanti. La
novità è quella di frequentare gli ateliers senza far parte
del mondo dell’arte. La maggior parte delle donne artiste
aveva già dei legami con artisti, si pensi a Elisabeth Vigée-
Lebrun o Marguerite Gérard, moglie la prima e cognata e
sorella di pittori la seconda. La Rivoluzione apre le porte
delle scuole d’arte alle donne per permetter loro di
trovare dei mestieri nelle arti decorative. Elisabeth
Gardner, futura moglie del pittore William Bouguereau,
racconta nei suoi diari epistolari le difficoltà delle donne
in questo campo pur essendo per lei più facile, in quanto
americana.
.
• Abbiamo citato l’atelier di Léon Cogniet (1794-
  1880). Apre alle donne grazie a sua sorella Marie-
  Amélie Cogniet sua prima allieva.
• L’atelier de Charles Chaplin (1825-1891)era più
  moderno e offriva la possibilità di fare esercizio su
  modelli nudi.
• Due pittrici note, Mary Cassatt e Henriette Browne
  furono allieve di Chaplin, e le loro opere non
  differiscono da quelle degli uomini. Presto si
  entrerà in competizione.
La conquista delle scuole
Nella seconda metà del XIX secolo, le ragazze che vogliono
diventare artiste devono studiare in atelier privati : l’académie
Julian a Parigi era una di queste ma, per ragioni finanziarie
evidenti, sono riservate alle figlie della borghesia. Poi, intorno al
1900, un po’ dappertutto in Occidente, le donne acquisirono il
diritto di accedere alle scuole pubbliche d’arte. In Francia, all’Ecole
des beaux-arts, questa rivoluzione avviene nel 1897. Circa cento
anni dopo la Rivoluzione francese. Eppure alla fine del Settecento
le artiste erano più numerose. A questa data le aspiranti artiste
non sono ancora mmesse che ai corsi magistrali e alla biblioteca.
Nel 1902 è fondato il primo atelier femminile (non era possibile
che studenti e studentesse fossero insieme e in particolare non
erano ammesse le donne alle sedute di nudo maschile). Il primo
Prix de Rome femminile data al 1911 (la scultrice Lucienne
Heuvelmans) questi cambiamenti avranno conseguenze importanti
: le donne che dipingono o scolpiscono non saranno più guardate
come dilettanti, ma come professioniste.
Le pioniere
Se in Italia le donne artiste erano ancora delle “dilettanti”,
in Inghilterra e soprattutto in Francia l’integrazione delle
donne nelle scuole d’arte risulta da una modificazione
dello statuto delle donne alle quali la società riconosce
sempre maggiore autonomia e capacità: è questa
evoluzione che portò in Francia alla legge Camille Sée
sulla creazione dei licei femminili nel 1887. Molto in
anticipo sull’Italia… Di fatto dall’ultimo terzo del XIX
secolo, un numero sempre maggiore di donne si fanno un
nome nel campo dell’arte, grazie alla forza delle loro
opere. Le più conosciute sono la pittrice realista Rosa
Bonheur (1822-1899), le impressioniste Berthe Morisot e
Mary Cassat (1844-1926) e la scultrice Camille Claudel
(1864-1943).
Rosa Bonheur
.
Forti limitazioni

Per queste professioniste il problema è frontale:
devono scegliere tra le norme del matrimonio e
un percorso che privilegia la loro carriera. Alcuni
destini si spiegano con una situazione familiare
che viene a sostenere una scelta sessuale
atipica: Rosa Bonheur, prima donna artista a
ricevere la Légion d’honneur, è la figlia di un
pittore che la incoraggia. Omosessuale, non si
preoccupa del matrimonio.
Camille Claudel, L'Età matura
1902 circa
Gruppo in bronzo composto da tre
elementi, 114 x 163 x 72 cm
Parigi, museo d'Orsay
 Ma Camille Claudel, preoccupata di essere riconosciuta
 come uno scultore autonomo, rompe la sua relazione
 con Rodin, vale a dire che si obbliga a un isolamento
 che la condurrà al manicomio. Altre donne adottano
 una strategia vicina a quella delle pittrici del XVIII
 secolo : scelgono soggetti «femminili».
 Dopo la rottura tra Camille Claudel e Rodin,
 quest'ultimo cercò di aiutare la donna un tempo amata
 per interposta persona ed ottenne una commissione
 statale dal direttore delle Belle-Arti. L'Età matura fu
 commissionata nel 1895 ed esposta nel 1899 ma il
 bronzo non fu mai commissionato ed il gesso non fu
 mai consegnato da Camille Claudel. Finalmente, nel
 1902, il capitano Tissier commissionò il primo
 bronzo.

L'insieme evoca l'esitazione di Rodin
 combattuto tra la sua vecchia amante, che doveva
 avere la meglio e Camille che, nel tentativo di
 trattenere l'amato, si protende in avanti. Al di là della
 sua storia personale, la scultrice realizza un'opera
 simbolica che spinge a riflettere sui rapporti umani.
 Anche la Claudel vi prende parte assumendo le fattezze
 di un personaggio che l'artista stessa ribattezza
 L'implorante, sottolineando così il tragico attaccamento
 al suo destino.

L'uomo alla fine della sua maturità è
 vertiginosamente trascinato dall'età mentre, senza
 speranza, tende una mano alla giovinezza. Le figure
 nude sono avvolte da drappi svolazzanti che mettono
 ancora più in risalto la rapidità del cammino. Le grandi
 rette oblique si allontanano rapidamente. Paul Claudel
 così diceva: 
"Mia sorella Camille, implorante, umiliata,
 in ginocchio, lei così superba, così orgogliosa mentre
 ciò che si allontana dalla sua persona, in questo preciso
 momento, proprio sotto i vostri occhi, è la sua anima".
Berthe Morisot (1841-1895)
La culla, 1872
Olio su tela, 56 x 46 cm
Parigi, museo d'Orsay

    Berthe Morisot, ad esempio,
    discendente di Fragonard e cognata di
    Manet, dipinge principalmente donne
    e ragazzini (Le berceau, Parigi, musée
    d’Orsay).

    Berthe Morisot partecipa con La Culla
    alla mostra impressionista del 1874
    diventando di fatto la prima donna ad
    esporre le sue opere con il gruppo. Il
    quadro viene a malapena notato.
    Tuttavia, alcuni tra i principali critici ne
    colgono la grazia e l'eleganza. Dopo
    aver cercato invano di vendere il
    quadro, Berthe Morisot non lo
    mostrerà più in pubblico e l'opera sarà
    conservata dalla famiglia di Edma fino
    alla sua acquisizione da parte del
    museo del Louvre nel 1930.
Mary Cassatt (1844-1926)
Giovane donna in giardino
1880-1882
Olio su tela, 92 x 65 cm
L’americana Mary Cassat, che conduce la sua
carriera in Francia, fa la stessa cosa, che
potrebbe sembrare una scelta singolare non
essendo mai stata né madre né moglie.
Una tavolozza chiara e vivace caratterizza
l'opera di Mary Cassatt, pittrice americana che
introdusse l'impressionismo presso i cultori e i
collezionisti d'oltreoceano. Grande amica di
Degas, partecipò alle esposizioni del gruppo
impressionista a partire dal 1879.

I ritratti dei
suoi cari, il più delle volte donne e bambini
raffigurati nell'intimità della loro vita
quotidiana, sono molto frequenti nella sua
opera. Questo è il caso Giovane donna in
giardino, chiamata anche Donna che cuce che
contiene una novità rispetto alle altre opere: la
figura è infatti raffigurata en plein air. La tela fu
mostrata al pubblico durante l'ultima
esposizione del gruppo, nel 1886. Lo sfondo,
sontuosamente colorato, è strutturato da un
vialetto, ampia striscia diagonale che
determina uno sfondo. Tutto questo
contribuisce a valorizzare la rappresentazione
della giovane donna, solenne in un primo
piano ravvicinato. La pennellata veloce e
accennata come nel caso della gonna,
contrasta con il contorno netto e deciso del
viso e del busto a riprova che l'artista non
rinuncia affatto alla precisione del disegno.
Donne e fotografia
Il problema di essere artista e donna in una società dome quella del XIX secolo,
è legato alla doppia questione della formazione e della condizione sociale.
L’arrivo di un nuovo mezzo e forse uno dei mezzi che hanno permesso il passo
avanti delle donne. Alla fine del XIX secolo e all’inizio del XX, la maniera di cui
esse si sono appropirate della fotografia è notevole: è che nell’ambiente
borghese più evoluto, si offre alle ragazzine come ai maschi una macchina
fotografica. Questa macchina, utilizzata all’inizio per immortalare i parenti,
diviene lo strumento possibile di una esplorazione del mondo: l’universo dei
vegetali nel XIX secolo con Ana Atkins; i ritratti con Julia Margaret Cameron
(1815-1879) venute tardi alla fotografia e vicine alla corrente preraffaellita. Poi
Gertrude Käsebier che seppe fotografare in particolare gli indiani e più tardi
Dorothea Lange, fotografa della povertà. Il passaggio all’atto fotografico
avviene anche per un’altra via: modelle si iniziano alla pratica fotografica e
diventano esse stesse fotografe. Nella fotografia di moda degli ultimi anni del
Novecento è il caso ad esempio di Alberta Tiburzi. Ma per tornare al passato,
tale fu la storia dell’americana Lee Miller (1907-1977), in un primo tempo musa
ispiratrice di Man Ray, poi fotografa di moda e finalmente corrispondente di
guerra in Germania nel 1944-1945.
Ana Atkins
Nata il 16 marzo del 1799 a Tonbridge
nel Kent, Anna Atkins, è considerata la
prima persona ad aver pubblicato un
libro illustrato: una pioniera, per molti
versi, botanica e fotografa.
La stessa Anna era, in un certo senso,
figlia d'arte: I suoi primi lavori
scientifici furono di aiuto e supporto
all'attività di ricerca del padre, in
particolare le 250 illustrazioni
realizzate per l'edizione curata dal
padre del trattato di Lamarck Genera
of Shells. E una delle prime donne a
interessarsi di fotografia
Julia Margaret Cameron,
The Kiss of Peace
V. Giovanna Bertelli,
http://www.enciclopediadelledonne.it
/index.php?azione=pagina&id=17
Gertrude Kasebier,
Ritratto del fotografo
Dorothea Lange
Dopo aver frequentato la
Columbia University di New
York con Clarence H. White,
dal 1917 al 1919 Dorothea
Lange lavora inizialmente
come fotografa freelance a
San Francisco.
sconcertata dal numero di
persone senza tetto e in cerca
di un lavoro durante gli anni
della depressione, decide di
ritrarre l'uomo della strada
per attirare l'attenzione sulla
sua miseria mediante le sue
fotografie.
Dorothea Lange, , Migrant
Mother, 1936
Nel 1935, entra al servizio della Farm
Security Administration (FSA) e realizza
un reportage sulle condizioni di vita
nelle zone rurali degli USA.
Documenta in modo spietato la
dolorosa povertà dei lavoratori e delle
loro famiglie che si spostano di luogo
in luogo in cerca di lavoro.
Con le sue fotografie Dorothea Lange documenta non solo l'avvilimento e
la disperazione, ma coglie al tempo stesso anche l'orgoglio e la dignità
con cui queste persone sopportano il proprio destino.
Lee Miller
Lee Miller fotografata da
Man Ray
Lee Miller,. Nata a Poughkeepsie (New
York), inizia la sua carriera negli anni
Venti come modella di alcuni tra i più
grandi fotografi dell'epoca come
Edward Steichen. Dopo essersi
trasferita a Parigi nel 1929, apre uno
studio diventando una famosa
ritrattista e fotografa di moda, ma la
sua produzione preferita resta quella
ispirata alla corrente surrealista, grazie
anche ai contatti intrattenuti con quel
mondo tramite la collaborazione con
Man Ray, con il quale intreccia una
relazione. Nel 1932 torna a New York,
per spostarsi due anni dopo in Egitto,
al Cairo
Lee Miller inviata di guerra
Numerosi inviati di guerra da ogni parte del
mondo si uniscono alle truppe per
consegnare alla storia i momenti decisivi
della lunga marcia di avvicinamento a
Berlino; tra questi Lee Miller: nel 1939
,trasferitasi a Londra, lavora come
freelance per la rivista Vogue, per
diventare poi nel 1942 corrispondente
accreditata dell'esercito degli Stati Uniti: fu
probabilmente l'unica donna a lavorare a
fianco delle truppe americane come
fotografa di guerra. Le sue immagini
documentano alcuni dei momenti salienti
dell'avanzata, quali l'assedio di Saint-Malo,
la liberazione di Parigi, i combattimenti in
Lussemburgo e in Alsazia, l'incontro tra le
truppe sovietice e statunitensi a Torgau, la
liberazione di Buchenwald e Dachau.
Giovanna Bertelli, Lee Miller, in
Lee Miller ha occupato, negli ambiti che ha attraversato, posizioni per
così dire opposte: tanto da essere allo stesso tempo protagonista di
primo piano e personaggio defilato del suo tempo, esaltata e allo
stesso tempo celata da chi lavorava con lei, modella e fotografa.
Nasce
a Poughkeepsie, nello stato di New York, in una famiglia borghese; il
padre, inventore, ha un interesse particolare per la fotografia e ben
presto sceglie la figlia come modella per i suoi scatti, oltre ad
introdurla ai segreti della ripresa e del laboratorio.
A soli 7 anni
subisce uno stupro da parte di un amico di famiglia. 
A 19 anni,
attraversando una via di New York, Condé Nast in persona, il fondatore
del colosso editoriale proprietario di «Vogue» e «Vanity Fair», nota la
sua bellezza e frena l'automobile su cui viaggia. Lee Miller diventa una
fotomodella di «Vogue». È fotografata da Edward Steichen, il più noto
ritrattista del tempo e fotografo capo di «Vogue» e «Vanity Fair», da
Heunyngen-Heune e Arnold Genthe. Il volto di Lee si affaccia dalle
copertine delle riviste per signore. È tra le più famose ed apprezzate
fotomodelle, la sua bellezza non passa inosservata.
..
Nel 1928 è coinvolta in uno scandalo commerciale: un suo ritratto a
figura intera, scattato da Steichen, è utilizzato per una pubblicità di
assorbenti femminili. È la prima volta che l'immagine di una donna è
associata ad un prodotto così intimo e le proteste non passano
inosservate. Neanche Lee inizialmente approverà la scelta di Steichen,
ma poi si ricrederà andando fiera di aver contribuito ad abbattere un
tabù tra i più radicati nella società.
Nel 1929 si trasferisce in Europa: a
Roma e Firenze studia l'arte e la sua storia, a Parigi è modella per la
redazione di «Vogue» Francia e vive nella città culturalmente più
vivace di quegli anni. Frequenta il mondo della moda e degli artisti; è
fotografata e fotografa lei stessa. Ha un proprio studio, partecipa a
mostre, posa come fotomodella per Man Ray e ben presto diventa la
sua musa, la sua assistente, la sua amante. È con Lee Miller che Man
Ray sperimenta e mette a punto il processo di solarizzazione della
stampa fotografica; lo aiuta posando per lui e assistendolo in
laboratorio. Si pensa che diverse delle solarizzazioni firmate Man Ray
siano state effettivamente realizzate da Lee. Nel frattempo conosce
Aziz Eloui Bey, un ricco egiziano.
…
La relazione con Man Ray si interrompe nel 1932. Lee torna a
New York ed apre un suo studio. 
Ritrattista di grande
successo, nel 1934 decide di chiudere l’atelier per sposarsi con
Aziz Eloui Bey, e si trasferisce a Il Cairo; fotografa il deserto e
le rovine dell’antico Egitto in uno stile fotografico che alterna
fotogiornalismo e suggestioni accademiche. Durante un
viaggio a Parigi nel 1937 conosce Roland Penrose. Iniziano a
lavorare insieme in Grecia e Romania e il sodalizio diventa
anche una relazione d’amore. Nel 1939 Lee lascia l'Egitto e si
trasferisce a Londra poco prima dello scoppio della seconda
guerra mondiale.
Malgrado gli inviti del governo americano a
rientrare in patria Miller decide di restare a Londra con
Penrose; riesce ad essere accreditata da «Vogue» come
corrispondente di guerra. Inizia per lei una nuova epoca.
….
Lei e Margaret Bourke-White, anche se non lavoreranno mai insieme, saranno le
uniche donne accreditate presso l'esercito degli Stati Uniti come corrispondenti di
guerra. Lee Miller non avrà la temerarietà e le ambizioni di Margaret, ma restituirà
un’altra prospettiva femminile del fronte di guerra. Se fino al 1944 fotograferà
Londra, le incursioni e i bombardamenti sull'Inghilterra del sud, dopo lo sbarco in
Normandia arriverà in Francia e seguirà le truppe nell'avanzata verso Parigi e Berlino.
La battaglia di St. Malo, l' Alsazia, l'incontro a Turgau tra americani e russi.
Fotograferà Monaco, Vienna, l'Ungheria. Lavorerà in team con David Scherman,
fotoreporter di «Life»: insieme affronteranno battaglie e liberazioni. Lee Miller
fotograferà l'entrata degli Alleati nel campo di Dachau e sarà fotografata da
Scherman mentre si lava nella vasca del bagno privato di Hitler.
La guerra sarà
un'esperienza che la segnerà pesantemente. Continuerà a fotografare ancora per un
paio di anni per «Vogue», ma la depressione post bellica e l'alcool pare abbiano la
meglio sulla sua volontà. Sarà con l'aiuto di Penrose e dei vecchi amici surrealisti,
primi tra tutti Man Ray, che riuscirà ad uscirne. Nel 1947, in attesa di un figlio,
divorzia da Aziz Eloui e sposa Penrose. Con lui pubblicherà le biografie di Picasso,
Mirò, Tapies, Man Ray, tutte corredate da sue fotografie. Continua a fotografare e
scrivere per «Vogue»: ritratti, arte, moda. Nel 1955 sarà chiamata da Steichen per la
mostra collettiva The Family of Man.
Il suo ricordo rimarrà per sempre legato agli
anni della sua gioventù, quando era tra le più belle e apprezzate fotomodelle. Nel
1977 morirà a Farley Farm House, nel Sussex, nella casa comprata con Penrose nel
1949, meta e punto di riferimento per tanti artisti.
Margaret Bourke-White
New York 1904 - Darine 1971
Tina Modotti
.
..
Gerta Pohorylle detta Gerda Taro
Stoccarda 1911 - Brunete (Spagna) 1937
Wanda Wulz
                                             Trieste 1903 - 1984

Wanda Wulz nasce a Trieste nel 1903, quando la città
è centro dell'irredentismo italiano e della cultura
internazionale, punto nevralgico per l'impero
austroungarico di cui è il maggiore porto e sbocco sul
mare. 
Nipote del fotografo Giuseppe (1843-1918) e
figlia del fotografo Carlo (1874-1928) inevitabilmente
viene indirizzata a proseguire l'attività di
famiglia.
Wanda e la sorella Marion lavorano
inizialmente con il padre, sia come fotografe sia come
modelle, e alla morte di lui nel 1928 diventano le
titolari dello studio continuando la tradizione del
ritratto, delle vedute della città, dei servizi
commissionati da opifici e cantieri.
Fotograferanno
ininterrottamente fino al 1981, quando cessano
l'attività e cedono il loro archivio alla Fratelli Alinari.

Wanda è l'unica della famiglia che accanto alla
consueta attività di atelier e stabilimento cerca una
propria chiave di lettura e interpretazione della realtà
e della fotografia.
Lucy Renée Mathilde Schwob detta Claude Cahun
Nantes 1894 - Parigi 1954
Diane Arbus
New York 1923 - 1971

Diane Nemerov Arbus è tra le
fotografe più significative e conosciute
del ventesimo secolo. La sua vita
attraversa le grandi trasformazioni
della società occidentale avvenute fra
la seconda guerra mondiale e gli anni
Sessanta. Padre e madre, David
Nemerov e Gertrude Russek, erano di
origini russe e avevano un noto ed
elegante negozio di abbigliamento
femminile e pellicce sulla Fifth Avenue,
Russek's, a pochi passi dalla boutique
dei coniugi Avedon, anch’essi genitori
di un talento della fotografia.
Letizia Battaglia
Palermo 1938 - vivente
«Mi prendo il mondo ovunque sia», è il
marchio di qualità di Letizia Battaglia,
la più nota fotografa di mafia:
settantenne, siciliana, nel suo rifugio
nel centro storico di Palermo tra
immagini che l’hanno resa famosa, la
prima donna europea insignita a New
York del Premio “Eugene Smith”, il
celebre fotografo di «Life» (1985). In
quarant’anni di lavoro con la Leica M2,
sempre nel bianco e nero nitido e
crudele – «il digitale mi fa paura, il
colore non m’interessa» – ha
documentato quel mondo, ovunque
fosse, che faceva e fa paura: potere
criminale, prepotenza e corruzione,
sangue. Nella sua Sicilia, ma non
soltanto.
Marielle Hadengue detta Sarah Moon
  Parigi 1941 – vivente
Modella a Londra, sul finire degli anni 1960,
preso il nome d'arte Sarah Moon, decide di
passare dall'altra parte dell'obiettivo: inizia
la sua vita di fotografa, pur rimanendo
strettamente legata all'ambito della moda.

Anche se affascinata dalla fotografia di Guy
Bourdin, specialmente per le situazioni
narrative che il francese riesce ad allestire,
sceglie come riferimento una fotografia
d'altri tempi: i nudi fotografati da Eugene
Durieu per Delacroix, i ritratti evanescenti di
Julia Margareth Cameron, il pittorialismo
del XIX secolo, l'immagine della donna
codificata dal barone Adolf De Meyer,
considerato il primo fotografo di moda, fino
alla fotografia espressionista tedesca degli
anni Trenta. 
Sarah Moon sceglie di dare
della donna una visione irraggiungibile,
fantasmatica, supernaturale e postmoderna
per le reminiscenze di cui è portatrice,
spesso non perfettamente definita nei
contorni: come una instabile presenza di
memoria.
..
I suoi temi ricorrenti sono il ricordo, la nostalgia dell'infanzia, la morte come distacco e distanza, la femminilità più
profonda e la solitudine. Le sue fotografie sono vere e proprie visioni, anche se costruite in studio. 
Colloca le sue
fantasie in uno spazio-tempo irreale, quasi volesse annullare la realtà di ciò che ha di fronte per ricrearla in una zona
d'ombra senza confini.
.


Tecnicamente ottiene tutto questo con il flou, le pose lunghe o le doppie esposizioni, le sovraesposizioni che dilatano la
luce. 
La fotografia di Sarah Moon, così diversa dalla nuova fotografia di moda, orientata al mondo pop o optical, è
presto inconfondibile. 
Già nel 1967 realizza le campagne pubblicitarie del marchio Cacharel diventando l'interprete di
uno stile neoromantico e agreste. La sua visione fotografica infatti ben si presta alle declinazioni delle linee guida di
Cacharel e il sodalizio si protrarrà per diversi anni. Nel 1979 le sarà assegnato il Premio Lion d'or per i film pubblicitari
nell'ambito del Festival di Cannes proprio grazie a uno spot per Cacharel
Cindy Sherman

L’artista, che ostenta in maniera evidente la manipolazione esagerata del suo corpo, definisce il
proprio volto come “tela bianca su cui intervenire”, al fine di elaborare e mettere a nudo gli
stereotipi sociali diffusi dai media, rivelandone spesso la decadenza e quasi l’ “orrore” nei
lineamenti caricati e quasi grotteschi. La serie di “ritratti” in questione indaga il prototipo della
donna nel suo ruolo di moglie ricca e potente o di signora di mezza età dell’upper-class
americana. Le donne ritratte non corrispondono a modelli di persone realmente esistenti, né i
luoghi – come gli interni lussuosi, i palazzi nobiliari o i cortili rinascimentali – evocano delle
ambientazioni reali. Tutto rimanda all’iconografia tradizionale del ritratto di rappresentanza di
nobili mecenati o di personaggi dell’alta società: l’altera posa del corpo di tre quarti,
l’abbondanza di gioielli e di dettagli dell’abbigliamento e l’ambientazione dal forte valore
simbolico e sociale. Le protagoniste, tuttavia, si configurano come personaggi caricaturali che si
stagliano davanti a fondali volutamente posticci e digitalmente prodotti ottenendo un forte
effetto di kitsch e cattivo gusto. Dopo aver preso le sembianze dei soggetti che intende
interpretare e ritrarre, Cindy Sherman fotografa se stessa incarnando le varie tipologie di donne
stereotipate e ritraendosi in corrispondenti travestimenti e finti set ambientali attraverso
montaggi simili a quelli delle vecchie fotografie in costume. La modalità di montaggio usata
consente all’artista di mettere in evidenza l’artificiosità delle figure e di svelare le norme e le
convenzioni della rappresentazione pubblica, tramite cui le figure esprimono simbolicamente il
loro potere. Dietro la reiterata messa in scena di se stessa nei panni di uno stereotipo,
l’autentica personalità della persona ritratta sembra dissolversi: un tema di rilevanza non
inferiore rispetto alle questioni dell’artificiosità, della messa in scena e della manipolazione
digitale dell’immagine.
..
…

Cindy Sherman, una delle principali artiste e
fotografe americane, ha spesso basato il suo lavoro
sull’allestimento di set ambientali. La sua ricerca
artistica ruota intorno a temi e questioni legate
all’identità e alla manipolazione dell’immagine
femminile, come la rappresentazione del ruolo
sociale e culturale della donna e la questione del
rapporto tra il soggetto reale e la sua raffigurazione.
Le fotografie della Sherman che, con un senso
ironico e caricaturale hanno sempre per
protagonista la stessa artista, non sono tuttavia dei
semplici autoritratti.
….
.
nel 1989 con il ciclo
“ritratti storici e
antichi maestri” si
ricollega alla storia
dell’arte, incarnando
modelli immaginari
della storia della
pittura.
Le Untitled Film Stills sono una serie di 69 fotografie in bianco e nero di piccolo
formato nelle quali la Sherman si presenta come attrice sconosciuta in riprese che
evocano film stranieri, immagini di Hollywood, film di serie B, e film noir. Evita di
mettere i titoli alle immagini per preservare la loro ambiguità. Le opere sono state
spesso create nel suo appartamento, usando oggetti e costumi propri o presi in
prestito.
Le Untitled Film Stills sono raggruppate in serie distinte: Nei primi 6 le foto sono
sgranate e leggermente fuori fuoco (ad esempio, Untitled #4), e ciascuno dei ruoli
sembra essere svolto dalla stessa attrice bionda. Il gruppo successivo è stato fatto nel
1978 a casa della famiglia di Robert Longo sulla forcella a nord di Long Island. Sherman
tornò al suo appartamento, preferendo lavorare da casa. Ha creato la sua versione di
un personaggio Sophia Loren nel film La crociere(es Untitled Film Still #35). Ha preso
diverse fotografie delle scene mentre si prepara per il viaggio in Arizon a con i suoi
genitori.
Untitled Still Film #48(1979), è conosciuto anche come The Hitchhiker, è stato girato al
tramonto, una sera. Il resto della serie è stata girata nei dintorni di New York, come
Untitled #54. Nel dicembre 1995 il Museum of the Modern Art di New York, ha
acquistato tutte le 69 fotografie della serie Unititled Film Stills per una cifra stimata di
un milione di dollari. Nel ciclo “A Play of Selves” lavora (richiamando lo stile di
Duchamp) sul cambiamento di identità e sull’ analisi delle definizioni dell’apparenza e
del genere dettate dai fotografi. Compare sola nelle sue fotografie, giocando con
travestimenti, amatorialità e ricerca di sé stessi intesi come diverse entità, rimandando
alla fragilità dell’ io di fronte ai meccanismi di identificazione e di riconoscimento
sociale. Nel 1975 con il ciclo “Untitled A B C D” lavora sul proprio viso come tela,
utilizzando trucco e accessori per assumere connotati diversi. La sua non è un’indagine
su se stessa come quella portata avanti da Francesca Woodman, ma un lavoro
sull’identità in generale.
Parla di sé stessa con distacco e lavorando su gli stereotipi e sui modelli. Si pensi al ciclo
“Bus Rider”, in cui la Sherman reinterpreta con il gioco dei travestimenti le diverse
tipologie di persone intente ad aspettare l’autobus, o al ciclo”Hollywood”, in cui lavora sui
cosiddetti falliti, quegli individui cioè che hanno mancato il sogno americano; questo
lavoro comprende quindi anche una riflessione sul patetico dei sogni che non si riescono
a realizzare. Lavoro molto importante è “Untitled film stills” in cui la Sherman ricrea dei
fotogrammi cinematografici, mettendo in scena un’azione o uno stereotipo femminile del
cinema americano. Nel 1980 presenta “Rear Screen Projection” in cui si fotografa su vari
sfondi proiettati alle sue spalle, usati anche come fonte luminosa per lo scatto. La
Sherman lavora anche nel campo della moda, collaborando nel 1983 con la rivista
Interview, Marc Jacobs, e Jurgen Teller; riprende poi il mondo della moda nel ciclo
“Centerfold/Horizontals”, in cui reinterpreta delle pagine pubblicitarie, mettendole in
scena. Dal 1985 con il ciclo “Fairytales”, e “Disasters” la Sherman introduce nel suo lavoro
un nuovo elemento, che diventerà poi quasi una costante: i manichini; inizialmente usati
per richiamare in maniera grottesca il mondo dei giocattoli, saranno i protagonisti nel
ciclo “Sex pictures”, in cui vengono scomposti e utilizzati per reinterpretare scene hard.
Nan Goldin

Nata nel 1953 a Washington Nan Goldin si trasferisce nella Grande Mela nel
1978. Dai party selvaggi degli anni ’80 e ’90 in una esuberante New York, fino
all’impatto devastante dell’AIDS: combinando riprese video e fotografie,
emergono con una sincerità e un’umanità sorprendenti i racconti e le
interviste degli amici più intimi dell’artista, le cui esperienze vengono rivelate
su pezzi di The Velvet Underground, Patti Smith, Television e Eartha Kitt.
David, che per primo la soprannominò Nan introducendola ai drag clubs,
Sharon, che accudì la sua migliore amica Cookie nelle fasi terminali dell’AIDS,
Bruce e il suo racconto di lotta con la sieropositività: I’ll be your mirror (titolo
preso in prestito dal brano di Lou Reed) come un diario riprende le loro vite
immergendole nei colori tenui che contraddistinguono il lavoro della Goldin,
tramutandole in tappe di un lungo e doloroso viaggio. Negli ultimi anni, Nan
Goldin ha rivolto il proprio occhio ad altre culture alternative o “irregolari”,
come il mondo della prostituzione nelle Filippine o i giovani protagonisti della
ventata di liberazione sessuale in Giappone forse ricercando, in senso lato, i
perduti compagni di strada.
L’invenzione del «pubblico»

   Se i modi di formazione, di vita e di posizione sociale
   dell’artista si trasformano a partire dal XIX secolo, le
 condizioni di acquisizione delle opere non si modifica. Il
collezionista prende il posto del mecenate e all’amatore si
sostituisce lo spettatore, visitatore occasionale dei luoghi
   dove sono esposte opere del passato e del presente.
Nuovi attori in scena: i collezionisti
L’esistenza ormai stabilizzata di un mercato dell’arte fa
sparire o quasi la figura del committente: eccezion fatta nel
contesto dei concorsi pubblici che riguardano la scultura
monumentale o i grandi decori murali (si veda ad esempio a
Roma l’Altare della Patria), diventa sempre più raro che un
mecenate commissioni un’opera particolare precisando le
condizioni di realizzazione (v. Baxandall si Picasso e su Piero
della Francesca). Molto più spesso, gli amatori che vogliono
acquistare opere scelgono tra quadri che pittori, scultori,
fotografi, etc, hanno prodotto senza nessuna condizione.
Questi amatori non si recano più neanche all’atelier
dell’artista, ma a un intermediario, il mercante o il gallerista
che già ha anche comprato una parte della produzione
dell’artista o che divide con lui i benefici delle vendite.
Ancora altri attori in scena: gli spettatori


La nozione di amatore stessa tende d’altra parte a sparire
nel corso del XIX secolo. Suppone una conoscenza (per
questo si parla anche di «connaisseurs» che è lo specifico
di alcuni spiriti che manifestano una predilezione
permanente per le arti e che sono spesso usciti da
ambienti colti e agiati. A partire dagli anni 1800, un
processo di democratizzazione investe il rapporto con le
opere d’arte. Lo «spettatore», del quale l’origine sociale è
diversa, fa la sua apparizione. Si tratta nel XIX secolo del
visitatore dei Salons, delle Esposizioni internazionali o
altre manifestazioni temporanee, e dei musei, il cui
sviluppo comincia in questo momento e si accelera nel XX
secolo.
La nascita dei musei
Se in Italia la storia dei musei pubblici comincia con i papi, in Francia,
più all’avanguardia, comincia con la Rivoluzione. Alexandre Lenoir apre
nel 1795 a Parigi il Musée des monuments français: una istituzione
destinata a raccogliere gli oggetti strappati ai monumenti venduti
come «biens nationaux» e che altrimenti sarebbero stati vandalizzati.
La confisca di opere d’arte nell’ Europa conquistata dalle armate
rivoluzionarie e imperiali va ad arricchire tra il 1794 e il 1815 ciò che si
chiama ancora il nuovo Muséum (Louvre) e a partire dal Consolato
(1799-1804) nelle istituzioni equivalenti create progressivamente le
opere confiscate ai paesi conquistati. Oppure venivano esposte
suqualche monumento, come ad esempio i cavalli della basilica di san
Marco a Venezia che erano andati a finire sopra all’arc de triomphe del
Carrousel.
Se da una parte Quatremère de Quincy, uno dei padri della tutela,
denuncia come una idiozia il fatto di togliere questi pezzi dai luoghi per
i quali son stati creati per situarli o meglio immagazzinarli in luoghi
privi di anima, allo stesso tempo comincia l’era dei musei e il
ragionamento sull’essenza del museo stesso.
Se la prende un po’ con tutte le categorie Charles Saatchi, nell’articolo uscito
ieri(3.12.2011) sul Guardian. Con i collezionisti, in primis, accusati di essere tanto ricchi
quanto ignoranti, interessati all’arte solo come mezzo di affermazione sociale. Con i
curatori, che definisce “insicuri” e inadeguati, bravi soltanto ad esporre “installazioni
post-concettuali incomprensibili” destinate a essere apprezzate solo dai loro colleghi
“ugualmente insicuri”.
E naturalmente anche con i dealer, i critici e persino con un certo
tipo di pubblico, quello che non si perde nemmeno un opening ma poi non guarda i
lavori in mostra e pensa solo a bere e chiacchierare. Insomma, ce n’è davvero per tutti in
questo breve ma densissimo pamphlet affidato alle pagine del più letto quotidiano
britannico. E Saatchi, che evidentemente si rende ben conto che molti reagiranno alla
sua tirata con un lapidario “da che pulpito”, ci tiene a precisare: “Fino a poco tempo fa
credevo che qualsiasi cosa potesse allargare l’interesse nell’arte contemporanea dovesse
essere la benvenuta; soltanto uno snob elitista vorrebbe vederla confinata all’attenzione
di pochi aficionados all’altezza. Ma persino un narciso egoista e spaccone come me trova
questo nuovo mondo dell’arte profondamente imbarazzante”.
- Valentina Tanni
Hubert Robert, Progetto per la
Grande Galerie del Louvre nel
1796, olio su tela, 112 x 143 cm,
Parigi, musée du Louvre

   Il museo del Louvre, ancora oggi una
   delle più importanti istituzionimuseali
   del mondo è l’erede del Muséum
   centrale delle arti, fondato nel 1793 e
   diventato, sotto l’Impero, Museo
   Napoleone (direction de Dominique
   Vivant Denon). La fondazone era stata
   preceduta prima della Rivoluzione,
   dall’esposizione dei più bei quadri
   della collezione reale, collocata al
   palazzo di Luxembourg tra il 1750 e il
   1785. Il musée du Louvre ha dalle
   origini una vocazione universale :
   illustrare le arti sin dall’antichità senza
   limitazione di luoghi. Oggi le collezioni
   si fermano al XIX secolo.
I mecenati del Moma davanti
alle Demoiselles d’Avignon di
Picasso appena comprato dal
museo , 1939
Il MoMA (Museum of Modern Art) è il
primo museo consacrato all’arte che non
sia del passato, ma alla creazione recente
e contemporanea. Che una simile
istituzione sia nata in America non deve
stupire : un mondo recente dove la
fiducia nel presente e nel futuro sono
l’elemento di coesione nazionale. L’altra
caratteristica del MoMA è che si ratta di
un’iniziativa sostenuta da privati
paradossalmente (fu inaugurato nel 29,
qalche giorno dopo il krack di Wall
Street). La sua fondazione è dovuta alla
donazione più che importante del
miliardario americano John D, Rockefeller
jr, del quale la famiglia rimase per molto
tempo al disetino del museo. Sotto la
prima direzione di Alfred J. Barr, il MoMA,
le cui collezioni aumentano rapidamente,
incontra un grande successo di pubblico.
Si impose subito come una vetta dei
luoghi artistici del mondo.
Una sala del dipartimento di arti
africane, d’oceania e d’America,
ala Michael Rockefeller,
Metropolitan Museum of Art,
New York

   La legittimità dell’ingresso di oggetti
   «primitivi» nei musei detti di belle arti
   ha sempre trovato resistenze. Negli
   Stati Uniti, il giro di boa si ha nel 1969,
   quando il mecenate Nelson Rockefeller
   offre al Met la collezione che a
   costituito il cosidetto Museo di arti
   primitive : 3300 pezzi africani,
   americani e di oceania. L’ala dove si
   trova il dipartimento porta il nome del
   figlio del mecenate, morto durante
   una spedizione in Nuova Guinea nel
   1961
Parigi, musée du Quai
Branly, 2006.



. In Europa il riconoscimento delle
opere «primitive» è più tarda. Si pensi
che a Parigi l’entrata di questi oggetti
al Louvre, scrigno del gusto del passato
occidentale, provoca negli anni 1990
una polemica che poi ha portato
all’apertura di un nuovo museo
specifico, il musée del Quai Branly
(2006).
Giuseppe Bazzani, La Galleria
Nazionale d’Arte Moderna,
1908-1911, (ampliamento del
1933-1934), Roma,
Se la ragione d’essere del museo è
nelle opere che conserva, l’architettura
che ospita le collezioni fa anche la sua
reputazione, Nel XIX secolo, lo stile
«Beaux-arts» è giudicato il più
naturalmente adeguato : i musei sono
in pietra con decorazioni neogreche
(quello di Philadelphia ha una facciata
a colonne e frontone policromi) o
eclettici (citazioni miste).
Frank Lloyd Wright, Salomon R Guggenheim Museum, 1943,
Marcel Brauer, Withney Museum, 1966
Renzo Piano e Richard
Rogers, Centre Pompidou,
Parigi, 1977
Nel XX secolo, dopo gli avvenimenti
architettonici che costituiscono i musei
Guggenheim di Franck Lloyd Wright e
Withney Museum a New York , la
struttura a tubolari colorati del Centre
Georges Pompidou a Parigi (Musée
national d’art moderne) opera di Piano
e Rogersm fa scandalo negli anni 1970
perché collocata nel cuore dle centro
storico di Parigi e conosce un grande
successo di curiosità che non
diminuisce in seguito.
FrancK o Gehry, il Museo
Guggenheim a Bilbao,
1997

A Bilbao, venti anni più tardi,
l’architetto Franck O. Gehry è
all’avanguardia con il Guggheneim.,
con forme ritorte, spazi interconnessi
rivestiti in titanio. La visita in questo
caso si fa al museo stesso quanto alle
opere che contiene.
Patrimonio
A partire dalla fine della sSeconda
Guerra mondiale, il fenomeno dei
visitatori si accresce
considerabilmente. Riguarda presto ciò
che si comincia a chiamare «pubblico».
Ereditato, come quello dei musei, dalla
Rivoluzione francese con uomini come
l’Abbé Grégoirein Francia che
difendono l’idea che i monumenti
delle scienze e delle arti sono il bene di
tutti i cittadini. Si sviluppa il concetto
di Patrimonio che appartiene alla
collettività e che conviene
salvaguardare, legittimando la
mobilitazione di istanze internazionali :
come l’Unesco (Nazioni unite per
l’educazione, scienza e cultura),
fondata nel 1945. Si tratta di
classificare le opere e disegnandole
come bene da salvaguardare e di
favorirne l’accesso al più gran numero.

Turisti ad Angkor Wat
«Industrie culturali»
Dalla fine degli anni 1940, analizzando
i primi effetti di questa politica,
sociologi e economisti inventano un
termine specifico, l’«industria
culturale» : l’espressione viene dalla
germania, teorizzata da Theodor
Adorno e Max Horkheimer, oggi
utilizzata soprattutto al plurale. Ma si
impiega anche il termine «cultura di
massa» per designare un fenomeno
che si accelera negli anni 1960 : con il
favore dello sviluppo dei piaceri, in
particolare il turismo, i siti
archeologici, i monumenti e le città
dette d’arte, i musei e le
manifestazioni temporanee (mostre),
integrano la sfera del commercio,
mentre il fatto di far accedere la massa
alla comprensione dei «prodotti
culturali», alimenta una nuova
funzione, che si chiama «mediazione».
Le grandi mostre : le origini



La storia delle manifestazioni culturali è parallela
a quella delle fiere commerciali internazionali e
dei raduni sportivi. Gli uni e gli altri nascono nel
XIX secolo e conoscono un notevole sviluppo
verso il volger del secolo (i primi giochi olimpici
datano al 1896).
Salons e mostre specializzate
Oltre ai Salons parigini, al loro apogeo alla fine del xIX secolo, l’esposizione specializzata italiana, la Biennale di
Venezia, data alla prima edizione al 1895. La prima esposizione d’arte contemporanea che abbia veramente contato
nella storia dell’arte è l’Armory Show di New York nel 1913, dove fu esposto il Nu descendant un escalier di Marcel
Duchamp.
Le Esposizioni Universali
Dalla fine del XIX secolo, le esposizioni
universali, che prendono milioni di
spettatori, comportano un settore
consacrato alle arti. Così la prima si
tiene nel 1851, a Londra, nel paese
dove è nata la rivoluzione industriale.
Mettere in valore delle realizzazioni
manifatturiere porta con se altri tipi di
dimostrazioni competitive : creazioni
architettoniche (Crystal Palace per la
prima edizione di Londra; la Torre Eiffel
nel 1889; il Grand e Petit Palais nel
1900) o urbanistiche : la metropolitana
nelle grandi città.
2013, anno di Biennale …

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  • 1. Storia dell’arte 2012/2013 Biennio specialistico : storia dell’arte contemporanea,
  • 2. La fotografia «artistica» Sperimentata da Nicéphore Niepce nel 1816 con il nome di «heliographie» (disegno solare), perfezionata nel 1829 da Daguerre (da cui la parola «dagherrotipo»), la fotografia nasce ufficialmente nel 1839 quando François Arago presenta il procedimento davanti agli accademici delle Scienze e delle Belle Arti. La scelta di questo doppio pubblico non è casuale: tecnica scientifica, la fotografia rientra anche nel campo dell’arte.
  • 3. Soggetti nobili Durante la seconda metà del XIX secolo, cioè ancora alle origini, i critici cercano di persuadere i fotografi a scegliere certi temi e una certa maniera di trattarli. Non devono contentarsi di presentare situazioni naturaliste, ma incarnare sentimenti elevati. Si chiede loro di essere fedeli e ispirati; si domanda di fare delle nature morte, scene di genere, ritratti in costume allegorico e composizioni che possano fare concorrenza al «gran genere»
  • 4. Henri Peach Robinson, Ultimo respiro, 1858, Bath, Royal Photographic Society In Inghilterra in particolare, alcuni fotografi realizzano allora dei racconti, veri «quadri viventi» risultanti dalla combinazione di diverse immagini, con lo scopo di formare una composizione edificante per il pubblico. Oscar Gustave Rejlander e Henri Peach Robinson sono i rappresentanti di questa tendenza negli anni 1860. Questa immagine, forse la più famosa di Peach Robinson, è costruita con cinque diversi negativi. .
  • 5. When the day’s Work is done, 1895, Edinbourg Photographic Society
  • 6. The Lady of Shalott by Henry Peach Robinson (1830-1901). 1861. Albumen print from two negatives, 30.4 x 50.8 cm.). The Harry Ransom Humanities Research Center, University of Texas (ace. no.964:057:068) Helmut Gernscheim Collection. Fu il fondatore del circolo fotografico "Linked Ring", ed un membro della Compagnia d'Onore della Royal Photographic. Henry Peach Robinson (1830-1901) fu certamente il più noto ed importante dei pittorialisti; non solo per il suo enorme contributo fotografico, ma anche per i numerosi saggi che teorizzavano la riqualificazione della fotografia in senso artistico
  • 7. John Everett Millais, Ophelia, 1852
  • 8. Le sue fotografie sono di evidente derivazione pittorica, al punto che addirittura, nel 1856, finì in tribunale con l'accusa di avere plagiato il dipinto del preraffaelita Henry Wallis. Le sue composizioni erano frutto di un complesso e maniacale lavoro. Le sue opere più belle sono state realizzate tramite il fotomontaggio manuale di diversi negativi su un unica stampa positiva. Si partiva da un disegno iniziale su cui venivano in seguito applicate, grazie al fotomontaggio, le immagini fotografiche vere e proprie. Il fotomontaggio aveva, anche, il compito di eliminare le perdite di nitidezza ai bordi dovute agli obiettivi del tempo. Fotografando le figure centralmente e mettendole poi insieme mediante fotomontaggio si poteva godere di una nitidezza ineguagliabile su tutta l'area dell'immagine. Di seguito si passava ad un puntiglioso lavoro di rifinitura,con tinta e pennello, per suavizzare le piccole imprecisioni della composizione.
  • 9. Peter Henri Emerson, Cantley: Wherries Waiting for the Turn of the Tide, c. 1884 Altri fotografi, anche loro incapaci di pensare la loro arte indipendentemente dalla pittura, sono più vicini alle correnti moderne: realismo e impressionismo. Il fotografo e teorico Peter Henry Emerson, nella sua opera Naturalistic Photography (1889) afferma che la fotografia ha come primo compito quello di fissare la natura – ciò che fa lui stesso, per una decina d’anni, alla metà del decennio 1880, nella zona paludosa dell’East Anglia.
  • 10. L’artista fotografo Dagli inizi degli anni 1850, Delacroix fa realizzare foto di uomini e donne nudi che interpreta a disegno: dopo questo procedimento si generalizza e negli anni 1870- 1880 gli artisti cominciano a lavorare con uno o più fotografi che eseguono per loro una o più prese da punti di vista diversi. Da un punto di vista pratico fa risparmiare sulle ore di posa del modello. Alcuni fotografi, poi concepiscono il loro rapporto con l’arte in termini molto stretti e dalla metà del XIX secolo cominciano a diffondere riproduzioni di grandi capolavori. E questo è un campo che si svilupperà particolarmente in Italia, soprattutto a Firenze con gli Alinari, ma anche a Roma e in Provincia..
  • 12.
  • 13. Eugene Durieu and Eugene Delacroix, Draped Model (back view), ca. 1854. Albumen print, 7 5/16” x 5 1/8”. J. Paul Getty Museum, Los Angeles. Nudo maschile, 1860.
  • 14.
  • 15. Nadar Félix Tournachon già illustratore e caricaturista, diventa celebre con questo pseudonimo quando si installa in un piccola atelier vicino alla stazione Saint-Lazare. Divenuto celebre inaugura un grande studio vicino all’Opéra e diventerà il fotografo alla moda.
  • 16. . • “La teoria fotografica si impara in un’ora; le prime nozioni pratiche in un giorno [...] quello che non si impara [...] è il senso della luce [...] è la valutazione artistica degli effetti prodotti dalle luci diverse e combinate [...] quello che s’impara ancora meno, è l’intelligenza morale del tuo soggetto, è quell’intuizione che ti mette in comunicazione col modello, te lo fa giudicare, ti guida verso le sue abitudini, le sue idee, il suo carattere, e ti permette di ottenere, non già banalmente e a caso, una riproduzione plastica qualsiasi, alla portata dell’ultimo inserviente di laboratorio, bensì la somiglianza più familiare e più favorevole, la somiglianza intima.” (Nadar)
  • 17. . “Non esiste la fotografia artistica. Nella fotografia esistono, come in tutte le cose, delle persone che sanno vedere e altre che non sanno nemmeno guardare.” (Nadar) In questa foto è ritratto Charles Baudelaire, che non riconobbe mai valore artistico alla fotografia.
  • 18. . Gaspar-Fèlix Tournachon, che cominciò a farsi chiamare Nadar nel 1838, iniziò la sua carriera artistica come critico teatrale, giornalista e caricaturista. Le sue prime fotografie risalgono al 1853: si affinò in quest’arte attraverso i numerosi ritratti che fece agli amici, personaggi celebri della sua epoca, quali Baudelaire, Doré, Rossini, Champfleury, Delacroix, Berlioz.
  • 19. . La sua innata curiosità verso l’umana natura, affinata dalla passata esperienza di caricaturista, lo portò a dei risultati mirabili e sorprendenti nei suoi ritratti fotografici, per l’indubbia capacità dimostrata nel penetrare la personalità celata sotto il velo dell’apparenza. Egli riuscì, in questo modo, ad elevare la fotografia al rango di vera e propria opera d’arte.
  • 20. . Nel corso del 1864, in una data imprecisata, la giovane Sarah Bernardt si fece fare un ritratto da Nadar. Nel 1864 la Bernhardt ha vent’anni ed è agli inizi della sua promettente carriera, fa parte della Comèdie- Francaise, ed ha al suo attivo ruoli nelle commedie di Racine e Molière. Fino al momento del ritratto di Nadar, però, l’attrice era nota più per i suoi scandali ed atteggiamenti stravaganti che per le sue doti di interprete teatrale.quella che diverrà poi soprannominata la voix d’or, si trovava senza un ingaggio e in attesa di un figlio; decise così di recarsi al numero 35 di Boulevard des Capucines, nello studio del più noto e grande fotografo di Parigi.
  • 21. . La Bernhardt si affidò, dunque, all’oramai affermato Nadar per promuovere la sua persona presso il pubblico. I critici dell’epoca si dimostrarono subito entusiasti di questi scatti e li trovarono particolarmente ispirati: il connubio artistico tra la Bernhardt e Nadar era stato siglato. Sarah Bernhardt, la divina, si apprestava a divenire, così, una leggenda.
  • 22. . Egli utilizzò sfondi neutri, privi di ogni dettaglio, ed un’illuminazione naturale di grande efficacia plastica e sfruttata abilmente attraverso filtri di tende bianche o grigie. I ritratti di Nadar si caratterizzano per l’estrema semplicità dello schema compositivo dell’immagine: la personalità dei soggetti emerge grazie alla sua capacità sintetica e non analitica.
  • 23. “Compito autentico del ritratto fotografico è di estrarre la verità psicologica del soggetto.” (Nadar) • L’idea di “verità psicologica” implica la ricerca, nella fotografia, non di una semplice trasposizione oggettiva della realtà, ma di una sua interpretazione: la riproduzione di qualche cosa che vada oltre le semplici apparenze e riveli la natura più autentica dei soggetti. • Nei suoi ritratti, definiti giustamente psicologici, Nadar tendeva a far emergere le personalità dei volti da lui fotografati, ricercando in loro l’espressione più intima.
  • 26. Irving Penn, Marlene Dietrich, New York, 1948 .
  • 27.
  • 28. Irving Penn, Alfred Hitchock, 1947 Penn photographed an extraordinary range of sitters from the worlds of literature, music and the visual and performing arts. Among those featured in the exhibition are Truman Capote, Salvador Dali, Christian Dior, T.S. Eliot, Duke Ellington, Grace Kelly, Rudolf Nureyev, Al Pacino, Edith Piaf, Pablo Picasso and Harold Pinter. This fascinating survey brings to light the significance of Penn's visual language and provides a rare opportunity to explore his innovative use of composition, light and printing techniques.
  • 29. . Non si può prescindere dal parlare di fotografia di moda senza conoscere gli scatti di uno dei suoi maestri indiscussi, Irving Penn, morto a 92 anni a New York nel 2009, figura storica i cui lavori sono stati protagonisti delle copertine di Vogue (più di 150 nell’arco di circa cinquant’anni) e sono esposti nelle più famose gallerie mondiali. Originario del New Jersey, Penn inizia giovanissimo a collaborare con la rivista “Harper’s Bazaar” come illustratore, ma il suo nome si lega presto a quello di Vogue quando, abbandonata la pittura, diventa nel 1943 assistente del direttore artistico Alexander Liberman realizzando nell’ottobre dello stesso anno la sua prima copertina, una “natura morta” composta da un set di accessori di moda (una borsa, un guanto, una cintura) e proponendo uno stile riconoscibile e glamour, classico nella sua semplicità, indubbiamente influenzato da ispirazioni grafiche.
  • 30. I viaggi del fotografo • Per quanto innovative siano le esperienze della pittura (nuovi materiali, nuove tecniche, collages, etc.) si compiono sulla tela o sulla carta con l’aiuto di pigmenti disposti o proiettati, mischiati, a volte anche ad altri elementi. La mano rimane, il più delle volte, lo strumento principale. L’atelier può somigliare ad un laboratorio o a una soffitta. L’opera può tendere alla più strana complessità formale o alla più grande semplicità voluta, la più pura. La parola «pittura» e «disegno» non hanno perduto il loro significato anche se non designano più come prima un insieme predeterminato di regole e di pratiche.
  • 31. Il fotografo: un artista che può avere il mondo come atelier Ora ci sono altre pratiche in cui la mano non interviene più se non attraverso un «interruttore». È il caso in cui dell’atelier non resta nulla perché in questo caso può non avere più senso. Che si intende per atelier di un fotografo? Il luogo dove lavora? Dove fa le riprese? O dove stampa (parlando ancora di fotografia argentica)? Ma questo vale solo per quelli che lavorano le composizioni con le luci, che istallano in uno spazio una scenografia o che utilizzano materiali pesanti, quelli per i quali c’è bisogno di uno studio.
  • 32. Jacques-Henri Lartigue Ma la fotografia non si fa solamente in studio. Per Lartigue, per Henri Cartier-Besson, per Brassaï, per André Kertész, si pratica dovunque ed è uno dei meriti essenziali. Dovunque: in strada, da una finestra, da una macchina passando o guatando, fino alle situazioni più difficili e improvvise, dove nessun disegnatore – e ancor meno nessun pittore - avrebbe il tempo di intervenire. Importante è che gli apparecchi, dal 1910 diventano più piccoli, più leggeri, maneggevoli e più rapidi. Durante la prima guerra mondiale centinaia di soldati anonimi, di una o dell’altra parte, si fanno reporter a loro rischio e pericolo e delle riviste pubblicano le loro fotografie, le più impressionanti (esplosioni, cadaveri, incursioni…). Le pellicole migliorano per sensibilità e finezza di grana. Funzionano alla luce elettrica, a quella del giorno, di un incendio o di una esplosione : non ci sono più circostanze dove non si possa fotografare.
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  • 37. Un’idea sula fotografia «L’objectif qu’on met au point : c’est flou avant et après. C’est extrêmement joli un tout petit peu avant et un tout petit peu après. C’est trop net quand le point est exact. Les beautés sont tuées par la précision». Journal, 21 juin 1926, Paris.
  • 38. Henri Cartier-Bresson Dietro Saint-Lazare, 1932 Cordoba, Spagna, 1933
  • 39. La Leica 1, prima macchina di Henri Cartier-Bresson
  • 40. Una frase eloquente • • For me the camera is a sketch book, an instrument of intuition and spontaneity, the master of the instant which, in visual terms, questions and decides simultaneously. In order to “give a meaning” to the world, one has to feel involved in what one frames through the viewfinder. This attitude requires concentration, discipline of mind, sensitivity, and a sense of geometry. It is by economy of means that one arrives at simplicity of expression. • To take a photograph is to hold one’s breath when all faculties converge in a face of fleeing reality. It is at that moment that mastering an image becomes a great physical and intellectual joy. • To take a photograph means to recognize – simultaneously and within a fraction of a second– both the fact itself and the rigorous organisation of visually perceived forms that give it meaning. • It is putting one’s head, one’s eye, and one’s heart on the same axis. • • •
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  • 49. .. Henri Miller, 1931 Pablo Picasso, 1932
  • 52. Le meraviglie della vita quotidiana sono così eccitanti, nessun regista in grado di organizzare l’imprevisto che si trova in strada. ” Robert Doisneau.
  • 53. Un altro rapporto con il tempo Che cosa si deve intendere allora per «lavoro» di un fotografo? Niente sicuramente che rassomigli al lavoro di un pittore nel suo studio. Henri Cartier-Bresson osa la nozione di «istante decisivo», che implica una temporalità molto diversa da qiella che presuppone l’atto di disegnare o di dipingere. «l’apparecchio fotografico – scriveva nel 1977 – è per me un carnet di appunti, lo strumento dell’intuizione e della spontaneità, il padrone dell’istante che, in termini visivi, domanda e decide allo stesso tempo. *…+ fotografare è riconoscere un fatto e l’organizzazione rigorosa delle forme percepite visivamente che esprimono e significano questo fatto, in un solo istante e in una frazione di secondo». Nessuna possibilità di pentimento in questa estetica della rivelazione, nessun ripensamento e nessuna seconda possibilità…e nessun bisogno dell’atelier. Basta un laboratorio dove specialisti dotati di macchine procedono allo sviluppo e alla stampa. È possibile reinquadrare, correggere una composizione, ottenere una tiratura più scura o più chiara, più o meno contrastata, ma questi artifici non possono modificare l’immagine in maniera decisiva quando questa si basa sull’organizzazione rigorosa e sul fatto dei quali parla Cartier-Bresson.
  • 54. Fotoreportage, fotogiornalismo A maggior ragione, quanto abbiamo detto vale per la fotografia di reportage che, a partire dal primo dopoguerra, per riviste di grande tiratura, fissa inesorabilmente gli avvenimenti e i contemporanei in rappresentazioni espressive, allegoriche, provocatrici, di denuncia, a volte insopportabili. Nel 1947 quattro fotografi fondano a New York l’agenzia fotografica Magnum : Henri Cartier- Bresson, George Rodger, Robert Capa e David Seymour detto Chim – gli ultimi due sono i padri del reportage di guerra.
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  • 57. Chim Capa, che ha ripreso durante la guerra civile spagnola l’immagine del soldato repubblicano colpito dal proiettile franchista, partecipa allo sbarco degli alleati in Sicilia e in Normandia, all’invasione della Germania nazista. Muore in Indocina nel 1954, ucciso da una mina. Chiem è anche lui in Spagna nel 1937, poi in Germania nel 1944, e in Israele durante la guerra d’indipendenza. Muore colpito da una mitragliata durante una spedizione franco-britannica sul canale di Suez nel 1956. Queti fotografi hanno per atelier il mondo intero e «espongono» nelle riviste come Life, Vu, Match. Lee Miller segue una ivisione americana fino a Dachau e Buchenwald e, nell’estrema urgenza, invia al suo datore di lavoro, Vogue, le sue foto dei campi di prigionia e di concentramento, accompagnate da un telegramma «vi supplico di credere che è la verità».
  • 58. Il fotoreporter o la memoria critica del tempo Evidente che in queste circostanze la fotografia riguarda più la storia, militare e non, politica, ideologica e morale, molto più che delle considerazioni di ordine estetico. Va da sé allora che per quelli come August Sander in Germania prima del 1933 o Walker Evans negli Stati Uniti dal 1929, prendono questa pratica come un analisi più che una descrizione e che richiedono alla fotografia molto di più di un frammento di racconto : la spiegazione di una situazione.
  • 59. Il bagno di Tomoko Se Sander tenta l’inventario della società tedesca dai mendicanti ai grandi capitalisti, Negli Stati Uniti Dorothea Lange e Walker Evans, durante la grande depressione, traversano le regioni rovinate dalla crisi e fanno immagini che diventeranno il simbolo della miseria. Eugene Smith dopo aver realizzato immagini di combattimenti tra americani e giapponesi nel Pacifico realizza dei reportages che coniugano cronaca del quotidiano, sociologia e denuncia dell’ingiustizia; la sua opera più celebre rimane il bagno di Tomoko, tragica allegoria dell’inquinamento al mercurio a Minamata.
  • 60. Il bagno di Tomoko, 1972
  • 61. Spanish Village, nella Spagna franchista del 1938
  • 62. A cosa serve una grande profondità di campo se non c'è un'adeguata profondità di sentimento?
  • 63. Eugene Williams Smith, Charlie Chaplin, 1952
  • 64. Una e più generazioni dopo…. Qusta generazione, apparsa poco prima o durante la Seconda Guerra mondiale, ha i suoi successori. Nella seconda metà del XX secolo questi rischiano in Vietnam, in Bengala o in Biafra, o ancora in Ruanda o in Pakistan. È là che si rendono Don Mc Cullin, Philip Jones Griffith, Jean-Claude Francolon o Gilles Caron, dato per disperso in Cambogia poco dopo essere stato uno dei maggiori fotografi del maggio del ‘68 (si deve a lui una celebre fotografia di Daniel Cohn-Bendit davanti un CRS). Più tardi arrivarono i fotografi delle guerre in Libano, (Raymond Depardon), della rivoluzione islamica, del conflitto interetnico bosniaco e ancora più tardi, oggi, il Pakistan (Torsello). … è il fotogiornalismo.
  • 65. Gilles Caron Parigi, la foto simbolo del Soldato in riposo in Vietnam durante movimento studentesco, 1968 la battaglia per la collina 875
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  • 67. Fotogiornalismo e arte È una questione sulla quale ancora si discute. In ogni caso l’artista continuamente in movimento, l’artista del quale e per il quale il movimento è uno dei fattori essenziali: questa figura è propria del XX secolo, preparata e appena resa come schizzo, come abbozzo dai disegnatori reporters come Constantin Guys o gli esploratori-artisti orientalisti e africanisti ai quali la fotografia del resto deve un po’ la sua ragione di esistere.
  • 68. Fotogiornalismo : genere a se stante, di fotografia, distinto dalla fotografia d’arte , nel fotogiornalismo le immagini esistono principalmente per il loro valore informativo e non per il loro valore artistico ; sono immagine prese, istantanee per lo più, ma anche immagini ricercate e trovate, e questo ricercare e trovare implica alcune scelte che in fondo possiamo definire artistiche. Nato tra l’Europa e gli Stati Uniti, il fotogiornalismo ha avuto grandi maestri come ROBERT CAPA, del quale tutti conosciamo La morte del miliziano presa durante la guerra in Spagna nel 1936 o le immagini di Dorothea Lange. CAPA fu tra l’altro il fondatore della prima cooperativa di fotografi e della agenzia Magnum, una agenzia storica con la quale hanno collaborato molti grandi fotografi. Fotogiornalismo non è semplice cronaca, è la capacità di raccontare qualcosa attraverso immagini fotografiche. Il fotografo sceglie cosa e come raccontare….
  • 69. Le caratteristiche che distinguono il fotogiornalismo da altri generi fotografici sono sostanzialmente tre, e si possono riassumere nei seguenti termini inglesi: ● Timeliness – le immagini hanno un senso se pubblicate nel contesto del racconto di eventi accaduti di recente. La pubblicazione delle fotografie deve quindi essere tanto “veloce” quanto quella delle parole. Questo però non esclude che immagini fotogiornalistiche restino impresse per anni nell'immaginario del lettore, divenendo le icone di eventi storici di grande rilevanza. ● Objectivity – la situazione ripresa nelle immagini deve essere una fedele ed accurata rappresentazione degli eventi. ● Narrative – le immagini si relazionano ad altri elementi della notizia per poter meglio coinvolgere il lettore o lo spettatore.
  • 70. La storia del fotogiornalismo A pochi anni dalla sua nascita, il fotogiornalismo comincia a registrare i nomi dei personaggi che daranno un'impronta decisiva al “fare informazione” tramite le immagini. Roger Fenton, Jacob Riis, Lewis W. Hine e Walker Evans, sono solo alcuni dei fotografi che imprimono al racconto per immagini il proprio stile personale e la propria professionalità. Il Novecento può essere definito, a ragione, il secolo della rappresentazione fotografica di storie ed eventi. La storia del fotogiornalismo assume un andamento parabolico e raggiunge il picco nel periodo fra la due guerre mondiali, il momento della sua età d'oro. In questa fase, e immediatamente dopo, si realizzano le esperienze più significative, fra tutte la nascita della cooperativa «Magnum» (divenuta poi la più prestigiosa agenzia fotogiornalistica al mondo) ad opera di Robert Capa, Henry Cartier-Bresson, David 'Chim' Seymour ed altri “grandi”, e della rivista «Life» (che ha raccontato attraverso le sue copertine la storia dei più importanti fatti e personaggi a partire dal secondo dopoguerra). Negli anni Sessanta-Settanta, lo sviluppo incalzante della televisione, che presenta un linguaggio immediato e spettacolare, accompagna il reportage fotografico alla strada del suo declino. La fotografia torna a ricoprire il ruolo di semplice illustrazione sui giornali e intanto si converte verso una tipologia di largo uso e consumo, è il boom della stampa scandalistica e sensazionalistica.
  • 71. .. Il fotogiornalismo comincia quindi a cercare nuove formule, una nuova definizione dell'immagine che consiste soprattutto nel trasgredire quella concezione di “obiettività” caratteristica della fotografia, su tutti, di Cartier-Bresson. Anche il reportage di guerra subisce una trasformazione decisiva, il conflitto indocinese segna il punto oltre il quale i fotogiornalisti non si troveranno più da soli sul teatro degli eventi, ma saranno circondati dagli operatori televisivi. La guerra in Vietnam rappresenterà l'ultimo conflitto con una forte componente fotografica, scompare la figura “romantica” del fotoreporter autonomo che da quel momento farà parte di singole unità di soldati, diventando fotografo embedded. Di pari passo, le fotografie cominceranno a perdere di quella veridicità che fino a poco tempo prima le qualificava. •
  • 72. LIFE 1936 : Vedere la vita, vedere il mondo, essere testimoni oculari dei grandi avvenimenti : scrutare i visi della povera gente e gli atteggiamenti dei superbi; esaminare cose strane – macchine, eserciti, folle ; scoprire ombre della giungla o della luna; scoprire cose lontane migliaia di chilometri, cose nascoste dietro i muri e dentro le stanze, cose pericolose da avvicinare; vedere le donne che gli uomini amano e molti bambini; vedere e provarne gioia; vedere e stupire ; vedere ed esserne arricchiti ….
  • 73. Fotogiornalismo e storia Ci si rende conto, sin da subito, che la fotografia rappresenta uno strumento di persuasione forte: temuta dai governi e il più delle volte, per questo, manipolata. Fotomontaggi, elaborazioni, scelte editoriali (pubblicare o meno una foto, descriverla, contestualizzarla, richiedere un determinato tipo di immagini), valutazioni fotografiche in fase di scatto, sono tutte occasioni suscettibili di un apporto personale, quindi soggettivo e per definizione non obiettivo. Detto ciò, può considerarsi ancora vera l'affermazione che «la macchina fotografica [...] non mente mai»7? In Afghanistan si semina guerra e nei campi crescono scatole metalliche …..(Torselllo) Il fotografo cambia la storia perché mostrando ciò che altrimenti sarebbe invisibile fa conoscere certe situazioni e provoca prese di coscienza e reazioni L’occhio di chi rispetta una cultura, di chi, per rispetto di una popolazione ospite, rischia di essere preso per terrorista E TORSELLO entra molto educatamente nella vita dei luoghi….
  • 74. Un’opinione • Fotografare è essenzialmente un atto di non intervento. L'orrore di certi «colpi» memorabili del fotogiornalismo contemporaneo, [...] deriva in parte dalla plausibilità che ha assunto, nelle situazioni in cui il fotografo può scegliere tra una fotografia e una vita, la scelta della fotografia. Chi interviene non può registrare, chi registra non può intervenire. • Susan Sontag
  • 75. … e qualche domanda Qual è lo scopo del fotogiornalismo? Quali sono i parametri di riferimento della comunicazione per immagini? Quali i suoi confini? La storia del fotogiornalismo è sempre stata accompagnata da tali interrogativi. Con la stampa sui giornali e la sua diffusione di massa, la fotografia incontra l'etica e comincia ad affrontarla: cosa pubblicare, dove e come pubblicarlo. L'affermazione del mestiere del fotogiornalista, poi, porta i professionisti dell'immagine a darsi delle regole, codici deontologici con i quali confrontarsi. Quanto può essere veritiero un reportage? Quali sono i motivi che possono spingere a truccare un racconto per far passare un determinato messaggio, falso? In più, una foto artistica, può elevarsi a documento storico? Arte e giornalismo vanno d'accordo? Ci si rende conto, sin da subito, che la fotografia è uno strumento di persuasione forte: temuta dai governi ed il più delle volte, per questo, manipolata. Fotomontaggi, elaborazioni, scelte editoriali (pubblicare o meno una foto, descriverla, contestualizzarla, richiedere un determinato tipo di immagini), valutazioni fotografiche in fase di scatto, sono tutte occasioni suscettibili di un apporto personale, quindi soggettivo e per definizione non obiettivo. Affrontiamo questo argomento con lo scopo di riflettere sulle motivazioni che, in passato come nel presente, hanno spinto a manovrare la comunicazione per immagini. Non solo, ci interesseremo delle regole del fotogiornalismo, con un occhio attento alla deontologia della professione, per scoprire se è vero che «la macchina fotografica [...] non mente mai».
  • 76. … conclusione? Vivere oggi nella società digitalizzata, società dell'immagine per eccellenza, ci mette a maggior ragione in una condizione di serrata convivenza con la fotografia, e di auspicabile e reciproco rispetto. Il cittadino è cosciente di poter essere vittima di un'informazione distorta e sa che oggi è molto più facile intervenire sulle fotografie per modificarne il significato, ma è anche consapevole di poter essere – da citizen journalist – protagonista del circuito mediatico e informativo. Le regole deontologiche allora devono essere estese a tutti, professionisti e non, perché tutti sono ora potenzialmente in grado di comunicare con il linguaggio universale della fotografia. Purtroppo questa evoluzione, quasi darwiniana, porta il fotogiornalismo come “mestiere” alla tendenziale scomparsa (che sinceramente non auspico), o comunque ad una sua determinante ridefinizione, in un mondo che viaggia sempre più velocemente, dall'altra parte invece, «il fotogiornalismo, come “genere”, dimostra ancora d'essere La Fotografia per antonomasia; un'espressione alta, sublime, di un linguaggio che offre insostituibili possibilità di memoria, di veicolazione e, perché no, di poesia; senza queste qualità la fotografia stessa non sarebbe probabilmente neppure stata inventata»
  • 77. Metamorfosi del reale: le «ricostruzioni fotografiche» e la loro eredità Pertanto non si può trascurare un altro uso della fotografia che invece ha lo studio come luogo di lavoro, la manipolazione come risorsa e di cui il circuito espositivo e di commercializzazione è più strettamente artistico. Dagli inizi del XX secolo, presenti come «ricostruzioni fotografiche», alcune azioni permettono di modificare, alterare, calcolare gli effetti. In questi casi dei modelli posano in scenografie preparate, in pose dirette, sotto una illuminazione studiata. I negativi possono essere tagliati, sottomessi ad esposizioni particolari e ad alterazioni varie.
  • 78. … ancora il Surrealismo … Ai montaggi di Ernst corrispondono così, nel campo fotografico, le esperienze del più grande esperto in materia: Man Ray. Emmanuel Rudtinsky, americano stabilito a Parigi, figura centrale della vita artistica e notturna nella capitale francese degli anni 1920- 1930. Sovraespone le immagini e le sbianca (solarizzazione), o le taglia e le rimonta per isolare un elemento, o ancora poggia degli oggetti sulla carta fotografica, illumina o lascia le loro ombre scriversi, ottenendo nature morte fantastiche che chiama Rayogrammes.
  • 79. Man Ray Marchesa Casati, 1927 Dora Maar, 1936
  • 81. … e gli altri… In Germania, Lucia Moholy e Laslo Moholy-Nagy, originari rispettivamente di Cecoslovacchia e Ungheria, che lavorano al Bauhaus, a partire dal 1923 realizzano anche loro delle immagini senza punto di ripresa che chiamano «photogrammes» : considerano i clichés, con o senza apparecchio fotografico, come semplice procedimento meccanico che non deve riflettere alcuna emozione personale ma tenersi strettamente alla forma e alla luce. Se la riproducibilità della fotografia, ne fa ai loro occhi l’arte più adatta all’epoca della meccanizzazione, i fotogrammi che elaborano costituiscono paradossalmente delle immagini uniche, che nessuna matrice permette di riprodurre.
  • 82.
  • 83. Il ritorno allo studio tra artificio e realtà Che si basi sulla fotografia «pura» negli anni 1920, fotografia «creativa» negli anni 1950, o fotografia «plastica» negli anni 1980, l’ambizione dei fotografi interessati soprattutto all’arte che al reportage rimane, alla fine del XX secolo, essenzialmente la stessa : creare effetti nuovi non importa se dalla meccanica della macchina, dalla velocità di ripresa o al contrario dalla sua lentezza, dalla composizione o dalla stampa.
  • 84. Gli artisti Di spirito Dada o surrealista, o ancora vicini all’astrazione pittorica, gli artisti che esemplificano questa tendenza si chiamano Imogen Cunningham e Edward Weston nel primo dopoguerra; più tardi Harry Callahan, Duane Michals, Joel Peter Witkin o Joan Fontcuberta. I progressi tecnici della fine del XX secolo danno loro nuovi mezzi, nel senso di dove la numerizzazione e la virtualità autorizzano ogni metamorfosi. Lo «studio» diventa allora laboratorio informatizzato dove la «pantbox» diventa lo strumento di distacco, ricucitura, sovrapposizione e sintesi, alle quali funzioni si aggiunge la messa in scena, il travestimento, i riferimenti pittorici, testi e assemblaggi.
  • 86. Duane Michals, Fallen Angel, 1968
  • 87. … Allora con Cindy Sherman o Christian Boltanski, Nan Goldin o Paul Armand Gette, Bernard Faucon o Florence Chevallier, Sophie Calle o Jochen Gerz, la fotografia si impone come uno dei medium di una pratica artistica più complessa che tiene essenzialmente dell’istallazione. In questo caso – altri nomi si possono evocare – la nozione di atelier riprende il suo posto : lo studio è il luogo dove immagini e oggetti sono compresi e modificati in un processo di creazione che pone la diversità dei materiali e delle tecniche come punto di partenza : l’arte contemporanea.
  • 88. SOPHIE CALLE Hotel Room 28, 1983 Black and white and color photograph with text 49 x 56 inches, each panel Edition of eight, Courtesy Donald Young Gallery, Chicago
  • 89. Take kare of yourself, 2007 Sophie Calle
  • 90.
  • 92. Donne artiste, le nuove arrivate Donna e artista : fino alla fine del XIX secolo, queste parole suonavano come una sfida o una contraddizione. Ci sono sicuramente alcune donne pittrici (più spesso che scultrici) celebri nei secoli precedenti, come Artemisia Gentileschi, Rosalba Carriera o Elisabeth Vigée-Lebrun o Marguerite Gérard alla fine del XVIII secolo, ma sono e saranno ancora delle eccezioni….
  • 93. .. Per diversi anni, la figura della donna pittrice resta legata a quella di un amatore che deve rimanere nell’ombra. Se bisogna attendere la fine del secolo per vedere le ragazze entrare all’Ecole des Beaux-arts (1896),la maggior parte di esse si rivolge ad ateliers privati tra i quali quello Léon Cogniet et Charles Chaplin che sono i più importanti. La novità è quella di frequentare gli ateliers senza far parte del mondo dell’arte. La maggior parte delle donne artiste aveva già dei legami con artisti, si pensi a Elisabeth Vigée- Lebrun o Marguerite Gérard, moglie la prima e cognata e sorella di pittori la seconda. La Rivoluzione apre le porte delle scuole d’arte alle donne per permetter loro di trovare dei mestieri nelle arti decorative. Elisabeth Gardner, futura moglie del pittore William Bouguereau, racconta nei suoi diari epistolari le difficoltà delle donne in questo campo pur essendo per lei più facile, in quanto americana.
  • 94. . • Abbiamo citato l’atelier di Léon Cogniet (1794- 1880). Apre alle donne grazie a sua sorella Marie- Amélie Cogniet sua prima allieva. • L’atelier de Charles Chaplin (1825-1891)era più moderno e offriva la possibilità di fare esercizio su modelli nudi. • Due pittrici note, Mary Cassatt e Henriette Browne furono allieve di Chaplin, e le loro opere non differiscono da quelle degli uomini. Presto si entrerà in competizione.
  • 95. La conquista delle scuole Nella seconda metà del XIX secolo, le ragazze che vogliono diventare artiste devono studiare in atelier privati : l’académie Julian a Parigi era una di queste ma, per ragioni finanziarie evidenti, sono riservate alle figlie della borghesia. Poi, intorno al 1900, un po’ dappertutto in Occidente, le donne acquisirono il diritto di accedere alle scuole pubbliche d’arte. In Francia, all’Ecole des beaux-arts, questa rivoluzione avviene nel 1897. Circa cento anni dopo la Rivoluzione francese. Eppure alla fine del Settecento le artiste erano più numerose. A questa data le aspiranti artiste non sono ancora mmesse che ai corsi magistrali e alla biblioteca. Nel 1902 è fondato il primo atelier femminile (non era possibile che studenti e studentesse fossero insieme e in particolare non erano ammesse le donne alle sedute di nudo maschile). Il primo Prix de Rome femminile data al 1911 (la scultrice Lucienne Heuvelmans) questi cambiamenti avranno conseguenze importanti : le donne che dipingono o scolpiscono non saranno più guardate come dilettanti, ma come professioniste.
  • 96. Le pioniere Se in Italia le donne artiste erano ancora delle “dilettanti”, in Inghilterra e soprattutto in Francia l’integrazione delle donne nelle scuole d’arte risulta da una modificazione dello statuto delle donne alle quali la società riconosce sempre maggiore autonomia e capacità: è questa evoluzione che portò in Francia alla legge Camille Sée sulla creazione dei licei femminili nel 1887. Molto in anticipo sull’Italia… Di fatto dall’ultimo terzo del XIX secolo, un numero sempre maggiore di donne si fanno un nome nel campo dell’arte, grazie alla forza delle loro opere. Le più conosciute sono la pittrice realista Rosa Bonheur (1822-1899), le impressioniste Berthe Morisot e Mary Cassat (1844-1926) e la scultrice Camille Claudel (1864-1943).
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  • 99. Forti limitazioni Per queste professioniste il problema è frontale: devono scegliere tra le norme del matrimonio e un percorso che privilegia la loro carriera. Alcuni destini si spiegano con una situazione familiare che viene a sostenere una scelta sessuale atipica: Rosa Bonheur, prima donna artista a ricevere la Légion d’honneur, è la figlia di un pittore che la incoraggia. Omosessuale, non si preoccupa del matrimonio.
  • 100. Camille Claudel, L'Età matura 1902 circa Gruppo in bronzo composto da tre elementi, 114 x 163 x 72 cm Parigi, museo d'Orsay Ma Camille Claudel, preoccupata di essere riconosciuta come uno scultore autonomo, rompe la sua relazione con Rodin, vale a dire che si obbliga a un isolamento che la condurrà al manicomio. Altre donne adottano una strategia vicina a quella delle pittrici del XVIII secolo : scelgono soggetti «femminili». Dopo la rottura tra Camille Claudel e Rodin, quest'ultimo cercò di aiutare la donna un tempo amata per interposta persona ed ottenne una commissione statale dal direttore delle Belle-Arti. L'Età matura fu commissionata nel 1895 ed esposta nel 1899 ma il bronzo non fu mai commissionato ed il gesso non fu mai consegnato da Camille Claudel. Finalmente, nel 1902, il capitano Tissier commissionò il primo bronzo.

L'insieme evoca l'esitazione di Rodin combattuto tra la sua vecchia amante, che doveva avere la meglio e Camille che, nel tentativo di trattenere l'amato, si protende in avanti. Al di là della sua storia personale, la scultrice realizza un'opera simbolica che spinge a riflettere sui rapporti umani. Anche la Claudel vi prende parte assumendo le fattezze di un personaggio che l'artista stessa ribattezza L'implorante, sottolineando così il tragico attaccamento al suo destino.

L'uomo alla fine della sua maturità è vertiginosamente trascinato dall'età mentre, senza speranza, tende una mano alla giovinezza. Le figure nude sono avvolte da drappi svolazzanti che mettono ancora più in risalto la rapidità del cammino. Le grandi rette oblique si allontanano rapidamente. Paul Claudel così diceva: 
"Mia sorella Camille, implorante, umiliata, in ginocchio, lei così superba, così orgogliosa mentre ciò che si allontana dalla sua persona, in questo preciso momento, proprio sotto i vostri occhi, è la sua anima".
  • 101. Berthe Morisot (1841-1895) La culla, 1872 Olio su tela, 56 x 46 cm Parigi, museo d'Orsay Berthe Morisot, ad esempio, discendente di Fragonard e cognata di Manet, dipinge principalmente donne e ragazzini (Le berceau, Parigi, musée d’Orsay). Berthe Morisot partecipa con La Culla alla mostra impressionista del 1874 diventando di fatto la prima donna ad esporre le sue opere con il gruppo. Il quadro viene a malapena notato. Tuttavia, alcuni tra i principali critici ne colgono la grazia e l'eleganza. Dopo aver cercato invano di vendere il quadro, Berthe Morisot non lo mostrerà più in pubblico e l'opera sarà conservata dalla famiglia di Edma fino alla sua acquisizione da parte del museo del Louvre nel 1930.
  • 102. Mary Cassatt (1844-1926) Giovane donna in giardino 1880-1882 Olio su tela, 92 x 65 cm L’americana Mary Cassat, che conduce la sua carriera in Francia, fa la stessa cosa, che potrebbe sembrare una scelta singolare non essendo mai stata né madre né moglie. Una tavolozza chiara e vivace caratterizza l'opera di Mary Cassatt, pittrice americana che introdusse l'impressionismo presso i cultori e i collezionisti d'oltreoceano. Grande amica di Degas, partecipò alle esposizioni del gruppo impressionista a partire dal 1879.

I ritratti dei suoi cari, il più delle volte donne e bambini raffigurati nell'intimità della loro vita quotidiana, sono molto frequenti nella sua opera. Questo è il caso Giovane donna in giardino, chiamata anche Donna che cuce che contiene una novità rispetto alle altre opere: la figura è infatti raffigurata en plein air. La tela fu mostrata al pubblico durante l'ultima esposizione del gruppo, nel 1886. Lo sfondo, sontuosamente colorato, è strutturato da un vialetto, ampia striscia diagonale che determina uno sfondo. Tutto questo contribuisce a valorizzare la rappresentazione della giovane donna, solenne in un primo piano ravvicinato. La pennellata veloce e accennata come nel caso della gonna, contrasta con il contorno netto e deciso del viso e del busto a riprova che l'artista non rinuncia affatto alla precisione del disegno.
  • 103. Donne e fotografia Il problema di essere artista e donna in una società dome quella del XIX secolo, è legato alla doppia questione della formazione e della condizione sociale. L’arrivo di un nuovo mezzo e forse uno dei mezzi che hanno permesso il passo avanti delle donne. Alla fine del XIX secolo e all’inizio del XX, la maniera di cui esse si sono appropirate della fotografia è notevole: è che nell’ambiente borghese più evoluto, si offre alle ragazzine come ai maschi una macchina fotografica. Questa macchina, utilizzata all’inizio per immortalare i parenti, diviene lo strumento possibile di una esplorazione del mondo: l’universo dei vegetali nel XIX secolo con Ana Atkins; i ritratti con Julia Margaret Cameron (1815-1879) venute tardi alla fotografia e vicine alla corrente preraffaellita. Poi Gertrude Käsebier che seppe fotografare in particolare gli indiani e più tardi Dorothea Lange, fotografa della povertà. Il passaggio all’atto fotografico avviene anche per un’altra via: modelle si iniziano alla pratica fotografica e diventano esse stesse fotografe. Nella fotografia di moda degli ultimi anni del Novecento è il caso ad esempio di Alberta Tiburzi. Ma per tornare al passato, tale fu la storia dell’americana Lee Miller (1907-1977), in un primo tempo musa ispiratrice di Man Ray, poi fotografa di moda e finalmente corrispondente di guerra in Germania nel 1944-1945.
  • 104. Ana Atkins Nata il 16 marzo del 1799 a Tonbridge nel Kent, Anna Atkins, è considerata la prima persona ad aver pubblicato un libro illustrato: una pioniera, per molti versi, botanica e fotografa. La stessa Anna era, in un certo senso, figlia d'arte: I suoi primi lavori scientifici furono di aiuto e supporto all'attività di ricerca del padre, in particolare le 250 illustrazioni realizzate per l'edizione curata dal padre del trattato di Lamarck Genera of Shells. E una delle prime donne a interessarsi di fotografia
  • 105. Julia Margaret Cameron, The Kiss of Peace V. Giovanna Bertelli, http://www.enciclopediadelledonne.it /index.php?azione=pagina&id=17
  • 107. Dorothea Lange Dopo aver frequentato la Columbia University di New York con Clarence H. White, dal 1917 al 1919 Dorothea Lange lavora inizialmente come fotografa freelance a San Francisco. sconcertata dal numero di persone senza tetto e in cerca di un lavoro durante gli anni della depressione, decide di ritrarre l'uomo della strada per attirare l'attenzione sulla sua miseria mediante le sue fotografie.
  • 108. Dorothea Lange, , Migrant Mother, 1936 Nel 1935, entra al servizio della Farm Security Administration (FSA) e realizza un reportage sulle condizioni di vita nelle zone rurali degli USA. Documenta in modo spietato la dolorosa povertà dei lavoratori e delle loro famiglie che si spostano di luogo in luogo in cerca di lavoro.
  • 109. Con le sue fotografie Dorothea Lange documenta non solo l'avvilimento e la disperazione, ma coglie al tempo stesso anche l'orgoglio e la dignità con cui queste persone sopportano il proprio destino.
  • 111. Lee Miller fotografata da Man Ray Lee Miller,. Nata a Poughkeepsie (New York), inizia la sua carriera negli anni Venti come modella di alcuni tra i più grandi fotografi dell'epoca come Edward Steichen. Dopo essersi trasferita a Parigi nel 1929, apre uno studio diventando una famosa ritrattista e fotografa di moda, ma la sua produzione preferita resta quella ispirata alla corrente surrealista, grazie anche ai contatti intrattenuti con quel mondo tramite la collaborazione con Man Ray, con il quale intreccia una relazione. Nel 1932 torna a New York, per spostarsi due anni dopo in Egitto, al Cairo
  • 112. Lee Miller inviata di guerra Numerosi inviati di guerra da ogni parte del mondo si uniscono alle truppe per consegnare alla storia i momenti decisivi della lunga marcia di avvicinamento a Berlino; tra questi Lee Miller: nel 1939 ,trasferitasi a Londra, lavora come freelance per la rivista Vogue, per diventare poi nel 1942 corrispondente accreditata dell'esercito degli Stati Uniti: fu probabilmente l'unica donna a lavorare a fianco delle truppe americane come fotografa di guerra. Le sue immagini documentano alcuni dei momenti salienti dell'avanzata, quali l'assedio di Saint-Malo, la liberazione di Parigi, i combattimenti in Lussemburgo e in Alsazia, l'incontro tra le truppe sovietice e statunitensi a Torgau, la liberazione di Buchenwald e Dachau.
  • 113. Giovanna Bertelli, Lee Miller, in Lee Miller ha occupato, negli ambiti che ha attraversato, posizioni per così dire opposte: tanto da essere allo stesso tempo protagonista di primo piano e personaggio defilato del suo tempo, esaltata e allo stesso tempo celata da chi lavorava con lei, modella e fotografa.
Nasce a Poughkeepsie, nello stato di New York, in una famiglia borghese; il padre, inventore, ha un interesse particolare per la fotografia e ben presto sceglie la figlia come modella per i suoi scatti, oltre ad introdurla ai segreti della ripresa e del laboratorio.
A soli 7 anni subisce uno stupro da parte di un amico di famiglia. 
A 19 anni, attraversando una via di New York, Condé Nast in persona, il fondatore del colosso editoriale proprietario di «Vogue» e «Vanity Fair», nota la sua bellezza e frena l'automobile su cui viaggia. Lee Miller diventa una fotomodella di «Vogue». È fotografata da Edward Steichen, il più noto ritrattista del tempo e fotografo capo di «Vogue» e «Vanity Fair», da Heunyngen-Heune e Arnold Genthe. Il volto di Lee si affaccia dalle copertine delle riviste per signore. È tra le più famose ed apprezzate fotomodelle, la sua bellezza non passa inosservata.
  • 114. .. Nel 1928 è coinvolta in uno scandalo commerciale: un suo ritratto a figura intera, scattato da Steichen, è utilizzato per una pubblicità di assorbenti femminili. È la prima volta che l'immagine di una donna è associata ad un prodotto così intimo e le proteste non passano inosservate. Neanche Lee inizialmente approverà la scelta di Steichen, ma poi si ricrederà andando fiera di aver contribuito ad abbattere un tabù tra i più radicati nella società.
Nel 1929 si trasferisce in Europa: a Roma e Firenze studia l'arte e la sua storia, a Parigi è modella per la redazione di «Vogue» Francia e vive nella città culturalmente più vivace di quegli anni. Frequenta il mondo della moda e degli artisti; è fotografata e fotografa lei stessa. Ha un proprio studio, partecipa a mostre, posa come fotomodella per Man Ray e ben presto diventa la sua musa, la sua assistente, la sua amante. È con Lee Miller che Man Ray sperimenta e mette a punto il processo di solarizzazione della stampa fotografica; lo aiuta posando per lui e assistendolo in laboratorio. Si pensa che diverse delle solarizzazioni firmate Man Ray siano state effettivamente realizzate da Lee. Nel frattempo conosce Aziz Eloui Bey, un ricco egiziano.
  • 115. … La relazione con Man Ray si interrompe nel 1932. Lee torna a New York ed apre un suo studio. 
Ritrattista di grande successo, nel 1934 decide di chiudere l’atelier per sposarsi con Aziz Eloui Bey, e si trasferisce a Il Cairo; fotografa il deserto e le rovine dell’antico Egitto in uno stile fotografico che alterna fotogiornalismo e suggestioni accademiche. Durante un viaggio a Parigi nel 1937 conosce Roland Penrose. Iniziano a lavorare insieme in Grecia e Romania e il sodalizio diventa anche una relazione d’amore. Nel 1939 Lee lascia l'Egitto e si trasferisce a Londra poco prima dello scoppio della seconda guerra mondiale.
Malgrado gli inviti del governo americano a rientrare in patria Miller decide di restare a Londra con Penrose; riesce ad essere accreditata da «Vogue» come corrispondente di guerra. Inizia per lei una nuova epoca.
  • 116. …. Lei e Margaret Bourke-White, anche se non lavoreranno mai insieme, saranno le uniche donne accreditate presso l'esercito degli Stati Uniti come corrispondenti di guerra. Lee Miller non avrà la temerarietà e le ambizioni di Margaret, ma restituirà un’altra prospettiva femminile del fronte di guerra. Se fino al 1944 fotograferà Londra, le incursioni e i bombardamenti sull'Inghilterra del sud, dopo lo sbarco in Normandia arriverà in Francia e seguirà le truppe nell'avanzata verso Parigi e Berlino. La battaglia di St. Malo, l' Alsazia, l'incontro a Turgau tra americani e russi. Fotograferà Monaco, Vienna, l'Ungheria. Lavorerà in team con David Scherman, fotoreporter di «Life»: insieme affronteranno battaglie e liberazioni. Lee Miller fotograferà l'entrata degli Alleati nel campo di Dachau e sarà fotografata da Scherman mentre si lava nella vasca del bagno privato di Hitler.
La guerra sarà un'esperienza che la segnerà pesantemente. Continuerà a fotografare ancora per un paio di anni per «Vogue», ma la depressione post bellica e l'alcool pare abbiano la meglio sulla sua volontà. Sarà con l'aiuto di Penrose e dei vecchi amici surrealisti, primi tra tutti Man Ray, che riuscirà ad uscirne. Nel 1947, in attesa di un figlio, divorzia da Aziz Eloui e sposa Penrose. Con lui pubblicherà le biografie di Picasso, Mirò, Tapies, Man Ray, tutte corredate da sue fotografie. Continua a fotografare e scrivere per «Vogue»: ritratti, arte, moda. Nel 1955 sarà chiamata da Steichen per la mostra collettiva The Family of Man.
Il suo ricordo rimarrà per sempre legato agli anni della sua gioventù, quando era tra le più belle e apprezzate fotomodelle. Nel 1977 morirà a Farley Farm House, nel Sussex, nella casa comprata con Penrose nel 1949, meta e punto di riferimento per tanti artisti.
  • 117. Margaret Bourke-White New York 1904 - Darine 1971
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  • 123. Gerta Pohorylle detta Gerda Taro Stoccarda 1911 - Brunete (Spagna) 1937
  • 124. Wanda Wulz Trieste 1903 - 1984 Wanda Wulz nasce a Trieste nel 1903, quando la città è centro dell'irredentismo italiano e della cultura internazionale, punto nevralgico per l'impero austroungarico di cui è il maggiore porto e sbocco sul mare. 
Nipote del fotografo Giuseppe (1843-1918) e figlia del fotografo Carlo (1874-1928) inevitabilmente viene indirizzata a proseguire l'attività di famiglia.
Wanda e la sorella Marion lavorano inizialmente con il padre, sia come fotografe sia come modelle, e alla morte di lui nel 1928 diventano le titolari dello studio continuando la tradizione del ritratto, delle vedute della città, dei servizi commissionati da opifici e cantieri.
Fotograferanno ininterrottamente fino al 1981, quando cessano l'attività e cedono il loro archivio alla Fratelli Alinari. 
Wanda è l'unica della famiglia che accanto alla consueta attività di atelier e stabilimento cerca una propria chiave di lettura e interpretazione della realtà e della fotografia.
  • 125. Lucy Renée Mathilde Schwob detta Claude Cahun Nantes 1894 - Parigi 1954
  • 126. Diane Arbus New York 1923 - 1971 Diane Nemerov Arbus è tra le fotografe più significative e conosciute del ventesimo secolo. La sua vita attraversa le grandi trasformazioni della società occidentale avvenute fra la seconda guerra mondiale e gli anni Sessanta. Padre e madre, David Nemerov e Gertrude Russek, erano di origini russe e avevano un noto ed elegante negozio di abbigliamento femminile e pellicce sulla Fifth Avenue, Russek's, a pochi passi dalla boutique dei coniugi Avedon, anch’essi genitori di un talento della fotografia.
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  • 136. «Mi prendo il mondo ovunque sia», è il marchio di qualità di Letizia Battaglia, la più nota fotografa di mafia: settantenne, siciliana, nel suo rifugio nel centro storico di Palermo tra immagini che l’hanno resa famosa, la prima donna europea insignita a New York del Premio “Eugene Smith”, il celebre fotografo di «Life» (1985). In quarant’anni di lavoro con la Leica M2, sempre nel bianco e nero nitido e crudele – «il digitale mi fa paura, il colore non m’interessa» – ha documentato quel mondo, ovunque fosse, che faceva e fa paura: potere criminale, prepotenza e corruzione, sangue. Nella sua Sicilia, ma non soltanto.
  • 137. Marielle Hadengue detta Sarah Moon Parigi 1941 – vivente Modella a Londra, sul finire degli anni 1960, preso il nome d'arte Sarah Moon, decide di passare dall'altra parte dell'obiettivo: inizia la sua vita di fotografa, pur rimanendo strettamente legata all'ambito della moda. 
Anche se affascinata dalla fotografia di Guy Bourdin, specialmente per le situazioni narrative che il francese riesce ad allestire, sceglie come riferimento una fotografia d'altri tempi: i nudi fotografati da Eugene Durieu per Delacroix, i ritratti evanescenti di Julia Margareth Cameron, il pittorialismo del XIX secolo, l'immagine della donna codificata dal barone Adolf De Meyer, considerato il primo fotografo di moda, fino alla fotografia espressionista tedesca degli anni Trenta. 
Sarah Moon sceglie di dare della donna una visione irraggiungibile, fantasmatica, supernaturale e postmoderna per le reminiscenze di cui è portatrice, spesso non perfettamente definita nei contorni: come una instabile presenza di memoria.
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  • 139. I suoi temi ricorrenti sono il ricordo, la nostalgia dell'infanzia, la morte come distacco e distanza, la femminilità più profonda e la solitudine. Le sue fotografie sono vere e proprie visioni, anche se costruite in studio. 
Colloca le sue fantasie in uno spazio-tempo irreale, quasi volesse annullare la realtà di ciò che ha di fronte per ricrearla in una zona d'ombra senza confini.
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  • 145. . Tecnicamente ottiene tutto questo con il flou, le pose lunghe o le doppie esposizioni, le sovraesposizioni che dilatano la luce. 
La fotografia di Sarah Moon, così diversa dalla nuova fotografia di moda, orientata al mondo pop o optical, è presto inconfondibile. 
Già nel 1967 realizza le campagne pubblicitarie del marchio Cacharel diventando l'interprete di uno stile neoromantico e agreste. La sua visione fotografica infatti ben si presta alle declinazioni delle linee guida di Cacharel e il sodalizio si protrarrà per diversi anni. Nel 1979 le sarà assegnato il Premio Lion d'or per i film pubblicitari nell'ambito del Festival di Cannes proprio grazie a uno spot per Cacharel
  • 146. Cindy Sherman L’artista, che ostenta in maniera evidente la manipolazione esagerata del suo corpo, definisce il proprio volto come “tela bianca su cui intervenire”, al fine di elaborare e mettere a nudo gli stereotipi sociali diffusi dai media, rivelandone spesso la decadenza e quasi l’ “orrore” nei lineamenti caricati e quasi grotteschi. La serie di “ritratti” in questione indaga il prototipo della donna nel suo ruolo di moglie ricca e potente o di signora di mezza età dell’upper-class americana. Le donne ritratte non corrispondono a modelli di persone realmente esistenti, né i luoghi – come gli interni lussuosi, i palazzi nobiliari o i cortili rinascimentali – evocano delle ambientazioni reali. Tutto rimanda all’iconografia tradizionale del ritratto di rappresentanza di nobili mecenati o di personaggi dell’alta società: l’altera posa del corpo di tre quarti, l’abbondanza di gioielli e di dettagli dell’abbigliamento e l’ambientazione dal forte valore simbolico e sociale. Le protagoniste, tuttavia, si configurano come personaggi caricaturali che si stagliano davanti a fondali volutamente posticci e digitalmente prodotti ottenendo un forte effetto di kitsch e cattivo gusto. Dopo aver preso le sembianze dei soggetti che intende interpretare e ritrarre, Cindy Sherman fotografa se stessa incarnando le varie tipologie di donne stereotipate e ritraendosi in corrispondenti travestimenti e finti set ambientali attraverso montaggi simili a quelli delle vecchie fotografie in costume. La modalità di montaggio usata consente all’artista di mettere in evidenza l’artificiosità delle figure e di svelare le norme e le convenzioni della rappresentazione pubblica, tramite cui le figure esprimono simbolicamente il loro potere. Dietro la reiterata messa in scena di se stessa nei panni di uno stereotipo, l’autentica personalità della persona ritratta sembra dissolversi: un tema di rilevanza non inferiore rispetto alle questioni dell’artificiosità, della messa in scena e della manipolazione digitale dell’immagine.
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  • 148. … Cindy Sherman, una delle principali artiste e fotografe americane, ha spesso basato il suo lavoro sull’allestimento di set ambientali. La sua ricerca artistica ruota intorno a temi e questioni legate all’identità e alla manipolazione dell’immagine femminile, come la rappresentazione del ruolo sociale e culturale della donna e la questione del rapporto tra il soggetto reale e la sua raffigurazione. Le fotografie della Sherman che, con un senso ironico e caricaturale hanno sempre per protagonista la stessa artista, non sono tuttavia dei semplici autoritratti.
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  • 151. . nel 1989 con il ciclo “ritratti storici e antichi maestri” si ricollega alla storia dell’arte, incarnando modelli immaginari della storia della pittura.
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  • 155. Le Untitled Film Stills sono una serie di 69 fotografie in bianco e nero di piccolo formato nelle quali la Sherman si presenta come attrice sconosciuta in riprese che evocano film stranieri, immagini di Hollywood, film di serie B, e film noir. Evita di mettere i titoli alle immagini per preservare la loro ambiguità. Le opere sono state spesso create nel suo appartamento, usando oggetti e costumi propri o presi in prestito. Le Untitled Film Stills sono raggruppate in serie distinte: Nei primi 6 le foto sono sgranate e leggermente fuori fuoco (ad esempio, Untitled #4), e ciascuno dei ruoli sembra essere svolto dalla stessa attrice bionda. Il gruppo successivo è stato fatto nel 1978 a casa della famiglia di Robert Longo sulla forcella a nord di Long Island. Sherman tornò al suo appartamento, preferendo lavorare da casa. Ha creato la sua versione di un personaggio Sophia Loren nel film La crociere(es Untitled Film Still #35). Ha preso diverse fotografie delle scene mentre si prepara per il viaggio in Arizon a con i suoi genitori.
  • 156.
  • 157. Untitled Still Film #48(1979), è conosciuto anche come The Hitchhiker, è stato girato al tramonto, una sera. Il resto della serie è stata girata nei dintorni di New York, come Untitled #54. Nel dicembre 1995 il Museum of the Modern Art di New York, ha acquistato tutte le 69 fotografie della serie Unititled Film Stills per una cifra stimata di un milione di dollari. Nel ciclo “A Play of Selves” lavora (richiamando lo stile di Duchamp) sul cambiamento di identità e sull’ analisi delle definizioni dell’apparenza e del genere dettate dai fotografi. Compare sola nelle sue fotografie, giocando con travestimenti, amatorialità e ricerca di sé stessi intesi come diverse entità, rimandando alla fragilità dell’ io di fronte ai meccanismi di identificazione e di riconoscimento sociale. Nel 1975 con il ciclo “Untitled A B C D” lavora sul proprio viso come tela, utilizzando trucco e accessori per assumere connotati diversi. La sua non è un’indagine su se stessa come quella portata avanti da Francesca Woodman, ma un lavoro sull’identità in generale.
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  • 159. Parla di sé stessa con distacco e lavorando su gli stereotipi e sui modelli. Si pensi al ciclo “Bus Rider”, in cui la Sherman reinterpreta con il gioco dei travestimenti le diverse tipologie di persone intente ad aspettare l’autobus, o al ciclo”Hollywood”, in cui lavora sui cosiddetti falliti, quegli individui cioè che hanno mancato il sogno americano; questo lavoro comprende quindi anche una riflessione sul patetico dei sogni che non si riescono a realizzare. Lavoro molto importante è “Untitled film stills” in cui la Sherman ricrea dei fotogrammi cinematografici, mettendo in scena un’azione o uno stereotipo femminile del cinema americano. Nel 1980 presenta “Rear Screen Projection” in cui si fotografa su vari sfondi proiettati alle sue spalle, usati anche come fonte luminosa per lo scatto. La Sherman lavora anche nel campo della moda, collaborando nel 1983 con la rivista Interview, Marc Jacobs, e Jurgen Teller; riprende poi il mondo della moda nel ciclo “Centerfold/Horizontals”, in cui reinterpreta delle pagine pubblicitarie, mettendole in scena. Dal 1985 con il ciclo “Fairytales”, e “Disasters” la Sherman introduce nel suo lavoro un nuovo elemento, che diventerà poi quasi una costante: i manichini; inizialmente usati per richiamare in maniera grottesca il mondo dei giocattoli, saranno i protagonisti nel ciclo “Sex pictures”, in cui vengono scomposti e utilizzati per reinterpretare scene hard.
  • 160. Nan Goldin Nata nel 1953 a Washington Nan Goldin si trasferisce nella Grande Mela nel 1978. Dai party selvaggi degli anni ’80 e ’90 in una esuberante New York, fino all’impatto devastante dell’AIDS: combinando riprese video e fotografie, emergono con una sincerità e un’umanità sorprendenti i racconti e le interviste degli amici più intimi dell’artista, le cui esperienze vengono rivelate su pezzi di The Velvet Underground, Patti Smith, Television e Eartha Kitt. David, che per primo la soprannominò Nan introducendola ai drag clubs, Sharon, che accudì la sua migliore amica Cookie nelle fasi terminali dell’AIDS, Bruce e il suo racconto di lotta con la sieropositività: I’ll be your mirror (titolo preso in prestito dal brano di Lou Reed) come un diario riprende le loro vite immergendole nei colori tenui che contraddistinguono il lavoro della Goldin, tramutandole in tappe di un lungo e doloroso viaggio. Negli ultimi anni, Nan Goldin ha rivolto il proprio occhio ad altre culture alternative o “irregolari”, come il mondo della prostituzione nelle Filippine o i giovani protagonisti della ventata di liberazione sessuale in Giappone forse ricercando, in senso lato, i perduti compagni di strada.
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  • 167. L’invenzione del «pubblico» Se i modi di formazione, di vita e di posizione sociale dell’artista si trasformano a partire dal XIX secolo, le condizioni di acquisizione delle opere non si modifica. Il collezionista prende il posto del mecenate e all’amatore si sostituisce lo spettatore, visitatore occasionale dei luoghi dove sono esposte opere del passato e del presente.
  • 168. Nuovi attori in scena: i collezionisti L’esistenza ormai stabilizzata di un mercato dell’arte fa sparire o quasi la figura del committente: eccezion fatta nel contesto dei concorsi pubblici che riguardano la scultura monumentale o i grandi decori murali (si veda ad esempio a Roma l’Altare della Patria), diventa sempre più raro che un mecenate commissioni un’opera particolare precisando le condizioni di realizzazione (v. Baxandall si Picasso e su Piero della Francesca). Molto più spesso, gli amatori che vogliono acquistare opere scelgono tra quadri che pittori, scultori, fotografi, etc, hanno prodotto senza nessuna condizione. Questi amatori non si recano più neanche all’atelier dell’artista, ma a un intermediario, il mercante o il gallerista che già ha anche comprato una parte della produzione dell’artista o che divide con lui i benefici delle vendite.
  • 169. Ancora altri attori in scena: gli spettatori La nozione di amatore stessa tende d’altra parte a sparire nel corso del XIX secolo. Suppone una conoscenza (per questo si parla anche di «connaisseurs» che è lo specifico di alcuni spiriti che manifestano una predilezione permanente per le arti e che sono spesso usciti da ambienti colti e agiati. A partire dagli anni 1800, un processo di democratizzazione investe il rapporto con le opere d’arte. Lo «spettatore», del quale l’origine sociale è diversa, fa la sua apparizione. Si tratta nel XIX secolo del visitatore dei Salons, delle Esposizioni internazionali o altre manifestazioni temporanee, e dei musei, il cui sviluppo comincia in questo momento e si accelera nel XX secolo.
  • 170. La nascita dei musei Se in Italia la storia dei musei pubblici comincia con i papi, in Francia, più all’avanguardia, comincia con la Rivoluzione. Alexandre Lenoir apre nel 1795 a Parigi il Musée des monuments français: una istituzione destinata a raccogliere gli oggetti strappati ai monumenti venduti come «biens nationaux» e che altrimenti sarebbero stati vandalizzati. La confisca di opere d’arte nell’ Europa conquistata dalle armate rivoluzionarie e imperiali va ad arricchire tra il 1794 e il 1815 ciò che si chiama ancora il nuovo Muséum (Louvre) e a partire dal Consolato (1799-1804) nelle istituzioni equivalenti create progressivamente le opere confiscate ai paesi conquistati. Oppure venivano esposte suqualche monumento, come ad esempio i cavalli della basilica di san Marco a Venezia che erano andati a finire sopra all’arc de triomphe del Carrousel. Se da una parte Quatremère de Quincy, uno dei padri della tutela, denuncia come una idiozia il fatto di togliere questi pezzi dai luoghi per i quali son stati creati per situarli o meglio immagazzinarli in luoghi privi di anima, allo stesso tempo comincia l’era dei musei e il ragionamento sull’essenza del museo stesso.
  • 171.
  • 172. Se la prende un po’ con tutte le categorie Charles Saatchi, nell’articolo uscito ieri(3.12.2011) sul Guardian. Con i collezionisti, in primis, accusati di essere tanto ricchi quanto ignoranti, interessati all’arte solo come mezzo di affermazione sociale. Con i curatori, che definisce “insicuri” e inadeguati, bravi soltanto ad esporre “installazioni post-concettuali incomprensibili” destinate a essere apprezzate solo dai loro colleghi “ugualmente insicuri”.
E naturalmente anche con i dealer, i critici e persino con un certo tipo di pubblico, quello che non si perde nemmeno un opening ma poi non guarda i lavori in mostra e pensa solo a bere e chiacchierare. Insomma, ce n’è davvero per tutti in questo breve ma densissimo pamphlet affidato alle pagine del più letto quotidiano britannico. E Saatchi, che evidentemente si rende ben conto che molti reagiranno alla sua tirata con un lapidario “da che pulpito”, ci tiene a precisare: “Fino a poco tempo fa credevo che qualsiasi cosa potesse allargare l’interesse nell’arte contemporanea dovesse essere la benvenuta; soltanto uno snob elitista vorrebbe vederla confinata all’attenzione di pochi aficionados all’altezza. Ma persino un narciso egoista e spaccone come me trova questo nuovo mondo dell’arte profondamente imbarazzante”. - Valentina Tanni
  • 173. Hubert Robert, Progetto per la Grande Galerie del Louvre nel 1796, olio su tela, 112 x 143 cm, Parigi, musée du Louvre Il museo del Louvre, ancora oggi una delle più importanti istituzionimuseali del mondo è l’erede del Muséum centrale delle arti, fondato nel 1793 e diventato, sotto l’Impero, Museo Napoleone (direction de Dominique Vivant Denon). La fondazone era stata preceduta prima della Rivoluzione, dall’esposizione dei più bei quadri della collezione reale, collocata al palazzo di Luxembourg tra il 1750 e il 1785. Il musée du Louvre ha dalle origini una vocazione universale : illustrare le arti sin dall’antichità senza limitazione di luoghi. Oggi le collezioni si fermano al XIX secolo.
  • 174. I mecenati del Moma davanti alle Demoiselles d’Avignon di Picasso appena comprato dal museo , 1939 Il MoMA (Museum of Modern Art) è il primo museo consacrato all’arte che non sia del passato, ma alla creazione recente e contemporanea. Che una simile istituzione sia nata in America non deve stupire : un mondo recente dove la fiducia nel presente e nel futuro sono l’elemento di coesione nazionale. L’altra caratteristica del MoMA è che si ratta di un’iniziativa sostenuta da privati paradossalmente (fu inaugurato nel 29, qalche giorno dopo il krack di Wall Street). La sua fondazione è dovuta alla donazione più che importante del miliardario americano John D, Rockefeller jr, del quale la famiglia rimase per molto tempo al disetino del museo. Sotto la prima direzione di Alfred J. Barr, il MoMA, le cui collezioni aumentano rapidamente, incontra un grande successo di pubblico. Si impose subito come una vetta dei luoghi artistici del mondo.
  • 175. Una sala del dipartimento di arti africane, d’oceania e d’America, ala Michael Rockefeller, Metropolitan Museum of Art, New York La legittimità dell’ingresso di oggetti «primitivi» nei musei detti di belle arti ha sempre trovato resistenze. Negli Stati Uniti, il giro di boa si ha nel 1969, quando il mecenate Nelson Rockefeller offre al Met la collezione che a costituito il cosidetto Museo di arti primitive : 3300 pezzi africani, americani e di oceania. L’ala dove si trova il dipartimento porta il nome del figlio del mecenate, morto durante una spedizione in Nuova Guinea nel 1961
  • 176. Parigi, musée du Quai Branly, 2006. . In Europa il riconoscimento delle opere «primitive» è più tarda. Si pensi che a Parigi l’entrata di questi oggetti al Louvre, scrigno del gusto del passato occidentale, provoca negli anni 1990 una polemica che poi ha portato all’apertura di un nuovo museo specifico, il musée del Quai Branly (2006).
  • 177. Giuseppe Bazzani, La Galleria Nazionale d’Arte Moderna, 1908-1911, (ampliamento del 1933-1934), Roma, Se la ragione d’essere del museo è nelle opere che conserva, l’architettura che ospita le collezioni fa anche la sua reputazione, Nel XIX secolo, lo stile «Beaux-arts» è giudicato il più naturalmente adeguato : i musei sono in pietra con decorazioni neogreche (quello di Philadelphia ha una facciata a colonne e frontone policromi) o eclettici (citazioni miste).
  • 178. Frank Lloyd Wright, Salomon R Guggenheim Museum, 1943, Marcel Brauer, Withney Museum, 1966
  • 179. Renzo Piano e Richard Rogers, Centre Pompidou, Parigi, 1977 Nel XX secolo, dopo gli avvenimenti architettonici che costituiscono i musei Guggenheim di Franck Lloyd Wright e Withney Museum a New York , la struttura a tubolari colorati del Centre Georges Pompidou a Parigi (Musée national d’art moderne) opera di Piano e Rogersm fa scandalo negli anni 1970 perché collocata nel cuore dle centro storico di Parigi e conosce un grande successo di curiosità che non diminuisce in seguito.
  • 180. FrancK o Gehry, il Museo Guggenheim a Bilbao, 1997 A Bilbao, venti anni più tardi, l’architetto Franck O. Gehry è all’avanguardia con il Guggheneim., con forme ritorte, spazi interconnessi rivestiti in titanio. La visita in questo caso si fa al museo stesso quanto alle opere che contiene.
  • 181. Patrimonio A partire dalla fine della sSeconda Guerra mondiale, il fenomeno dei visitatori si accresce considerabilmente. Riguarda presto ciò che si comincia a chiamare «pubblico». Ereditato, come quello dei musei, dalla Rivoluzione francese con uomini come l’Abbé Grégoirein Francia che difendono l’idea che i monumenti delle scienze e delle arti sono il bene di tutti i cittadini. Si sviluppa il concetto di Patrimonio che appartiene alla collettività e che conviene salvaguardare, legittimando la mobilitazione di istanze internazionali : come l’Unesco (Nazioni unite per l’educazione, scienza e cultura), fondata nel 1945. Si tratta di classificare le opere e disegnandole come bene da salvaguardare e di favorirne l’accesso al più gran numero. Turisti ad Angkor Wat
  • 182.
  • 183. «Industrie culturali» Dalla fine degli anni 1940, analizzando i primi effetti di questa politica, sociologi e economisti inventano un termine specifico, l’«industria culturale» : l’espressione viene dalla germania, teorizzata da Theodor Adorno e Max Horkheimer, oggi utilizzata soprattutto al plurale. Ma si impiega anche il termine «cultura di massa» per designare un fenomeno che si accelera negli anni 1960 : con il favore dello sviluppo dei piaceri, in particolare il turismo, i siti archeologici, i monumenti e le città dette d’arte, i musei e le manifestazioni temporanee (mostre), integrano la sfera del commercio, mentre il fatto di far accedere la massa alla comprensione dei «prodotti culturali», alimenta una nuova funzione, che si chiama «mediazione».
  • 184. Le grandi mostre : le origini La storia delle manifestazioni culturali è parallela a quella delle fiere commerciali internazionali e dei raduni sportivi. Gli uni e gli altri nascono nel XIX secolo e conoscono un notevole sviluppo verso il volger del secolo (i primi giochi olimpici datano al 1896).
  • 185. Salons e mostre specializzate Oltre ai Salons parigini, al loro apogeo alla fine del xIX secolo, l’esposizione specializzata italiana, la Biennale di Venezia, data alla prima edizione al 1895. La prima esposizione d’arte contemporanea che abbia veramente contato nella storia dell’arte è l’Armory Show di New York nel 1913, dove fu esposto il Nu descendant un escalier di Marcel Duchamp.
  • 186.
  • 187. Le Esposizioni Universali Dalla fine del XIX secolo, le esposizioni universali, che prendono milioni di spettatori, comportano un settore consacrato alle arti. Così la prima si tiene nel 1851, a Londra, nel paese dove è nata la rivoluzione industriale. Mettere in valore delle realizzazioni manifatturiere porta con se altri tipi di dimostrazioni competitive : creazioni architettoniche (Crystal Palace per la prima edizione di Londra; la Torre Eiffel nel 1889; il Grand e Petit Palais nel 1900) o urbanistiche : la metropolitana nelle grandi città.
  • 188.
  • 189.
  • 190.
  • 191. 2013, anno di Biennale …