2. UNA TEOLOGIA DEL “PECCATO”
I sacramenti come il linguaggio dell’amore di Dio che si fa
prossimo all’uomo. In questo linguaggio c’è il dono della
grazia e della misericordia di Dio verso l’uomo. Ora come
abbiamo visto parlando del Battesimo, esso ci libera dal
“peccato originale”. Ma oltre il peccato originale c’è una
situazione di cui ogni uomo in realtà fa esperienza e che è
bene descritta dall’apostolo Paolo nella sua lettera ai Romani
(Rm.7,18-23):
“Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene:
in me c’è il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo;
infatti io non compio il bene che voglio ma il male che non
voglio. Ora se faccio ciò che non voglio, non sono più io a
farlo, ma il peccato che abita in me. Dunque io trovo in me
questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a
me. Infatti nel mio intimo acconsento alla legge di Dio, ma
nelle mie membra vedo un’altra legge , che combatte contro la
legge della mia ragione e mi rende schiavo della legge del
peccato che è nelle mie membra”
3. IL PECCATO E LA COLPA
Parlare oggi di peccato e di colpa non è facile per diverse
ragioni. Nella nostra società è molto difficile che si riconosca
come dice l’apostolo Paolo che “il peccato abita in me”, e si è
progressivamente persa la coscienza del peccato come
responsabilità personale. Che il male esiste nel mondo è un
fatto innegabile e che tutti riconoscono, ma che tra questo,
nelle sue molteplici forme e il peccato vi sia una qualche
relazione è cosa più difficile da accettare e da dimostrare. Il
male esiste ma viene sempre più inteso come qualcosa di
esterno all’uomo. La “colpa”, dove essa venga provata, è
infrazione di una norma, di un codice, al quale si può
rimediare mediante un approccio legale che è comunque
esterno rispetto alla coscienza personale. E’ quello che
possiamo definire l’approccio legale/legalista al problema del
male, fondato su un concetto di giustizia retributiva, che
affonda le sue origine nel codice di Hammurabi (la cosiddetta
“legge del taglione”).
4. IL SUPERAMENTO DELLA LEGGE
Ma Gesù, è il tema del capitolo 5 di Matteo, il discorso
della montagna è venuto a superare questa logica
“Avete inteso che fu detto, ma io vi dico… ” e quando
Papa Francesco dice che il confessionale non deve
essere un tribunale, in fondo vuole esprimere questo
fatto, il sacramento della penitenza come segno della
misericordia di Dio.
E qui bisogna subito chiarire anche una questione, su
Antico e Nuovo Testamento, perché è abbastanza
comune un’idea che il Dio dell’Antico Testamento sia un
Dio duro, punitivo, mentre Gesù ci manifesta appunto un
Dio misericordioso. Ora questo non è vero, anche
nell’Antico Testamento Dio è ricco di misericordia, lento
all’ira, e l’AT conosce una prassi liturgica penitenziale
che quindi presuppone, una richiesta di perdono e
quindi l’esistenza del perdono.
5. L’ESPIAZIONE NELLA LEGISLAZIONE
DELL’ANTICO TESTAMENTO
Nelle epoche antiche il perdono divino è impetrato soprattutto
mediante digiuni, elemosine, suppliche e riti espiatori (cfr. Num.
16,6-15). Tra i riti espiatori c’è da soffermarsi in particolare su
quello del “capro espiatorio”. Nel capitolo 16 del libro del Levitico
sono descritti i complessi riti del grande giorno dell’espiazione. Il
giorno in cui il Sommo Sacerdote faceva i sacrifici per i peccati di
tutto il popolo. Elemento centrale del rituale era l’invio nel deserto
del “capro” sul quale erano state imposte le mani, trasferendo
simbolicamente sull’animale i peccati di tutto il popolo. Ancora
oggi nella religione ebraica si celebra il giorno dell’espiazione o
“Yom Kippur” come uno dei giorni più santi dell’anno. Esso è
sopravvissuto all’abbandono delle pratiche sacrificali dell’anno 70
d.C. I testi ebraici insegnano che in questo giorno non è
permesso che venga compiuta altra attività che non sia il
pentimento. Il pentimento è l’indispensabile condizione per tutti i
vari significati dell’espiazione. È usanza di terminare ogni disputa
o litigio alla veglia del giorno di digiuno. Anche le anime dei morti
sono incluse nella comunità dei perdonabili del Giorno del
Pentimento.
6. IL PECCATO DI DAVIDE
Tale convinzione accompagna l’uomo della Bibbia. La fedeltà alla
Legge si identifica come la via del giusto che “conduce alla vita”
(Sal.1). Ma proprio nello svolgersi della storia della salvezza si
evidenzia come questa sia costellata anche da continue
infedeltà, da cui nessuno è esente. La Bibbia non nasconde i
peccati degli uomini, anche dei più illustri come i re di Israele.
Forse il caso più eclatante è quello di Davide. La storia è nota,
Davide fa uccidere Uria l’Ittita, marito di Betsabea dopo aver
giaciuto con lei, un peccato grave e la cui storia ci illumina sul
senso del peccato che vigeva nella cultura biblica. E’ il profeta
Natan a svelare il peccato di Davide e ad accusarlo, “Tu sei
quell’uomo!”, provocando così il riconoscimento da parte dello
stesso Davide del proprio peccato. “Ho peccato contro il
Signore”. E’ interessante notare come questa presa di coscienza
è il primo passo che porta alla “rimozione” del peccato stesso,
secondo le parole di Natan. La tradizione attribuisce poi, proprio
a Davide, la composizione del Salmo 50, salmo penitenziale per
eccellenza, che il re avrebbe composto proprio
conseguentemente al peccato commesso.
7. LA RESPONSABILITÀ PERSONALE
Nella coscienza dell’uomo biblico la responsabilità del peccato
è personale ma con conseguenze collettive, tanto che il
popolo può portare su di sé i peccati dei padri (Bar.3,8). Ma
esiste senza dubbio una responsabilità personale del peccato
(Ez.18): “Voi dite: Perché il figlio non sconta l'iniquità del
padre? Perché il figlio ha agito secondo giustizia e rettitudine,
ha osservato tutti i miei comandamenti e li ha messi in pratica,
perciò egli vivrà. Colui che ha peccato e non altri deve morire;
il figlio non sconta l’iniquità del padre, né il padre l'iniquità del
figlio. Al giusto sarà accreditata la sua giustizia e al malvagio
la sua malvagità. Ma se il malvagio si ritrae da tutti i peccati
che ha commessi e osserva tutti i miei decreti e agisce con
giustizia e rettitudine, egli vivrà, non morirà. Nessuna delle
colpe commesse sarà ricordata, ma vivrà per la giustizia che
ha praticata. Forse che io ho piacere della morte del malvagio
- dice il Signore Dio - o non piuttosto che desista dalla sua
condotta e viva?”
8. PREGHIERA E PERDONO
Come il peccato del singolo può avere una conseguenza
distruttiva su tutta la collettività così è vero anche il contrario, che
cioè la virtù espressa dal singolo può essere veicolo di salvezza
anche per gli altri. Questo concetto emerge in alcune pagine
della Scrittura molto eloquenti come ad esempio la preghiera di
intercessione di Abramo su Sodoma, e di come la presenza dei
giusti nella città è una garanzia di salvezza per tutto il popolo.
Questo episodio mostra chiaramente anche il legame che c’è tra
la preghiera e il perdono del peccato. Accanto alla preghiera di
Abramo, possiamo citare anche l’intercessione di Mosé per il
popolo, e i salmi stessi, preghiera liturgica, che contengono una
forte componente penitenziale.
E’ la preghiera che distoglie Dio dal compiere la sua punizione
contro l’uomo peccatore. L’ira di Dio nell’A.T. è un segno del suo
amore passionale e personale verso gli uomini. Dio si afferma
nella scrittura è “geloso”. E’ in virtù di questo amore
appassionato che Dio più volte “ci ripensa” e rinuncia a fare il
male. Ma la condizione del perdono è sempre la conversione.
9. LA PENITENZA
L’invito alla penitenza è richiamo insistente presso i
profeti. I profeti parlano della conversione del cuore.
Osea, ad esempio, stigmatizzerà le conversioni
superficiali, invitando alla conversione interiore ispirata
dall’amore e dalla conoscenza di Dio (Os. 6,1-6). Il culto
da solo non conta nulla, dice Isaia (Is 1,11-15), senza
una sottomissione a Dio nella pratica della giustizia.
della pietà, della sincerità (cfr. Sof. 3,12s). Nonostante
l’efficacia del sacrificio di un cuore contrito (Sal. 51,18: il
salmo Miserere di Davide), la conversione del cuore ed
il perdono saranno soprattutto una grazia liberamente
offerta da Dio al popolo della nuova alleanza, quando
egli “scriverà la sua legge nei cuori” (Ger 31,33).
10. PREDICAZIONE DI GIOVANNI BATTISTA:
UN BATTESIMO DI CONVERSIONE
E’ significativo che tra le prime persone che si incontrano nei
vangeli spicca la figura di Giovanni Battista, come se proprio
agli inizi del Vangelo, la domanda di cambiamento, perdono,
rinnovamento di vita fosse giunto ad un’ apice. Giovanni
Battista infatti rappresenta un movimento di grande
rinnovamento spirituale che animò la fede di Israele, ai tempi
di Gesù. Alcuni studiosi hanno voluto leggere nella sua
esperienza un legame con il gruppo degli Esseni, ma questo
non è provato. Anzi proprio dai Vangeli comprendiamo che il
movimento del Battista è molto dinamico ed aperto e raccoglie
attorno a sé i più diversi strati sociali del popolo al contrario
del gruppo di Qumran. Il Vangelo di Luca al capitolo terzo
presenta diverse tipologie di “peccatori” che si presentano a
Giovanni Battista il quale come ci annuncia l’evangelista
“percorse tutta la regione del Giordano, predicando un
battesimo di conversione per il perdono dei peccati” (Lc.3,3)
11. CONVERSIONE
Ma Giovanni nella sua predicazione dichiara
apertamente che la sua attività ha un senso
preparatorio, e che il suo battesimo in acqua verrà
sostituito da quello di colui che deve venire dopo do lui
che battezzerà in “Spirito Santo e fuoco” (Lc.3,16). Gesù
chiama alla conversione come fece il Battista, ed è
significativo che le prime parole dei Vangeli sinottici
richiamino proprio questa tematica: “Convertitevi” dice
Gesù in Matteo 4,17; “ convertitevi e credete al Vangelo”
in Marco 1,15. Nella sua predicazione Gesù unisce in
maniera particolare la sua chiamata alla conversione e
la proclamazione della venuta del Regno di Dio.
“Convertitevi perché il Regno di Dio è vicino” (Mt.3,2).
La realtà del Regno di cui parla Gesù manifesta in modo
chiaro la rivelazione dell’amore e della misericordia di
Dio e quindi definisce la sua stessa missione in rapporto
al peccato e ai peccatori.
12. “MISERICORDIA IO VOGLIO E NON SACRIFICIO”
(MT 9,12)
In rapporto al peccato e alla realtà del male lo stesso Gesù afferma di scacciare i
demoni in virtù dello Spirito di Dio (Mt.12,28) e quindi il Regno di Dio “è giunto fra
di voi”. Cioè la presenza di Gesù non può coesistere con il male. E questo si
mostra chiaramente nelle reazioni dei demoni e degli spiriti che vengono cacciati
dagli indemoniati.
Diverso è l’atteggiamento verso i peccatori. Egli viene apertamente biasimato
per essere “amico dei peccatori” (Mt.9,10-13). Il contesto è quello di un
banchetto a cui Gesù partecipa assieme a “pubblicani e peccatori”. Il pranzo
esprime sempre un momento di comunione profonda di vita. Essere quindi
commensali di “pubblicani e peccatori” è agli occhi di chi assiste motivo di
scandalo: “Vedendo ciò i farisei dicevano ai suoi discepoli: Perché il vostro
maestro mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori?” (Mt.9,11) e in Luca
sempre i farisei esprimono la loro condanna verso questo comportamento:
“Costui riceve i peccatori e mangia con loro” (Lc.15,2).
I due livelli che Gesù mostra sono molto chiari: amore e perdono per i peccatori,
condanna e lotta contro il peccato. Di fronte al rimprovero dei farisei la sua
risposta è netta: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico ma i malati.
Andate dunque ed imparate che cosa significa “Misericordia io voglio e non
sacrificio” Infatti non sono venuto a chiamare i giusti ma i peccatori” (Mt.9,12ss).
13. LE PARABOLE DELLA MISERICORDIA
Tutto il capitolo 15 di Luca è in fondo una risposta ai farisei. Questo
capitolo non vuole indicare prima di tutto l’essenza del peccato, ma
presentare qual è il comportamento di Gesù nei confronti dei peccatori e
la qualità del perdono di Dio, la sua misericordia. E Gesù usa per questo
la forma narrativa della parabola. Le “parabole della misericordia”
indicano situazioni concrete di “mancanze”, la pecora perduta, la moneta
perduta, il figlio perduto. In tutte le parabole alla situazione di
smarrimento/peccato segue un ristabilire la situazione precedente. Nelle
tre situazioni viene espressa il legame tra il perdono e la gioia. C’è come
una sproporzione oggettiva nelle reazioni del pastore, della donna e
infine del padre misericordioso. Ma tale sproporzione si deve leggere
l’agire di Dio verso gli uomini peccatori, “sproporzionato” e fuori di ogni
logica umana di “reciprocità”. Gesù quindi non solo vuole giustificare il
suo atteggiamento verso i peccatori, ma soprattutto il comportamento di
Dio verso di loro; ma fa anche qualcosa di più: identifica implicitamente il
suo comportamento con quello di Dio.
“Nel peccato l’anima sfugge a sé stessa e si perde…l’anima peccatrice è
un’anima perduta per gli altri e per sé stessa, perché non ha saputo
conservare la sua unità con Dio”
14. IL “POTERE” DI PERDONARE I PECCATI
Ma come si mostra questo comportamento? Gesù predica,
guarisce, libera dalle forze del male (demoni), e perdona il
peccato. Il suo perdonare avviene in maniera esplicita e
costituisce per i suoi contemporanei uno scandalo. Così
avviene nel racconto della guarigione del paralitico riportato
dai sinottici (Mt.9,1-8; Mc.2,1-12; Lc.5,17-26). All’interno di un
racconto di guarigione infatti si inserisce il discorso
sull’efficacia del perdono di Gesù. Davanti all’uomo paralitico
portato su un lettino, Gesù prima di tutto parla del perdono dei
suoi peccati. Questo suscita lo sdegno dei presenti,
consapevoli che questo potere è una prerogativa divina. E
Gesù svela questi pensieri operando in un secondo momento
la guarigione: “Ora perché sappiate che il Figlio dell’uomo ha
il potere sulla terra di perdonare i peccati, dico a te – disse al
paralitico – alzati prendi il tuo lettuccio e va a casa tua”
(Lc.5,24). Nella pericope di Matteo la folla che assiste rende
gloria a Dio perché ha dato “un tale potere agli uomini”
(Mt.9,8).
15. “LEGARE” E “SCIOGLIERE”
Gesù è cosciente di questo fatto tanto da conferire alla comunità dei
discepoli questo potere in maniera ufficiale. La testimonianza della
trasmissione di questo potere la si può trovare in tre testi, due volte nel
Vangelo di Matteo (Mt.16,17-19; Mt.18,15-18) e una nel Vangelo di
Giovanni (Gv.20,19-23). In tutti e tre i testi ritorna l’espressione con i
verbi “legare” e “sciogliere”. Questa terminologia appartiene al
vocabolario rabbinico ed indicava l’autorità propria dei maestri religiosi
dell’ebraismo di sancire come permessi o vietati particolari
comportamenti in base all’interpretazione della Legge di Mosé. La novità
cristiana è data dal fatto che questo potere si estende anche ai peccati
degli uomini che potevano essere rimessi solo da Dio, o mediante i riti
espiatori dal ministero sacerdotale legato al Tempio di Gerusalemme. In
questo senso Gesù lega la misericordia divina a quella umana. Nel
capitolo 18 di Matteo questo viene espresso in maniera molto chiara: “Se
il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, và e ammoniscilo fra te
e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; se non
ascolterà, prendi ancora con te una o due persone, perché ogni cosa sia
risolta sulla parola di due o tre testimoni. Se poi non ascolterà costoro,
dillo alla comunità; e se non ascolterà neanche la comunità, sia per te
come il pagano e il pubblicano. In verità io vi dico tutto quello che
legherete sulla terra sarà legato in cielo e tutto quello che scioglierete
sulla terra sarà sciolto in cielo” (Mt.18,15-18).
16. LA CORREZIONE FRATERNA E LA “SCOMUNICA”
Viene qui descritto un vero e proprio processo di correzione fraterna e
riconciliazione che avviene all’interno della comunità. Ci sono vari gradi
di giudizio tutti sempre rivolti al raggiungimento della riconciliazione con il
peccatore. Egli dovrà essere riconciliato in un primo grado, in forma
privata. Se questo non bastasse, si può ricorrere ad un secondo grado
con l’intervento di due o tre testimoni. Se anche in questo modo non ci
sarà la riconciliazione allora c’è l’appello alla comunità, ed è da notare
qui il ruolo di tutta la comunità come elemento di riconciliazione. Solo
dopo questo terzo passaggio, allora si può incorrere in una vera e
propria “scomunica”. In questo caso il peccatore si trova escluso dalla
vita liturgica e sociale della comunità. Ma tutto il contesto in realtà ci
parla della finalità salvifica di questo processo. Il riferimento a “legare” e
“sciogliere” rientra in questa lettura e il confronto tra l’ordine terrestre e
quello celeste mostrano la sua vera efficacia. Questa deriva dalla
presenza di Cristo stesso nella comunità (“dove due o tre sono riuniti nel
mio nome io sono in mezzo a loro”). “Legare” e “sciogliere” quindi non
sono due alternative opposte, ma due momenti di un medesimo
processo, da intendersi come un legare per sciogliere, quindi al limite
anche escludere dalla partecipazione alla vita della comunità ma sempre
nella prospettiva di un processo di conversione che porti ad una
definitiva riconciliazione.
17. LEGARE E SCIOGLIERE, PERDONARE E NON
PERDONARE (GV 20,22)
Una terminologia analoga a quella del Vangelo di Matteo la
troviamo anche nel Vangelo di Giovanni (Gv.20,22-23), in un
contesto particolare che è quello delle apparizioni di Gesù
risorto. Il Concilio di Trento leggerà in queste parola la vera e
propria “istituzione” del sacramento della riconciliazione. Gesù
risorto appare ai suoi discepoli e emette su di essi con il suo
soffio lo Spirito Santo dopo averli inviati in missione: “come il
Padre ha mandato me, anche io mando voi”. Appare chiaro che il
perdonare i peccati rientra quindi pienamente nella missione dei
discepoli. Anche qui si parla di perdonare e di non perdonare, in
maniera analoga dell’espressione rabbinica che troviamo in
Matteo di “sciogliere” e “legare”. Tale specificazione sottolinea
che ai discepoli viene realmente conferito lo stesso potere di
Gesù, mediante lo Spirito Santo. L’espressione in positivo e in
negativo della frase proviene dallo stile semitico che esprime la
totalità mediante una coppia di contrari. “Perdonare/ non
perdonare” indica qui la totalità del potere misericordioso
trasmesso dal Risorto ai discepoli: quando cioè la comunità-
chiesa perdona è Dio stesso che perdona.
18. IL “MINISTERO” DELLA RICONCILIAZIONE
(2 COR 5,14-21)
La prassi ecclesiale di questo ministero ci è testimoniata in particolare da
alcuni passi delle lettere di Paolo. L’apostolo fa esplicito riferimento al
ministero di riconciliazione che gli è stato affidato: “L’amore del Cristo
infatti ci possiede; e noi sappiamo bene che uno è morto per tutti,
dunque tutti sono morti. Ed egli è morto per tutti perché quelli che vivono
non vivano più per sé stessi, ma per colui che è morto e risorto per loro.
Cosicché non guardiamo più nessuno alla maniera umana; se anche
abbiamo conosciuto Cristo alla maniera umana ora non lo conosciamo
più così. Tanto che se uno è in Cristo è una nuova creatura; le cose
vecchie sono passate; ecco ne sono nate di nuove. Tutto questo però
viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a
noi il ministero della riconciliazione. Era Dio infatti che riconciliava a sé il
mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a
noi la parola della riconciliazione. In nome di Cristo, dunque siamo
ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta. Vi supplichiamo
in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio. Colui che non aveva
conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui
potessimo diventare giustizia di Dio” (2Cor.5,14-21)
19. PASQUA E RICONCILIAZIONE
Da queste pericopi si può capire come la riconciliazione è qualcosa che
per Paolo viene dal cuore dell’esperienza della Pasqua. Ma la
riconciliazione di cui parla qui non si riferisce al sacramento del
battesimo, anche se il riferimento alla “nuova creatura” può richiamare
un vocabolario battesimale. Il contesto generale della lettera infatti fa
pensare a problemi concreti insorti all’interno della comunità per cui è
necessario esercitare questo ministero di riconciliazione per i peccatori.
Tale ministero, secondo le parole di Paolo si esercita essenzialmente
nella parola, che si fa esortazione/predicazione e supplica (preghiera), e
fonda la sua efficacia sul carattere espiatorio del sacrificio di Cristo.
Nell’A.T. infatti abbiamo visto come il rito del “capro espiatorio” fungesse
da mediazione per la purificazione dell’accampamento. Nel giudaismo
più tardo, quello a cui probabilmente fa riferimento Paolo, il “luogo
dell’espiazione” per eccellenza era il tempio e precisamente il coperchio
dell’arca dell’alleanza. Secondo la tradizione su di esso si raccoglievano
tutte le colpe di Israele. Questo coperchio era il luogo più sacro, il “trono
di Dio” sulla terra; su di esso la colpa veniva raccolta e allo stesso tempo
annullata. Ora il “luogo” dell’espiazione diventa Gesù stesso: egli è
divenuto “peccatore” affinché mediante la sua morte le colpe di tutti
potessero essere eliminate.
20. “IL PRIMO DEI PECCATORI SONO IO”
Paolo si considera quindi ministro ed ambasciatore della
riconciliazione di Dio, ma questa consapevolezza viene
dalla sua stessa esperienza personale di uomo
riconciliato come egli stesso scrive a Timoteo: “Questa
parola è degna di fede e di essere accolta da tutti: Cristo
Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori, il
primo dei quali sono io. Ma appunto per questo ho
ottenuto misericordia, perché Cristo Gesù ha voluto in
me, per primo, dimostrare tutta quanta la sua
magnanimità, e io fossi di esempio a quelli che
avrebbero creduto in lui per avere la vita eterna.”
(1Tm.1,15-16) Tale coscienza viene dall’aver
sperimentato in prima persona la forza di questa
riconciliazione e il fatto di considerarsi il “primo dei
peccatori”.
21. LE LISTE DEI PECCATI
Nella letteratura paolina esistono varie “liste” di peccati o comportamenti che
escludono dal “regno di Dio”. Si tratta di atteggiamenti di vita individuali che
richiedono sempre un cambiamento della condotta per ottenere il perdono di Dio.
In alcuni casi, quando questi peccati si manifestano pubblicamente, ed è il caso
particolare degli “scandali” suscitati soprattutto nella comunità di Corinto, Paolo fa
ricorso alla esclusione o “scomunica” dalla comunità. E’ il caso di “incesto” evocato
al capitolo 5 della 1 lettera ai Corinti. “Io ho già giudicato – dice Paolo – Nel nome
del Signore nostro Gesù (e questa espressione solenne esprime un’azione
liturgica per la prima comunità) essendo radunati voi e il mio spirito insieme alla
potenza del Signore nostro Gesù, questo individuo venga consegnato a Satana a
rovina della carne, affinché lo spirito possa essere salvato nel giorno del Signore”
(1Cor.5,1-13)
L’espressione “consegnato a Satana” esprime proprio la separazione dalla
comunità che viene però intesa ad uno scopo “medicinale” per la salvezza dello
spirito. Si tratta quindi di una punizione esemplare volta al recupero e alla salvezza
del peccatore. Tale concetto viene espresso in termini ancora più chiari nella 2
lettera ai Tessalonicesi: “Se qualcuno non obbedisce a quanto diciamo in questa
lettera, prendete nota di lui e interrompete i rapporti, perché si vergogni; non
trattatelo però come un nemico, ma ammonitelo come un fratello”. Questo ci dice
che, nonostante la realtà del peccato, la dignità battesimale che rende la comunità
cristiana come un’unica famiglia, non abolisce la fraternità.
22. CI SONO PECCATI CHE NON POSSONO
ESSERE PERDONATI ?
Nel nuovo testamento vengono però anche evocate situazioni in cui sembra che
non ci sia possibilità di riconciliazione. Già nella lettera ai Romani si esprime con
chiarezza che in virtù del battesimo il cristiano è liberato dal potere del peccato,
eppure l’esperienza della comunità ci dice come questo continui ad essere
presente. Questo fatto evidentemente suscitò una domanda: può essere
perdonato colui che con il battesimo ha rinunciato consapevolmente al peccato?
Nei Vangeli sinottici Gesù stesso parla di un peccato o “bestemmia” contro lo
Spirito Santo che non potrà essere perdonato. Il senso di questi testi non è tanto
quello di porre una limitazione alla misericordia divina, ma di condannare quella
disposizione personale che rifiuta la realtà stessa dello Spirito Santo e quindi la
possibilità del perdono. Si configura qui già allora il contesto che è quello della
apostasia, cioè del rinnegamento della propria fede. Di questo problema ci parla la
lettera agli Ebrei: “Quelli infatti che sono stati una volta illuminati e hanno gustato il
dono celeste sono diventati partecipi dello Spirito Santo e hanno gustato la buona
parola di Dio e i prodigi del mondo futuro. Tuttavia, se sono caduti, è impossibile
rinnovarli un’altra volta portandoli alla conversione dal momento che, per quanto
sta in loro, essi crocifiggono di nuovo il Figlio di Dio e lo espongono all’infamia.
Infatti una terra imbevuta della pioggia che spesso cade su di essa, se produce
erbe utili a quanti la coltivano, riceve benedizione da Dio; ma se produce spine e
rovi, non vale nulla ed è vicina alla maledizione finirà bruciata!” (Eb.6,4-8)
23. IL PECCATO E L’AMORE
E’ il caso di battezzati che non possono essere “ribattezzati” in vista di un nuovo
perdono, ma il problema qui non è solo di tipo “giuridico” ma legato ai frutti della
vita che sono connessi alla realtà dello Spirito Santo. Lo Spirito è ciò che dà vita, il
suo contrario quindi conduce alla morte. Ed è a questo che fa riferimento anche la
1 lettera di Giovanni: “Se uno vede il proprio fratello commettere un peccato che
non conduce alla morte, preghi, e Dio gli darà la vita: a coloro, cioè il cui peccato
non conduce alla morte. C’è dunque un peccato che conduce alla morte; non dico
di pregare riguardo a questo peccato. Ogni iniquità è peccato, ma c’è il peccato
che non conduce alla morte” (1Gv.5,16-17). Quale sia questo “peccato che
conduce alla morte” non viene specificato dall’autore della lettera, ma noi
sappiamo che nelle lettere di Giovanni uno dei temi conduttori è quello dell’amore.
La realtà contraria a quella dell’amore è l’odio, “Chiunque odia il proprio fratello è
omicida…” (1Gv.3,15). D’altro canto una delle espressioni dell’amore di Dio,
secondo la 1 Giovanni, è proprio il perdono dei peccati: “Se diciamo di essere
senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi. Se confessiamo i
nostri peccati, egli è fedele e giusto tanto da perdonarci i peccati e purificarci da
ogni iniquità. Se diciamo di non avere peccato, facciamo di lui un bugiardo e la sua
parola non è in noi. Figlioli miei, vi scrivo queste cose perché non pecchiate; ma se
qualcuno ha peccato, abbiamo un Paraclito presso il Padre: Gesù Cristo il giusto.
E’ lui la vittima di espiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma
anche per quelli di tutto il mondo.” (1Gv.1,8.2,2)
24. IL PECCATO CHE CONDUCE ALLA MORTE
Il peccato che conduce alla morte sarebbe la
perdita della fede? La perdita della capacità di
amare? Nulla di questo si può in realtà
comprendere dal testo, ma si comprende che in
entrambe i casi sia la fede che l’amore sono messi
in relazione con lo Spirito Santo. L’indicazione di
non pregare non vuol dire che non si può pregare
perché quelli che hanno peccato ritrovino la via
della fede. Qui appare più che altro che la
proibizione sia di pregare per il peccato in sé, come
rifiuto di quello Spirito che porta con il perdono, ad
un rinnovamento della vita.