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CAPITOLO 11

Arte Contemporanea
Michelangelo Pistoletto
“Disegnatrice”
1962-1975
serigrafia su acciaio inox lucidato a specchio, 2 pannelli, 250 x 125 cm
ciascuno
Foto: P. Pellion




                                                                           278
L’arte contemporanea come motore e specchio del cambiamento post-industriale
L’arte contemporanea è in sé pura creatività e parlare dell’una equivale evocare l’altra. Ma
entrando nel mondo delle arti visive si scopre anche quanto le relazioni sociali, il mercato, la
produzione e le istituzioni contino e modifichino il senso stesso del concetto di creatività.
Negli ultimi sei anni, un artista dal grande riconoscimento internazionale come Douglas
Gordon ha avuto 22 mostre personali (dati artfacts.net). Jonathan Monk, 25. Olafur Eliasson
ne ha avute 32. Senza contare, naturalmente, le collettive: in dieci anni, Gordon ne ha fatte
200, Monk 160, Eliasson 184. E si tratta di stime per difetto. In un momento in cui le imprese
modificano i loro modelli di organizzazione per portare negli ambienti di lavoro un clima più
ludico e rilassato e per lasciare spazio all’espressività e alla creatività individuale, l’arte
contemporanea, regno incontrastato del pensiero creativo e di tutte le sue complesse e
sfuggenti modalità di manifestazione, sembra al contrario muoversi quasi verso un modello
tayloristico della catena di montaggio, in una lotta perpetua con le scadenze pressanti di una
programmazione artistica sempre più fitta e geograficamente pervasiva. E’ vero che molti
degli artisti di maggior successo – e soprattutto quelli che per realizzare le loro opere hanno
bisogno di processi produttivi che coinvolgono un alto numero di competenze interdisciplinari
– dispongono ormai di squadre di collaboratori organizzate come piccole o persino medio-
piccole imprese, ma bisogna comunque riconoscere che siamo di fronte ad un profondo
cambiamento nelle modalità di produzione dell’arte contemporanea e forse del senso stesso
del fare artistico.
Che cosa spinge questi artisti a lavorare tanto, correndo il rischio di bruciare in un attivismo
frenetico la propria capacità e disponibilità a dedicare il tempo e le energie necessari
all’ideazione e allo sviluppo di nuovi progetti profondi e originali e quindi, in ultima analisi, di
sacrificare la sostenibilità di lungo termine dei propri processi creativi alle ragioni di
un’efficienza produttiva di breve-medio termine? La risposta è semplice: una quantità
esorbitante di richieste provenienti da realtà di tutti i tipi: quelle tradizionali, come musei,
gallerie, fondazioni, fiere, collezioni private, case editrici, ma anche – e sempre più –
aziende, istituzioni pubbliche, ospedali, università, parchi scientifici. All’artista non si chiede
più soltanto di produrre mostre, progetti di arte pubblica o più in generale interventi nei luoghi
deputati, per quanto il loro numero cresca senza limiti. Di fatto, ogni occasione è buona per
chiamare in causa gli artisti. L’arte è ormai ovunque, e più si diffonde più genera nuovi
appetiti e nuove richieste. Le riviste di moda e di costume costruiscono interi numeri attorno
all’arte e agli artisti, quando non ne affidano direttamente a loro la direzione creativa. I
pianificatori urbani se li contendono. Le aziende chiedono loro di tenere workshop per i
manager e i dipendenti, di progettare oggetti e processi comunicativi.
La visibilità sociale degli artisti comincia a fare concorrenza a quella delle rockstar. Ma la
differenza sta, o meglio stava, nel fatto che mentre la musica rock è parte della cosiddetta
industria culturale – vale a dire, un settore produttivo nel quale il prodotto in vendita è fatto
per essere riprodotto in tirature illimitate, la cui effettiva entità dipende soltanto da quella della
domanda – l’arte contemporanea è invece, o forse dovremmo cominciare a dire era – parte
del core, cioè del nucleo della produzione culturale, che si organizza con modalità che non
hanno a che fare con l’industria ma semmai con la piccola bottega artigiana. Evidentemente,
però, non è più così: anche gli artisti, a loro modo, stanno cominciando a produrre in serie.
Non tante copie dello stesso oggetto, ma una proliferazione di ‘esemplari unici’ che esulano
dai confini delle opere d’arte definite in senso tradizionale. E anche qui si trova in fondo
un’analogia con le rockstar che ormai scrivono libri, firmano profumi e vestiti, o aprono bar e
ristoranti: pratiche ormai sempre più diffuse tra gli stessi artisti, come nel caso di Damien
Hirst.



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A cosa si deve tutta questa attenzione nei confronti dell’ arte e degli artisti? Al fatto che,
proprio nei mercati di massa nei quali ormai i consumatori si avvicinano ad una condizione di
sostanziale sazietà, gli artisti riescono ad offrire proprio quella merce che in un mondo di
abbondanza resta scarsa: i significati. Gli artisti definiscono i loro sistemi di regole
apparentemente inutili, insensati o comunque discutibili, che però rivelano aspetti del mondo
inaspettati, o mettono in crisi imprevedibilmente le convenzioni sociali apparentemente più
solide. I consumatori mostrano ormai una certa insofferenza verso ritualità di prodotti sempre
più prevedibili, e quindi trovano nell’arte un appagante diversivo. E se questo è vero per chi
vive nelle affluent societies, risulta vero a maggior ragione per i nuovi consumatori dei paesi
emergenti come quelli arabi o dell’estremo oriente, dove l’arte contemporanea diventa il
simbolo stesso di un nuovo status sociale legato alla possibilità di accesso ad un consumo
globalizzato i cui presupposti comportamentali vengono acquisiti in fretta ma anche
altrettanto in fretta trasgrediti e superati alla ricerca di una sintesi identitaria credibile tra
vecchio e nuovo, tradizionale e innovativo, conforme e trasgressivo.
Nei mercati di massa, l’abbondanza, e anzi l’aggressività dei prodotti, che sono ovunque e
reclamano attenzione, spinge i consumatori a forme di difesa sempre più sofisticate: si fatica
a ricordare il nome dei prodotti, se ne confonde uno con l’altro, si consuma senza neanche
farci più caso, magari pensando già a cosa si consumerà subito dopo. E fenomeni simili, in
effetti, si cominciano a riscontrare anche nell’arte: il pubblico dell’arte, ormai, non va più a
vedere una specifica mostra, ma piuttosto intraprende veri e propri tour delle mostre, o degli
stand nelle fiere, a seguito dei quali si è esposti in un giorno a centinaia di opere, spesso
mentre simultaneamente si intraprendono complesse e articolate attività relazionali. L’arte si
sta adeguando al nuovo stato di cose, adottando strategie di seduzione e di richiamo
dell’attenzione tarate su un pubblico sempre più distratto e disattento. E questo non vale
nemmeno soltanto per le opere, ma anche per gli stessi concept delle mostre, che devono a
loro volta imporre formati e modalità sufficientemente insoliti e originali da stuzzicare
l’attenzione di un pubblico perennemente saturo di stimoli.


Effetti di selezione: l’Italia nel contesto internazionale
“A chi ha sarà dato e sarà nell’abbondanza: e a chi non ha sarà tolto anche quello che ha”: è
un celebre passo del vangelo di Matteo (13:12). E’ per questo che si parla di ‘effetto Matteo’
a fronte di un fenomeno tipico di molti mercati culturali: quello della concentrazione
dell’attenzione (e delle risorse) su un numero molto ristretto di artisti, a scapito di tutti gli altri.
E non è un fenomeno tipico soltanto della sfera culturale: qualcosa di analogo accade anche
nella scienza. Quando un saggio è firmato da uno scienziato famoso, riceve più attenzione
rispetto ad altri firmati da scienziati meno conosciuti, a prescindere dal contenuto. Accade
anzi che, come osservato da James Surowiecki nel suo The wisdom of crowds, quando due
articoli sono pubblicati, uno di seguito all’altro, sulla stessa rivista e su un argomento
pressoché identico ma uno ha uno scienziato famoso come prima firma mentre nell’altro lo
stesso scienziato firma dopo l’altro coautore, il primo articolo risulta molto, molto più citato e
letto del secondo, perché si presuppone che in esso il contributo dello scienziato ‘degno di
nota’ sia più sostanziale.
Nel campo dell’arte contemporanea si assiste a dinamiche del tutto analoghe: una stessa
idea può essere proposta allo stesso tempo da molti artisti, ma quelli con maggiore
reputazione ricevono molti più riscontri e attenzione degli altri. In sé, non è detto che si tratti
di una distorsione del sistema: nella valutazione di un artista, il percorso conta molto più della
singola idea o del singolo lavoro. Ma affiora un dubbio molto più profondo: il fatto cioè che
quando un artista superi un determinato livello di affermazione e riconoscibilità, oppure
anche semplicemente venga proposto attraverso canali di per sé dotati di una particolare
autorevolezza all’interno del sistema, questo faccia sì che il suo lavoro ‘debba’ ricevere
approvazione o quantomeno una forte attenzione, a prescindere dal fatto che il lavoro venga
apprezzato o meno, mentre d’altra parte gli artisti che provengono da canali meno legittimati



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o che per qualche motivo non hanno raggiunto, pur avendo alle spalle un lavoro significativo,
determinati livelli di affermazione, debbano al contrario affrontare una sorta di sfiducia
sistematica che compromette la qualità e la quantità di attenzione necessaria ad una
comprensione adeguata.
Nel contesto di queste forme estreme di economia dell’attenzione, diviene necessario
mettere in atto strategie che legittimino una determinata scena nazionale o locale, o meglio la
sua componente qualitativamente più rilevante, come un palcoscenico artistico interessante,
capace di offrire agli artisti che vi operano un avviamento reputazionale adeguato. Nel caso
dell’Italia, negli ultimi due decenni si è venuta progressivamente configurando una situazione
piuttosto complessa, nella quale gli artisti appartenenti a generazioni mature (come quelli
dell’Arte Povera o della Transavanguardia) godono di una elevata riconoscibilità
internazionale e calamitano un forte interesse sia dal punto delle istituzioni artistiche
internazionali che del mercato, mentre per le generazioni più giovani questo processo di
focalizzazione si è paradossalmente rivelato fino ad oggi molto più selettivo, filtrando un
numero limitatissimo di nomi, che spesso devono il loro successo all’abbandono precoce
della stessa scena italiana in favore di altre dotate di maggiore valore reputazionale e di
persuasione. Il carattere paradossale di questo stato di cose si deve al fatto che, in genere,
avviene il contrario: la piramide si restringe tornando indietro nelle generazioni, in quanto
maggiore è il periodo nel quale un artista è rimasto all’interno dell’arena competitiva del
sistema dell’arte, più forte è l’effetto della selezione. In teoria, gli artisti giovani che trovano
riscontro dovrebbero essere molti per poi venire progressivamente selezionati. Nel caso
dell’Italia, appunto, avviene il contrario, e ciò a causa del fatto che, da una generazione
all’altra, sono cambiate le regole del gioco, o meglio è cambiato lo status della scena italiana
nel contesto internazionale: da palcoscenico di primo piano a palcoscenico relativamente
marginale e secondario.


Elementi per una politica del contemporaneo in Italia
A che cosa si deve allora lo scarso rilievo di cui soffre oggi l’arte italiana all’interno del
sistema dell’arte globale? Non alla mancanza di materia prima, cioè di artisti validi e
potenzialmente capaci di conquistare attenzione e interesse sulla ribalta internazionale. Il
problema sta piuttosto nel fatto che il nostro sistema soffre di alcune debolezze strutturali che
penalizzano notevolmente i nostri artisti e che costringono questi ultimi, se davvero vogliono
aspirare ad una chance di successo internazionale, ad andare a vivere e lavorare altrove.
Ripercorriamo brevemente queste debolezze. In primo luogo, la mancanza di un
collezionismo e di una committenza istituzionale e aziendale di qualità, che è ciò che
permette a sistemi dell’arte tradizionalmente deboli sul piano del collezionismo privato di
offrire agli artisti opportunità professionalmente qualificanti ed economicamente redditizie,
aumentando il loro status sociale e dando loro una base reddituale sufficientemente solida da
consentire un pieno investimento sulla carriera artistica senza bisogno di disperdere energie
in attività accessorie e necessarie per garantirsi la sopravvivenza economica. In un contesto
come quello italiano in cui il collezionismo privato è inoltre tutt’altro che debole ed è anzi
vivace e diffuso come in pochi altri paesi, ma è anche molto frammentato e caratterizzato da
relativamente pochi collezionisti con grande capacità di spesa, un collezionismo e una
committenza pubblica e aziendale competenti contribuirebbero in modo importante alla
creazione di una base di domanda capace di innescare la crescita di gallerie di dimensioni
economiche sufficienti a competere da protagoniste sui mercati internazionali e a investire
realmente sui propri artisti di punta. Un ruolo importante può inoltre essere ricoperto dalle
fondazioni ex bancarie, una rete di soggetti tipica della realtà italiana e dotata di una grande
capacità di spesa e di un grande interesse per la cultura, e che però, con poche eccezioni,
non ha mostrato grande interesse per l’arte contemporanea di qualità inseguendo spesso
logiche localistiche e culturalmente modeste. Infine, bisogna ricordare il ruolo enorme che
potrebbe giocare nel rilancio di una committenza pubblica di qualità una applicazione seria



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della cosiddetta “legge del 2%”, che destina, nella nuova formulazione gestita dalla società a
controllo pubblico ARCUS, Società per lo sviluppo dell’arte, della cultura e dello
spettacolo S.p.A., il tre per cento del costo di costruzione o di ristrutturazione di un’opera
pubblica alla committenza di un’opera d’arte da installare in loco. Una legge che oggi resta
spesso disattesa o dà luogo ad operazioni di discutibile profilo culturale.
Un altro punto debole dell’azione pubblica sta nelle modalità stesse di promozione degli
artisti italiani sul piano internazionale. Di solito, la promozione dell’arte italiana si concretizza
nell’organizzazione di mostre, a volte anche piuttosto costose, spesso ospitate in luoghi
relativamente marginali di capitali internazionali dell’arte, e in ogni caso tipicamente
‘paracadutate’ in tali contesti senza intraprendere un reale dialogo preparatorio con la scena
locale, che aiuti gli artisti in mostra ad interagire e a farsi conoscere da chi, se eventualmente
interessato al loro lavoro, potrà in seguito aprire per loro spazi e opportunità. Ma per fare
questo occorrerebbe che gli enti dediti a queste attività promozionali possedessero, o si
affidassero a chi possiede, una solida e aggiornata conoscenza delle più importanti scene
locali dell’arte internazionale, e altrettanto solidi ed aggiornati contatti con i principali
protagonisti di tali scene. In mancanza di ciò, la soluzione della mostra ‘turistica’ nella quale
l’artista arriva, installa il proprio lavoro, presenzia al vernissage e se ne va senza aver
maturato una minima consapevolezza del contesto artistico con cui (non) ha interagito, è la
soluzione più comoda ed indolore per tutti, anche se, paradossalmente, dal punto di vista
della reputazione artistica avrà più che altro riflessi in patria. Né in genere è d’aiuto la rete
degli istituti italiani di cultura all’estero, che malgrado la loro ampia copertura globale non
dispongono spesso di competenze nel campo dell’arte contemporanea ed ospitano un
programma espositivo elaborato in assenza di criteri qualitativi certi, e spesso invisibile nei
confronti della scena artistica locale. Le soluzioni più efficienti in questo ambito sarebbero
varie. La concessione di grants finalizzati alla realizzazione di progetti espositivi e residenze,
assegnati agli artisti che siano stati in grado, con le proprie forze, di accreditarsi con
successo e quindi di ottenere un invito da parte di istituzioni culturali, gallerie e spazi
indipendenti stranieri di rilievo. Il finanziamento di programmi di residenza di curatori stranieri
in Italia, in modo da dare loro una reale opportunità di conoscenza della nostra scena
artistica e di un reale dialogo con gli artisti. La destinazione di consulenti per l’arte
contemporanea dotati di grande competenza e professionalità presso le sedi degli istituti
italiani di cultura situati nelle città di maggior interesse per il sistema dell’arte contemporanea,
e la trasformazione del ruolo di questi ultimi da centri espositivi (con pochissime e motivate
eccezioni) ad agenzie di promozione e di facilitazione dei contatti con le scene artistiche
locali. Un ulteriore sostegno potrebbe essere dato, ad esempio sotto forma di acquisto di
rilevanti spazi pubblicitari per i più interessanti progetti esteri degli artisti italiani, alle riviste
italiane d’arte a più alta diffusione internazionale, e permettendo loro di realizzare o di
potenziare le loro edizioni in lingua inglese. Si potrebbe anche seguire l’esempio di alcune
agenzie nazionali di promozione dell’arte contemporanea come la finlandese FRAME, che
pubblica un’eccellente rivista interamente dedicata all’arte finlandese, Framework.
L’altra criticità riguarda il sistema degli spazi espositivi non-profit, pubblici e privati. Mentre la
rete museale per l’arte contemporanea è cresciuta notevolmente negli ultimi anni, e
probabilmente crescerà ancora visto che nuove iniziative vengono presentate con cadenza
regolare, altrettanto non può dirsi per il circuito degli spazi indipendenti e degli spazi
espositivi non collezionistici, che in Italia è molto ridotto. E se è vero che molti dei nuovi
musei italiani hanno collezioni piccole o addirittura inesistenti, ciò si deve più a limitazioni di
bilancio che alla reale volontà di dare luogo a spazi a vocazione eminentemente progettuale.
L’assenza di questo tipo di spazi danneggia gravemente i giovani artisti perché li priva di
opportunità di lavoro nelle quali sperimentare e definire la loro ricerca in assenza di vincoli e
condizionamenti di tipo commerciale. Non è un caso che gran parte degli artisti internazionali
di maggior successo hanno realizzato le loro prime personali significative in spazi come
questi. Il sistema che si è dimostrato più efficace in tal senso è quello delle Kunsthalle dei
paesi di lingua tedesca, spazi espositivi privi di collezione, in genere sostenuti dalle
municipalità e dalle amministrazioni locali, che offrono spesso una programmazione di


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grande qualità che alterna artisti internazionali ai più promettenti artisti nazionali e locali,
chiamando a collaborare anche curatori stranieri, e svolgendo spesso un interessante lavoro
di ricognizione sulla scena artistica locale. A questo circuito si accompagna quello
complementare dei Kunstverein, associazioni private di collezionisti che promuovono spesso
anch’essi attività espositive di grande qualità e permettono ai privati di perseguire una
progettualità collettiva di promozione dell’arte che va oltre la cura e lo sviluppo della propria
collezione personale. Per questo tipo di realtà, che potrebbero essere promosse anche in
Italia, nonché per i musei di arte contemporanea già esistenti, si potrebbe pensare a forme di
detassazione selettiva, ad esempio l’abolizione dell’iva, o la concessione di uno statuto
fiscale privilegiato quale quello oggi concesso alle onlus, ovvero alle organizzazioni non
lucrative che operano nel sociale, riconoscendo così all’arte una funzione sociale che oggi è
largamente sottovalutata e lontana dalla percezione di gran parte dell’opinione pubblica.
Infine, le gallerie, che in Italia sono tante e spesso molto vivaci ma che faticano a crescere e
di conseguenza ad investire sui propri artisti in modo adeguato a garantirne un efficace
lancio internazionale. In questo caso, l’iniziativa più necessaria, al di là del già ricordato
potenziamento del collezionismo pubblico e aziendale (che potrebbe essere fiscalmente
incentivato) è l’abbattimento dell’iva, che come più volte richiesto andrebbe portata
dall’attuale 20% al 4% prevalente nella maggior parte dei paesi europei. Il mancato introito
per lo Stato sarebbe modesto, vista la dimensione del settore, e potrebbe addirittura
trasformarsi in un introito netto se come è prevedibile questa misura portasse all’emersione
di tante realtà che oggi agiscono nel sottobosco del sommerso in quanto un’iva al 20% è
semplicemente incompatibile con la possibilità di spuntare margini accettabili su un mercato
collezionistico che come si è detto è vivace ma è mediamente sensibilissimo al prezzo.


I riflessi sul collezionismo
Collezionare arte non è più semplicemente un modo di esprimere un gusto personale o uno
status sociale, quanto piuttosto un modo per prendere posizione, più o meno
consapevolmente, in una arena simbolica molto complessa e in perenne evoluzione.
Particolarmente interessante a questo proposito è il fenomeno del collezionismo nei paesi
economicamente emergenti, dove, come si è già osservato, una classe sociale e
imprenditoriale rampante e ansiosa di definire appunto una propria identità distintiva adotta
spesso il linguaggio dell’arte contemporanea come controparte simbolica della propria
condizione acquisita di nuovo protagonismo nell’economia globalizzata. E le dimensioni e la
rapidità di questo fenomeno rendono particolarmente evidente un altro aspetto cruciale del
collezionismo del contemporaneo: il suo legame con la geopolitica. Il grande momento di
attenzione nei confronti dell’arte proveniente dalla Cina o dall’India riflette in modo naturale
non soltanto il dinamismo economico ma anche e soprattutto il crescente peso politico di
questi paesi, e per certi versi ne fornisce una autorevole, indiretta convalida culturale. Non
c’è dubbio che scene culturali come quella cinese o indiana, investite come sono da una
spinta di trasformazione prepotente e messe in condizione di poter finalmente esprimere ciò
che per lungo tempo non trovava spazio e non attraeva attenzione, siano oggi
inevitabilmente tra le più interessanti e vitali del mondo. Ma allo stesso tempo non si può non
notare come ormai l’attenzione verso queste forme di arte si manifesti a prescindere da
qualsiasi considerazione di ordine qualitativo o da qualunque effettiva competenza o
conoscenza dei linguaggi e dei temi: è, appunto, un atteggiamento che riflette la presa di
coscienza del fatto che questi sono oggi i luoghi identitari prima ancora che fisici che vanno
presidiati, le espressioni irrinunciabili dello spirito del tempo.
E’ in questa chiave che si può probabilmente leggere, quasi come un contrappasso, la
contraddittoria situazione dell’arte italiana nel contesto del collezionismo d’arte
internazionale. Da un lato, a Londra si susseguono nelle principali case d’asta sessioni di
Italian sales che incontrano pressoché invariabilmente un grande successo e spesso portano
a dei record di quotazione. Dall’altra, si continua a registrare una preoccupante latitanza della



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nostra arte, soprattutto di quella delle ultime generazioni, da molte delle grandi collezioni
internazionali e soprattutto da quelle di più recente formazione o attualmente più dinamiche,
con la parziale eccezione di coloro che, come François Pinault, avendo scelto di investire nel
nostro paese necessariamente prestano qualche attenzione in più a ciò che accade da noi.
In realtà la contraddizione è soltanto apparente e si scioglie con facilità guardando i fatti un
po’ più da vicino: l’arte italiana che oggi si vende è, come si anticipava più sopra, quella
prodotta da artisti ormai scomparsi come Burri o Fontana, Manzoni o Boetti, o dai principali
protagonisti dell’Arte Povera. Senza contare che molti degli entusiasti acquirenti delle sales
londinesi sono in realtà collezionisti di casa nostra. Se ci si muove verso esperienze più
recenti, ci si trova di fronte ad uno scenario ben diverso, nel quale, con pochissime eccezioni,
i protagonisti della nostra scena artistica fanno fatica anche soltanto ad arrivare nelle aste
che contano, prima ancora di potersi chiedere se sono o meno in grado di spuntare
quotazioni significative.
E anche questo è un chiaro riflesso della geopolitica: l’Italia di oggi conta poco nel mondo del
collezionismo internazionale perché è un paese che non soltanto non dà una impressione di
proiezione verso il futuro, ma appare ripiegato in una sorta di delirio autoreferenziale: agli
occhi del mondo, abbiamo un grande futuro dietro le spalle piuttosto che davanti. Siamo un
paese nel quale la maggior parte della popolazione non conosce una lingua straniera e
soprattutto non ha nessuna intenzione di impararla. Non c’è allora da stupirsi se persino i
nostri collezionisti, quando vogliono dare l’idea di essere sofisticati e cosmopoliti,
preferiscono investire su un giovane talento straniero piuttosto che su un artista ‘nostrano’
(per non parlare dei curatori italiani chiamati ad operare scelte e a fare segnalazioni nelle
grandi manifestazioni internazionali).
Il collezionismo, dunque, è oggi una vera e propria cartina al tornasole di ciò che accade,
anche al di fuori delle arene culturali. Ma è anche un modo di accumulare: la collezione, in
fondo, è un capitale nel senso economico del termine, rappresenta un investimento il cui
valore si rivela man mano che le scelte operate risultano condivise o meno dal mercato, e in
questo senso la prospettiva di breve e quella di lungo periodo possono esprimere verdetti
molto diversi. Non a caso, il mondo delle banche e della finanza si è ampiamente accorto di
ciò che accade nell’ hortus non più conclusus dell’arte e sta moltiplicando iniziative e prodotti:
dai servizi di consulenza per i clienti del private banking, alla creazione di art funds, alla
stessa espansione dei propri programmi di collezionismo aziendale. Un interesse
collezionistico diretto condiviso peraltro anche da aziende il cui core business ha
apparentemente poco o nulla a che fare con l’arte.


Le aziende e l’arte contemporanea
Ma allora perché le imprese italiane investono relativamente poco in arte contemporanea?
Mentre il nostro collezionismo privato è, come si è già accennato, vivace e dinamico, le
imprese, a differenza di quanto accade in paesi come la Germania o il Regno Unito, sono
molto più restie, e anche quando gli imprenditori diventano collezionisti sono in genere più
inclini ad acquistare per sé che per l’azienda. L’argomento classico che viene proposto per
spiegare lo scarso interesse delle imprese è la mancanza di incentivi fiscali: se gli acquisti
d’arte potessero essere detassati, si argomenta, le imprese acquisterebbero molto di più. C’è
motivo di dubitarne, almeno in parte: ascoltando l’esperienza degli imprenditori che hanno
deciso di investire in arte a livello aziendale o addirittura di costruire una collezione
aziendale, quasi mai si sostiene che una incentivazione fiscale favorevole avrebbe potuto
giocare un ruolo decisivo nella decisione di imboccare questa strada: quel che conta è la
passione e la convinzione dell’importanza di questo tipo di iniziativa. Sono molti di più,
invece, gli imprenditori che non investono a richiamare la mancanza di incentivi fiscali come
giustificazione, che però suona spesso come una via comoda per togliersi d’impaccio. In
realtà, approfondendo la questione, emergono altri elementi molto più decisivi: la paura di
non avere abbastanza competenze per affrontare il mercato dell’arte, la paura di reazioni


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negative da parte dei dipendenti che potrebbero considerare la collezione uno spreco di
danaro e una sottrazione di risorse nei confronti di priorità più importanti, soprattutto nei
momenti nei quali la competizione globale si fa più incisiva, la paura di attrarre l’attenzione
della finanza e di subire accertamenti particolarmente accaniti, e così via. Un vario
assortimento di paure, dunque, alla base del quale sta, in varie declinazioni, una stessa
causa: una scarsa cultura del contemporaneo, che impedisce all’imprenditore di capire che le
competenze si possono costruire conoscendo un poco alla volta la scena dell’arte
contemporanea e affidandosi agli esperti verso le cui scelte si prova una maggiore affinità.
Che impedisce di capire che i lavoratori considerano l’arte uno spreco di risorse e un irritante
capriccio dei vertici aziendali se non sono messi in condizione di conoscere, di capire, di
partecipare, ma che invece spesso diventano dei sostenitori di questo tipo di programmi
quando comprendono il contributo che essi possono dare al miglioramento della cultura
organizzativa e della qualità degli ambienti di lavoro, all’apertura mentale, alla disponibilità
verso il nuovo. Che impedisce al nostro fisco di pensare all’arte come ad un bene voluttuario
invece che ad un investimento (e ne è prova il non mai abbastanza stigmatizzato trattamento
iva delle transazioni, che come si è detto a differenza di altri paesi europei impone
un’aliquota del 20% e impedisce in buona parte l’emersione del mercato), e che quindi
inocula nelle imprese il timore di essere oggetto di insidiose attenzioni da parte del fisco.
Un robusto e maturo collezionismo aziendale farebbe benissimo non soltanto a molte
imprese ma anche, ovviamente, al nostro sistema dell’arte, che avrebbe la possibilità di
crescere e di investire più risorse sui nostri artisti, favorendone l’affermazione internazionale.
Una delle sfide da proporre ai dicasteri governativi dei beni culturali e dello sviluppo
economico sarebbe quella di dare avvio ad un programma di sensibilizzazione delle imprese
al collezionismo aziendale, concedendo benefici ai musei e alle istituzioni culturali che si
impegnano a diffondere questa cultura con iniziative mirate alle imprese del proprio territorio,
coinvolgendo attivamente anche le associazioni imprenditoriali di categoria.


I musei e la costruzione del pubblico dell’arte contemporanea
Il museo è senz’altro una delle realtà su cui si concentrano più speranze quando si pensa ad
un modello di organizzazione che sappia inserire i meccanismi dell’offerta culturale all’interno
di uno scenario vitale e competitivo di sviluppo economico locale. Ma se il museo non è
generalmente in grado di porsi come centro di profitto, quale ruolo può svolgere in concreto?
Una casistica internazionale ormai ampia mostra come il museo abbia due funzioni
importanti all’interno del sistema culturale locale: quella di attrattore e quella di attivatore. Il
museo di arte contemporanea si presta particolarmente a svolgere queste funzioni in quanto
esso diventa il luogo in cui si esprime con la massima compiutezza ed efficacia tutto il mondo
simbolico su cui si costruiscono le moderne catene del valore: in altre parole, nel museo si
realizzano proprio quelle condizioni ideali da ‘laboratorio di ricerca e sviluppo’ in cui si
elaborano e divengono accessibili, al di fuori di immediati obiettivi commerciali, tutte le
declinazioni più interessanti ed innovative dell’universo simbolico della cultura
contemporanea, che vengono poi ‘metabolizzate’ all’interno della propria catena del valore
dal sistema produttivo, generando idee di comunicazione, di design, di packaging ma anche
modelli relazionali, stili di vita, idee di prodotto: né più né meno che il pane quotidiano
dell’azienda post-industriale dal cui successo competitivo dipende il futuro delle nostre
economie e delle nostre società.
Da un lato, il museo agisce come attrattore nella misura in cui è in grado di aumentare la
visibilità del sistema locale a cui appartiene, contribuendo all’orientamento di flussi turistici, di
decisioni di investimento, di copertura mediatica ecc., tutte risorse preziose nei moderni
processi di sviluppo locale. Limitandoci soltanto a casi europei, il Guggenheim Bilbao, la Tate
Modern a Londra, il nostro MART, il Centre Pompidou di Parigi sono tutti esempi di musei
con una chiara vocazione di attrattore.




                                                                                                285
Dall’altro, il museo agisce come attivatore nella misura in cui le sue iniziative e i suoi
contenuti sollecitano l’emergere di nuovi progetti imprenditoriali, la formazione e la selezione
di nuove professionalità, il varo di progetti di responsabilità sociale rivolti alla comunità, la
rilocalizzazione di attività produttive e residenziali all’interno del sistema urbano. Esempi di
musei-attivatori, sempre restando nel contesto europeo, sono ZKM a Karlsruhe, Baltic a
Gateshead, il Palais de Tokyo a Parigi, il CAC a Vilnius.
In tutti i casi di studio di successo, tanto quando emerge con particolare forza la funzione-
attrattore che quella –attivatore, si nota chiaramente che, accanto alla necessaria capacità di
catalizzare energie e risorse provenienti dal di fuori del contesto locale, il museo riesce con
successo a mobilitare e coinvolgere attivamente anche il pubblico e le risorse economiche
del sistema locale che lo esprime. In altre parole, il museo che ‘funziona’, a prescindere dalla
sua vocazione e dalle sue caratteristiche specifiche, è un museo che è vissuto e utilizzato
come risorsa in primo luogo da coloro che, vivendo nella città o nel sistema metropolitano
che lo ospita, godono di condizioni fisiche di accesso facilitate e privilegiate. Piuttosto che
inseguire formule predefinite, occorre allora fare in modo che sia il dialogo tra il museo e il
suo territorio a definire il modello di uso dello spazio e dei tempi del museo stesso. Un
dialogo che presuppone un forte investimento del territorio in una crescita delle proprie
competenze culturali, della propria capacità progettuale, dell’apertura al nuovo e alle
esperienze internazionali.
Nel contesto italiano, la crescita vertiginosa delle dimensioni del nostro sistema museale del
contemporaneo in corso negli ultimi anni, e attualmente in fase di ulteriore accelerazione,
richiede un notevole sforzo di coordinamento strategico per evitare, anche all’interno di una
stessa area metropolitana, controproducenti sovrapposizioni di competenze accompagnate
da vistose lacune strutturali del sistema nel suo complesso: una stessa area metropolitana o
regione può così paradossalmente ospitare molti musei dediti ciascuno alla costruzione di
collezioni piccole e incomplete piuttosto che concentrare gli sforzi su un unico progetto di
qualità, e allo stesso tempo può essere, ad esempio, del tutto carente di spazi progettuali
dalla vocazione non collezionistica. Un ruolo particolare, all’interno di questo sistema, dovrà
essere assunto dal MAXXI che in quanto museo nazionale del contemporaneo assume
inevitabilmente una responsabilità di leadership che dovrà essere attentamente costruita e
declinata.


La difficoltà dei giovani artisti italiani spiegata attraverso le carenze del sistema
formativo


In libri che sono anche classifiche editoriali internazionali come Cream 3 o Fresh
Cream della Phaidon scopriamo che su 100 artisti gli Italiani sono solamente 2: Luisa
Lambri e Grazia Toderi. In un’altra classifica del 2002, Art Now. 137 Artists at the Rise
of the New Millennium della Taschen, gli italiani sono Monica Bonvicini, Maurizio
Cattelan, Paola Pivi e ancora Grazia Toderi. Pochi gli artisti italiani anche nei regesti
internazionali dedicati ai giovani disegnatori, ai giovani pittori e ai giovani fotografi. In
mostre di una certa rilevanza nelle fiere di massimo impatto, da Frieze di Londra ad
Art Basel ad Art Basel Miami e così via se ne incontrano di rado e spesso le gallerie
italiane preferiscono portarvi star internazionali piuttosto che rischiare l’invenduto.
Inoltre una fiera come Miart di Milano, che nel 2008 ha fatto i suoi ultimi tentativi di
rinnovamento con sezioni dedicate ai giovani italiani, così facendo ha probabilmente
decretato la sua fine.
Uno dei motivi centrali per i quali gli artisti italiani stentano ad affermarsi all’estero
almeno in quanto categoria – ci sono casi di successo eclatante, ma sempre



                                                                                            286
raggiunto come caso isolato e mai in quanto membri di una cordata nazionale - può
essere riscontrato nella mancanza di strutture adeguate dal punto di vista formativo.
Le Accademie sono state per secoli i luoghi deputati all’insegnamento delle arti
figurative. Basate sul rapporto maestro apprendista, sulla ripetizione di modelli,
nascono intorno alla fine del XVI secolo, quando l’arte aveva delle funzioni decorative,
per cui dall’Accademia dovevano uscire decoratori, stuccatori o affrescatori che
avessero comunque uno stile riconoscibile; un primo elemento di debolezza delle
Accademie è che l’arte sperimentale, come la si concepisce oggi, ha preso delle vie
talmente varie e, appunto segnate dalla sperimentazione tecnica, progettuale, teorica
ed estetica ,che un’omologazione simile degli stili degli studenti non è più proponibile.
 Il sistema delle Accademie di Belle Arti in Italia propone ancora e soprattutto un
sapere centrato sulla tecnica - cosa sacrosanta in bacini come quello di Carrara, ove il
territorio fornisca un materiale come il marmo, che chiede competenze specifiche di
lavorazione, ma solo in questi rari casi .
Un altro dei problemi delle Accademie riguarda inoltre il prolungato tempo di
esposizione di un ragazzo giovane ad un solo docente. Una questione importante,
soprattutto quando non sia garantita una qualità alta e omogenea dei docenti: per
quattro anni consecutivi il ragazzo si confronta sostanzialmente con una modalità
creativa e con un solo approccio alla disciplina; benché siano sempre presenti scambi
o occasioni di colloquio con altri docenti, questo contatto prolungato è adatto a
qualcuno che abbia la capacità di entrare nella logica progettuale del proprio maestro,
ma anche di separarsene per trovare la propria via autonoma.
Tentativi subentranti e spesso lodevoli di riformare le Accademie di Belle Arti si sono
succeduti in Italia dai primi anni settanta, per riempire queste lacune e anche in
seguito alla spinta del movimentiamo studentesco. Dapprima sono stati introdotti nel
corso di studi i cosiddetti “Corsi Speciali” per affiancare un sapere storico-teorico a
uno meramente pratico (in precedenza lo studente doveva solo fare un esame l’anno
di Storia dell’Arte e uno l’anno della disciplina pratica prescelta, tra pittura,
decorazione, scultura e architettura).
Negli anni Novanta è iniziato il processo che ha condotto a conferire agli studenti che
terminano gli studi un “diploma di Laurea” uniformato alle lauree cosiddette brevi
(triennali). Questo mutamento, avvenuto con la legge 21 dicembre 1999, n. 508, è
stato però più nominale che sostanziale: il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e
della Ricerca tratta attraverso due direzioni generali diverse l’Università in senso
tradizionale e i cosiddetti Istituti di Alta Formazione Artistica e Musicale, in cui
rientrano le Accademie.
Nei fatti, solo di rado i crediti acquisiti alle Accademie sono permeabili rispetto a quelli
che possono essere acquisisti con esami universitari, e soprattutto è piuttosto
infrequente il contrario (crediti formativi offerti dall’Accademia riconosciuti come validi
nell’ambito universitario).
Inoltre, i docenti delle Accademie continuano ad avere un tipo di ruolo statale che non
identico, né per tipologia di concorso né per retribuzione né per permeabilità con le
strutture “veramente” universitarie, rispetto a quello appunto dei docenti degli atenei.
Tutto questo è un residuo del tempo in cui le Accademie rilasciavano diplomi di tipo
diverso rispetto alle Lauree.
Un passo avanti è stato comunque raggiunto: iscrivendosi a un biennio universitario
specialistico, gli studenti delle Accademie finiscono per avere un titolo di studio


                                                                                      287
universitario in senso pieno. Ciò significa che almeno in termini di “uso” del titolo di
studio, gli studenti dell’Accademia maturano diritti analoghi a quelli degli studenti
universitari. In particolare, aggiungendo al loro diploma una laurea specialistica o
magistrale, possono ottenere il titolo rilasciato dal tre + due universitario. I docenti
restano invece confinati in un limbo, economico ma non solo, che li demotiva da un
lato e che dall’altro li spinge a denigrare ogni altro tipo di formazione artistica.
La Rivoluzione delle Accademie non era forse necessaria, dal momento che un paese
che ha dato all’arte recente molti importanti nomi e grandi scuole come la Germania
non si è mai allontanato dal quel modello di studi. Certo è che gli artisti tedeschi
migliori considerano un motivo d’orgoglio insegnare ed è rarissimo che un grande
artista lo eviti: persino la vicenda creativa di un grande ribelle come Joseph Beuys –
prima docente integrato, poi espulso, poi creatore di quella Free International
University che concepì come un’opera - si avvolse intorno a questo tema. Al
contrario, pochissimi tra gli artisti di fama riconosciuta in Italia si sono rivolti
all’insegnamento. Dei movimenti più significativi del dopoguerra, Informale, Arte
Povera e Transavanguardia, possiamo al massimo ricordare le docenze di Emilio
Vedova a Venezia e di Luciano Fabro a Milano.
Va anche ricordato che la nascita di molti tra questi istituti sono sorti al Sud non per
rispondere alle reali esigenze del bacino di riferimento, ma per motivi politici di altra
natura. Zone dall’ampia richiesta con il Nord Italia sono costrette, per fare fronte alle
richieste di un bacino vastissimo, ad avvalersi di accademie comunali (come quella di
Verona, la Ligustica a Genova, la Giacomo Carrara di Bergamo) oppure private (come
la Naba di Milano) oppure di centri privati che non rilasciano un titolo legale (Domus
Academy, Istituto Europeo del Design oppure altre organizzazioni, sovente
estemporanee e poco controllate e quindi di efficacia sospetta).


                      Accademie di Belle Arti in Italia.
                                                           n° Diplomati
           Sede                n° Iscritti                     2003
      BARI                             400                            48
      BOLOGNA                         1233                          167
      CARRARA                          482                            78
      CATANIA                          560                            48
      CATANZARO                        171                            34
      FIRENZE                         1081                          194
      FOGGIA                           215                            24
      FROSINONE                        139                            28
      L'AQUILA                         104                            30
      LECCE                            512                            78
      MACERATA                         246                            34
      MILANO
      BRERA                           2155                          423



                                                                                    288
NAPOLI                          1405                           103
       PALERMO                           846                          122
       REGGIO
       CALABRIA                          417                           66
       ROMA                            1822                           301
       SASSARI                           326                           44
       TORINO
       ALBERTINA                         540                          103
       URBINO (PS)                       251                           44
       VENEZIA                           905                           74
       Totale                         13810                         2043
                              Fonte: Miur, 2005.



Alla carenza della formazione artistica ha cercato di fare fronte il DAMS, istituito
dapprima a Bologna nel 1970/'71 all'interno della Facoltà di Lettere con lo specifico
intento di indagare criticamente e sviluppare operativamente le sinergie tra i linguaggi
espressivi non-verbali dell'Arte, del Cinema, della Musica e del Teatro. A tutt’ oggi la
formula è stata ripetuta da molti atenei. Quella che doveva essere una svolta decisiva
si è però dovuta scontrare con una prevalenza degli insegnamenti teorici e la difficoltà
di avere importanti momenti laboratoriali: in particolare è difficile arruolare nel corpo
insegnante dei professionisti i quali infatti non tendono alla ricerca di riconoscimenti
accademici. Accade dunque che spesso anche i Dams non hanno contatti con i centri
di produzione artistica del paese e quasi mai hanno docenti scelti a contratto tra i
maggiori professionisti mondiali. La preziosa arma della docenza a contratto, cioè per
periodi brevi ma con un buon compenso, chiamando artisti di fama internazionale, è
stata del resto gravemente spuntata, per una incomprensione del ruolo steso della
docenza a contratto di alto livello, con il cosiddetto Decreto Mussi del marzo 2007,
che stabilisce requisiti minimi di docenti strutturati all’interno degli atenei così alti da
scoraggiare le chiamate appunto a contratto. Questo problema si annuncia come il
nodo più significativo da risolvere nei prossimi anni, liberalizzando e promuovendo la
docenza a contratto laddove questa non sia una scappatoia per fare fronte a carenze
di organico, ma si presenti invece come un modo per richiamare nei nostri atenei i
protagonisti della cultura mondiale.
Esistono nel paese, alla data dell’aprile 2008, solo due sole Facoltà in Università dello
Stato designate sotto il termine di Design e Arti, una a Bolzano e una a Venezia. Solo
in un caso, all’Univeristà Iuav di Venezia, è attivo un Corso di Laurea Specialistica in
Arti Visive (progettato e diretto da Angela vettese) nato peraltro solo nel 2001, che ha
cercato di mantenere vivace lo scambio con artisti e critici internazionali anche
avvalendosi della compresenza in città di un magnete come La Biennale. Peraltro il
corso ha dovuto subire un notevole ostracismo da parte non solo dell’Accademia di
Belle arti della città, con cui non si è riuscito ad avviare, nonostante i tentativi iniziali
dalle due parti, uno scambio osmotico, ma anche da parte delle altre Facoltà del
medesimo ateneo (Architettura e Pianificazione Urbanistica). In apparenza sono state
lungamente impaurite dal drenaggio di fondi che esso avrebbe potuto rappresentare e

                                                                                       289
a più riprese tentate di sopprimerlo. In realtà, dietro a tale ostracismo e anche sullo
sfondo della fatica dei Dams e delle Accademie, sembra stagliarsi un dubbio di fondo
sulla necessità che la formazione artistica avvenga a livello universitario. Il mondo
culturale italiano non confessa palesemente, ma continua a sentire che le arti visive
siano parti del sapere pratico che non merita di essere approfondito in associazione
con un’alta tradizione di teoria.
Attesta il permanere di questa opinione, che non vede le arti visive come “cosa
mentale”, l’oblio nel quale è tenuto il cosiddetto Liceo Artistico: considerato alla
stregua di una scuola professionale, è centrato sulla pratica pittorica e plastica ed è
incapace di fornire quelli che oggi sono strumenti teorici fondamentali: si pensi che
l’insegnamento della filosofia non vi è sostanzialmente praticato; grave anche la
scarsa considerazione in cui è tenuta la lingua inglese, vero passaporto per
presentarsi in un contesto non solo nazionale. Seguire dunque un semplice corso
Erasmus in inglese o un Master all’estero diventa difficile o infruttuoso.
Tutto questo accade a fronte di uno sviluppo fortissimo delle strutture di formazione
artistica all’estero, sia con il modello delle Accademie (Germania, Francia, Cina), sia
con il modello dei College (in Inghilterra e paesi ex Commonwelth), sia con l’idea di
scuole di tipo universitario (soprattutto Stati Uniti). Che ci si affidi a “meinsterclasse”
alla tedesca o che ci si affidi invece a scuole come la UCLA o la Cal Arts di Los
Angeles o la Staedel di Francoforte, dove l’insegnamento è affidato a rotazione a
protagonisti diversi del mondo dell’arte, va detto che ormai da molti anni la maggior
parte degli artisti stranieri di punta nasce all’interno di uno o più centri di formazione di
eccellenza. I fotografi tedeschi che hanno impregnati della propria presenza gli anni
ottanta e novanta - Thomas Ruff, Thom as Struth, Andreas Gursky - sono venuti fuori
dall’insegnamento di Bernd e Hilla Becher a Duesseldorf. La scuola degli Young
British Artists, che tanto scalpore e tanto successo ha avuto negli anni Novanta,
proveniva quasi in toto dal Goldsmieths College.
Si tenga inoltre presente che gli scambi tra gli studenti di queste scuole sono sempre
più frequenti (si pensi alla riunione annuale Real Presence, organizzata solitamente a
Belgrado). Solo nel 2003 una simile riunione ha avuto luogo in Italia, a Venezia,
nell’ambito della Biennale di Venezia e dell’iniziativa Recycling the Future. Nella
maggior parte dei casi la partecipazione a simili, formativi meeting internazionali viene
lasciata all’iniziativa dei singoli e non favorita dalle scuole.
Al sospetto riguardo alla validità culturale delle arti visive si aggiunge, negli anni del
loro massimo successo di pubblico, l’abbraccio mortale dell’intrattenimento e il sapore
di un’industria della cultura centrata su valori di mercato. Di qui anche una scarsa
attenzione delle case editrici a una pubblicistica seria e a traduzioni dei maggiori
saggi teorici e storici. L’ampliamento dei testi divulgativi ha condotto a libretti di
sottofondo cinico e compiacenti con il “questo lo so fare anch’io” che è di casa tra chi
non conosce l’arte contemporanea. Scarse anche le traduzioni degli studi italiani in
inglese, cosa che favorisce un isolamento autoreferenziale degli studiosi italiani.
 Le nostre case editrici tendono a considerare il libro d’arte contemporanea come un
ambito di edizioni prepagate da un committente. Anche quando non intervengano
immagini a rendere costoso il prodotto, non si ritiene opportuno tradurlo per la
piccolezza del bacino linguistico rispetto ai costi di pubblicazione (traduzione, diritti e
distribuzione). Antologie decisive sul pensiero degli artisti e dei teorici del Novecento,
come Art in Theory (Harrison & Wood, Blackwell 1995) oppure Theories and
Documents in Contemporary Arts (Kristine Stiles e Peter Selz, California Press 1996)


                                                                                       290
non hanno trovato in Italia neppure edizioni ridotte. Qualche speranza viene da nuove
aperture: se si è dovuto attendere il 1993 perché il più classico dei critici americani,
Clement Greenberg, trovasse una traduzione (Allemandi, Torino), la sua erede ribelle
Rosalind Krauss ha visto tradotta quasi tutta la sua bibliografia rilevante grazie
oltretutto a editori diversi (Bruno Mondadori, Codice). D’altra parte molto lascia
pensare che questa buona volontà non nasca tanto da una attenzione ai luoghi di
formazione e alle loro necessità, quanto dal boom di presenza che le arti visive hanno
registrato dagli anni ottanta e fino agli anni duemila inoltrati sulla stampa anche non
specializzata, epifenomeno della diffusione di mostre come elemento di politica
culturale locale rivolta a un pubblico vasto.
Potrebbe essere questa la spiegazione del fatto che sia stato tradotto un manuale
costoso e ponderoso, Arte del 900 edito da Zanichelli (prima uscita Thames and
Hudson),di Hal Foster, Rosalind Krauss, Yves-Alain Bois e Benjamin Buchoh.
Suscita riflessioni ulteriori il fatto che i docenti di prima e di seconda fascia degli ambiti
L-Art 03 e L-art-04, che coprono il settore della storia, della critica, della sociologia
dell’arte contemporanea nei suoi aspetti più diversi, sono estremamente pochi:
un’eredità inevitabile della nascita tarda dell’insegnamento della disciplina negli
atenei; e a sua volta, un’eredità della tardiva e riluttante accoglienza che l’arte
contemporanea ha avuto non solamente tra i docenti di materie scientifiche, ma
anche di materie umanistiche, se possibile, soprattutto da parte dei colleghi storici
dell’arte che si occupano di produzioni di secoli passati. Non solo mancano facoltà e
corsi di laurea dedicati alla produzione e progettazione dell’arte visiva, ma anche nei
corsi di laurea di Lettere, Beni Culturali, Storia, Filosofia, insomma nelle facoltà
cosiddette umanistiche, l’arte del Novecento ha fatto un ingresso lento e rado. E con
ciò torniamo a quello che è il leit motiv di questa riflessione.: anche la sola dicitura
“arte contemporanea “ suscita più di un sospetto tra i cultori dell’arte antica e
moderna.
Un radicale cambiamento di linguaggio
l’arte attuale ha perso le caratteristiche tecniche e le ricorrenze iconografiche di quella
del passato. I materiali possono essere solo presentati e non manipolati. Le “figure”
possono essere assenti, anche quando si tratti solamente di elementi astratti e
geometrici. Alcune competenze di cui gli artisti recenti sanno avvalersi, come la
tecnica della fotografia, del video o della cinematografia, non vengono riconosciute
come facenti parte del novero di quelle che stanno nella categoria che ha alla base
pittura e scultura. Si trova difficile evidenziare elementi di continuità con quella storia
che, pure, gli artisti rivendicano come la propria fonte di ispirazione e il proprio
principale riferimento nel passato. Esiste una vera difficoltà nell’attribuire valore di arte
a ciò che non è più riconoscibile come tale. Molti artisti vengono considerati dagli
storici dell’arte, dunque, dei semplici millantatori senza perizia tecnica né rispetto per
la tradizione. Del resto questa è la direzione in cui è andata l’arte internazionale nel
corso dell’ultimo secolo: il ready made sta per compiere appunto cento anni. In ambito
concettuale, dagli anni sessanta, il supporto delle opere si è ridotto a un nonnulla (una
definizione da vocabolario, un enunciato, un gesto) tanto che la studiosa americana
Lucy Lippard ha potuto parlare di s-materilaizzazione dell’oggetto artistico e il critico
Harold Rosenberg ha potuto definire quest’ultimo un “oggetto ansioso” alla ricerca
della propria ridefinizione. Il collasso della materia e della manualità ha avuto il ruolo,
peraltro, di dichiarare la potenza dell’opera al di là di ogni fattura manuale e in base
solo all’idea che la sostiene. Siamo di fronte a una querelle antichissima, che ci riporta
al tempo in cui gli artisti del Rinascimento sui battevano perché pittura e scultura

                                                                                        291
venissero annoverate tra le Arti Liberali e, più in generale, tra gli ambiti che
concedono di arrivare alla conoscenza. Questo processo di riconoscimento di valore
epistemologico fu lentissimo; fu appunto questa lentezza la responsabile della
mancata nascita o della nascita poco tempestiva, nella cultura europea e
specialmente italiana, di istituti di formazione realmente universitaria. Per le arti visive,
Pittura e Scultura erano equiparate alla Decorazione, terzo ambito della formazione
tradizionale. Il quarto, l’Architettura, si è del resto staccata solo recentemente dal
“ghetto” del sapere minore delle Accademie di Belle Arti, ed è forse per questo che
ancora oggi difende con foga un primato guadagnato così di recente.
Tutta la circospezione che attornia l’arte contemporanea nasce da una circospezione
che da sempre circonda il territorio del visivo, ma è oggi ulteriormente suffragata,
appunto, dalla difficoltà di capire cosa meriti questo appellativo. Dopo le provocazioni
futuriste, dadaiste, concettuali e così via, è davvero difficile orientarsi in un campo che
autorizza i profani a fare di tutta l’erba un fascio. D’altra parte dovremmo chiederci
anche se non sia giunto il tempo di restituire o di dare tout court una piena dignità di
veicolo del sapere all’ambito del visivo, dal momento che è in questo settore che si
stanno sviluppando a grande velocità la maggior parte delle forme di comunicazione
nuove. La supremazia dell’immagine sul testo non può essere considerata una moda,
un fenomeno passeggero rispetto al quale c’è soltanto da attendere un inevitabile
declino. I linguaggi non verbali non potranno che essere in futuro sempre più
determinanti.
Un discorso ulteriore meritano quei ”libri fatti di cose”, quelle occasioni per imparare a
conoscere e a praticare il linguaggio dell’arte, rappresentate dalle collezioni di arte
contemporanea. Quelle dei nostri musei sono, purtroppo, sporadiche e poco coerenti,
cosa che non favorisce l’approccio didattico alla disciplina. Come si vede dalla tabella
qui sotto, gli autori non mancano: ciò che è assente è la coerenza interna delle
collezioni e la qualità dei pezzi.
Nonostante la grande spinta data dagli anni novanta alla creazione di nuovi musei, tra
cui spiccano i progetti per il MART di Rovereto (arch. Mario Botta), il Maxxi di Roma
(arch. Zaha Hadid) del Macro di Roma (arch. Odile Decq), per il Museo d’arte
contemporanea di Milano (Arch. Daniel Liebenskind), si è oramai perduta in Italia la
possibilità di avere una collezione coerente di arte del XX secolo. Ciò nonostante il
fatto che l’Italia sarebbe stato il paese con maggiori possibilità di costruirlo, almeno
per la seconda metà del secolo, considerando che tutte le più importanti tendenze
artistiche e tutti gli autori di rilievo degli ultimi settant’anni sono passati dalla Biennale
di Venezia in tempi rapidi, tempestivi, quando le loro opere non costavano che poche
migliaia di dollari. Purtroppo nessun organo dello Stato e nessun museo si è fatto
carico di una politica di acquisti alla Biennale anche a basso costo, ma oculata e
capace di precorrere i tempi. I prezzi dell’arte contemporanea sono a tal punto
cresciuti, soprattutto dagli anni Ottanta in poi che una sistemazione del “buco” non è
più proponibile. L’Italia potrà avere un museo del XXI secolo se emenderà questo
errore, con i riflessi prevedibili nel campo della formazione del pubblico. Va ricordato
che fenomeni come il “mostrismo” a fini di divertimento e turismo e la tentazione di
costruire musei a fini si speculazione edilizia del territorio circostante (altrimenti detta
riqualificazione urbana, spesso con sofisticata ipocrisia), nulla hanno a che fare con
una genuina necessità di implementare la formazione e la coscienza artistica nel
paese. Cercare i grandi numeri di visitatori per le mostre così come per i musei può
addirittura essere controproducente, in quanto riesuma il fantasma dello spettacolo e
fa vivere l’arte visiva contemporanea dell’ennesimo misunderstanding. La sua


                                                                                        292
funzione primaria non può essere considerata quella di arricchire le città d’arte, già
             abbastanza nutrite dall’arte e dall’architettura antiche, ma appunto quella della
             produzione di sapere.


         Collezioni dei principali Musei Italiani di Arte Contemporanea.
       Museo                 Numero                Periodo                 Tipo di collezione,
                              pezzi in                                       principali artisti
                             collezion
                                 e1
MUSEION                      1700             XX secolo,             Accardi, Afro, Beuys, Cage,
                                              particolare            Capogrossi, Fontana Hofer,
Museo d’Arte
                                              riferimento alle       Lawler, Lewitt, Locher, Kosuth,
Moderna e
                                              correnti artistiche    Kounellis, Kowarz, Manzoni,
Contemporanea di
                                              italotedesche.         Nauman, Novelli, Paik, Paolini,
Bolzano
                                                                     Rudolf, Stolz, Zimmermann
MART                         7000             Tutto il XX secolo     Balla, Boetti, Burri, Carrà, Depero,
                                                                     de Chirico, Fontana, Long, Kiefer,
Museo d’Arte
                                                                     Kounellis, Martinetti, Merz,
Moderna e
                                                                     Moranti, Nauman, Prampolini,
Contemporanea di
                                                                     Sironi.
Trento e Rovereto
GAMeC                        60               XX secolo              Balla, Baj, Basilico, Boccioni,
                                                                     Casorati, Cattelan, de Chirico, De
Galleria d’Arte
                                                                     Pisis, Fontana, Hartung,
Moderna e
                                                                     Kandinskij, Manzù, Moranti,
Contemporanea di
                                                                     Pirandello, Richter, Tesi.
Bergamo
Castello di Rivoli           300              Dal 1950 ad oggi       Bonvicini, Cattelan, Cragg, Flavin,
                                                                     Fontana, Goldin, Halley, Kiefer,
Museo d’Arte
                                                                     Kounellis, Long, Marisaldi, Merz,
Contemporanea di
                                                                     Nauman, Ousler, Paladino,
Rivoli (Torino)
                                                                     Penone, Pistoletto, Richter, Tesi
Fondazione Torino            15000            Dalla fine del XVIII   D’Azeglio, Fattori, Mancini, Pel
Musei                                         secolo ad oggi.        lizza da Volpedo, Medardo Rosso;
GAM, Galleria                                                        Anselmo, Balla, Boccioni, Boetti,
d’Arte Moderna e                                                     Burri, de Chirico, De Pisis, Dix,
Contemporanea di                                                     Ernst, Fontana, Hartung, Klee,
Torino                                                               Kounellis, Martini, Manzù, Melotti,
                                                                     Merz, Modigliani, Morandi, Picabia,
                                                                     Picasso, Paolini, Pistoletto,
                                                                     Severini, Warhol
Galleria Civica di           9000             Dal ‘900 ad oggi       Carrà, Evans, Fontana, Ghirri,
Modena                                                               Goldin, Lorca di Corcia, Morandi,
                                                                     Penone, Sironi, Zorio
GAM                          4000             Dall’800 ad oggi       Angeli, Beecroft, Burri, Cattelan,
                                                                     Cesar, Cucchi, Gilbert & Gorge,
Galleria d’Arte
                                                                     Gilardi, Merz, Ontani, Pane,
Moderna di
                                                                     Paladino, Paolini, Penone,
Bologna
                                                                     Schifano, Schnabel, Zorio.
Centro per l’Arte            500              Dal 1950 ad oggi       Bagnoli, Boetti, Cucchi, Fabre,
Contemporanea                                                        Gilardi, Kapoor, Kounellis, Lewitt,

1
    Il numero dei pezzi è approssimato.


                                                                                                           293
Luigi Pecci Prato                                                      Merz, Paolini, Pistoletto, Schnabel,
                                                                       Zorio
GNAM                         1900               Dall’800 ad oggi       Canova, Cézanne, Courbet, De
                                                                       Nittis, Fattori, Lega, Michetti,
Galleria Nazionale
                                                                       Monet, Pel lizza da Volpedo,
d’Arte Moderna,
                                                                       Previati, Medardo Rosso, Van
Roma
                                                                       Gogh
MAXXI                        60                 XXI secolo             Airò, Alys, Anselmo, Arienti, Avery,
                                                                       Bartolini, Basilico, Beecroft,
Museo Nazionale
                                                                       Beninati, Boetti, Cattelan, De
delle Arti del XXI
                                                                       Dominicis, Esposito, Galegati,
secolo
                                                                       Gilbert & Gorge, Kentridge,
                                                                       Khebrenzades, Linke, Manzelli,
                                                                       Manzoni, Marisaldi, Merz, Moro,
                                                                       Oursler,Pessoli, Pivi, Richter,
                                                                       Ruscha, Schutte, Tesi, Trickell,
                                                                       Tuttofuoco, Vezzoli, Walker
MACRO                        1000               Dal 1960 ad oggi       Accardi, Castellani, Perilli, Pivi,
                                                                       Pizzi Cannella, Rotella, Tesi.
Museo d’Arte
Contemporanea di
Roma
MAN                          100                Arte del XX secolo     Balleru, Canu, Collu, Floris, Lai,
                                                in Sardegna            Mura, Nivola, Spada, Sini
Museo d’Arte della
Provincia di Nuoro




            Per concludere: alcune semplici misure di azione
            Per concludere, riportiamo qui quelli che a nostro parere potrebbero divenire gli elementi
            iniziali di una vera e propria ‘terapia di impatto’ nei confronti del nostro sistema del
            contemporaneo, che non sostituiscono il paziente lavoro di costruzione di una strategia di
            lungo termine ma possono diventare il segnale eloquente e credibile di un effettivo
            cambiamento in atto. Si tratta di misure in parte già richiamate nelle pagine precedenti, ma
            che è opportuno riportare qui di nuovo in forma schematica, evidenziando così ulteriormente
            il loro carattere di interdipendenza. Piuttosto che lavorare sui grandi scenari e su problemi
            strutturali di difficile soluzione, ci sembra utile e pragmatico partire dalle problematiche
            immediate degli artisti e degli operatori del settore, accompagnando a queste azioni un
            intervento più complesso e profondo sui temi e sugli attori esaminati nelle pagine precedenti.


       1) Stabilire efficaci programmi internazionali che offrano ai curatori stranieri la possibilità di
           trascorrere soggiorni di studio in Italia. Il già citato FRAME, ad esempio, organizza un
           programma di visite intensissimo: in ogni giorno dell’anno sono presenti nella piccola ma
           efficiente sede almeno due-tre curatori provienienti da ogni parte del mondo a cui viene
           offerto ampio accesso ad una ricca documentazione sul lavoro degli artisti, la possibilità di
           visite agli studi (guidate o meno, a seconda delle preferenze), nonché la possibilità di
           proporre progetti. I risultati sono evidenti: artisti come Eija-Liisa Ahtila, Salla Tykka, Elina
           Brotherus, Esko Mannikko hanno raggiunto ormai una notevole visibilità internazionale e più
           o meno tutti mantengono ancora la propria base di residenza e di lavoro in Finlandia.
       2) Inserire gli artisti all’interno delle reti dei programmi di residenze più interessanti a livello
            internazionale. La carriera di un’artista come Luisa Lambri, ad esempio, si è esemplarmente
            sviluppata attraverso una sequenza di residenze in contesti attentamente scelti e non



                                                                                                             294
scontati: dalla Lituania al Giappone. Ma analizzando il curriculum di quasi tutti gli artisti di
    primo piano emersi negli ultimi anni, si nota che le residenze giocano sempre un ruolo
    importante, soprattutto in corrispondenza della fase di consolidamento internazionale del loro
    lavoro.
3) Abituare gli artisti a saper presentare e discutere il proprio lavoro. Quasi ogni mostra museale
    negli Stati Uniti prevede un artist talk nel quale l’artista o gli artisti coinvolti discutono con il
    pubblico, lo staff curatoriale del museo, gli studenti delle scuole d’arte locali e spesso con
    curatori e critici esterni. In Italia questo accade di rado, e ancora una volta i risultati si
    vedono. Molti degli esperti interpellati evidenziano come non raramente gli artisti italiani
    mostrino una scarsa disinvoltura nella presentazione e nella discussione, se non anche nelle
    modalità di proposta progettuale, un limite che inevitabilmente li penalizza fortemente nelle
    fasi di selezione per le mostre importanti.
4) Sostenere gli artisti che ricevono inviti in istituzioni estere importanti, non soltanto nella prima
    fase della carriera, ma anche e soprattutto nelle fasi decisive del consolidamento
    internazionale. Gli artisti tedeschi, olandesi, nordeuropei, inglesi o americani - per limitarci ad
    alcuni degli esempi più evidenti - a cui vengono offerte opportunità espositive di particolare
    rilievo ricevono molto spesso un supporto finanziario significativo dalle istituzioni del paese di
    origine, e di conseguenza, a parità di condizioni, tendono ad essere invitati preferenzialmente
    rispetto ad artisti provenienti da paesi che non dedicano risorse a queste iniziative (come
    troppo spesso avviene da noi).
5) Potenziare la DARC con mezzi finanziari adeguati a farla funzionare come una vera agenzia
    del contemporaneo a 360 gradi, così da poter dedicare risorse finanziarie e umane non
    soltanto ai compiti istituzionali basilari ma anche al coordinamento e all’impegno diretto in
    politiche attive di promozione come quelle citate ai punti precedenti.
6) Offrire finalmente alle nostre gallerie un regime fiscale ragionevole che permetta loro di
    sviluppare la propria attività in condizioni concorrenziali rispetto a quelle degli altri paesi, con
    conseguenti più ampi margini di investimento nei propri artisti e nelle proprie strategie di
    promozione e internazionalizzazione. La debolezza economica e finanziaria di buona parte
    delle nostre gallerie, in un contesto nel quale anche molti musei devono a propria volta
    combattere con budget estremamente ristretti e soprattutto sempre incerti, in assenza di una
    politica pubblica orientata secondo le linee sopra descritte lascia i nostri artisti pressoché
    inermi di fronte alla sempre più agguerrita competizione internazionale.




    Si tratta di un programma di azione ambizioso, ma realizzabile, come mostra chiaramente
    l’esperienza di molti altri paesi europei e non che hanno fatto della cultura del
    contemporaneo la loro principale priorità di politica culturale. Non c’è motivo per cui non
    possa farlo anche il nostro paese.




                                                                                                    295

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L’arte contemporanea

  • 2. Michelangelo Pistoletto “Disegnatrice” 1962-1975 serigrafia su acciaio inox lucidato a specchio, 2 pannelli, 250 x 125 cm ciascuno Foto: P. Pellion 278
  • 3. L’arte contemporanea come motore e specchio del cambiamento post-industriale L’arte contemporanea è in sé pura creatività e parlare dell’una equivale evocare l’altra. Ma entrando nel mondo delle arti visive si scopre anche quanto le relazioni sociali, il mercato, la produzione e le istituzioni contino e modifichino il senso stesso del concetto di creatività. Negli ultimi sei anni, un artista dal grande riconoscimento internazionale come Douglas Gordon ha avuto 22 mostre personali (dati artfacts.net). Jonathan Monk, 25. Olafur Eliasson ne ha avute 32. Senza contare, naturalmente, le collettive: in dieci anni, Gordon ne ha fatte 200, Monk 160, Eliasson 184. E si tratta di stime per difetto. In un momento in cui le imprese modificano i loro modelli di organizzazione per portare negli ambienti di lavoro un clima più ludico e rilassato e per lasciare spazio all’espressività e alla creatività individuale, l’arte contemporanea, regno incontrastato del pensiero creativo e di tutte le sue complesse e sfuggenti modalità di manifestazione, sembra al contrario muoversi quasi verso un modello tayloristico della catena di montaggio, in una lotta perpetua con le scadenze pressanti di una programmazione artistica sempre più fitta e geograficamente pervasiva. E’ vero che molti degli artisti di maggior successo – e soprattutto quelli che per realizzare le loro opere hanno bisogno di processi produttivi che coinvolgono un alto numero di competenze interdisciplinari – dispongono ormai di squadre di collaboratori organizzate come piccole o persino medio- piccole imprese, ma bisogna comunque riconoscere che siamo di fronte ad un profondo cambiamento nelle modalità di produzione dell’arte contemporanea e forse del senso stesso del fare artistico. Che cosa spinge questi artisti a lavorare tanto, correndo il rischio di bruciare in un attivismo frenetico la propria capacità e disponibilità a dedicare il tempo e le energie necessari all’ideazione e allo sviluppo di nuovi progetti profondi e originali e quindi, in ultima analisi, di sacrificare la sostenibilità di lungo termine dei propri processi creativi alle ragioni di un’efficienza produttiva di breve-medio termine? La risposta è semplice: una quantità esorbitante di richieste provenienti da realtà di tutti i tipi: quelle tradizionali, come musei, gallerie, fondazioni, fiere, collezioni private, case editrici, ma anche – e sempre più – aziende, istituzioni pubbliche, ospedali, università, parchi scientifici. All’artista non si chiede più soltanto di produrre mostre, progetti di arte pubblica o più in generale interventi nei luoghi deputati, per quanto il loro numero cresca senza limiti. Di fatto, ogni occasione è buona per chiamare in causa gli artisti. L’arte è ormai ovunque, e più si diffonde più genera nuovi appetiti e nuove richieste. Le riviste di moda e di costume costruiscono interi numeri attorno all’arte e agli artisti, quando non ne affidano direttamente a loro la direzione creativa. I pianificatori urbani se li contendono. Le aziende chiedono loro di tenere workshop per i manager e i dipendenti, di progettare oggetti e processi comunicativi. La visibilità sociale degli artisti comincia a fare concorrenza a quella delle rockstar. Ma la differenza sta, o meglio stava, nel fatto che mentre la musica rock è parte della cosiddetta industria culturale – vale a dire, un settore produttivo nel quale il prodotto in vendita è fatto per essere riprodotto in tirature illimitate, la cui effettiva entità dipende soltanto da quella della domanda – l’arte contemporanea è invece, o forse dovremmo cominciare a dire era – parte del core, cioè del nucleo della produzione culturale, che si organizza con modalità che non hanno a che fare con l’industria ma semmai con la piccola bottega artigiana. Evidentemente, però, non è più così: anche gli artisti, a loro modo, stanno cominciando a produrre in serie. Non tante copie dello stesso oggetto, ma una proliferazione di ‘esemplari unici’ che esulano dai confini delle opere d’arte definite in senso tradizionale. E anche qui si trova in fondo un’analogia con le rockstar che ormai scrivono libri, firmano profumi e vestiti, o aprono bar e ristoranti: pratiche ormai sempre più diffuse tra gli stessi artisti, come nel caso di Damien Hirst. 279
  • 4. A cosa si deve tutta questa attenzione nei confronti dell’ arte e degli artisti? Al fatto che, proprio nei mercati di massa nei quali ormai i consumatori si avvicinano ad una condizione di sostanziale sazietà, gli artisti riescono ad offrire proprio quella merce che in un mondo di abbondanza resta scarsa: i significati. Gli artisti definiscono i loro sistemi di regole apparentemente inutili, insensati o comunque discutibili, che però rivelano aspetti del mondo inaspettati, o mettono in crisi imprevedibilmente le convenzioni sociali apparentemente più solide. I consumatori mostrano ormai una certa insofferenza verso ritualità di prodotti sempre più prevedibili, e quindi trovano nell’arte un appagante diversivo. E se questo è vero per chi vive nelle affluent societies, risulta vero a maggior ragione per i nuovi consumatori dei paesi emergenti come quelli arabi o dell’estremo oriente, dove l’arte contemporanea diventa il simbolo stesso di un nuovo status sociale legato alla possibilità di accesso ad un consumo globalizzato i cui presupposti comportamentali vengono acquisiti in fretta ma anche altrettanto in fretta trasgrediti e superati alla ricerca di una sintesi identitaria credibile tra vecchio e nuovo, tradizionale e innovativo, conforme e trasgressivo. Nei mercati di massa, l’abbondanza, e anzi l’aggressività dei prodotti, che sono ovunque e reclamano attenzione, spinge i consumatori a forme di difesa sempre più sofisticate: si fatica a ricordare il nome dei prodotti, se ne confonde uno con l’altro, si consuma senza neanche farci più caso, magari pensando già a cosa si consumerà subito dopo. E fenomeni simili, in effetti, si cominciano a riscontrare anche nell’arte: il pubblico dell’arte, ormai, non va più a vedere una specifica mostra, ma piuttosto intraprende veri e propri tour delle mostre, o degli stand nelle fiere, a seguito dei quali si è esposti in un giorno a centinaia di opere, spesso mentre simultaneamente si intraprendono complesse e articolate attività relazionali. L’arte si sta adeguando al nuovo stato di cose, adottando strategie di seduzione e di richiamo dell’attenzione tarate su un pubblico sempre più distratto e disattento. E questo non vale nemmeno soltanto per le opere, ma anche per gli stessi concept delle mostre, che devono a loro volta imporre formati e modalità sufficientemente insoliti e originali da stuzzicare l’attenzione di un pubblico perennemente saturo di stimoli. Effetti di selezione: l’Italia nel contesto internazionale “A chi ha sarà dato e sarà nell’abbondanza: e a chi non ha sarà tolto anche quello che ha”: è un celebre passo del vangelo di Matteo (13:12). E’ per questo che si parla di ‘effetto Matteo’ a fronte di un fenomeno tipico di molti mercati culturali: quello della concentrazione dell’attenzione (e delle risorse) su un numero molto ristretto di artisti, a scapito di tutti gli altri. E non è un fenomeno tipico soltanto della sfera culturale: qualcosa di analogo accade anche nella scienza. Quando un saggio è firmato da uno scienziato famoso, riceve più attenzione rispetto ad altri firmati da scienziati meno conosciuti, a prescindere dal contenuto. Accade anzi che, come osservato da James Surowiecki nel suo The wisdom of crowds, quando due articoli sono pubblicati, uno di seguito all’altro, sulla stessa rivista e su un argomento pressoché identico ma uno ha uno scienziato famoso come prima firma mentre nell’altro lo stesso scienziato firma dopo l’altro coautore, il primo articolo risulta molto, molto più citato e letto del secondo, perché si presuppone che in esso il contributo dello scienziato ‘degno di nota’ sia più sostanziale. Nel campo dell’arte contemporanea si assiste a dinamiche del tutto analoghe: una stessa idea può essere proposta allo stesso tempo da molti artisti, ma quelli con maggiore reputazione ricevono molti più riscontri e attenzione degli altri. In sé, non è detto che si tratti di una distorsione del sistema: nella valutazione di un artista, il percorso conta molto più della singola idea o del singolo lavoro. Ma affiora un dubbio molto più profondo: il fatto cioè che quando un artista superi un determinato livello di affermazione e riconoscibilità, oppure anche semplicemente venga proposto attraverso canali di per sé dotati di una particolare autorevolezza all’interno del sistema, questo faccia sì che il suo lavoro ‘debba’ ricevere approvazione o quantomeno una forte attenzione, a prescindere dal fatto che il lavoro venga apprezzato o meno, mentre d’altra parte gli artisti che provengono da canali meno legittimati 280
  • 5. o che per qualche motivo non hanno raggiunto, pur avendo alle spalle un lavoro significativo, determinati livelli di affermazione, debbano al contrario affrontare una sorta di sfiducia sistematica che compromette la qualità e la quantità di attenzione necessaria ad una comprensione adeguata. Nel contesto di queste forme estreme di economia dell’attenzione, diviene necessario mettere in atto strategie che legittimino una determinata scena nazionale o locale, o meglio la sua componente qualitativamente più rilevante, come un palcoscenico artistico interessante, capace di offrire agli artisti che vi operano un avviamento reputazionale adeguato. Nel caso dell’Italia, negli ultimi due decenni si è venuta progressivamente configurando una situazione piuttosto complessa, nella quale gli artisti appartenenti a generazioni mature (come quelli dell’Arte Povera o della Transavanguardia) godono di una elevata riconoscibilità internazionale e calamitano un forte interesse sia dal punto delle istituzioni artistiche internazionali che del mercato, mentre per le generazioni più giovani questo processo di focalizzazione si è paradossalmente rivelato fino ad oggi molto più selettivo, filtrando un numero limitatissimo di nomi, che spesso devono il loro successo all’abbandono precoce della stessa scena italiana in favore di altre dotate di maggiore valore reputazionale e di persuasione. Il carattere paradossale di questo stato di cose si deve al fatto che, in genere, avviene il contrario: la piramide si restringe tornando indietro nelle generazioni, in quanto maggiore è il periodo nel quale un artista è rimasto all’interno dell’arena competitiva del sistema dell’arte, più forte è l’effetto della selezione. In teoria, gli artisti giovani che trovano riscontro dovrebbero essere molti per poi venire progressivamente selezionati. Nel caso dell’Italia, appunto, avviene il contrario, e ciò a causa del fatto che, da una generazione all’altra, sono cambiate le regole del gioco, o meglio è cambiato lo status della scena italiana nel contesto internazionale: da palcoscenico di primo piano a palcoscenico relativamente marginale e secondario. Elementi per una politica del contemporaneo in Italia A che cosa si deve allora lo scarso rilievo di cui soffre oggi l’arte italiana all’interno del sistema dell’arte globale? Non alla mancanza di materia prima, cioè di artisti validi e potenzialmente capaci di conquistare attenzione e interesse sulla ribalta internazionale. Il problema sta piuttosto nel fatto che il nostro sistema soffre di alcune debolezze strutturali che penalizzano notevolmente i nostri artisti e che costringono questi ultimi, se davvero vogliono aspirare ad una chance di successo internazionale, ad andare a vivere e lavorare altrove. Ripercorriamo brevemente queste debolezze. In primo luogo, la mancanza di un collezionismo e di una committenza istituzionale e aziendale di qualità, che è ciò che permette a sistemi dell’arte tradizionalmente deboli sul piano del collezionismo privato di offrire agli artisti opportunità professionalmente qualificanti ed economicamente redditizie, aumentando il loro status sociale e dando loro una base reddituale sufficientemente solida da consentire un pieno investimento sulla carriera artistica senza bisogno di disperdere energie in attività accessorie e necessarie per garantirsi la sopravvivenza economica. In un contesto come quello italiano in cui il collezionismo privato è inoltre tutt’altro che debole ed è anzi vivace e diffuso come in pochi altri paesi, ma è anche molto frammentato e caratterizzato da relativamente pochi collezionisti con grande capacità di spesa, un collezionismo e una committenza pubblica e aziendale competenti contribuirebbero in modo importante alla creazione di una base di domanda capace di innescare la crescita di gallerie di dimensioni economiche sufficienti a competere da protagoniste sui mercati internazionali e a investire realmente sui propri artisti di punta. Un ruolo importante può inoltre essere ricoperto dalle fondazioni ex bancarie, una rete di soggetti tipica della realtà italiana e dotata di una grande capacità di spesa e di un grande interesse per la cultura, e che però, con poche eccezioni, non ha mostrato grande interesse per l’arte contemporanea di qualità inseguendo spesso logiche localistiche e culturalmente modeste. Infine, bisogna ricordare il ruolo enorme che potrebbe giocare nel rilancio di una committenza pubblica di qualità una applicazione seria 281
  • 6. della cosiddetta “legge del 2%”, che destina, nella nuova formulazione gestita dalla società a controllo pubblico ARCUS, Società per lo sviluppo dell’arte, della cultura e dello spettacolo S.p.A., il tre per cento del costo di costruzione o di ristrutturazione di un’opera pubblica alla committenza di un’opera d’arte da installare in loco. Una legge che oggi resta spesso disattesa o dà luogo ad operazioni di discutibile profilo culturale. Un altro punto debole dell’azione pubblica sta nelle modalità stesse di promozione degli artisti italiani sul piano internazionale. Di solito, la promozione dell’arte italiana si concretizza nell’organizzazione di mostre, a volte anche piuttosto costose, spesso ospitate in luoghi relativamente marginali di capitali internazionali dell’arte, e in ogni caso tipicamente ‘paracadutate’ in tali contesti senza intraprendere un reale dialogo preparatorio con la scena locale, che aiuti gli artisti in mostra ad interagire e a farsi conoscere da chi, se eventualmente interessato al loro lavoro, potrà in seguito aprire per loro spazi e opportunità. Ma per fare questo occorrerebbe che gli enti dediti a queste attività promozionali possedessero, o si affidassero a chi possiede, una solida e aggiornata conoscenza delle più importanti scene locali dell’arte internazionale, e altrettanto solidi ed aggiornati contatti con i principali protagonisti di tali scene. In mancanza di ciò, la soluzione della mostra ‘turistica’ nella quale l’artista arriva, installa il proprio lavoro, presenzia al vernissage e se ne va senza aver maturato una minima consapevolezza del contesto artistico con cui (non) ha interagito, è la soluzione più comoda ed indolore per tutti, anche se, paradossalmente, dal punto di vista della reputazione artistica avrà più che altro riflessi in patria. Né in genere è d’aiuto la rete degli istituti italiani di cultura all’estero, che malgrado la loro ampia copertura globale non dispongono spesso di competenze nel campo dell’arte contemporanea ed ospitano un programma espositivo elaborato in assenza di criteri qualitativi certi, e spesso invisibile nei confronti della scena artistica locale. Le soluzioni più efficienti in questo ambito sarebbero varie. La concessione di grants finalizzati alla realizzazione di progetti espositivi e residenze, assegnati agli artisti che siano stati in grado, con le proprie forze, di accreditarsi con successo e quindi di ottenere un invito da parte di istituzioni culturali, gallerie e spazi indipendenti stranieri di rilievo. Il finanziamento di programmi di residenza di curatori stranieri in Italia, in modo da dare loro una reale opportunità di conoscenza della nostra scena artistica e di un reale dialogo con gli artisti. La destinazione di consulenti per l’arte contemporanea dotati di grande competenza e professionalità presso le sedi degli istituti italiani di cultura situati nelle città di maggior interesse per il sistema dell’arte contemporanea, e la trasformazione del ruolo di questi ultimi da centri espositivi (con pochissime e motivate eccezioni) ad agenzie di promozione e di facilitazione dei contatti con le scene artistiche locali. Un ulteriore sostegno potrebbe essere dato, ad esempio sotto forma di acquisto di rilevanti spazi pubblicitari per i più interessanti progetti esteri degli artisti italiani, alle riviste italiane d’arte a più alta diffusione internazionale, e permettendo loro di realizzare o di potenziare le loro edizioni in lingua inglese. Si potrebbe anche seguire l’esempio di alcune agenzie nazionali di promozione dell’arte contemporanea come la finlandese FRAME, che pubblica un’eccellente rivista interamente dedicata all’arte finlandese, Framework. L’altra criticità riguarda il sistema degli spazi espositivi non-profit, pubblici e privati. Mentre la rete museale per l’arte contemporanea è cresciuta notevolmente negli ultimi anni, e probabilmente crescerà ancora visto che nuove iniziative vengono presentate con cadenza regolare, altrettanto non può dirsi per il circuito degli spazi indipendenti e degli spazi espositivi non collezionistici, che in Italia è molto ridotto. E se è vero che molti dei nuovi musei italiani hanno collezioni piccole o addirittura inesistenti, ciò si deve più a limitazioni di bilancio che alla reale volontà di dare luogo a spazi a vocazione eminentemente progettuale. L’assenza di questo tipo di spazi danneggia gravemente i giovani artisti perché li priva di opportunità di lavoro nelle quali sperimentare e definire la loro ricerca in assenza di vincoli e condizionamenti di tipo commerciale. Non è un caso che gran parte degli artisti internazionali di maggior successo hanno realizzato le loro prime personali significative in spazi come questi. Il sistema che si è dimostrato più efficace in tal senso è quello delle Kunsthalle dei paesi di lingua tedesca, spazi espositivi privi di collezione, in genere sostenuti dalle municipalità e dalle amministrazioni locali, che offrono spesso una programmazione di 282
  • 7. grande qualità che alterna artisti internazionali ai più promettenti artisti nazionali e locali, chiamando a collaborare anche curatori stranieri, e svolgendo spesso un interessante lavoro di ricognizione sulla scena artistica locale. A questo circuito si accompagna quello complementare dei Kunstverein, associazioni private di collezionisti che promuovono spesso anch’essi attività espositive di grande qualità e permettono ai privati di perseguire una progettualità collettiva di promozione dell’arte che va oltre la cura e lo sviluppo della propria collezione personale. Per questo tipo di realtà, che potrebbero essere promosse anche in Italia, nonché per i musei di arte contemporanea già esistenti, si potrebbe pensare a forme di detassazione selettiva, ad esempio l’abolizione dell’iva, o la concessione di uno statuto fiscale privilegiato quale quello oggi concesso alle onlus, ovvero alle organizzazioni non lucrative che operano nel sociale, riconoscendo così all’arte una funzione sociale che oggi è largamente sottovalutata e lontana dalla percezione di gran parte dell’opinione pubblica. Infine, le gallerie, che in Italia sono tante e spesso molto vivaci ma che faticano a crescere e di conseguenza ad investire sui propri artisti in modo adeguato a garantirne un efficace lancio internazionale. In questo caso, l’iniziativa più necessaria, al di là del già ricordato potenziamento del collezionismo pubblico e aziendale (che potrebbe essere fiscalmente incentivato) è l’abbattimento dell’iva, che come più volte richiesto andrebbe portata dall’attuale 20% al 4% prevalente nella maggior parte dei paesi europei. Il mancato introito per lo Stato sarebbe modesto, vista la dimensione del settore, e potrebbe addirittura trasformarsi in un introito netto se come è prevedibile questa misura portasse all’emersione di tante realtà che oggi agiscono nel sottobosco del sommerso in quanto un’iva al 20% è semplicemente incompatibile con la possibilità di spuntare margini accettabili su un mercato collezionistico che come si è detto è vivace ma è mediamente sensibilissimo al prezzo. I riflessi sul collezionismo Collezionare arte non è più semplicemente un modo di esprimere un gusto personale o uno status sociale, quanto piuttosto un modo per prendere posizione, più o meno consapevolmente, in una arena simbolica molto complessa e in perenne evoluzione. Particolarmente interessante a questo proposito è il fenomeno del collezionismo nei paesi economicamente emergenti, dove, come si è già osservato, una classe sociale e imprenditoriale rampante e ansiosa di definire appunto una propria identità distintiva adotta spesso il linguaggio dell’arte contemporanea come controparte simbolica della propria condizione acquisita di nuovo protagonismo nell’economia globalizzata. E le dimensioni e la rapidità di questo fenomeno rendono particolarmente evidente un altro aspetto cruciale del collezionismo del contemporaneo: il suo legame con la geopolitica. Il grande momento di attenzione nei confronti dell’arte proveniente dalla Cina o dall’India riflette in modo naturale non soltanto il dinamismo economico ma anche e soprattutto il crescente peso politico di questi paesi, e per certi versi ne fornisce una autorevole, indiretta convalida culturale. Non c’è dubbio che scene culturali come quella cinese o indiana, investite come sono da una spinta di trasformazione prepotente e messe in condizione di poter finalmente esprimere ciò che per lungo tempo non trovava spazio e non attraeva attenzione, siano oggi inevitabilmente tra le più interessanti e vitali del mondo. Ma allo stesso tempo non si può non notare come ormai l’attenzione verso queste forme di arte si manifesti a prescindere da qualsiasi considerazione di ordine qualitativo o da qualunque effettiva competenza o conoscenza dei linguaggi e dei temi: è, appunto, un atteggiamento che riflette la presa di coscienza del fatto che questi sono oggi i luoghi identitari prima ancora che fisici che vanno presidiati, le espressioni irrinunciabili dello spirito del tempo. E’ in questa chiave che si può probabilmente leggere, quasi come un contrappasso, la contraddittoria situazione dell’arte italiana nel contesto del collezionismo d’arte internazionale. Da un lato, a Londra si susseguono nelle principali case d’asta sessioni di Italian sales che incontrano pressoché invariabilmente un grande successo e spesso portano a dei record di quotazione. Dall’altra, si continua a registrare una preoccupante latitanza della 283
  • 8. nostra arte, soprattutto di quella delle ultime generazioni, da molte delle grandi collezioni internazionali e soprattutto da quelle di più recente formazione o attualmente più dinamiche, con la parziale eccezione di coloro che, come François Pinault, avendo scelto di investire nel nostro paese necessariamente prestano qualche attenzione in più a ciò che accade da noi. In realtà la contraddizione è soltanto apparente e si scioglie con facilità guardando i fatti un po’ più da vicino: l’arte italiana che oggi si vende è, come si anticipava più sopra, quella prodotta da artisti ormai scomparsi come Burri o Fontana, Manzoni o Boetti, o dai principali protagonisti dell’Arte Povera. Senza contare che molti degli entusiasti acquirenti delle sales londinesi sono in realtà collezionisti di casa nostra. Se ci si muove verso esperienze più recenti, ci si trova di fronte ad uno scenario ben diverso, nel quale, con pochissime eccezioni, i protagonisti della nostra scena artistica fanno fatica anche soltanto ad arrivare nelle aste che contano, prima ancora di potersi chiedere se sono o meno in grado di spuntare quotazioni significative. E anche questo è un chiaro riflesso della geopolitica: l’Italia di oggi conta poco nel mondo del collezionismo internazionale perché è un paese che non soltanto non dà una impressione di proiezione verso il futuro, ma appare ripiegato in una sorta di delirio autoreferenziale: agli occhi del mondo, abbiamo un grande futuro dietro le spalle piuttosto che davanti. Siamo un paese nel quale la maggior parte della popolazione non conosce una lingua straniera e soprattutto non ha nessuna intenzione di impararla. Non c’è allora da stupirsi se persino i nostri collezionisti, quando vogliono dare l’idea di essere sofisticati e cosmopoliti, preferiscono investire su un giovane talento straniero piuttosto che su un artista ‘nostrano’ (per non parlare dei curatori italiani chiamati ad operare scelte e a fare segnalazioni nelle grandi manifestazioni internazionali). Il collezionismo, dunque, è oggi una vera e propria cartina al tornasole di ciò che accade, anche al di fuori delle arene culturali. Ma è anche un modo di accumulare: la collezione, in fondo, è un capitale nel senso economico del termine, rappresenta un investimento il cui valore si rivela man mano che le scelte operate risultano condivise o meno dal mercato, e in questo senso la prospettiva di breve e quella di lungo periodo possono esprimere verdetti molto diversi. Non a caso, il mondo delle banche e della finanza si è ampiamente accorto di ciò che accade nell’ hortus non più conclusus dell’arte e sta moltiplicando iniziative e prodotti: dai servizi di consulenza per i clienti del private banking, alla creazione di art funds, alla stessa espansione dei propri programmi di collezionismo aziendale. Un interesse collezionistico diretto condiviso peraltro anche da aziende il cui core business ha apparentemente poco o nulla a che fare con l’arte. Le aziende e l’arte contemporanea Ma allora perché le imprese italiane investono relativamente poco in arte contemporanea? Mentre il nostro collezionismo privato è, come si è già accennato, vivace e dinamico, le imprese, a differenza di quanto accade in paesi come la Germania o il Regno Unito, sono molto più restie, e anche quando gli imprenditori diventano collezionisti sono in genere più inclini ad acquistare per sé che per l’azienda. L’argomento classico che viene proposto per spiegare lo scarso interesse delle imprese è la mancanza di incentivi fiscali: se gli acquisti d’arte potessero essere detassati, si argomenta, le imprese acquisterebbero molto di più. C’è motivo di dubitarne, almeno in parte: ascoltando l’esperienza degli imprenditori che hanno deciso di investire in arte a livello aziendale o addirittura di costruire una collezione aziendale, quasi mai si sostiene che una incentivazione fiscale favorevole avrebbe potuto giocare un ruolo decisivo nella decisione di imboccare questa strada: quel che conta è la passione e la convinzione dell’importanza di questo tipo di iniziativa. Sono molti di più, invece, gli imprenditori che non investono a richiamare la mancanza di incentivi fiscali come giustificazione, che però suona spesso come una via comoda per togliersi d’impaccio. In realtà, approfondendo la questione, emergono altri elementi molto più decisivi: la paura di non avere abbastanza competenze per affrontare il mercato dell’arte, la paura di reazioni 284
  • 9. negative da parte dei dipendenti che potrebbero considerare la collezione uno spreco di danaro e una sottrazione di risorse nei confronti di priorità più importanti, soprattutto nei momenti nei quali la competizione globale si fa più incisiva, la paura di attrarre l’attenzione della finanza e di subire accertamenti particolarmente accaniti, e così via. Un vario assortimento di paure, dunque, alla base del quale sta, in varie declinazioni, una stessa causa: una scarsa cultura del contemporaneo, che impedisce all’imprenditore di capire che le competenze si possono costruire conoscendo un poco alla volta la scena dell’arte contemporanea e affidandosi agli esperti verso le cui scelte si prova una maggiore affinità. Che impedisce di capire che i lavoratori considerano l’arte uno spreco di risorse e un irritante capriccio dei vertici aziendali se non sono messi in condizione di conoscere, di capire, di partecipare, ma che invece spesso diventano dei sostenitori di questo tipo di programmi quando comprendono il contributo che essi possono dare al miglioramento della cultura organizzativa e della qualità degli ambienti di lavoro, all’apertura mentale, alla disponibilità verso il nuovo. Che impedisce al nostro fisco di pensare all’arte come ad un bene voluttuario invece che ad un investimento (e ne è prova il non mai abbastanza stigmatizzato trattamento iva delle transazioni, che come si è detto a differenza di altri paesi europei impone un’aliquota del 20% e impedisce in buona parte l’emersione del mercato), e che quindi inocula nelle imprese il timore di essere oggetto di insidiose attenzioni da parte del fisco. Un robusto e maturo collezionismo aziendale farebbe benissimo non soltanto a molte imprese ma anche, ovviamente, al nostro sistema dell’arte, che avrebbe la possibilità di crescere e di investire più risorse sui nostri artisti, favorendone l’affermazione internazionale. Una delle sfide da proporre ai dicasteri governativi dei beni culturali e dello sviluppo economico sarebbe quella di dare avvio ad un programma di sensibilizzazione delle imprese al collezionismo aziendale, concedendo benefici ai musei e alle istituzioni culturali che si impegnano a diffondere questa cultura con iniziative mirate alle imprese del proprio territorio, coinvolgendo attivamente anche le associazioni imprenditoriali di categoria. I musei e la costruzione del pubblico dell’arte contemporanea Il museo è senz’altro una delle realtà su cui si concentrano più speranze quando si pensa ad un modello di organizzazione che sappia inserire i meccanismi dell’offerta culturale all’interno di uno scenario vitale e competitivo di sviluppo economico locale. Ma se il museo non è generalmente in grado di porsi come centro di profitto, quale ruolo può svolgere in concreto? Una casistica internazionale ormai ampia mostra come il museo abbia due funzioni importanti all’interno del sistema culturale locale: quella di attrattore e quella di attivatore. Il museo di arte contemporanea si presta particolarmente a svolgere queste funzioni in quanto esso diventa il luogo in cui si esprime con la massima compiutezza ed efficacia tutto il mondo simbolico su cui si costruiscono le moderne catene del valore: in altre parole, nel museo si realizzano proprio quelle condizioni ideali da ‘laboratorio di ricerca e sviluppo’ in cui si elaborano e divengono accessibili, al di fuori di immediati obiettivi commerciali, tutte le declinazioni più interessanti ed innovative dell’universo simbolico della cultura contemporanea, che vengono poi ‘metabolizzate’ all’interno della propria catena del valore dal sistema produttivo, generando idee di comunicazione, di design, di packaging ma anche modelli relazionali, stili di vita, idee di prodotto: né più né meno che il pane quotidiano dell’azienda post-industriale dal cui successo competitivo dipende il futuro delle nostre economie e delle nostre società. Da un lato, il museo agisce come attrattore nella misura in cui è in grado di aumentare la visibilità del sistema locale a cui appartiene, contribuendo all’orientamento di flussi turistici, di decisioni di investimento, di copertura mediatica ecc., tutte risorse preziose nei moderni processi di sviluppo locale. Limitandoci soltanto a casi europei, il Guggenheim Bilbao, la Tate Modern a Londra, il nostro MART, il Centre Pompidou di Parigi sono tutti esempi di musei con una chiara vocazione di attrattore. 285
  • 10. Dall’altro, il museo agisce come attivatore nella misura in cui le sue iniziative e i suoi contenuti sollecitano l’emergere di nuovi progetti imprenditoriali, la formazione e la selezione di nuove professionalità, il varo di progetti di responsabilità sociale rivolti alla comunità, la rilocalizzazione di attività produttive e residenziali all’interno del sistema urbano. Esempi di musei-attivatori, sempre restando nel contesto europeo, sono ZKM a Karlsruhe, Baltic a Gateshead, il Palais de Tokyo a Parigi, il CAC a Vilnius. In tutti i casi di studio di successo, tanto quando emerge con particolare forza la funzione- attrattore che quella –attivatore, si nota chiaramente che, accanto alla necessaria capacità di catalizzare energie e risorse provenienti dal di fuori del contesto locale, il museo riesce con successo a mobilitare e coinvolgere attivamente anche il pubblico e le risorse economiche del sistema locale che lo esprime. In altre parole, il museo che ‘funziona’, a prescindere dalla sua vocazione e dalle sue caratteristiche specifiche, è un museo che è vissuto e utilizzato come risorsa in primo luogo da coloro che, vivendo nella città o nel sistema metropolitano che lo ospita, godono di condizioni fisiche di accesso facilitate e privilegiate. Piuttosto che inseguire formule predefinite, occorre allora fare in modo che sia il dialogo tra il museo e il suo territorio a definire il modello di uso dello spazio e dei tempi del museo stesso. Un dialogo che presuppone un forte investimento del territorio in una crescita delle proprie competenze culturali, della propria capacità progettuale, dell’apertura al nuovo e alle esperienze internazionali. Nel contesto italiano, la crescita vertiginosa delle dimensioni del nostro sistema museale del contemporaneo in corso negli ultimi anni, e attualmente in fase di ulteriore accelerazione, richiede un notevole sforzo di coordinamento strategico per evitare, anche all’interno di una stessa area metropolitana, controproducenti sovrapposizioni di competenze accompagnate da vistose lacune strutturali del sistema nel suo complesso: una stessa area metropolitana o regione può così paradossalmente ospitare molti musei dediti ciascuno alla costruzione di collezioni piccole e incomplete piuttosto che concentrare gli sforzi su un unico progetto di qualità, e allo stesso tempo può essere, ad esempio, del tutto carente di spazi progettuali dalla vocazione non collezionistica. Un ruolo particolare, all’interno di questo sistema, dovrà essere assunto dal MAXXI che in quanto museo nazionale del contemporaneo assume inevitabilmente una responsabilità di leadership che dovrà essere attentamente costruita e declinata. La difficoltà dei giovani artisti italiani spiegata attraverso le carenze del sistema formativo In libri che sono anche classifiche editoriali internazionali come Cream 3 o Fresh Cream della Phaidon scopriamo che su 100 artisti gli Italiani sono solamente 2: Luisa Lambri e Grazia Toderi. In un’altra classifica del 2002, Art Now. 137 Artists at the Rise of the New Millennium della Taschen, gli italiani sono Monica Bonvicini, Maurizio Cattelan, Paola Pivi e ancora Grazia Toderi. Pochi gli artisti italiani anche nei regesti internazionali dedicati ai giovani disegnatori, ai giovani pittori e ai giovani fotografi. In mostre di una certa rilevanza nelle fiere di massimo impatto, da Frieze di Londra ad Art Basel ad Art Basel Miami e così via se ne incontrano di rado e spesso le gallerie italiane preferiscono portarvi star internazionali piuttosto che rischiare l’invenduto. Inoltre una fiera come Miart di Milano, che nel 2008 ha fatto i suoi ultimi tentativi di rinnovamento con sezioni dedicate ai giovani italiani, così facendo ha probabilmente decretato la sua fine. Uno dei motivi centrali per i quali gli artisti italiani stentano ad affermarsi all’estero almeno in quanto categoria – ci sono casi di successo eclatante, ma sempre 286
  • 11. raggiunto come caso isolato e mai in quanto membri di una cordata nazionale - può essere riscontrato nella mancanza di strutture adeguate dal punto di vista formativo. Le Accademie sono state per secoli i luoghi deputati all’insegnamento delle arti figurative. Basate sul rapporto maestro apprendista, sulla ripetizione di modelli, nascono intorno alla fine del XVI secolo, quando l’arte aveva delle funzioni decorative, per cui dall’Accademia dovevano uscire decoratori, stuccatori o affrescatori che avessero comunque uno stile riconoscibile; un primo elemento di debolezza delle Accademie è che l’arte sperimentale, come la si concepisce oggi, ha preso delle vie talmente varie e, appunto segnate dalla sperimentazione tecnica, progettuale, teorica ed estetica ,che un’omologazione simile degli stili degli studenti non è più proponibile. Il sistema delle Accademie di Belle Arti in Italia propone ancora e soprattutto un sapere centrato sulla tecnica - cosa sacrosanta in bacini come quello di Carrara, ove il territorio fornisca un materiale come il marmo, che chiede competenze specifiche di lavorazione, ma solo in questi rari casi . Un altro dei problemi delle Accademie riguarda inoltre il prolungato tempo di esposizione di un ragazzo giovane ad un solo docente. Una questione importante, soprattutto quando non sia garantita una qualità alta e omogenea dei docenti: per quattro anni consecutivi il ragazzo si confronta sostanzialmente con una modalità creativa e con un solo approccio alla disciplina; benché siano sempre presenti scambi o occasioni di colloquio con altri docenti, questo contatto prolungato è adatto a qualcuno che abbia la capacità di entrare nella logica progettuale del proprio maestro, ma anche di separarsene per trovare la propria via autonoma. Tentativi subentranti e spesso lodevoli di riformare le Accademie di Belle Arti si sono succeduti in Italia dai primi anni settanta, per riempire queste lacune e anche in seguito alla spinta del movimentiamo studentesco. Dapprima sono stati introdotti nel corso di studi i cosiddetti “Corsi Speciali” per affiancare un sapere storico-teorico a uno meramente pratico (in precedenza lo studente doveva solo fare un esame l’anno di Storia dell’Arte e uno l’anno della disciplina pratica prescelta, tra pittura, decorazione, scultura e architettura). Negli anni Novanta è iniziato il processo che ha condotto a conferire agli studenti che terminano gli studi un “diploma di Laurea” uniformato alle lauree cosiddette brevi (triennali). Questo mutamento, avvenuto con la legge 21 dicembre 1999, n. 508, è stato però più nominale che sostanziale: il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca tratta attraverso due direzioni generali diverse l’Università in senso tradizionale e i cosiddetti Istituti di Alta Formazione Artistica e Musicale, in cui rientrano le Accademie. Nei fatti, solo di rado i crediti acquisiti alle Accademie sono permeabili rispetto a quelli che possono essere acquisisti con esami universitari, e soprattutto è piuttosto infrequente il contrario (crediti formativi offerti dall’Accademia riconosciuti come validi nell’ambito universitario). Inoltre, i docenti delle Accademie continuano ad avere un tipo di ruolo statale che non identico, né per tipologia di concorso né per retribuzione né per permeabilità con le strutture “veramente” universitarie, rispetto a quello appunto dei docenti degli atenei. Tutto questo è un residuo del tempo in cui le Accademie rilasciavano diplomi di tipo diverso rispetto alle Lauree. Un passo avanti è stato comunque raggiunto: iscrivendosi a un biennio universitario specialistico, gli studenti delle Accademie finiscono per avere un titolo di studio 287
  • 12. universitario in senso pieno. Ciò significa che almeno in termini di “uso” del titolo di studio, gli studenti dell’Accademia maturano diritti analoghi a quelli degli studenti universitari. In particolare, aggiungendo al loro diploma una laurea specialistica o magistrale, possono ottenere il titolo rilasciato dal tre + due universitario. I docenti restano invece confinati in un limbo, economico ma non solo, che li demotiva da un lato e che dall’altro li spinge a denigrare ogni altro tipo di formazione artistica. La Rivoluzione delle Accademie non era forse necessaria, dal momento che un paese che ha dato all’arte recente molti importanti nomi e grandi scuole come la Germania non si è mai allontanato dal quel modello di studi. Certo è che gli artisti tedeschi migliori considerano un motivo d’orgoglio insegnare ed è rarissimo che un grande artista lo eviti: persino la vicenda creativa di un grande ribelle come Joseph Beuys – prima docente integrato, poi espulso, poi creatore di quella Free International University che concepì come un’opera - si avvolse intorno a questo tema. Al contrario, pochissimi tra gli artisti di fama riconosciuta in Italia si sono rivolti all’insegnamento. Dei movimenti più significativi del dopoguerra, Informale, Arte Povera e Transavanguardia, possiamo al massimo ricordare le docenze di Emilio Vedova a Venezia e di Luciano Fabro a Milano. Va anche ricordato che la nascita di molti tra questi istituti sono sorti al Sud non per rispondere alle reali esigenze del bacino di riferimento, ma per motivi politici di altra natura. Zone dall’ampia richiesta con il Nord Italia sono costrette, per fare fronte alle richieste di un bacino vastissimo, ad avvalersi di accademie comunali (come quella di Verona, la Ligustica a Genova, la Giacomo Carrara di Bergamo) oppure private (come la Naba di Milano) oppure di centri privati che non rilasciano un titolo legale (Domus Academy, Istituto Europeo del Design oppure altre organizzazioni, sovente estemporanee e poco controllate e quindi di efficacia sospetta). Accademie di Belle Arti in Italia. n° Diplomati Sede n° Iscritti 2003 BARI 400 48 BOLOGNA 1233 167 CARRARA 482 78 CATANIA 560 48 CATANZARO 171 34 FIRENZE 1081 194 FOGGIA 215 24 FROSINONE 139 28 L'AQUILA 104 30 LECCE 512 78 MACERATA 246 34 MILANO BRERA 2155 423 288
  • 13. NAPOLI 1405 103 PALERMO 846 122 REGGIO CALABRIA 417 66 ROMA 1822 301 SASSARI 326 44 TORINO ALBERTINA 540 103 URBINO (PS) 251 44 VENEZIA 905 74 Totale 13810 2043 Fonte: Miur, 2005. Alla carenza della formazione artistica ha cercato di fare fronte il DAMS, istituito dapprima a Bologna nel 1970/'71 all'interno della Facoltà di Lettere con lo specifico intento di indagare criticamente e sviluppare operativamente le sinergie tra i linguaggi espressivi non-verbali dell'Arte, del Cinema, della Musica e del Teatro. A tutt’ oggi la formula è stata ripetuta da molti atenei. Quella che doveva essere una svolta decisiva si è però dovuta scontrare con una prevalenza degli insegnamenti teorici e la difficoltà di avere importanti momenti laboratoriali: in particolare è difficile arruolare nel corpo insegnante dei professionisti i quali infatti non tendono alla ricerca di riconoscimenti accademici. Accade dunque che spesso anche i Dams non hanno contatti con i centri di produzione artistica del paese e quasi mai hanno docenti scelti a contratto tra i maggiori professionisti mondiali. La preziosa arma della docenza a contratto, cioè per periodi brevi ma con un buon compenso, chiamando artisti di fama internazionale, è stata del resto gravemente spuntata, per una incomprensione del ruolo steso della docenza a contratto di alto livello, con il cosiddetto Decreto Mussi del marzo 2007, che stabilisce requisiti minimi di docenti strutturati all’interno degli atenei così alti da scoraggiare le chiamate appunto a contratto. Questo problema si annuncia come il nodo più significativo da risolvere nei prossimi anni, liberalizzando e promuovendo la docenza a contratto laddove questa non sia una scappatoia per fare fronte a carenze di organico, ma si presenti invece come un modo per richiamare nei nostri atenei i protagonisti della cultura mondiale. Esistono nel paese, alla data dell’aprile 2008, solo due sole Facoltà in Università dello Stato designate sotto il termine di Design e Arti, una a Bolzano e una a Venezia. Solo in un caso, all’Univeristà Iuav di Venezia, è attivo un Corso di Laurea Specialistica in Arti Visive (progettato e diretto da Angela vettese) nato peraltro solo nel 2001, che ha cercato di mantenere vivace lo scambio con artisti e critici internazionali anche avvalendosi della compresenza in città di un magnete come La Biennale. Peraltro il corso ha dovuto subire un notevole ostracismo da parte non solo dell’Accademia di Belle arti della città, con cui non si è riuscito ad avviare, nonostante i tentativi iniziali dalle due parti, uno scambio osmotico, ma anche da parte delle altre Facoltà del medesimo ateneo (Architettura e Pianificazione Urbanistica). In apparenza sono state lungamente impaurite dal drenaggio di fondi che esso avrebbe potuto rappresentare e 289
  • 14. a più riprese tentate di sopprimerlo. In realtà, dietro a tale ostracismo e anche sullo sfondo della fatica dei Dams e delle Accademie, sembra stagliarsi un dubbio di fondo sulla necessità che la formazione artistica avvenga a livello universitario. Il mondo culturale italiano non confessa palesemente, ma continua a sentire che le arti visive siano parti del sapere pratico che non merita di essere approfondito in associazione con un’alta tradizione di teoria. Attesta il permanere di questa opinione, che non vede le arti visive come “cosa mentale”, l’oblio nel quale è tenuto il cosiddetto Liceo Artistico: considerato alla stregua di una scuola professionale, è centrato sulla pratica pittorica e plastica ed è incapace di fornire quelli che oggi sono strumenti teorici fondamentali: si pensi che l’insegnamento della filosofia non vi è sostanzialmente praticato; grave anche la scarsa considerazione in cui è tenuta la lingua inglese, vero passaporto per presentarsi in un contesto non solo nazionale. Seguire dunque un semplice corso Erasmus in inglese o un Master all’estero diventa difficile o infruttuoso. Tutto questo accade a fronte di uno sviluppo fortissimo delle strutture di formazione artistica all’estero, sia con il modello delle Accademie (Germania, Francia, Cina), sia con il modello dei College (in Inghilterra e paesi ex Commonwelth), sia con l’idea di scuole di tipo universitario (soprattutto Stati Uniti). Che ci si affidi a “meinsterclasse” alla tedesca o che ci si affidi invece a scuole come la UCLA o la Cal Arts di Los Angeles o la Staedel di Francoforte, dove l’insegnamento è affidato a rotazione a protagonisti diversi del mondo dell’arte, va detto che ormai da molti anni la maggior parte degli artisti stranieri di punta nasce all’interno di uno o più centri di formazione di eccellenza. I fotografi tedeschi che hanno impregnati della propria presenza gli anni ottanta e novanta - Thomas Ruff, Thom as Struth, Andreas Gursky - sono venuti fuori dall’insegnamento di Bernd e Hilla Becher a Duesseldorf. La scuola degli Young British Artists, che tanto scalpore e tanto successo ha avuto negli anni Novanta, proveniva quasi in toto dal Goldsmieths College. Si tenga inoltre presente che gli scambi tra gli studenti di queste scuole sono sempre più frequenti (si pensi alla riunione annuale Real Presence, organizzata solitamente a Belgrado). Solo nel 2003 una simile riunione ha avuto luogo in Italia, a Venezia, nell’ambito della Biennale di Venezia e dell’iniziativa Recycling the Future. Nella maggior parte dei casi la partecipazione a simili, formativi meeting internazionali viene lasciata all’iniziativa dei singoli e non favorita dalle scuole. Al sospetto riguardo alla validità culturale delle arti visive si aggiunge, negli anni del loro massimo successo di pubblico, l’abbraccio mortale dell’intrattenimento e il sapore di un’industria della cultura centrata su valori di mercato. Di qui anche una scarsa attenzione delle case editrici a una pubblicistica seria e a traduzioni dei maggiori saggi teorici e storici. L’ampliamento dei testi divulgativi ha condotto a libretti di sottofondo cinico e compiacenti con il “questo lo so fare anch’io” che è di casa tra chi non conosce l’arte contemporanea. Scarse anche le traduzioni degli studi italiani in inglese, cosa che favorisce un isolamento autoreferenziale degli studiosi italiani. Le nostre case editrici tendono a considerare il libro d’arte contemporanea come un ambito di edizioni prepagate da un committente. Anche quando non intervengano immagini a rendere costoso il prodotto, non si ritiene opportuno tradurlo per la piccolezza del bacino linguistico rispetto ai costi di pubblicazione (traduzione, diritti e distribuzione). Antologie decisive sul pensiero degli artisti e dei teorici del Novecento, come Art in Theory (Harrison & Wood, Blackwell 1995) oppure Theories and Documents in Contemporary Arts (Kristine Stiles e Peter Selz, California Press 1996) 290
  • 15. non hanno trovato in Italia neppure edizioni ridotte. Qualche speranza viene da nuove aperture: se si è dovuto attendere il 1993 perché il più classico dei critici americani, Clement Greenberg, trovasse una traduzione (Allemandi, Torino), la sua erede ribelle Rosalind Krauss ha visto tradotta quasi tutta la sua bibliografia rilevante grazie oltretutto a editori diversi (Bruno Mondadori, Codice). D’altra parte molto lascia pensare che questa buona volontà non nasca tanto da una attenzione ai luoghi di formazione e alle loro necessità, quanto dal boom di presenza che le arti visive hanno registrato dagli anni ottanta e fino agli anni duemila inoltrati sulla stampa anche non specializzata, epifenomeno della diffusione di mostre come elemento di politica culturale locale rivolta a un pubblico vasto. Potrebbe essere questa la spiegazione del fatto che sia stato tradotto un manuale costoso e ponderoso, Arte del 900 edito da Zanichelli (prima uscita Thames and Hudson),di Hal Foster, Rosalind Krauss, Yves-Alain Bois e Benjamin Buchoh. Suscita riflessioni ulteriori il fatto che i docenti di prima e di seconda fascia degli ambiti L-Art 03 e L-art-04, che coprono il settore della storia, della critica, della sociologia dell’arte contemporanea nei suoi aspetti più diversi, sono estremamente pochi: un’eredità inevitabile della nascita tarda dell’insegnamento della disciplina negli atenei; e a sua volta, un’eredità della tardiva e riluttante accoglienza che l’arte contemporanea ha avuto non solamente tra i docenti di materie scientifiche, ma anche di materie umanistiche, se possibile, soprattutto da parte dei colleghi storici dell’arte che si occupano di produzioni di secoli passati. Non solo mancano facoltà e corsi di laurea dedicati alla produzione e progettazione dell’arte visiva, ma anche nei corsi di laurea di Lettere, Beni Culturali, Storia, Filosofia, insomma nelle facoltà cosiddette umanistiche, l’arte del Novecento ha fatto un ingresso lento e rado. E con ciò torniamo a quello che è il leit motiv di questa riflessione.: anche la sola dicitura “arte contemporanea “ suscita più di un sospetto tra i cultori dell’arte antica e moderna. Un radicale cambiamento di linguaggio l’arte attuale ha perso le caratteristiche tecniche e le ricorrenze iconografiche di quella del passato. I materiali possono essere solo presentati e non manipolati. Le “figure” possono essere assenti, anche quando si tratti solamente di elementi astratti e geometrici. Alcune competenze di cui gli artisti recenti sanno avvalersi, come la tecnica della fotografia, del video o della cinematografia, non vengono riconosciute come facenti parte del novero di quelle che stanno nella categoria che ha alla base pittura e scultura. Si trova difficile evidenziare elementi di continuità con quella storia che, pure, gli artisti rivendicano come la propria fonte di ispirazione e il proprio principale riferimento nel passato. Esiste una vera difficoltà nell’attribuire valore di arte a ciò che non è più riconoscibile come tale. Molti artisti vengono considerati dagli storici dell’arte, dunque, dei semplici millantatori senza perizia tecnica né rispetto per la tradizione. Del resto questa è la direzione in cui è andata l’arte internazionale nel corso dell’ultimo secolo: il ready made sta per compiere appunto cento anni. In ambito concettuale, dagli anni sessanta, il supporto delle opere si è ridotto a un nonnulla (una definizione da vocabolario, un enunciato, un gesto) tanto che la studiosa americana Lucy Lippard ha potuto parlare di s-materilaizzazione dell’oggetto artistico e il critico Harold Rosenberg ha potuto definire quest’ultimo un “oggetto ansioso” alla ricerca della propria ridefinizione. Il collasso della materia e della manualità ha avuto il ruolo, peraltro, di dichiarare la potenza dell’opera al di là di ogni fattura manuale e in base solo all’idea che la sostiene. Siamo di fronte a una querelle antichissima, che ci riporta al tempo in cui gli artisti del Rinascimento sui battevano perché pittura e scultura 291
  • 16. venissero annoverate tra le Arti Liberali e, più in generale, tra gli ambiti che concedono di arrivare alla conoscenza. Questo processo di riconoscimento di valore epistemologico fu lentissimo; fu appunto questa lentezza la responsabile della mancata nascita o della nascita poco tempestiva, nella cultura europea e specialmente italiana, di istituti di formazione realmente universitaria. Per le arti visive, Pittura e Scultura erano equiparate alla Decorazione, terzo ambito della formazione tradizionale. Il quarto, l’Architettura, si è del resto staccata solo recentemente dal “ghetto” del sapere minore delle Accademie di Belle Arti, ed è forse per questo che ancora oggi difende con foga un primato guadagnato così di recente. Tutta la circospezione che attornia l’arte contemporanea nasce da una circospezione che da sempre circonda il territorio del visivo, ma è oggi ulteriormente suffragata, appunto, dalla difficoltà di capire cosa meriti questo appellativo. Dopo le provocazioni futuriste, dadaiste, concettuali e così via, è davvero difficile orientarsi in un campo che autorizza i profani a fare di tutta l’erba un fascio. D’altra parte dovremmo chiederci anche se non sia giunto il tempo di restituire o di dare tout court una piena dignità di veicolo del sapere all’ambito del visivo, dal momento che è in questo settore che si stanno sviluppando a grande velocità la maggior parte delle forme di comunicazione nuove. La supremazia dell’immagine sul testo non può essere considerata una moda, un fenomeno passeggero rispetto al quale c’è soltanto da attendere un inevitabile declino. I linguaggi non verbali non potranno che essere in futuro sempre più determinanti. Un discorso ulteriore meritano quei ”libri fatti di cose”, quelle occasioni per imparare a conoscere e a praticare il linguaggio dell’arte, rappresentate dalle collezioni di arte contemporanea. Quelle dei nostri musei sono, purtroppo, sporadiche e poco coerenti, cosa che non favorisce l’approccio didattico alla disciplina. Come si vede dalla tabella qui sotto, gli autori non mancano: ciò che è assente è la coerenza interna delle collezioni e la qualità dei pezzi. Nonostante la grande spinta data dagli anni novanta alla creazione di nuovi musei, tra cui spiccano i progetti per il MART di Rovereto (arch. Mario Botta), il Maxxi di Roma (arch. Zaha Hadid) del Macro di Roma (arch. Odile Decq), per il Museo d’arte contemporanea di Milano (Arch. Daniel Liebenskind), si è oramai perduta in Italia la possibilità di avere una collezione coerente di arte del XX secolo. Ciò nonostante il fatto che l’Italia sarebbe stato il paese con maggiori possibilità di costruirlo, almeno per la seconda metà del secolo, considerando che tutte le più importanti tendenze artistiche e tutti gli autori di rilievo degli ultimi settant’anni sono passati dalla Biennale di Venezia in tempi rapidi, tempestivi, quando le loro opere non costavano che poche migliaia di dollari. Purtroppo nessun organo dello Stato e nessun museo si è fatto carico di una politica di acquisti alla Biennale anche a basso costo, ma oculata e capace di precorrere i tempi. I prezzi dell’arte contemporanea sono a tal punto cresciuti, soprattutto dagli anni Ottanta in poi che una sistemazione del “buco” non è più proponibile. L’Italia potrà avere un museo del XXI secolo se emenderà questo errore, con i riflessi prevedibili nel campo della formazione del pubblico. Va ricordato che fenomeni come il “mostrismo” a fini di divertimento e turismo e la tentazione di costruire musei a fini si speculazione edilizia del territorio circostante (altrimenti detta riqualificazione urbana, spesso con sofisticata ipocrisia), nulla hanno a che fare con una genuina necessità di implementare la formazione e la coscienza artistica nel paese. Cercare i grandi numeri di visitatori per le mostre così come per i musei può addirittura essere controproducente, in quanto riesuma il fantasma dello spettacolo e fa vivere l’arte visiva contemporanea dell’ennesimo misunderstanding. La sua 292
  • 17. funzione primaria non può essere considerata quella di arricchire le città d’arte, già abbastanza nutrite dall’arte e dall’architettura antiche, ma appunto quella della produzione di sapere. Collezioni dei principali Musei Italiani di Arte Contemporanea. Museo Numero Periodo Tipo di collezione, pezzi in principali artisti collezion e1 MUSEION 1700 XX secolo, Accardi, Afro, Beuys, Cage, particolare Capogrossi, Fontana Hofer, Museo d’Arte riferimento alle Lawler, Lewitt, Locher, Kosuth, Moderna e correnti artistiche Kounellis, Kowarz, Manzoni, Contemporanea di italotedesche. Nauman, Novelli, Paik, Paolini, Bolzano Rudolf, Stolz, Zimmermann MART 7000 Tutto il XX secolo Balla, Boetti, Burri, Carrà, Depero, de Chirico, Fontana, Long, Kiefer, Museo d’Arte Kounellis, Martinetti, Merz, Moderna e Moranti, Nauman, Prampolini, Contemporanea di Sironi. Trento e Rovereto GAMeC 60 XX secolo Balla, Baj, Basilico, Boccioni, Casorati, Cattelan, de Chirico, De Galleria d’Arte Pisis, Fontana, Hartung, Moderna e Kandinskij, Manzù, Moranti, Contemporanea di Pirandello, Richter, Tesi. Bergamo Castello di Rivoli 300 Dal 1950 ad oggi Bonvicini, Cattelan, Cragg, Flavin, Fontana, Goldin, Halley, Kiefer, Museo d’Arte Kounellis, Long, Marisaldi, Merz, Contemporanea di Nauman, Ousler, Paladino, Rivoli (Torino) Penone, Pistoletto, Richter, Tesi Fondazione Torino 15000 Dalla fine del XVIII D’Azeglio, Fattori, Mancini, Pel Musei secolo ad oggi. lizza da Volpedo, Medardo Rosso; GAM, Galleria Anselmo, Balla, Boccioni, Boetti, d’Arte Moderna e Burri, de Chirico, De Pisis, Dix, Contemporanea di Ernst, Fontana, Hartung, Klee, Torino Kounellis, Martini, Manzù, Melotti, Merz, Modigliani, Morandi, Picabia, Picasso, Paolini, Pistoletto, Severini, Warhol Galleria Civica di 9000 Dal ‘900 ad oggi Carrà, Evans, Fontana, Ghirri, Modena Goldin, Lorca di Corcia, Morandi, Penone, Sironi, Zorio GAM 4000 Dall’800 ad oggi Angeli, Beecroft, Burri, Cattelan, Cesar, Cucchi, Gilbert & Gorge, Galleria d’Arte Gilardi, Merz, Ontani, Pane, Moderna di Paladino, Paolini, Penone, Bologna Schifano, Schnabel, Zorio. Centro per l’Arte 500 Dal 1950 ad oggi Bagnoli, Boetti, Cucchi, Fabre, Contemporanea Gilardi, Kapoor, Kounellis, Lewitt, 1 Il numero dei pezzi è approssimato. 293
  • 18. Luigi Pecci Prato Merz, Paolini, Pistoletto, Schnabel, Zorio GNAM 1900 Dall’800 ad oggi Canova, Cézanne, Courbet, De Nittis, Fattori, Lega, Michetti, Galleria Nazionale Monet, Pel lizza da Volpedo, d’Arte Moderna, Previati, Medardo Rosso, Van Roma Gogh MAXXI 60 XXI secolo Airò, Alys, Anselmo, Arienti, Avery, Bartolini, Basilico, Beecroft, Museo Nazionale Beninati, Boetti, Cattelan, De delle Arti del XXI Dominicis, Esposito, Galegati, secolo Gilbert & Gorge, Kentridge, Khebrenzades, Linke, Manzelli, Manzoni, Marisaldi, Merz, Moro, Oursler,Pessoli, Pivi, Richter, Ruscha, Schutte, Tesi, Trickell, Tuttofuoco, Vezzoli, Walker MACRO 1000 Dal 1960 ad oggi Accardi, Castellani, Perilli, Pivi, Pizzi Cannella, Rotella, Tesi. Museo d’Arte Contemporanea di Roma MAN 100 Arte del XX secolo Balleru, Canu, Collu, Floris, Lai, in Sardegna Mura, Nivola, Spada, Sini Museo d’Arte della Provincia di Nuoro Per concludere: alcune semplici misure di azione Per concludere, riportiamo qui quelli che a nostro parere potrebbero divenire gli elementi iniziali di una vera e propria ‘terapia di impatto’ nei confronti del nostro sistema del contemporaneo, che non sostituiscono il paziente lavoro di costruzione di una strategia di lungo termine ma possono diventare il segnale eloquente e credibile di un effettivo cambiamento in atto. Si tratta di misure in parte già richiamate nelle pagine precedenti, ma che è opportuno riportare qui di nuovo in forma schematica, evidenziando così ulteriormente il loro carattere di interdipendenza. Piuttosto che lavorare sui grandi scenari e su problemi strutturali di difficile soluzione, ci sembra utile e pragmatico partire dalle problematiche immediate degli artisti e degli operatori del settore, accompagnando a queste azioni un intervento più complesso e profondo sui temi e sugli attori esaminati nelle pagine precedenti. 1) Stabilire efficaci programmi internazionali che offrano ai curatori stranieri la possibilità di trascorrere soggiorni di studio in Italia. Il già citato FRAME, ad esempio, organizza un programma di visite intensissimo: in ogni giorno dell’anno sono presenti nella piccola ma efficiente sede almeno due-tre curatori provienienti da ogni parte del mondo a cui viene offerto ampio accesso ad una ricca documentazione sul lavoro degli artisti, la possibilità di visite agli studi (guidate o meno, a seconda delle preferenze), nonché la possibilità di proporre progetti. I risultati sono evidenti: artisti come Eija-Liisa Ahtila, Salla Tykka, Elina Brotherus, Esko Mannikko hanno raggiunto ormai una notevole visibilità internazionale e più o meno tutti mantengono ancora la propria base di residenza e di lavoro in Finlandia. 2) Inserire gli artisti all’interno delle reti dei programmi di residenze più interessanti a livello internazionale. La carriera di un’artista come Luisa Lambri, ad esempio, si è esemplarmente sviluppata attraverso una sequenza di residenze in contesti attentamente scelti e non 294
  • 19. scontati: dalla Lituania al Giappone. Ma analizzando il curriculum di quasi tutti gli artisti di primo piano emersi negli ultimi anni, si nota che le residenze giocano sempre un ruolo importante, soprattutto in corrispondenza della fase di consolidamento internazionale del loro lavoro. 3) Abituare gli artisti a saper presentare e discutere il proprio lavoro. Quasi ogni mostra museale negli Stati Uniti prevede un artist talk nel quale l’artista o gli artisti coinvolti discutono con il pubblico, lo staff curatoriale del museo, gli studenti delle scuole d’arte locali e spesso con curatori e critici esterni. In Italia questo accade di rado, e ancora una volta i risultati si vedono. Molti degli esperti interpellati evidenziano come non raramente gli artisti italiani mostrino una scarsa disinvoltura nella presentazione e nella discussione, se non anche nelle modalità di proposta progettuale, un limite che inevitabilmente li penalizza fortemente nelle fasi di selezione per le mostre importanti. 4) Sostenere gli artisti che ricevono inviti in istituzioni estere importanti, non soltanto nella prima fase della carriera, ma anche e soprattutto nelle fasi decisive del consolidamento internazionale. Gli artisti tedeschi, olandesi, nordeuropei, inglesi o americani - per limitarci ad alcuni degli esempi più evidenti - a cui vengono offerte opportunità espositive di particolare rilievo ricevono molto spesso un supporto finanziario significativo dalle istituzioni del paese di origine, e di conseguenza, a parità di condizioni, tendono ad essere invitati preferenzialmente rispetto ad artisti provenienti da paesi che non dedicano risorse a queste iniziative (come troppo spesso avviene da noi). 5) Potenziare la DARC con mezzi finanziari adeguati a farla funzionare come una vera agenzia del contemporaneo a 360 gradi, così da poter dedicare risorse finanziarie e umane non soltanto ai compiti istituzionali basilari ma anche al coordinamento e all’impegno diretto in politiche attive di promozione come quelle citate ai punti precedenti. 6) Offrire finalmente alle nostre gallerie un regime fiscale ragionevole che permetta loro di sviluppare la propria attività in condizioni concorrenziali rispetto a quelle degli altri paesi, con conseguenti più ampi margini di investimento nei propri artisti e nelle proprie strategie di promozione e internazionalizzazione. La debolezza economica e finanziaria di buona parte delle nostre gallerie, in un contesto nel quale anche molti musei devono a propria volta combattere con budget estremamente ristretti e soprattutto sempre incerti, in assenza di una politica pubblica orientata secondo le linee sopra descritte lascia i nostri artisti pressoché inermi di fronte alla sempre più agguerrita competizione internazionale. Si tratta di un programma di azione ambizioso, ma realizzabile, come mostra chiaramente l’esperienza di molti altri paesi europei e non che hanno fatto della cultura del contemporaneo la loro principale priorità di politica culturale. Non c’è motivo per cui non possa farlo anche il nostro paese. 295