Testi di supporto al workshop Conoscenza e tecnologie appropriate per la sostenibilità e la resilienza in urbanistica - Knowledge and Appropriate Technologies for Sustainability and Resilience in Planning
con due allegati di Herbert Girardet:
URBAN METABOLISM: LONDON SUSTAINABILITY SCENARIOS 2006
REGENERATIVE CITIES 2010
Luca Marescotti, Maria Mascione, Scira Menoni: Moduli 12-14-17-18-19-20-21
1. a cura di Luca Marescotti
DOI: 10.13140/RG.2.1.2676.7126
Licenza Creative Commons
Conoscenza e tecnologie appropriate per la sostenibilità e la resilienza in urbanistica
Knowledge and Appropriate Technologies for Sustainability and Resilience in
Planning diLisa Astolfi, Funda Atun, Maria Pia Boni, Annapaola Canevari, Massimo
Compagnoni, Luca Marescotti, Maria Mascione, Ouejdane Mejri, Scira Menoni,
Pierluigi Paolillo, Floriana Pergalani, Mauro Salvemini è distribuito con Licenza
Creative Commons Attribuzione 4.0 Internazionale.
Based on a work at https://www.researchgate.net/profile/Luca_Marescotti. Permessi
ulteriori rispetto alle finalità della presente licenza possono essere disponibili presso
https://polimi.academia.edu/LucaMarescotti.
2.
3. Note per le lezioni di: La conoscenza del rischio (2). Vulnerabilità e resilienza
territoriale: come l’urbanistica e la pianificazione territoriale possono
contribuire a politiche di prevenzione
Scira Menoni, Dipartimento di Architettura e Studi Urbani – Politecnico di Milano
Premessa
L’urbanistica moderna si è sviluppata concentrando sempre più il proprio fuoco
disciplinare sulla città costruita o da costruire, dimenticandosi delle basi fisico-naturali
grazie alle quali e a scapito delle quali era cresciuta. È stata l’ascesa dell’ambientalismo
a riportare anche nell’urbanistica l’attenzione ai fattori naturali, di suolo, sottosuolo,
atmosfera senza i quali la vita sarebbe impossibile. In un’immagine molto suggestiva
proposta da due studiosi canadesi (Rees e Wackernagel, 1996), l’obiettivo che si deve
raggiungere per rendere le città sostenibili, consiste nel limitare la loro impronta
ecologica, nel renderle capaci di sopravvivere e svilupparsi facendo affidamento su una
superficie e su una quota di cielo limitati e rappresentati da una virtuale campana di
vetro. Ciò richiede che si chiudano i cicli di prelievo-prodotto-rifiuto che la città
industriale ha linearizzato su scala planetaria, tenendo conto e assecondando le relazioni
che esisteono tra sistemi naturali e artificiali e tra i vari sistemi e sottosistemi territoriali.
Lo sviluppo sostenibile dovrebbe portare contestualmente ad una riduzione dei disastri,
sia di origine naturale sia per incidenti tecnologici. Sostenibilità e prevenzione
diventano quindi due termini inscindibili, poiché ciò che rende ancor più pericolosi gli
elementi naturali e più vulnerabili popolazioni e insediamenti è all’origine di uno
squilibrato e disarmonico rapporto tra uomo e natura.
Definizione di rischio
In queste prime note sintetizziamo da una parte la definizione di rischio e dall’altra
proponiamo alcune riflessioni sul ruolo che l’urbanista può (dovrebbe svolgere)
nell’ambito della prevenzione non strutturale, ovvero non tradotta in opere
ingegneristiche di difesa, che, per quanto fondamentali e imprescindibili, non possono
da sole ridurre il rischio in modo soddisfacente.
Definiamo il rischio come una funzione, nella quale R = f (H, V, E), dove H è l’hazard
ovvero al pericolosità e V è la vulnerabilità del patrimonio esposto E. Il rischio R è
ottenuto dalla combinazione (convoluzione) dei precedenti termini.
Gli studiosi di rischio sismico sono stati i primi a sviluppare modelli per la valutazione
della vulnerabilità, mentre per tutti gli altri rischi il rischio, che ricordiamolo viene
“misurato” in termini di probabilità di danni attesi, veniva valutato come combinazione
di pericolosità ed esposizione. Per altri tipi di rischio, quali frane e alluvioni,
l’attenzione dei tecnici si è infatti concentrata prevalentemente sui fattori di pericolosità,
sui quali si poteva intervenire con opere strutturali: consolidamenti, muretti di sostegno,
griglie, canali di drenaggio nel caso delle prime, con argini, vasche di laminazione,
dighe a difesa dalle seconde. Nelle valutazioni di rischio idrogeologico non si trovano in
4. genere analisi complete di vulnerabilità degli insediamenti, della popolazione, dei
sistemi produttivi soggetti potenzialmente alla minaccia del versante o del fiume, ma, al
più, considerazioni di esposizione, limitate agli oggetti compresi nelle aree o nelle fasce
di pericolo. Nel momento in cui si vuole però fare della pianificazione urbanistica e
territoriale non un semplice ricettore di indicazioni relative alle zone più pericolose dal
punto di vista geologico ed idraulico, ma uno strumento essenziale nella prevenzione
dei rischi, occorre migliorare di molto la nostra capacità di misurare e analizzare i fattori
di vulnerabilità, e trovare dei modi più efficaci per integrarle agli studi di pericolosità,
per ottenere analisi di rischio o scenari di evento comprensivi al loro interno di quegli
elementi territoriali sui quali una buona strategia preventiva deve intervenire per ridurre
i danni attesi.
I tempi sono oggi ormai maturi: negli ultimi vent’anni si è levata in modo potente una
domanda di urbanistica quale strumento di prevenzione dei rischi soprattutto da parte
delle organizzazioni internazionali (ricordiamo ad esempio la Campagna Resilient
Cities dell’UNISDR, l’ufficio delle Nazioni Unite per la riduzione dei rischi da disastri
naturali, ma anche l’UNECE, l’UNDP, l’UNESCO che ha lanciato una campagna
Cultural Heritage at Risk, per la salvaguardia dei beni culturali soggetti a pericoli
naturali, la Banca Mondiale). La domanda di urbanistica – per quanto paradossale e
forse anche un po’ assurdo – viene più dalle discipline tecniche che hanno toccato con
mano l’inevitabile limitatezza dei soli interventi strutturali, quando essi non siano
supportati da un’efficace regolamentazione degli usi del suolo, che come spinta ad
entrare nell’ambito degli studi sui rischi da parte degli stessi pianificatori.
Se si vuole riuscire a rendere la pianificazione un efficace strumento di prevenzione,
occorre che cambi anche il modo di analizzare e valutare i rischi, attraverso un lavoro
congiunto e finalizzato a progetti comuni di esperti geologi, ingegneri, urbanisti (Vedi
Menoni, 2012).
Al fine di integrare i diversi approcci in un prodotto nuovo, è sembrato opportuno
partire dalle domande che il pianificatore pone (o dovrebbe porre) agli esperti che
studiano i vari fenomeni potenzialmente distruttivi, piuttosto che cercare di incorporare
nel piano le analisi dei rischi condotte in modo tradizionale e settoriale.
Queste ultime infatti sono state sviluppate ottemperando a criteri di rigore scientifico
volti all’avanzamento delle conoscenze in materia, più che pensando ad applicazioni in
ambiti concreti, nei quali parametri che appaiono molto rilevanti allo scienziato perdono
di peso agli occhi del decisore, in quanto incapaci di incidere significativamente sulle
scelte, ad esempio in termini di espansione urbana o di localizzazione dei servizi
pubblici.
In campo sismico o alluvionale, ad esempio, le ricerche tese a perfezionare la
determinazione degli intervalli di occorrenza (o dei tempi di ritorno) di eventi di
intensità data, non forniscono al pianificatore elementi chiave dal punto di vista
urbanistico. I tempi della città sono infatti ben diversi da quelli di un singolo edificio:
una volta scelta un’area di espansione “sbagliata”, questa si ripercuoterà per i decenni e
i secoli a venire, dal momento che la “vita” di una città o di una sua parte è di gran
5. lunga più duratura di quella della maggior parte delle sue costruzioni. Ciò non significa
ovviamente che tali ricerche non siano importanti, anzi, sono fondamentali per gli
avanzamenti scientifici che porteranno, col tempo, anche frutti applicativi. Ad oggi,
tuttavia, per quanto interessa le scelte di piano e di sviluppo degli insediamenti, sono
altri i parametri già disponibili che offrono indicazioni preziose nell’immediato.
Le risposte più importanti alle quali il pianificatore cerca delle risposte, riguardano i
seguenti aspetti:
a. dove si produrranno probabilmente i danni maggiori?
b. quali elementi e quali sistemi territoriali risulteranno maggiormente
colpiti e con quali conseguenze complessivamente?
c. per quanto riguarda la città che ancora non c’è, quali sono le scelte
localizzative e le modalità progettuali e realizzative che minimizzano la
creazione o l’incremento del rischio?
La terza domanda è in un certo senso la più semplice, e non a caso la legislazione
vigente in materia di rischi, focalizza su di essa la propria attenzione.
Le prime due domande invece, che riguardano chiaramente il territorio consolidato, le
opere e le infrastrutture esistenti, sono molto più difficili, e i tentativi di risposta ancora
allo stadio sperimentale. Non ci sono dubbi però sul fatto che si sta avendo una fioritura
di ricerche in questo campo, soprattutto internazionalmente.
Per cercare delle risposte a queste due domande, occorre ripensare il concetto di rischio,
ma soprattutto i modi in cui viene calcolato o valutato, poiché è inevitabile che
passando dalla sfera di studio del fenomeno a comprendere il territorio, si dovrà passare
a forme di analisi semiqualitative, rinunciando a modelli sofisticati ma inevitabilmente
chiusi ed applicabili solo in domini controllabili, e pertanto limitati. Dei modelli finora
utilizzati nelle analisi di rischio, si sono mantenuti due caratteri distintivi: da un lato il
rigore metodologico, cercando di elaborare strumenti di valutazione del rischio
territoriale verificabili e ripercorribili da altri, dall’altro si è mantenuto il momento della
valutazione come cardine di un metodo che non vuole limitarsi alla descrizione
dell’esposizione, ma mira bensì a connotarla, a darne dei giudizi utili per orientare poi
l’intervento preventivo.
Le analisi e le valutazioni di rischio territoriale sviluppate fino ad oggi rispettano alcuni
condizioni preliminari:
a. si sono tenuti in conto gli aspetti territoriali dei sistemi fisico/naturali ed
antropici, evitando di limitare l’analisi a punti o a oggetti isolati dal loro
contesto geografico;
b. si è data grande importanza alle relazioni tra i vari sistemi, fisico/naturali e
antropici;
c. si sono cambiate le modalità e le procedure di indagine a seconda della scala
territoriale di interesse.
6. La vulnerabilità è intesa come propensione al danno, il grado di fragilità del sistema
esposto, che potrebbe portare ad una catastrofe anche a fronte di eventi naturali di
severità modesta.
L’ingegneria sismica, la prima che ha prodotto modelli di valutazione di vulnerabilità
degli edifici, ha dunque elaborato un corpo analitico e valutativo in grado di giudicare la
capacità (o incapacità) di risposta di una struttura a partire da alcune sue caratteristiche
ritenute fondamentali, in un qualche modo indipendentemente dall’azione del terremoto.
Si è quindi elaborata una matrice con 11 parametri che consentono di valutare le
prestazioni attese da un dato edificio: i valori dei parametri vengono assegnati dopo aver
compiuto un attento esame dello stesso guidati da schede di rilievo concepite e affinate
varie volte dal Gruppo Nazionale Difesa dai Terremoti.
Ma come si collega la valutazione di vulnerabilità di singoli edifici alla pianificazione
nel suo complesso? In diversi modi, a seconda della scala territoriale alla quale si sta
conducendo la valutazione e dell’obiettivo prefissato.
Rimangono ancora da definire alcuni importanti passaggi per soddisfare le prime due
richieste poste dalla pianificazione territoriale all’analisi e valutazione di rischio, e che
riguardano i danni attesi nei vari sistemi e soprattutto quelli dovuti alle interazioni
sistemiche e funzionali tra le parti.
Che ci sia una vulnerabilità sistemica e funzionale da considerare quando dal singolo
edificio o dai vari edifici si passa a valutare la vulnerabilità urbana come insieme è stato
riconosciuto da tempo. Negli ultimi dieci anni si è fatto un passo in avanti significativo
nella predisposizione di strumenti concettuali e di modelli di valutazione della
vulnerabilità sistemica (a volte definita anche come l’opposto della resilienza, anche se
la resilienza non si esaurisce a questa unica dimensione).
Note per le lezioni di: La conoscenza del rischio (2). La vulnerabilità sistemica delle
reti: dall’analisi dei fattori di criticità alla costruzione di strategie di resilienza
Scira Menoni, Dipartimento di Architettura e Studi Urbani – Politecnico di Milano
La valutazione della vulnerabilità delle infrastrutture a rete presenta alcune differenze
importanti rispetto a quella condotta sugli edifici, in quanto occorre tener conto di
alcune caratteristiche specifiche.
Infatti, mentre gli edifici sono oggetti puntuali con una collocazione geografica
facilmente identificabile, le reti sono spazialmente diffuse su vaste aree, il che ne rende
praticamente impossibile un controllo componente per componente. In conseguenza
della diffusione ed estensione territoriale, le reti interagiscono con tipi diversi di suolo,
cosicché i problemi di natura geotecnica non possono essere circoscritti come nel caso
di singoli oggetti puntuali.
Altri fattori che distinguono le reti sono:
7. a. la gerachicità, ovvero l’esistenza all’interno di una stessa rete di componenti di peso
gerarchico diverso e quindi di importanza diversa ai fini della funzionalità del
sistema complessivo. Ad esempio, un guasto o una rottura su di un tratto dell’alta
tensione elettrica o su di una condotta del gas ad alta pressione ha conseguenze ben
diverse rispetto allo stesso tipo di guasto su parti della rete di distribuzione (dunque
a bassa tensione o a bassa pressione).
b. Vi è anche una gerarchia tra componenti di una stessa rete, ovvero fra nodi (quali
possono essere le centrali di produzione energetica, le centrali di controllo della rete,
le stazioni di trasformazione elettrica) ed elementi lineari (le linee ad alta tensione,
le linee o condotte a media pressione, i cavi di distribuzione). Anche in questo caso,
disfunzioni su nodi ed elementi lineari hanno conseguenze diverse sul
funzionamento dell’intero sistema.
c. Le reti presentano una forte interdipendenza non solo all’interno di ciascun sistema,
ma anche fra loro. Alcune sono essenziali al funzionamento di altre; in particolare
l’elettricità è essenziale per i sistemi di controllo delle telecomunicazioni, dei
trasporti (semafori), per le stazioni di pompaggio dell’acqua, per tutti i controlli a
distanza, quando questi sono presenti. La rete elettrica, poco vulnerabile al danno
diretto fisico prodotto dalle scosse sismiche, è essenziale per il funzionamento di
altri sistemi e quindi la sua interruzione, anche temporanea, può comportare
conseguenze rilevanti su altre reti e su altri sistemi urbani e territoriali.
d. Quasi tutti i sistemi urbani e territoriali dipendono in misura più o meno rilevante
dai servizi a rete; nel caso di parziale o totale interruzione di questi ultimi, i sistemi
come quello di gestione dell’emergenza (ospedali, vigili del fuoco), quello
produttivo, quello residenziale verrebbero gravemente limitati nella loro
funzionalità, con danni gravi nell’immediato post-impatto anche sul piano
economico. Se è pur vero che la vulnerabilità degli edifici costituisce la prima causa
di morti e feriti in seguito ad un terremoto, è anche da sottolineare che il buon
funzionamento delle reti unitamente ad efficienti strutture di protezione civile
possono mitigare di molto l’impatto e contribuire a salvare molte vite in fase di
emergenza.
Nel caso delle infrastrutture occorre dunque esplicitare la vulnerabilità sistemica, in
termini di vulnerabilità funzionale, organizzativa e fisica. Con vulnerabilità sistemica si
intende la propensione di un sistema a subire danni o cadute di funzionalità non in
seguito a danni fisici occorsi a una delle sue componenti, ma come conseguenza di
danni fisici o sistemici riscontrati in altri sistemi dai quali quello in esame dipende. Ad
esempio l’acqua fornita dalla rete idrica potrebbe diminuire di molto o del tutto se le
stazioni di pompaggio non funzionassero più; oppure, diverse reti potrebbero essere
interessate da incendi provocati da fughe di gas.
Con vulnerabilità funzionale si indica la possibilità che un’infrastruttura non sia in
grado di fornire il servizio in tutto o in parte. I relais di controllo nelle centrali o nelle
stazioni di trasformazione dell’energia elettrica possono saltare in seguito alle scosse
8. anche senza che si sia verificato un danno fisico rilevante – pur compromettendo la
continuità dell’erogazione. Soprattutto nelle prime ore dell’emergenza occorre garantire,
eventualmente con azioni mirate, che le reti – seppur parzialmente danneggiate – siano
comunque in grado di sostenere le operazioni di soccorso.
Con vulnerabilità fisica ci si riferisce alla propensione delle infrastrutture a rompersi in
modo più o meno grave; è altresì chiaro come non si possa concentrare la prevenzione
solo su quest’ultima, dati i costi elevatissimi che una simile operazione comporterebbe.
Valutazioni relative al rango gerarchico di uno o più componenti, alle possibili
interazioni fra le reti e con altri sistemi territoriali devono pertanto portare
all’identificazione di priorità, in base alle quali eventualmente procedere a sostituzioni o
al miglioramento di parti delle reti stesse. E’ questa una filosofia ormai consolidata
anche nella comunità di matrice più tecnica che si occupa della protezione delle lifelines
(Nojima, 1998).
Vengono illustrati brevemente i risultati dell’analisi e della valutazione della
vulnerabilità delle reti al rischio sismico nei comuni del Garda Bresciano. Per una
trattazione più esaustiva della metodologia e dei risultati ottenuti si veda Menoni, 2013.
Alcuni riferimenti bibliografici
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una procedura di valutazione. L'Industria delle Costruzioni, 18.
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use planning for sustainable communities, Joseph Henry Press, Washington D.C., pp.
356.
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Colonna E., Molina C., Petrini V., 1994. La valutazione del rischio sismico con dati
poveri. Ingegneria Sismica, 1.
Margottini C., 2000. Tutela del territorio, rischi naturali e sviluppo sostenibile. In:
Progetto Duemila, Agenda 21, Libro Verde, Sviluppo sostenibile, consultabile presso il
sito http:// prog2000.casaccia.enea.it/nuovo/ricerca.asp.
9. Menoni S., 2012, Pianificazione urbanistica e territoriale in aree soggette a rischi
naturali: limiti e opportunità, Sentieri Urbani, vol. 7, p. 20-27.
Menoni S., 2013 Valutazione di vulnerabilità sismica: dall’edificio al centro urbano e
oltre. Applicazioni al caso di Salò (Brescia), Ingegneria Sismica, pp. 94- 117.
Rees W. e M. Wackernagel, 1996. L'impronta ecologica. Come ridurre l'impatto
dell'uomo sulla terra, ed. Ambiente, Roma, pp. 171.
Hewitt K., 1983. Interpretations of calamity, Allen and Unwin inc., Boston.
K. Hewitt, 1997. Regions of risk. A geographical introduction to disasters, Longman,
Singapore, pp. 389.
Nojima N., 1998. Lifeline system malfunction and interaction. In: Proceedings of the
World Urban-Earthquake Conference in Fukui, Fukui, Japan, June, pp. 109-112.
10. Note per le lezioni di: Definizione delle strategie e delle tecniche operative nella
pianificazione. Strategie di prevenzione non strutturali e di lungo periodo:
il ruolo della pianificazione territoriale e urbanistica
Scira Menoni, Dipartimento di Architettura e Studi Urbani – Politecnico di Milano
Premessa
La pianificazione urbanistica e territoriale non ha ancora davvero affrontato la questione
di se e come assumere la prevenzione dei rischi naturali e tecnologici come criterio
rilevante all’interno dei processi ordinari di decisione progettazione. Ciò non vuol dire
che non si siano compiuti dei passi in avanti. In una ricerca finanziata nell’ambito del
VI Programma Quadro della UE negli anni tra il 2004 e 2007, Armonia (Applied multi
Risk Mapping of Natural Hazards for Impact Assessment), si è cercato di tracciare un
quadro della situazione europea in materia (Fleischhauer et al., 2006). La conclusione
alla quale si è giunti dopo avere confrontato i sistemi di pianificazione di Italia, Francia,
Spagna, Regno Unito, Germania, Grecia è che lo stato dell’arte vede un’attenzione alla
materia dei rischi ancora molto settorializzata, poco integrata all’interno della prassi
pianificatoria ordinaria, come se fosse un fatto a sé, estraneo alle decisioni in materia di
dove costruire, come farlo e quali usi del suolo consentire in aree soggette a fenomeni
naturali estremi. Si potrebbe sostenere che la settorializzazione è una delle risposte che
la pianificazione ha dato in generale alla complessità dei problemi della città e del
territorio, con l’inevitabile perdita di una visione comprensiva e “organica” a favore di
una parcellizzazione di temi e di interessi, alla fine scarsamente ricomponibili. Si assiste
oggi in mote regioni europee agli esiti di una crescita poco controllata
dell’urbanizzazione, perlomeno nella sua dimensione quantitativa, nei decenni del
Dopoguerra, e che persiste, almeno in alcune aree, ad esempio costiere, a ritmi
sorprendenti per paesi già sviluppati.
Nella pratica quotidiana, tuttavia, non si riscontra solo una oggettiva difficoltà a trattare
il tema dei rischi all’interno della pianificazione territoriale e urbanistica, ma anche una
certa indifferenza culturale alla questione, con alcune significative eccezioni (Galderisi,
2004; Fabietti, 1999; Tira, 1997; Olivieri, 2004), che tuttavia non riescono a innovare
dall’interno la prassi corrente.
Proposta di uno schema metodologico di supporto alla pianificazione del territorio in
aree soggette a rischi naturali
Il progetto Armonia, finanziato nell’ambito del VI Programma Quadro della UE, ha
prodotto un modello di supporto (figura 1.) alle decisioni riguardo a tale futuro destino
dei suoli che includa la valutazione del rischio presente e futuro, conseguente alle scelte
operate, sulla base di una disamina puntuale delle condizioni di pericolosità (inclusa la
presenza di più fonti di pericolo concomitanti, possibili concatenazione di eventi, anche
naturali-tecnologici), esposizione e vulnerabilità (intesa non solo come fragilità fisica
11.
12. dallo stato di rischio attuale, se ritenuto accettabile oppure no. A questo proposito va
sottolineata l’importanza delle variabili esposizione e soprattutto vulnerabilità che
formano insieme alla pericolosità (e ad altri fattori che si vogliano aggiungere) la
funzione di rischio (laddove R = f (P, E, V, …). L’esposizione si riferisce al numero di
persone e al valore dei beni che sono potenzialmente soggetti all’azione di un evento
estremo; la vulnerabilità definisce invece le caratteristiche qualitative dell’esposto in
termini di minore o maggiore capacità di resistenza e risposta.
Rendere edificabili suoli agricoli, sottrarre ambiti alla foresta o alla costa per realizzare
case e infrastrutture è il più classico ambito di pertinenza dell’urbanistica. Mentre si è
ritenuto erroneamente che il ciclo della grande espansione urbana fosse giunto a
compimento nei paesi sviluppati del dopoguerra attorno agli anni Ottanta/Novanta, ci si
rende conto invece oggi che è mutata la forma di tale espansione e le zone in cui essa è
avvenuta con maggiore intensità. Ci si confronta oggi in Occidente, Europa inclusa, con
un vasto fenomeno di consumo di suolo, di sprawl urbano (EEA, 2006), a volte,
soprattutto nei paesi meridionali del Continente, con propaggini di illegalità che in
alcuni casi tuttavia assumono proporzioni davvero abnormi. Se non è aumentata la
popolazione europea negli ultimi decenni, è però pur vero che si è assistito a una
redistribuzione, che da un lato ha comunque creato delle notevoli concentrazioni e delle
megacittà costituite da un continuum costruito e infrastrutturato, come ad esempio la
mezzaluna che unisce i territori dell’Elba dell’Europa Centro-Settentrionale al Nord-
Italia.
La ricostruzione, soprattutto in presenza di danni estesi e ingenti è sempre
un’operazione di trasformazione, anche quando, come nel caso della ricostruzione post-
sismica friulana si cerca di restituire l’immagine pre-evento degli insediamenti distrutti.
La ricostruzione è sempre un processo doloroso e complesso, nel quale si incontrano e
si scontrano dinamiche già riconoscibili prima del disastro e istanze nuove emerse come
conseguenza dell’esperienza dell’evento calamitoso e del riassetto socio-economico cui
a volte si assiste. Come hanno bene mostrato Haas et al. (1977) in un libro ormai
classico per chi si occupa di valutazione e gestione dei rischi, la ricostruzione è una fase
particolarmente delicata, la cui riuscita dipende da vari fattori. Questi ultimi riguardano
la disponibilità di fondi e risorse, umane e materiali, ma anche la capacità di costruire
una visione, un progetto di futuro.
Note per le lezioni di: Definizione delle strategie e delle tecniche operative nella
pianificazione. Crowdsourcing e social media: dall’uso in emergenza al supporto
per la pianificazione
Scira Menoni, Dipartimento di Architettura e Studi Urbani – Politecnico di Milano
Ouejdane Mejri, Dipartimento di Elettronica e Bioingegneria – Politecnico di Milano
Affinché la pianificazione urbanistica e territoriale possa efficacemente introdurre la
prevenzione come uno dei criteri di scelta della destinazione d’uso dei suoli,
dell’intensità e della modalità di tali usi, nonché della localizzazione di sevizi pubblici,
13. della distribuzione delle varie funzioni, e delle infrastrutture, occorre che
contestualmente si considerino e si utilizzino strumenti e metodi adeguati, in parte
“nuovi”, in parte già da tempo parte del bagaglio disciplinare.
Il globo terrestre digitale
Lo sviluppo tecnologico degli ultimi anni comporta forse un modo nuovo di rapportarsi
alla rappresentazione e all’analisi dei fenomeni di natura spaziale, aventi come teatro di
sviluppo la superficie terrestre. Se l’introduzione dei GIS è stata salutata un paio di
decenni orsono come una significativa innovazione, capace di migliorare sia la qualità e
il dettaglio informativo delle carte di piano sia, soprattutto, la quantità di informazioni
associate ad ogni oggetto rappresentato sulla carta, creando una connessione tra dati
cartografici e di altra natura, i più recenti sviluppi del cosiddetto globo digitale terrestre
si cominciano ad apprezzare solo ora. Nei loro articoli, Craglia et al. (2008, 2012)
mostrano la parallela evoluzione di due modi di rappresentare e restituire dati
relativamente ai fenomeni spaziali o aventi una rilevante dimensione spaziale: da un lato
la costruzione di sistemi informativi a se stanti, tra i quali è spesso difficile creare la pur
auspicata e “imposta” per legge interoperabilità, dall’altro lo sviluppo “dal basso” di
“servizi” che forniscono dati e informazioni mappate sui globi terrestri virtuali realizzati
da società commerciali quali Google ed Esri. Indubbiamente i sistemi informativi
“certificati”, che possono fornire dati di qualità e fonte note, rimangono fondamentali,
ma è altresì chiaro che vi è un movimento “dal basso” che fruisce della maggiore
apertura delle piattaforme commerciali per fornire servizi sia su base volontaria sia a
pagamento. L’utilizzo di tali piattaforme in occasione di recenti disastri quali lo tsunami
nel Sud-Est Asiatico o il terremoto di Haiti ha in un qualche modo sorpreso la stessa
comunità internazionale di aiuto umanitario in zone povere devastate da calamità
naturali (Harvard Humanitarian Initiative, 2011). E’ ragionevole aspettarsi che l’uso in
emergenza sia prima o poi esteso a tutte le fasi di analisi e valutazione dei rischi nonché
ad altri campi quali ad esempio le simulazioni sul futuro di aree interessate da
significativi cambiamenti infrastrutturali o urbanistici. E’ chiaro che esiste un problema
di scala, una sorta di “conflitto” tra ciò che si può vedere alla scala globale e il dettaglio
necessario alla scala locale; tuttavia lo sviluppo delle tecnologie è stato nell’ultimo
decennio talmente rapido che si potrebbe ipotizzare una significativa capacità di
rappresentazione utile anche alla scala locale entro breve tempo.
L’introduzione di tali tecnologie nel mondo della pianificazione urbanistica e territoriale
comporta un cambiamento nel modo in cui non solo si rappresentano le scelte di piano,
ma anche del modo stesso in cui si può rappresentare la relazione tra scale spaziali
diverse che tanto peso ha nella dinamica di produzione dei rischi e delle vulnerabilità (si
veda in tal senso ancora il progetto Ensure). Fino ad ora anche la sola “sovrapposizione”
delle informazioni relative alle varie forme di pericolo e all’urbanizzato esposto era
tutt’altro che scontata o semplice. Le carte geologiche dovevano essere appositamente
realizzate alla scala utile per il piano urbanistico per fornire informazioni rilevanti; in un
futuro prossimo sarà possibile rappresentare contemporaneamente sul globo digitale non
solo le zone pericolose, le aree urbanizzate, le infrastrutture, ma anche riportare le
14. informazioni provenienti da strumentazioni di monitoraggio delle frane o dei livelli
idrologici dei fiumi. Tale possibilità consentirà di attribuire alla rappresentazione
urbanistica una dimensione dinamica che essa non ha mai avuto, e che richiede
riflessioni puntuali per essere apprezzata e utilizzata al meglio.
Usare i “big data” per supportare piani urbanistici di ricostruzione
L’esperienza di cui abbiamo parlato a lezione riguarda l’uso dei cosiddetti “big data” e
dati ottenuti dalla rete per supportare non solo la gestione dell’emergenza, come avviene
già, come è già avvenuto nelle emergenze di diciamo gli ultimi cinque anni, ma anche il
processo di ricostruzione.
Sono essenzialmente quattro le tipologie di dati classificati per fonte:
1. Dati generati dalle organizzazioni internazionali quali la Croce Rossa, le Nazioni
Unite, la Commissione Europea attraverso il Meccanismo di Protezione Civile, che
vengono messi a disposizione sui rispettivi siti istituzionali. Si tratta di rapporti,
documenti, testimonianze ma anche identificazione di bisogni e richieste di supporto;
2. Dati generati dai volontari digitali, che ad esempio digitalizzano mappe anche
lavorando in remoto per supportare l’azione delle forze sul terreno, soprattutto quando
tali mappe mancano o georeferenziando dati e informazioni che consentano di
identificare sul terreno le richieste di aiuto;
3. Dati generati sia dai testimoni dell’evento sia dalle vittime (che ovviamente sono
anche testimoni ma sono anche colpiti dall’evento). I “social media” sono un grande
archivio temporaneo di informazioni di vario genere inclusi filmati, fotografie, racconti
che costituiscono una fonte preziosa in quanto seguono la dinamica dell’evento nel suo
svolgimento;
4. Dati generati da alcuni mezzi di informazione, non solo quelli “tradizionali”
quali i giornali e le rispettive versioni in rete, ma anche operatori come Google che
destinano una parte del loro portale alle emergenze più gravi.
E’ evidente che la ricerca su tutti questi siti pone diversi problemi il più rilevante
riguarda la mole di dati che si possono trovare e l’esigenza quindi di disporre di metodi
e strumenti semiautomatici di filtraggio che consentano di identificare i dati e le
informazioni davvero utili, eliminare gli altri, eliminare i dati moltiplicati che si
possono riscontare in grande quantità.
A tal fine ci viene in soccorso la scienza dell’informazione e l’ingegneria informatica
che avvalendosi di metodi logici sofisticati e di algoritmi ci consentono di navigare
nella grande mole di informazioni. La selezione non è tuttavia l’unico passaggio,
occorre poi classificare tali dati per estrarne un senso che ne giustifichi la ricerca e ne
permetta l’uso per i fini che ci prefiggiamo. Generalmente tali dati vengono raccolti e
usati durante l’emergenza; tuttavia abbiamo verificato con mano sul caso di Tacloban
nelle Filippine, in seguito al tifone Hajian/Yolanda del 2013, che tali dati possono essere
utili anche nella fase di ricostruzione, in quanto consentono di ricostruire una prima
mappatura dei danni, di identificare le zone maggiormente colpite, le comunità che si
15. sono rivelate più vulnerabili. E’ così possibile verificare se le indicazioni pianificatorie
pre-evento sono ancora auspicabili, se le valutazioni di rischio esistenti prima
dell’evento erano adeguate o meno, se contemplassero o meno il tipo di evento che si è
verificato e correggere adeguatamente le previsioni di piano. Il momento della
ricostruzione costituisce una “finestra di opportunità”, nella quale si può pensare di
ricostruire riducendo le vulnerabilità e l’esposizione pre-evento, rendendo più sicura la
città a fronte di futuri possibili eventi.
Alcuni riferimenti bibliografici
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17. Conoscenza e tecnologie appropriate per la sostenibilità urbanistica - Knowledge and Appropriate Technologies for
Sustainability in Planning - 29 febbraio - 04 marzo 2016 - Modulo 15
Modulo 19
Ecologia e urbanistica, sistemi per governare sistemi complessi socio-ecologici.
Opere pubbliche, servizi pubblici e standard urbanistico
ambientali
Luca Marescotti.
La storia degli standard urbanistici italiani dovrebbe essere fin troppo nota per doverla riprendere e
ridiscutere, anche se si è a lungo cercato di rimuoverli come se rappresentassero solo un aspetto
formale, da piccola e insulsa contabilità, privi della creatività della progettazione urbana: in fin dei
conti la bellezza della piazza di Pienza con l'architettura di Bernardo Rossellino ci riempie di
emozione assai di più di un parchetto abbandonato privo di manutenzione e possibilmente ubicato
in una zona di nessun interesse per gli operatori immobiliari.
Il discorso sulla storia degli standard ha però altri aspetti da ricordare, perché, prima di parlare degli
standard urbanistici in Italia e degli standard ambientali, è la storia degli inizi dell'organizzazione
industriale con le opere dell'architetto e storico dell'arte Gottfried Semper, tra cui Wissenschaft,
Industrie und Kunst (Scienza, industria e arte) del 1852 che studia l'industrializzazione e i consumi
di massa per trasferirli ai metodi e materiali della architettura e poi con Hermann Muthesius che nel
1907 fonda il Deutsche Werkbund (lega degli artigiani), basato sui concetti di standard e tipo, e con
il suo “Programma dei dieci punti” pubblicato nel 1914 per l'Esposizione universale di Colonia.
Muthesius sosteneva che la presenza sul mercato mondiale della Germania doveva attuarsi
attraverso un processo di industrializzazione con l'adozione di tipi e standard, capaci di garantire
alta qualità e favorire l’esportazione dell'industria edilizia tedesca, combinando capacità produttiva
industriale e progettazione artistica.
Nel 1929 gli standard entrano nell'edilizia popolare a supporto delle industrie: lo existenzminimum
di Walter Gropius come illustrato nel 1929 al secondo CIAM Congresso internazionale di
architettura moderna (Francoforte sul Meno, Germania) per dare agli operai un alloggio minimo con
servizi collettivi (Aymonino 1971).
La singolarità italiana degli standard urbanistici
Lo sviluppo economico del dopoguerra italiano porrà altri e nuovi problemi, l'urbanesimo è sempre
più rapido combinandosi con l'abbandono della campagna e l'industrializzazione: l'edilizia
economica e popolare con adeguata dotazione di servizi sociali non sarà cosa semplice ma frutto di
contrasti violenti e compromessi politici. Gli standard in urbanistica diventano un sistema di
ridistribuzione delle risorse e di libertà sociale sul territorio, premessa a una mobilità sociale nel
rapida espansione economica degli anni '60 e '70 del secolo scorso con enormi differenze nella loro
applicazione (Falco 1978).
Il benessere, la casa in proprietà, la disponibilità dell'automobile sembrano modificare questo
quadro concettuale e l'attenzione, forse suggestionata da un certo sfondo liberistico, sembra
spostarsi verso i servizi commerciali, simbolo di appagamento di ogni desiderio. Ma il discorso non
si può chiudere qui, perché la necessità di strategie “ambientali” condivise ci riporta a ridisegnare
un nuovo profilo degli standard.
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18. Conoscenza e tecnologie appropriate per la sostenibilità urbanistica - Knowledge and Appropriate Technologies for
Sustainability in Planning - 29 febbraio - 04 marzo 2016 - Modulo 15
Condizioni generali e redistribuzione del reddito e delle opportunità
Di che cosa si parlava quindi, quando si parlava di standard urbanistici: di redistribuzione del
reddito? di libertà sul territorio? di condizioni generali? O di tutto questo insieme?
Opere pubbliche, lavori pubblici, urbanistica e servizi sociali hanno sempre costituito le condizioni
generali per lo sviluppo sociale e industriale (Folin 1978), ma ora per predisporsi per le emergenze
e le crisi occorre rimodulare discipline, competenze e formazione anche attraverso una loro reale e
efficiente integrazione.
I cambiamenti globali, e soprattutto la capacità umana di comprendere le lezioni che possiamo
trarre della lettura di accadimenti del passato e di costruire nuovi paradigmi scientifici, ci rende
consapevoli della necessità di fronteggiare in prospettiva situazioni non prevedibile: questa sarà la
nuova sfida da intraprendere per partecipare alla costruzione di un futuro in una biosfera ancora per
noi amichevole.
Quindi ridurre i rischi e gestire le emergenze
Il tema delle emergenze si deve essere scorporato in due famiglie: le emergenze normali (di routine,
l'incidente stradale, la chiamata d'urgenza sanitaria) e le emergenze generate da una situazioni di
crisi (Howitt e Leonard 2008) (Howitt e Leonard 2009): se per la prima esiste un protocollo, per
quanto sempre migliorabile ma consolidato, per le seconde si aprono scenari mai prima sperimenti.
Queste situazioni richiedono una preparazione superiore basata sulla capacità di gestire
sovratensioni e di interpretare le diverse possibili scale di intervento, in modo da mantenere il
controllo della situazione, attraverso attività integrate in tempo reale. In altre parole occorrono
capacità professionali, strutture operative e visioni sistemiche, persone e coordinamento. Tutto
sommato assomiglia molto alle caratteristiche della mente collettive.
Si aprono altri scenari descritti non tanto in libri accademici quanto in linee guida comunitarie, a cui
bisognerebbe prestar credito, su impatti cumulativi e effetti sistemici (Johnston e Walker 2001),
(EEA 2012).
Aprire nuove prospettive significa un doppio salto il primo per rimodulare discipline, competenze e
formazione, il secondo per integrare i settori operativi della pubblica amministrazione.
Aprire nuove prospettive per l'urbanistica, usando proprio gli standard urbanistici per mantenere
l'ambiente in una situazione favorevole -localmente e globalmente- per le società umane.
Il primo passo consiste nel dovere prima di tutto cambiare noi stessi, il nostro modo di governare e
amministrare il territorio, di usare la pianificazione nelle città, con le città, per le città, che altro non
sono che le loro genti, e i loro luoghi dove si giocano comportamenti, strategie finanziarie,
acquisizioni di risorse. Questo vuol dire saper leggere le differenze sul significato delle parole, sul
modo, per esempio, di usare il termine resilienza non tanto in diversi contesti scientifici, quanto
nello stesso contesto ma con significati affatto diversi (Vale 2005), (Randall 2011), SPIRN.
Allora aprire nuove prospettive è prendere coscienza sulla realtà territoriale e sull'esistenza di
interrelazioni assai più complesse come è rappresentato nelle regioni urbane, che sarebbero del tutto
invisibili se viste arroccati nell'interno dei confini di ciascun singolo comune (Forman 2008).
Riferimenti
Aymonino, Carlo, a c. di. 1971. L’abitazione razionale. Atti dei congressi C.I.A.M. 1929-1930.
Padova: Marsilio.
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EEA European Environment Agency.
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19. Conoscenza e tecnologie appropriate per la sostenibilità urbanistica - Knowledge and Appropriate Technologies for
Sustainability in Planning - 29 febbraio - 04 marzo 2016 - Modulo 15
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———. s.d. Managing Crises: Responses to Large-Scale Emergencies.
Johnston, J., e L. J. Walker. 2001. «Guidelines for the Assessment of Indirect and Cumulative
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Randall, Alan. 2011. Risk and precaution. Cambridge, UK ; New York: Cambridge University
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Vale, Lawrence J, e Campanella. 2005. The Resilient City: How Modern Cities Recover from
Disaster. New York: Oxford University Press.
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20. Conoscenza e tecnologie appropriate per la sostenibilità urbanistica - Knowledge and Appropriate Technologies for
Sustainability in Planning - 29 febbraio - 04 marzo 2016 - Modulo 20
Modulo 20
Ecologia e urbanistica, sistemi per governare sistemi complessi socio-ecologici.
STRANE STORIE - ODD STORIES
Luca Marescotti.
“Strane storie” per avviarci alle conclusioni vuol dire “sveglia!, guarda il mondo intorno a te e
reagisci! Tu sai che cosa puoi fare!”.
L'inizio riguarda la società come una mente collettiva, un sistema sociale capace di andare oltre ai
paradigmi convenzionali della politica, dei partiti e dell'anarchia, richiamando responsabilità,
ascolto e partecipazione. Le tre caratteristiche fondamentali sono la conoscenza condivisa, la
condivisione delle strategie e la cooperazione.
Conoscenza, coordinamento e cooperazione sono le strade da integrare in una maturazione del
concetto di democrazia.
Un pianeta dinamico
Le trasformazioni dei continenti negli ultimi 300 milioni di anni sono la testimonianza delle forti
dinamiche terrestri, al cui confronto l'azione umana parrebbe insignificante. Quelle dinamiche
riguarda la crosta terrestre, uno dei fattori fisici, ma non parlano dei regni viventi animali e vegetali
rispetto ai quali invece l'azione umana appare enorme, capace di mutare la biosfera fino a influire
sullo stato stesso delle condizioni geologiche così come le abbiamo conosciute negli ultimi dieci-
dodicimila anni.
Il tema attuale riguarda quindi due aspetti: come affrontare le dinamiche messe in atto dall'azione
umana e che si manifestano in eventi non prevedibili e in forme diverse dal passato (per intensità,
per quantità di popolazione esposta, per diffusione delle informazioni) e come valutare il nostro
fabbisogno di risorse.
L'impronta ecologica, il computo e le critiche
Al primo punto è il messaggio di allarme a tutti noto: Stiamo consumando tutte le risorse del
Pianeta!
Sarà vero? Chi lo ha detto? Si domandano gli scettici.
Le premesse necessarie per darsi una ragione di quanto accade stanno nella capacità di carico
dell'intero pianeta e nel metabolismo urbano. Della capacità di carico, un tempo espressa dalle
funzioni logistiche se ne danno altre formalizzazioni introducendo tasso di fertilità, tasso di
mortalità, produzione di scarti e rifiuti, e variabilità di ingresso e di uscite, in un qualche modo
evidenziando il ruolo delle probabilità con cui si evolve il sistema sociale.
L'impronta ecologica ingloba queste metodologie, ..
Dopo questo occorre entrare nello specifico delle grandezze usate (consumi di risorse rinnovabili,
regioni bioproduttive), dell'unità di misura (ettari globali gha), del metodo di calcolo, fino a scovare
eventuali zone d'ombra:
1. le Regioni Bioproduttive sono più che una grandezza ben definita e condivisa da altri una
valutazione approssimata che soprattutto serve per rendere popolare il messaggio. É una
stima fatta e usata solo da Ecologica Footprint Network;
2. EFp = (P/Yn) × YF × EQF ma questi fattori non sono chiari, soprattutto il fattore di
equivalenza che esprime la valutazione di un partoicolare uso del suolo e della sua
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Sustainability in Planning - 29 febbraio - 04 marzo 2016 - Modulo 20
produttività in termini valori medi globali di regione bioproduttiva. In altre parole, Usa
un'unità di misura (ha), ma la trasforma in ettari globali (gha) attraverso operazioni poco
trasparenti (YF yield factor e EQF equivalence factor).
In sintesi si osserva che il metodo di calcolo è ben diverso dai metodi “spiccioli” per misurare
l'impronta ecologica individuale (cibo, abitudini, trasporti) (Steven Goldfinger et al. 2005), (Steven
Goldfinger, Wermer, e Wackernagel 2007). Si può concordare sulla capacità di misurare le
diseguaglianze sociali tra le nazioni, (Ewing et al. 2010); si deve essere consapevoli che non è una
misura del bilancio tra domanda e offerta (Schaefer et al. 2006); offre una buona comunicazione
scientifica, ma chiarisce alcuni aspetti chiave del computo e semplifica la complessità (riduttivismo)
(Giampietro e Saltelli 2014a), (Steve Goldfinger et al. 2014), (Giampietro e Saltelli 2014b).
Bisogna allora arrivare a distinguere l'utilità del metodo, le direzioni di ricerca, il riduzionismo del
messaggio politico.
Applicazioni e politica: il caso di Londra
Per concludere il caso di Londra con la successione di studi privati (Girardet 1996a) (Girardet
1996b), (Girardet 2006), studi pubblici e politiche di riduzione sotto il sindaco di sinistra Ken
Livingston (Chartered Institution of Wastes Management Environmental Body; Best Foot Forward
Ltd 2002), (Brook Lyndhurst 2003) (London Climate Change Partnership 2006) (London First, s.d.)
(London Climate Change Partnership 2006) (Greater London Authority 2008), e i successivi
arretramenti del successore, conservatore e ora leader della Brexit, Boris Johnson (Greater London
Authority 2009) (Greater London Authority 2009), in cui l'impronta ecologica è sostituita dalla
qualità della vita della capitale inglese e che assieme a New York detiene il titolo di capitale della
finanza mondiale.
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in a Limited Time Period». Luxembourg: Office for Official Publications of the European
Communities.
ciclo geobiochìmico
Fonte: Treccani: Enciclopedie on line
Processo in equilibrio dinamico attraverso il quale avviene la circolazione degli elementi chimici
nella biosfera, che si svolge dagli organismi viventi all'ambiente e viceversa. Sono essenziali 30÷40
elementi per gli organismi, alcuni in grande quantità (C, N, O, H), altri in quantità minore o in
tracce (S, Na, K, Mg, Fe, P, Ca).
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24. IABSE Henderson Colloquium, Cambridge, 10-12 July 2006 Herbert Girardet
Factor 10 Engineering for Sustainable Cities
__________________________________________________________________________________________
2
The Environmental Sustainability of Modern Cities
Following the economic growth euphoria of the post-war years, increasingly profligate use of
resources became the norm in the second half of the 20th
century. Cities acquired an essentially linear
metabolism, with little concern about the origin of resources flowing into them and the destiny of
waste emanating from them. This has become a major systemic problem regarding their
environmental sustainability. Consequently, dealing with the ever-greater environmental impacts of
an urban-industrial civilisation has become one of the great challenges of our time.
Modern cities depend heavily on materials and energy from outside their boundaries. London’s per-
capita ecological footprint, at 6.6 ha, is lower than that of New York or Los Angeles, at more than 10
ha, but in a world of cities, where American, Australian and European lifestyles are copied all over the
world, significant improvements in resource productivity are called for. A particular concern is the
huge dependence of modern cities on fossil fuels. But policies to deal with these problems have, more
often than not, addressed the effects rather than the causes of the problem.
Friedrich Schmidt-Bleek, formerly of Germany’s Wuppertal Institute, is the originator of the important
concept of ‘Material Input Per Unit Service’ (MIPS). He is highly critical of prevailing sustainability
policies: “Current environmental policies cannot lead to sustainability because they essentially address
the output-side of the economy, they do not focus on lowering resource consumption (in fact, they
often spawn additional resource investments), they are basically non-precautionary, they attempt to
increase the supply of "environmentally friendly" energy and materials and they cause enormous non-
market-driven costs that most countries cannot afford.”
Schmidt-Bleek is also one of the originators of the Factor 4 concept, and the founder of the Factor 10
Institute, which seeks to define practical ways of significantly improving resource productivity by
reducing MIPS in modern urban-industrial systems.
Sustainability Scenarios
The chart above indicates ways of achieving concrete progress towards creating environmentally
sustainable cities, with London as the chosen example. Many of the proposals are concerned with
MIPS-style up-stream rather than end-of-pipe measures. The necessary changes will need to be driven
by a combination of innovative policy and regulation, technological development and behavioural
change.
The existing environmental strategies of the Greater London Authority, if implemented, would
contribute significantly towards a Factor 2 reduction in resource use. Sadly, there are few indications
that the UK government intends to introduce appropriate policies to help London become the
exemplary ‘sustainable world city’ that the mayor wants it to be. Achieving really significant
improvements in resource productivity, and creating a truly circular metabolism, are distant goals.
However, growing concern about the impacts of climate change on London may speed up introduction
and implementations of appropriate policies at city and national levels.
Resource use has to do with lifestyles as well as uses of technology. Making cities work efficiently
requires major changes in both. To create an environmentally sustainable London means reducing its
resource use – as measured by its ecological footprint – by a factor of around 4. But often this may
require a Factor 10 improvement in the performance of London’s engineering systems.
The following paragraphs discuss the London Sustainability Scenarios, as proposed above, in more
detail:
Food
Few cities have a food strategy, on the assumption that urban food supplies are provided commercially
by supermarkets, street markets and corner shops. But given that around 23% of a household’s carbon
footprint arises from its food choices, food provision must be seen as an integral part of the process of
reducing urban footprints.
25. IABSE Henderson Colloquium, Cambridge, 10-12 July 2006 Herbert Girardet
Factor 10 Engineering for Sustainable Cities
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3
London’s current food system is probably more global, and less environmentally sustainable, than that
of any other city anywhere. Heathrow used to be London’s market garden, but now it is the staging
post for a large proportion of London’s fruit, vegetable and meat imports carried in the bellies of
jumbo jets. This highly fossil fuel dependent system is likely to continue as long it is cost effective.
Increases in the price of aeroplane fuel, including fuel taxes, will ultimately become a spur to reduce
the food miles of London’s food system.
London’s food waste is another major factor in its profligate food system. Over 30% of food brought
into London does not end in human stomachs but on landfills such as Mucking. In a world of potential
food shortages this is an unacceptable way of dealing with food.
London is now in the process of developing a food strategy, but it is unlikely to influence food supply
and consumption patterns without substantial support from national government policy. Londoners
are choosing to eat more and more organic and more locally produced food, but the primary
motivation seems to be personal health rather than concern for creating a more sustainable food
system.
Water and Sewage
The bulk of London’s water originates from the rivers Thames and Lea and from reservoirs around the
city. London is notorious for its leaking water pipes and in recent years Thames Water seems to have
been able to do little to improve water leakage rates. Meanwhile London’s own water table has been
rising because a legacy of contamination has made it too costly for it to be used to supply drinking
water. Water shortages in dry years such as 2006 are starting to concentrate the mind of decision
makers, and additional future demands from a growing population in and around London is likely to
encourage more efficient water use. New ways of processing and using water from London’s water
table may have to be found in the coming years.
Best practice in efficient water use is likely to inform decisions on the uses of new water technology in
London and this is likely to include run-off collection, as well as grey water flushing, efficient toilet
cisterns, efficient shower heads and other techniques in use around the world. Water metering is also
likely to become the norm.
London’s sewage is currently transported to large treatment works such as Beckton and Crossness in
19th
century sewers. Some decades ago, a proportion of it was used as fertiliser and soil conditioner,
but the bulk of it was being dumped in the Thames Estuary. Now most of London’s sewage is
dehydrated and then burned in an incinerator, with the permanent loss of carbon as well as plant
nutrients such as potash, phosphates and nitrates that ought be returned to farmland. As factor 10
thinking becomes more prevalent, it is likely that new, smaller scale eco-friendly sewerage
technologies, such as Eco-Machines, will increasingly come into use, with the plant nutrients
contained in sewage being used in urban-fringe farming and market gardening.
Energy and Transport
London currently consumes around 20 million tonnes of oil equivalent every year, or two supertankers
a week, producing some 60 million tonnes of CO2. In a world affected by climate change and
limitations on the use of fossil fuels, every effort needs to be made to wean London off the routine use
of oil, gas and coal.
The most significant advances in engineering for sustainable development are likely to be found in
urban energy systems. CHP systems are offer very major opportunities, halving fossil fuel use as
compared to conventional power stations. Cities such as Copenhagen, Helsinki and Hanover have
shown that CHP, coupled with very high levels of energy efficiency, can offer huge benefits. If wind
power is added to the mix, as in the case of Copenhagen where 20% of electricity supply now comes
from wind turbines, very significant further reductions in fossil fuel use can be achieved.
In the case of London, the so called London Array, consisting of some 270 3.5 MW off-shore turbines,
is intended to supply no less than 25% of London’s domestic electricity. The wind farm would be
26. IABSE Henderson Colloquium, Cambridge, 10-12 July 2006 Herbert Girardet
Factor 10 Engineering for Sustainable Cities
__________________________________________________________________________________________
4
located more than 20km off the Kent and Essex coasts in the outer Thames Estuary. “When fully
operational, it would make a substantial contribution to the UK Government’s renewable energy target
of providing 10% of the UK’s electricity from renewable sources by 2010. Based on the current
schedule, it is expected that the project would represent nearly 10% of this target. It would also
prevent the emissions of 1.9 million tonnes of carbon dioxide each year.” www.londonarray.com
The prospects for solar PV are looking increasingly bright. Technical breakthroughs, such as those
recently announced by the US/German company Nanosolar, promise to make PV technology cost
competitive with conventional power generation in the near future. Nanosolar is currently in pilot
production of its paper-thin flexible solar cells in Palo Alto and has started ordering volume
production equipment for the new factory in a 100 million dollar investment. Nanosolar says that “the
new plant could produce upward of 1 million solar panels every year, enough to produce 430
megawatts of power – nearly triple the output of all existing solar panel manufacturing facilities in the
US.” www.nanosolar.com
Supported by appropriate “feed-in legislation”, as introduced in 15 EU countries, solar energy
prospects for cities are vast and hold the promise of delivering factor 10 reductions in fossil fuel-based
urban electricity generation and CO2 emissions.
Prospects for Factor 10 engineering in urban transport are well covered in Hugo Spowers’ paper on
fuel cell technology. He makes clear that we need to look not only at engine and brake technology but
also at materials used for vehicle bodies. In addition, we need to look at the potential for significant
reductions in car use. The London congestion charge, together with support for public transport and
cycling has been a useful start, but only a start. Much more needs to be done to assure mode switching
from public transport to cycling, etc., to enable efficient, flexible journeys.
Materials and Waste
The urban metabolism consists of the entire input of resources used by city people, and their
subsequent output of wastes. As suggested above, modern cities tend to have a linear rather than a
circular metabolism. Many materials are used only once and then end up in a landfill. For cities to
exist in the long term, they need to function in a similar manner. High resource productivity is the key
to the necessary changes.
In nature every output by an individual organism is also an input that renews the whole living
environment of which it is a part: the web of life hangs together in a chain of mutual benefit. To
become sustainable, cities have to develop a similar circular metabolism, using and re-using resources
as efficiently as possible and minimising materials use and waste discharges into the natural
environment.
In London a start has been made by the creation of bodies such as London Remade. But this is only a
first, tentative step. London needs to trawl the world for examples of best practice. Implementation of
a policy of efficient materials use certainly involves the uses of new technology. But equally it
requires the participation of Londoners in a “culture of sustainability”. Steps in this direction will be
encouraged by the growing realisation that environmental sustainability is good for generating new
businesses and new jobs.
This seminar offers a great opportunity to explore the engineering options for sustainable urban
development. Factor 10 reductions in urban resource consumption use look feasible in various sectors.
It is important to clarify more precisely were the most significant gains can be made.
29. Regenerative Cities
Herbert Girardet
Introduction and summary
At the start of the 21st century, humanity is becoming a predominantly urban species and this historic devel-
opment represents a fundamental, systemic change in the relationship between humans and nature. Urban-
based economic activities account for 55 per cent of GNP in the least developed countries, 73 per cent in middle
income countries and 85 per cent in the most developed countries.1
Modern cities, then, are defined by the concentration of economic activities and intense human interaction.
This is reflected in high average levels of personal consumption and the efficient supply of a great variety of
services at comparatively low per-capita costs. But the environmental impacts of an urbanising humanity are a
great cause for concern. Apart from a near monopoly on the use of fossil fuels, metals and concrete, an urban-
ising humanity now consumes nearly half of nature’s annual photosynthetic capacity as well.
Since the industrial revolution the process of urbanisation has become ever more resource-intensive, and it
significantly contributes to climate change, loss of soil carbon, natural fertility of farmland, and the loss of
biodiversity all over the world. The ravenous appetite of our fossil-fuel powered lifestyles for resources from
the world’s ecosystems has severe consequences for all life on Earth, including human life.
Cities have developed resource consumption and waste disposal habits that show little concern for the
consequences. Addressing this issue is the primary task of this paper.
The larger and the richer the city, the more it tends to draw on nature’s bounty from across the world rather
than its own local hinterland. Human impacts on the world’s ecosystems and landscapes are dominated by the
ecological footprints of cities which now stretch across much of the Earth. They can be hundreds of times
larger than the cities themselves. In an urbanising world, cities need to rapidly switch to renewable energy and
to actively help restore damaged ecosystems.
The WWF states in its Living Planet Reports that in the last 30 years a third of the natural world has been
obliterated.2
40-50 per cent of Earth’s ice-free land surface has been heavily transformed or degraded by human
activities, 66 per cent of marine fisheries are either overexploited or at their limit and atmospheric CO2 has
increased more than 30 per cent since the advent of industrialisation.3
Helping to reverse this collision course
between humans and nature is a new challenge for most national politicians, but even more for urban politicians,
planners and managers, and for architects, civil engineers and city dwellers.
The challenge today is no longer just to create sustainable cities but truly regenerative cities: to assure that they do
not just become resource-efficient and low carbon emitting, but that they positively enhance rather than undermine
the ecosystem services they receive from beyond their boundaries. A wide range of technical and management
solutions towards this end are already available, but so far implementation has been too slow and too little.
Most importantly, the transformative changes that are required to make cities regenerative call for far-reaching
strategic choices and long-term planning as compared to the short-term compromises and patchwork solutions
that characterise most of our political decision making systems at all spheres of government.
In recent years there has been a proliferation of urban regeneration initiatives focussed on the health and well-
being of urban citizens and the urban fabric – the ‘inner-urban environment’ – particularly in rich countries
such as Britain, Germany and the USA. Such initiatives have received much funding and media attention, and
they have improved the lives of millions of people. In various countries Urban Regeneration Associations have
been established to address problems such as deindustrialisation, depopulation, congestion, aging infrastructure,
run-down sink estates and associated matters.
1 UN Habitat, The State of the World’s Cities, 2006/7
2 WWF, Living Planet Report 2010, wwf.panda.org/about_our_earth/.../living_planet_report/2010_lpr/
3 Vitousek, P.M., J. Lubchenco, H.A. Mooney, J. Melillo. 1997. Human domination of Earth’s ecosystems. Science 277: 494-499
31. Von Thünen pioneered the view that the way cultivated land in close proximity to towns and cities is utilised is
a logical function of two interconnected variables – the cost of transporting produce to market, and the land
rent a farmer can afford to pay. He describes how isolated communities are surrounded by concentric rings of
varying land uses. Market gardens and milk production are located closest to the town since vegetables, fruit
and dairy products must get to market quickly. Timber and firewood, which are heavy to transport but essential
for urban living, would be produced in the second ring. The third zone consists of extensive fields for producing
grain which can be stored longer and can be transported more easily than dairy products, and can thus be located
further from the city. Ranching is located in the fourth zone since animals can be raised further away from the
city because they are ‘self-transporting’ on their own legs. Beyond these zones lies uncultivated land of less
economic relevance to urban living.
In many parts of the world traditional towns and cities, in the absence of efficient transport systems, had these
kind of symbiotic relationships to the landscapes from which they emerged, depending on nearby market gar-
dens, orchards, forests, arable and grazing land and local water supplies for their sustenance. Until very recently,
many Asian cities were still largely self-sufficient in food as well as fertiliser, using human and animal wastes to
sustain the fertility of local farms.5
Can we learn from these traditional systems in the future whilst utilising
more up-to-date methodologies and technologies?
The rise of Petropolis
The industrial revolution caused a virtual explosion of urban growth that continues to this day. Steam engine
technology enabled the unprecedented concentration of industrial activities in urban centres. Cities increasingly
cut the umbilical cord between themselves and their local hinterland and became global economic and transport
hubs. This process has undermined local economies, as new modes of transportation have made it ever easier
to supply food, raw materials and manufactured products from ever greater distances. Cities are no longer
centres of civilisation but of mobilisation, with access to global resources as never before.
The phenomenal changes in human lifestyles made possible by the Age of Fire were also reflected in new concepts
of land use planning, particularly for accommodating the road space needed for motor cars. The vast, low-
density urban landscapes that appeared in the USA, Australia and elsewhere are defined by the ubiquitous use
of cars or petromobiles – the word automobile implies that they are self-powered which clearly they are not.
The modern city could be described as ‘Petropolis’: all its key functions – production, consumption and trans-
port – are powered by massive injections of petroleum and other fossil fuels. But there is ever growing evidence
that the resulting dependencies are ecologically, economically and geopolitically untenable, particularly because
the fossil fuel supplies on which modern cities depend are, most definitely, finite.
Even though we know that we live on a finite planet, infinite economic and urban growth is still taken for
granted. While the world’s population has grown fourfold in the twentieth century, urban populations and
global resource consumption have increased sixteen fold and are still rising. It took around 300 million years
for oil, gas and coal to accumulate in the earth’s crust and we are on track to burn much of it in just 300 years
– now at a rate of well over a million years per year. Cities are particularly responsible for this: despite taking
up only three to four per cent of the world’s surface area they use approximately 80 per cent of its resources
and also discharge similar proportions of waste. These figures are still increasing.
The highly problematic patterns of fossil-fuel dependent urbanisation are still expanding across the world.
Today urbanisation and economic and financial globalisation are closely connected. Cities have become glob-
alised centres of production as well as consumption, with throughputs of unprecedented quantities of resources
and industrial products being the norm in the wealthier countries. In emerging countries, too, urbanisation is
closely associated with ever increasing per-capita use of fossil fuels and with impacts on ever more distant
ecosystems. The rapid growth of cities such as Dubai with its vast airport, world record skyscrapers, artificial
islands and low-density desert suburbs, is the latest and most astonishing example of this.
5 F. H. King, Farmers of Forty Centuries: Organic Farming in China, Korea, and Japan, Courier Dover Publications, 1911
33. Communicating the dangers of such boomerang effects, which could soon undermine the very existence of our
modern cities, is a huge challenge for educators and policy makers.
Petropolis and planetary boundaries
The ‘planetary boundaries’ that are becoming evident in the face of global industrialisation, urbanisation and
population growth have major implications for urban planning and governance. We must face up to the fact
that cities are dependent systems whose reliance on external inputs for their sustenance is likely to become ever
more precarious. The process of entropication – of combining resources into products and producing wastes
faster than they can be converted back into useful resources – has to be dealt with by deliberate measures of
policy and management. Our living planet cannot cope with the ever increasing accumulation and degradation
of natural resources in our cities without appropriate measures being taken to replenish the global biosphere
and to reduce our impacts on the atmosphere.
A large part of the increase of carbon dioxide in the atmos-
phere is attributable to combustion in and on behalf of the
world's cities. 200 years ago atmospheric CO2 concentra-
tions were around 280 parts per million, but since then they
have risen to 390 ppm. Until recently it was widely
assumed that we could get away with doubling pre-industrial
concentrations. But gradually it has become clear that this
could cause the planet to overheat, with dire consequences
for all life. Climatologists then gradually brought the target
figures down from 550 to 450 ppm, particularly as they
discovered the extent of warming that has already occurred in
the Arctic Circle. Whilst global temperatures have increased
by an average of 0.8ºC, in the Arctic they have gone up
much more.
The Arctic regions appear to be exceedingly sensitive
to anthropogenic CO2 emissions. According to the Inter-
governmental Panel on Climate Change (IPPC) “Arctic
temperatures have increased at almost twice the global
average rate in the last 100 years (...) Temperatures at the
top of the permafrost layer have generally increased since the 1980s (...) by up to 3ºC.”6
An increase in arctic
temperatures could further accelerate greenhouse gas discharges into the atmosphere, particularly due to
methane release from melting permafrost. This positive feedback loop could fuel global warming even more.7
In the Arctic, the rapid collapse of Greenland glaciers has become a particular focus of concern.8
This is a major
reason why many climatologists are now calling for an actual reduction of CO2 concentrations from 390 to 350
parts per million.9
This, in turn, has huge implications for the way we design and manage our cities, how we
power them, where we locate them and how they relate to the world’s ecosystems.
In recent years the most dramatic population growth has occurred in giant coastal cities, particularly those in
Asia and Africa. In fact, with expansion of global trade, coastal populations and economies have exploded on
every continent. Of the 17 megacities of over ten million people around the globe, 14 are located in coastal
areas. 40 per cent of the world's cities of 1-10 million people are also located near coastlines. Careless develop-
ment practices have caused important habitats such as wetlands, coral reefs, sea grasses, and estuaries to be
degraded or destroyed.10
And with substantial sea level rises expected by the end of the 21st century, major
northern coastal mega-cities and greenhouse gas emitters such as London, New York and Shanghai, could well
become the primary victims of their fossil fuel burning, whilst also affecting southern low-lying mega-cities
such as Calcutta, Dhaka and Lagos.11
6 www.ipcc.ch/pdf/assessment-report/ar4/wg1/ar4-wg1-spm.pdf
7 www.ipcc.ch/publications_and_data/ar4/syr/.../mains1.html
8 www.worldwildlife.org/.../WWFBinaryitem15234.pdf - United States
9 www.350.org/about/science
10 www.inweh.unu.edu/Coastal/PolicyBrief.pdf
11 www.timesonline.co.uk/tol/news/environment/article6938356.ece
WWF Living Planet Report 2010
“Since 1970 the global Living Planet Index has fallen
by 30 per cent, which means that, on average,
species population sizes were 30 per cent smaller
in 2007 than they were in 1970. Following current
trends, by 2030 humanity will need the capacity of
two Earths to absorb CO2 waste and keep up with
natural resource consumption. Higher income na-
tions have an average per capita environmental foot-
print that is around five times larger than that found
in poorer nations.
The implications are clear. Rich nations must find
ways to live much more lightly on the Earth, to
sharply reduce their footprint, in particular their re-
liance on fossil fuels. World leaders have to deliver
an economic system that assigns genuine value to
the benefits we get from nature: biodiversity, the
natural systems which provide goods and services
like water, and ultimately our own well-being.”
34. The concept of Petropolis, the fossil fuel powered city which is the current global ‘urban archetype’, needs to
be challenged fundamentally as its systemic flaws become increasingly evident.
These are some of the dominant trends: demand for fossil fuels, energy costs, carbon emissions, climate insta-
bility and sea levels are increasing, whilst global reserves of natural resources and the time left for action is
steadily decreasing. But, crucially and hopefully, so is the cost of renewable energy!
Creating the solar city
Some people simply want large modern cities to
go away. But given that for the time being urban-
isation is a global trend, ways have to be found for
cities to minimise their systemic dependence on
fossil fuels and their unsustainable use of natural
resources. A rapid switch towards powering our
cities with renewable energy is a crucially impor-
tant starting point. The key question to which an
urgent answer is needed is: how can cities that are
the product of fossil fuel-based technologies be
powered by renewable energy instead? We have
addressed this issue in some detail on our recent
publication, Peter Droege’s report ‘100% Renew-
able Energy – and beyond – for Cities’.12
Our planet derives its energy supply from the sun and the Earth’s core and, ultimately, these two primary energy
sources need to be used to power our cities. The good news is that in the last few years rapid strides have been
made with a wide spectrum of renewable energy technologies.
Technology and policy go closely hand-in-hand: Germany, Spain and another 50 countries and regions around
the world have chosen to introduce feed-in tariffs which make the installation of renewable energy systems a
cost effective proposition. Owners of solar PV roofs in Germany, Spain, Portugal or Greece are entitled to sell
the electricity they produce back to the grid at up to four times the price of conventional power stations. The
benefits for national economies have been significant, reducing fossil fuel imports, carbon emissions, as well as
environmental damage. In Germany the total cost per household to implement these renewable energy schemes
is just five Euro per household per month. As a result of feed-in legislation, 18 per cent of Germany’s electricity
now comes from hydro power, solar power and wind farms and 300,000 new jobs have been created in ten years.
This approach to energy policy has also led to significant breakthroughs in technology, and in the design of
buildings.
Recently constructed building complexes such as the Solarsiedlung in Freiburg, for example, are designed to
produce more energy than they actually require.13
The highly energy efficient ‘plus-energy’ buildings with south
facing solar roofs are a model for intra-urban renewable energy production. Outside Seville ‘concentrated solar
power’ technology has been pioneered which utilises an array of mirrors that focus beams of sunlight onto the
top of towers through which liquid is circulated which drives steam turbines and generators. Seville is well on
its way to become the world’s first large city to power itself with solar energy supplied from its hinterland, as
well from installations on roof tops within the city.14
A major new technological breakthrough is thin-film solar electric cells. These can be produced in printing
machines which apply a photo-sensitive ink onto an aluminium or plastic foil. These new thin film technologies
are bringing the cost of solar electricity ever closer to full cost competitiveness with conventional power
generation. In Germany arrays of thin-film solar power stations can be found around a growing number of
towns and cities.
12 www.worldfuturecouncil.org/fileadmin/user_upload/PDF/100__renewable_energy_for_citys-for_web.pdf
13 www.solarsiedlung.de/
14 www.inhabitat.com/2007/05/21/sevilles-solar-power-tower/
DYNAMICS OF CHANGE
Increasing Decreasing
Energy demand
Energy costs
CO2 Emissions
Climate instability
Sea levels
Fossil fuel reserves
Natural resources
Time left for action
Cost of renewable
energy
35. Solar thermal technology has been used for many years in the Mediterranean. It is also becoming common place
in less sunny countries such as Austria and Germany. Now it is also making rapid strides in China. In fact it has
become the world leader. Solar hot water systems are now used by 20 per cent of its households many of whom
never had the benefit of hot water before. “Experts project that by 2010 the number of solar water heaters
installed in China will equal the thermal equivalent of the electrical capacity of 40 large nuclear power plants.
Globally, solar water heaters have the capacity to produce as much energy as more than 140 nukes.”15
In September 2010 this ground-breaking building hosted the 4thWorld Solar Cities Congress.16 The 75,000 square metre‘sun-dial’building
includes exhibition centres, scientific research facilities, meeting and training facilities and a hotel. It is a Chinese government sponsored
showcase of energy efficient solar design and solar technology that is likely to highly influential in a country so far better known for its
rapid expansion of coal fired power station capacity.
Wind power is also a solar technology because the Earth’s air currents are driven by sunlight. The technological
breakthroughs in this field have been facilitated by government policies. Denmark was the first country to in-
troduce feed-in tariffs for wind energy 25 years ago. The advances in this technology have been astounding. In
1985 50 KW wind turbines were the norm, but by 2010 their energy output has risen to as much as 5 megawatts
- 100 times greater. In countries with long coastlines such as Britain, large scale wind farm development is now
well under way. The Thames Array of 500 large turbines will start construction in the Thames Estuary in early
2011, and its 1000 megawatt capacity will supply some 30 per cent of London’s domestic electricity.17
While it is desirable for cities to produce much of their energy from within their own territory or from their
immediate hinterland, very large cities may require additional renewable energy supplies from further afield.
Networks of interconnected solar, wind, hydropower and geothermal systems are now under development.
The Desertec project which is supported by major European companies is intended to link the renewable energy
resources of Europe, the Middle East and North Africa, and elsewhere similar projects are proposing to supply
electricity across continents like North America and Asia via new direct-current ‘smart supergrids’.18
15 www.environmentalgraffiti.com/...solar...water-capacity.../822
16 www.chinasolarcity.cn/Html/dezhou/index.html
17 London Array, www.londonarray.com
18 Desertec, www.desertec.com