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BIOGRAFIA DI MAHMUD DARWISH
Birwa 13.03.1941 – Houston 9.08.2008
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Mahmoud Darwish nacque nel 1941 nel villaggio di al-Birwa, situato in Alta
Galilea a est della città di Akko (Acri). Il suo villaggio natale oggi è distrutto e
non più presente sulle carte. Nel 1948 - durante il primo conflitto arabo-
israeliano - i genitori di Mahmoud per sfuggire ai rischi della guerra cercarono
rifugio in Libano con il resto della popolazione, ma furono tra i pochissimi che
riuscirono rientrare nel loro paese, illegalmente, dopo appena un anno. Nel
frattempo però la loro terra d'origine era diventata parte dello stato di Israele,
i loro beni confiscati.
In questa condizione fin da bambino Darwish si trovò nello status legale di
“alieno”,  cittadino  che  risiede  come  “ospite  illegale”.  Da  giovane  fu  arrestato  e  
condannato più volte a pene detentive, per la sua presenza in Israele senza
permesso e per aver recitato poesie sovversive in pubblico. Studiò peraltro la
lingua ebraica israeliana, perfezionando la conoscenza della sua lingua natia.
Cominciò l'attività pubblicistica a diciannove anni. Iscritto all'università non
ebbe la possibilità di laurearsi a causa delle interruzioni degli studi nei periodi
trascorsi in prigione, anche se in Unione Sovietica, a Mosca, si costruì nel
1971 una solida preparazione linguistico-letteraria.
Pubblicò la sua prima raccolta di poesie, Foglie d'Ulivo, nel 1964. È un'opera
che trasfigura in quadri di forte impatto emotivo l'identità nazionale
palestinese. Divennero famose alcune poesie che raccontano la condizione
dolorosa e folle dell'esilio. La carriera poetica di Mahmoud Darwish,
dall'epoca della prima pubblicazione, mantiene legami ideali con la lotta
armata del popolo palestinese per il ritorno alla sua terra (l'attività dei gruppi
armati cominciò anch'essa nel 1964). La poesia di Darwish assumeva un
ruolo di riferimento collettivo per la causa palestinese.
Fu  direttore  del  quotidiano  locale  “Ittiḥād”  (Unità)  fino al 1970. In quell'anno
abbandonò definitivamente la Palestina/Israele per un periodo di studio in
Unione Sovietica. Da allora trascorse la sua vita risiedendo per periodi diversi
nelle principali città del mondo arabo: Il Cairo, Beirut, Tunisi, Amman. A
Beirut   diresse   un   mensile   palestinese   (Shuʿūn   Filasṭīniyya,   "Affari  
Palestinesi"), quindi divenne direttore della rivista letteraria palestinese "al-
Karmel", pubblicata da un dicastero dell'OLP. Visse per un lungo periodo a
Beirut fino al 1982, quando la città fu assediata dall'esercito israeliano.
Darwish dovette abbandonare il Libano insieme allo Stato Maggiore e al
Comitato Esecutivo dell'OLP. Dopo un periodo di esilio a Cipro, visse tra
Beirut e Parigi. Lavorò anche al Cairo presso il quotidiano nazionale "al¬
Ahrām".  
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La seconda metà degli anni ottanta fu l'epoca del suo maggiore impegno
politico. Nel 1987 fu eletto nel Comitato Esecutivo dell'OLP. Sempre nell'87
Darwish partecipa a Firenze alla rassegna "Poeti del Mediterraneo per la
Pace", organizzato dagli Enti locali e dalla rivista culturale Collettivo R.
ConDarwish ci sono lo spagnolo Goytisolo, l'italo-jugoslavo Damiani,
l'israeliana Ravilovich, il greco Apostolatos.
Mahmoud Darwish ha redatto il testo della Dichiarazione d'Indipendenza
dello Stato Palestinese, documento promulgato nel 1988 e riconosciuto da
diversi stati.
Solo nel 1996, dopo 26 anni di esilio, ottenne un permesso per visitare la sua
famiglia nello stato di Israele. Fu nuovamente direttore di "al-Karmel"
(rifondata nel frattempo) e fu eletto nel Consiglio Legislativo Palestinese nei
Territori, oggi tuttora occupati.
Mahmoud Darwish è morto all'età di 67 anni a Houston (Texas) il 9 agosto
2008, per le complicanze di un intervento al cuore. Già nel 1984 e nel 1998
aveva subìto interventi al cuore.
Mahmoud Darwish è la prima e, ad oggi, unica personalità palestinese dopo
Arafat alla quale sono stati concessi i funerali di Stato.
SCHEDA DEL LIBRO
A cura di Elisabetta Bartuli Feltrinelli, Milano, 2014
Una trilogia palestinese raccoglie tre scritti in prosa sostanzialmente
autobiografici  che  disegnano  un  affresco  storico  e  culturale  della  Palestina.  E’  
un testo impegnativo sia sotto il profilo emotivo, sia sotto quello della lingua e
della densità culturale, con una corposità forte dal punto di vista teoretico,
sebbene  il  suo  incedere  sia  soave  e  molto  scorrevole.  E’  anche  un  grande  
affresco storico-sociale, quello di un popolo costretto ad essere profugo in
casa propria.
Mai testo potrebbe essere più attuale in questo drammatico frangente nel
quale la Striscia di Gaza è tornata ad occupare spesso i nostri telegiornali,
con alcune date cruciali quali il 1948, la strage di Qasim del 1956, il 1967, la
strage  di  Damur  del  1976,  l’invasione  del  Libano  da  pare  di  Israele  nel  1982.  
Un’altra  delle  ragioni  per  leggerlo  è  la  profondità  dell’analisi  sulla  condizione  
umana   in   situazioni   drammatiche      nelle   quali   l’uomo   si   trova   in   contesti   di  
4
sradicamento come profugo, di violenza permanente come carcerato, allo
stesso tempo perseverante nel coltivare la propria umanità, nel segno della
dignità e del rispetto.
Infine, le pagine di Darwish sono una grande riflessione sul valore della
scrittura e in particolare della poesia; su come la parola dia voce e
consistenza al pensiero rendendo la realtà quella che è. Il poeta, come Dio è
creatore quando dà i nomi alle cose e nominandole le fa essere.
Quello che colpisce in Darwish è che il suo pensiero ben si adatta a
chiunque,  anche  all’uomo  più  semplice  perché  in  fondo  le  cose,  la  vita,  sono  
per tutti uguali; solo che cambia il modo e la consapevolezza di guardarle. In
tal  senso  la  missione  del  poeta  si  rende  sociale  e  ‘utile’  nel  senso  più  stretto  
al nostro vivere, capace di raccontare attraverso una tazzina di caffè uno stile
di vita. Quanto alla lingua del poeta palestinese, le sue liriche sono diari intimi
dove il confine con la prosa sfuma in versi di grande modernità, senza
ornamento nel senso classico, anche se utilizza spesso il refrain come nella
lirica  che  chiude  la  Trilogia  “Il  giocatore  d’azzardo”:  ‘Chi  sono  io  per  dirvi  quel  
che  vi  dico?’.  In  questa  domanda  e  nella  sequenza  di  negazioni  che  fanno  
seguito  c’è  tutta  l’umiltà  del  poeta  di  fronte  alla  vita  che  in  fondo  anche  nello  
stato più penoso è un dono. Questo vale di per sé ed è sufficiente nel senso
che  l’esistenza  non  ci  deve  altro.  In  fondo  l’azzardo  è  il  caso  che  gioca  con  
noi. Esistiamo per un caso, perché Dio ci ha fatti essere mentre avrebbe
potuto non farlo o non sceglierci, perché siamo scampati ad un incidente.
Quello che è da sottolineare della lirica di Darwish è che non si tratta di
fatalismo: nessuna rinuncia, ma una profonda autentica fede che porta
all’umile  accettazione  della  realtà  che  non  toglie  responsabilità  all’uomo,  anzi  
lo stimola a lottare per la libertà anche quando il risultato è una condanna.
Nei suoi versi non si può non scorgere la traccia lasciata dalla storia, quella
precarietà e fragilità che attraversa un popolo che ha nome Palestinese.
L’edizione  curata  da  Elisabetta  Bartuli  riunisce  per  la  prima  volta tre testi che
rappresentano tre momenti diversi della vita di Mahmud. Il primo testo che
incontriamo è Diario   di   un’ordinaria   tristezza:   Darwish   ha   trent’anni   e   dopo  
aver già pubblicato cinque raccolte di poesie, trascorso un periodo di studi a
Mosca  (l’Urss  del  tempo  ospitava  molti  dissidenti.  Sono  gli  anni  dell’amicizia  
sovietica  per  molti  paesi  arabi  come  l’Algeria  ad  esempio)  e  un  soggiorno  al  
Cairo, prende casa a Beirut. Prima aveva sempre vissuto in Palestina dove
aveva provato la condizione di profugo  incarcerato  più  volte.  Con  quest’opera  
nella quale racconta tutto il suo travaglio chiude secondo molti critici la fase
più patriottica del suo impegno iniziato nel 1964 con al struggente lirica
“Carta  d’identità”,    con  il  suo  ‘ritornello’,  ‘Scrivi!  Sono  un  arabo…’  gravido  di  
futuro e preludio di quello che sta succedendo in quei luoghi. Un episodio
importante è certamente la bruciante sconfitta ad opera di Israele del 1967
che ha determinato una cesura nella storia del Medioriente.
5
Nel 1987 è la volta di Memoria  per  l’oblio. Darwish ha lasciato Beirut e, dopo
una   breve   sosta   a   Tunisi,   quindi   al   Cairo,   si   trasferisce   a   Parigi.   E’   ormai  
consacrato come uno dei più grandi poetici arabi. Si sente il travaglio
dell’elaborazione   della   sua   poetica   di   pari   passo con il suo cammino
esistenziale   che   diventa   una   riflessione   articolata   e   meditata,   non   più   ‘a  
caldo’.  
Infine In   presenza   d’assenza troviamo una grande riflessione e un
testamento   poetico  sull’arte   e   le   possibilità   della   parola.  Ad   esso   è   affidato  
anche il  canto  d’amore  per  una  poetessa  israeliana  di  cui  non  rivela  il  nome.    
Lei  diventa  il  simbolo  dell’amore  che  è  libertà  e  vita,  che  spesso  è  struggente  
dolore.
Il libro merita più livelli di lettura. Il primo piano è certamente quello storico
che parte nel 1948 quando la nascita dello Stato di Israele pone la questione
palestinese   dove   emerge   la   dignità.   Scrive   Darwish   “...per   carattere   e   per  
dignità, pur di conservare sempre e ovunque il proprio diritto, tutti i palestinesi
in Israele hanno preferito vivere in una prolungata situazione asfissiante,
anziché  trovare  un  po’  di  sollievo  rinunciando  a  un  pezzo  di  terra…  Quella  dei  
padri  era  un’attesa  negativa,  per  loro  la  terra  significava  cose  concrete…  Per  
i figli, ossia per la mia generazione, in aggiunta a questo, terra significava
futuro e campo di lotta. Se la nostalgia è un potenziale umano passivo,
un’arma   negativa,   la   lotta   no”.      Nell’ultima   parte   del   libro   parlando della
nostalgia  la  descrive  come  un  dolore:  “Però  non  è  un  dolore  grave  perché  ci  
ricorda  che  siamo  malati  di  speranza”:  un    passaggio  magnifico,  un  grande  
inno alla vita. Sul tema della terra e della patria ci sono pagine molto dense
dove ad una riflessione più politica si unisce sempre il lato del vissuto e
l’amore  per  il  mare,  quel  mar  Mediterraneo  unico  che  ci  unisce  anche  se  a  
volte  ci  separa.    Di  tutt’altro  respiro  l’elogio  del  caffè  che  per  chi  lo  ama  è  ‘la  
chiave  del  giorno’,  scrive  Mahmud,  e dal suo gusto si risale alla personalità e
alle inclinazioni di chi lo prepara. tema del caffè è lo spunto per raccontare la
pena per la privazione della bevanda in carcere, il senso di colpa per non
aver voluto dividerlo con un compagno e la giusta punizione avvertita quando
un carceriere rovescia il thermos che sua madre gli porta in visita. Darwish è
così, riesce a parlare del cielo citando il sottosuolo e viceversa. Sulla stessa
vena racconta del calcio, una follia che però riesce a far sedere insieme i
nemici  e  perfino  a  sospendere  la  guerra  e  sono  righe  di  un’attualità  estrema.  
Nelle  pagine  di  Darwish,  infine,  c’è  anche  una  grande  spiritualità  che  affiora  
naturalmente, anche se bene si intuisce la sua conoscenza documentata dei
testi   sacri,   l’averla   metabolizzata   con   licenza   poetica   e   c’è   tanto  
Cristianesimo  accanto  all’islam,  perché,  come  ha  scritto  qualcuno  ‘pensiamo  
la  Palestina  come  un  mondo  arabo  ma  è  una  terra  di  cristiani’.  
(Estratto da un articolo di Ilaria Guidantoni)
6
Antologia di passi estrapolati  dall’opera  edita  da  Feltrinelli,  2014 (Per ciascun
estratto sono indicate le pagine del libro).
Prima parte: Diario di ordinaria tristezza. (prima pubblicazione:1973)
Seconda  parte:  Memoria  per  l’oblio.  (p.p.  1987)
Terza  parte:  In  presenza  d’assenza. (p.p. 2006)
Vorrei un funerale con mazzi di rose rosse e gialle vorrei che a celebrare
fosse qualcuno di poche parole con la voce un po' roca, qualcuno che sappia
simulare sufficiente tristezza e che alterni la sua orazione alla registrazione
della mia voce; vorrei un funerale tranquillo semplice e partecipato. Pag.159
1 - DIARIO DI ORDINARIA TRISTEZZA p.19
Pag.7 Quando, nel 1973, dà alle stampe diario di ordinaria tristezza, Darwin
ha      trent’anni   ,   ha   pubblicato   cinque   raccolte   di   poesie   e,   al   termine   di   un  
biennio  scivolato  via  tra  gli  studi  all’Università  di  Mosca  e  un  lungo  soggiorno  
al Cairo, ha preso casa a Beirut. Prima aveva sempre vissuto in Palestina. In
Palestina era nato, in Palestina aveva trascorso infanzia e adolescenza, in
Palestina aveva studiato, era diventato un giovane uomo e aveva dato
forma alla sua coscienza politica. Prima profugo, poi presente-assente e
arabo di Israele senza cittadinanza, più volte incarcerato più volte
condannato agli arresti domiciliari nella sua casa di Haifa, aveva patito nella
sua carne la condizione vissuta dalla  sua  gente:  l’esilio,  l’esilio  in  patria,  la  
sete di libertà,  le  miserie  del  vivere  quotidiano,  l’atroce  dolore  della  disfatta  
del giugno 1967.
Pag, 8 Con diario di ordinaria tristezza chiude quella che i critici
chiamano la fase rivoluzionaria patriottica del suo percorso poetico, una fase
che si era inaugurata nel 1964 con la sua poesia forse più famosa:
carta    d’identità  :
Scrivi sono arabo/defraudato delle vigne dei miei avi /E della terra che
coltivavo/Insieme ai miei figli/A noi e a tutti i nostri posteri/Non hai
lasciato/Che queste pietre.
Più tardi nel 1987 quando pubblica memoria  per  l’oblio Darwish ha lasciato
Beirut e dopo una breve sosta prima a Tunisi poi al Cairo vive a Parigi.
7
L’altro,    il  nemico,  lo  straniero
Il rapporto di M. Darwish con  l’altro,  il  nemico,  lo  straniero,  è  parte  importante  
dell’analisi  dell’opera  di  M.  Darwish.
p.13 L’altro,  per  Darwish.  non  è  solo  Rita.  L’altro  sono  tutte  le  persone,  illustri  
e  sconosciute,  che  pervicacemente  allinea  una  accanto  all’altra  nel  secondo
e terzo capitolo del diario di ordinaria tristezza in cui la denuncia
dell’ideologia  sionista  e  le  distorsioni  del  pensiero  politico  sono  supportate  da  
una profonda conoscenza della società e della psiche israeliane.
p. 54 - il senso di colpa
Nella letteratura ebraica moderna si trovano vari esempi di trasfigurazione del
senso di colpa. Tuttavia è un sentimento che emerge dalla fiducia in se
stessi, una sorta di confessione del più forte, fuori dai denti, in cui forza e
vittoria si mescolano a un velo di cipria liberalista e umanista, ma solo molto
più tardi e a strage avvenuta. E a ogni modo non sta a significare né
pentimento né rammarico. Somiglia molto di più ai monologhi interiori
dell’assassino,   a   omicidio   commesso.   Come,   per   esempio,   l’intellettuale
americano che descrive la tragedia dei pellerossa simpatizzando con i vinti.
Questa conclusione è tratta dalla lettura del romanzo di Ioshua, Di fronte ai
boschi, Torino 1999 (p.52-54 della Trilogia)
Se ne consiglia la lettura.
Cosa significa la parola patria:
p.55
La carta geografica non ha la risposta perché somiglia molto più a un disegno
astratto. La tomba di tuo nonno non è una risposta, perché un boschetto può
farla scomparire. Non hanno occupato soltanto la terra e il lavoro, ma anche
la tua psiche, il tuo carattere e quello che ti lega alla patria tanto da farti
sorgere domande sul significato di patria.
Ti  hanno  strappato  la  terra  da  sotto  i  piedi,  così  l’hai  nascosta  sotto  la  pelle.  
Ti hanno torturato, ma hai confessato un amore ancora più folle per quel che
ha causato la tua tortura.
Sotto  lo  stridio  delle  catene,  l’alienazione  che  ti  viene  da  ogni  singolo  giorno,  
si trasforma in una tregua con il vento. In prigione ti abbraccia la libertà, in
prigione ti riempi anche di patria. La lotta è la risposta. Se combatti appartieni
a  qualcosa.  La  patria  è  lotta.  Tra  valigia  e  memoria  non  c’è  altra  soluzione  
che la lotta. Diritto, libertà, appartenenza, merito si dichiarano soltanto con la
lotta.
8
Palestina ( vedi pagine 39-57).
p.42 - molto presto la parola Palestina è diventata proibita. Se tu ammetti di
essere venuto dal Libano sei considerato un infiltrato clandestino: non ottieni
più  la  carta  d’identità.  A  cinque  minuti  di  distanza  da  questo  paese  passa  la  
strada che da Acri porta a Safed. Per te non è una strada, ma un confine che
divide la terra del tuo esilio e del tuo rifugio dalla tua patria. A sud della strada
c’è   la   terra   di   tuo   padre   e   di   tuo   nonno   oggi   coltivata   da   immigrati   ebrei  
yemeniti. Nel momento in cui sono arrivati lì definendo il loro destino e quello
dei loro figli, in quello stesso momento hanno definito anche il tuo destino.
Nel momento in cui loro sono diventati cittadini tu sei diventato profugo.
p.44 Un soldato israeliano, un poeta, mi ha raccontato che soltanto un giorno
in vita sua si era sentito straniero in Palestina, quando era entrato in un
paese arabo in Cisgiordania dopo la guerra del 1967. Era in uniforme e per
strada aveva visto una bambina che lo guardava in modo da fargli tremare la
terra sotto i piedi. Da quegli occhi, da quello sguardo inspiegabile si era reso
conto che lui era un occupante.
p.117-120 (estratto) Silenzio per Gaza
Si  è  legata  l’esplosivo  alla  vita  e  si  è  fatta  esplodere.  Non  si  tratta  di  morte,  
non si tratta di suicidio. È il modo in cui Gaza dichiara che merita di vivere.
Gaza non si vanta delle sue armi, né del suo spirito rivoluzionario, né del suo
bilancio. Lei offre la sua pellaccia dura, agisce di spontanea volontà e verso il
suo sangue. Gaza non è un fine oratore, non a gola. È la sua pelle a parlare
attraverso il sangue, il sudore, le fiamme. Per questo, il nemico lo odia fino
alla morte, la teme fino al punto di commettere crimini e cerca di affogarla nel
mare, nel deserto, nel sangue. Per questo gli amici suoi cari la mano con un
pudore che sfiora quasi la gelosia e talvolta la paura, perché Gaza e Barbara
lezione e luminoso esempio sia per i nemici che per gli amici. Gaza non è la
città più bella. Il suo litorale non è più blu di quello di altre città arabe. Le sue
arance non sono dei migliori del bacino del Mediterraneo.
Gaza non è la città più ricca. (Pesce, arance, sabbia, tende abbandonate dal
vento, merce di contrabbando, braccia noleggio.) Non è la città più raffinata,
nella più grande, ma equivale alla storia di una nazione. Perché agli occhi dei
nemici è la più ripugnante, la più povera, la più disgraziata, la più feroce di
tutti  noi.  Perché  è  la  più  abile  a  guastare  l’umore  e  il  riposo  del  nemico  ed  il  
suo incubo. Perché arance esplosive, bambini senza infanzia, vecchi senza
vecchiaia, donne senza desideri. Proprio perché, nella più bella, la più pura,
la  più  ricca,  la  più  degna  d’amore  tra  tutti  noi. Facciamo torto a Gaza quando
la trasformiamo in un mito, perché potremmo odiarla scoprendo che non è
niente di più di una piccola e povera città che resiste. Faremmo torto a Gaza
se la glorificassimo. Perché la nostra fascinazione per lei ci porterà ad
aspettarla. Ma Gaza non verrà da noi, non ci libererà. Non ha cavalleria, né
9
aeronautica, né bacchetta magica, né uffici di rappresentanza nelle capitali
straniere. In un colpo solo, Gaza si scrolla di dosso i nostri attributi, la nostra
lingua e i suoi invasori. Gaza ha circostanze particolari e tradizioni
rivoluzionarie particolari. La resistenza a Gaza non si è trasformata in una
professione. La resistenza a Gaza non si è trasformata in una istituzione.
Non ha accettato ordini da nessuno, non ha affidato il proprio destino alla
firma né al marchio di nessuno. La ferita di Gaza non è stata trasformata in
pulpito per le prediche. Per questo Gaza sarà un pessimo affare per gli
allibratori. Per questo sarà un tesoro etico e morale inestimabile per tutti gli
arabi. La cosa bella di Gaza è che le nostre voci non la raggiungono, niente
la distoglie. Niente allontana il suo pugno dalla faccia del nemico. Né il modo
di spartire le poltrone nel congresso nazionale, né la forma di governo
palestinese che fonderemo nella parte est della luna o nella parte ovest di
Marte, quando sarà completamente esplorato. Niente la distoglie. È dedita al
dissenso: fame e dissenso, site e dissenso, diaspora e dissenso, tortura e
dissenso, assedio e dissenso, morte e dissenso. I nemici possono avere la
meglio sul Gaza. Il mare grosso può avere la meglio su una piccola isola.
Possono tagliarle tutti gli alberi. Possono spezzarle le ossa. Possono piantare
i carri armati nelle budella delle sue donne e dei suoi bambini. Possono
gettarla a mare, nella sabbia o nel sangue. Ma lei: non ripeterà le bugie. Non
dirà sì agli invasori. Continuerà a farsi esplodere. Non si tratta di morte, non
si tratta di suicidio. Ma è il modo in cui Gaza dichiara che merita di vivere.
(Scritto nel 1973!)
LE DUE MEMORIE
p.45 La memoria ebraica ha trasformato una delle sue pretese basilari in
rivendicazione di diritto alla Palestina, eppure è incapace di riconoscere il
diritto altrui e di apprezzarne il senso della memoria. Gli israeliani rifiutano di
convivere con la memoria palestinese, rifiutano di riconoscerla, nonostante
uno  degli  slogan  nazionali  ebraici  sia  “non  dimenticheremo”.
Mantenere la coscienza collettiva in stato di perenne ricordo per polarizzare il
sentimento nazionale è una delle materie fondamentali insegnate nella
scuola israeliana, la prima nella scala delle priorità sioniste. Ripetono
sempre:   “possa   io   dimenticare   la   mia   mano   destra, se ti dimentico,
Gerusalemme!”.  Dopo  l’olocausto  a  cui  gli  ebrei  europei  sono  stati  sottoposti  
dal  nazismo,  il  loro  motto  fondante  è  diventato  “non  dimenticheremo  e  non  
perdoneremo”.  
Ogni anno gli israeliani commemorano le proprie vittime. Israele si ferma. Ci
sono un museo specifico, un insegnamento specifico, un programma
specifico  per  ricordare  l’olocausto  alle  nuove  generazioni.  Nel  libro  di  Amos  
10
Elon intitolato Israeliani,   c’è   un   capitolo   specifico   dedicato   a   questo  
argomento   che   dice:   “Agli   occhi della giovane generazione post-sionista,
l’olocausto   ha   perciò   confermato   uno   dei   temi   fondamentali   del   sionismo  
classico del 19º secolo: senza un paese proprio si è la feccia della terra,
preda   inevitabile   delle   belve”.   Nel   libro   viene   riconosciuto   il   fatto che la
politica  israeliana  strumentalizza  l’olocausto  come  ricatto  emotivo.
La cultura israeliana insiste nel saturare i cittadini con le memorie
dell’Olocausto   avvenuto   in   Europa   per   acuire   la   sensazione   di   esilio   e  
isolamento dal resto del mondo. Sensazione essenziale nella psicologia e nel
temperamento israeliani. Alimentare la memoria israeliana ha un intento
politico preciso: acuire la rivendicazione sionista della Palestina inculcando
negli israeliani la convinzione che la minaccia dello sterminio rimane costante
e   che   tornare   e  rifugiarsi   in   “terra   d’Israele”   è   l’unica  garanzia   di  sicurezza  
storica e politica.
p. 46 L’olocausto  e  sua  utilizzazione  a  fini  politici
Non dimenticare le stragi naziste è un dovere di tutti, non soltanto degli ebrei.
Qualsiasi livello di antagonismo arabo-israeliano si sia raggiunto, nessun
arabo ha il diritto di simpatizzare con il nemico del proprio nemico, perché il
nazismo è nemico di tutti i popoli. E questa è una cosa. Però Israele sfoga i
suoi rancori su un altro popolo chiedendo ai palestinesi e a qualsiasi altro
arabo di pagare il prezzo di crimini che non hanno commesso. E questa è
un’altra   cosa. Gli israeliani si vantano di fronte al mondo di essere i primi
profughi   ed   esiliati   nella   storia   dell’umanità,   fino   al punto di trasformare
questo attributo in un segno distintivo. Però sono completamente incapaci di
comprendere che anche altri possono possedere lo stesso senso. Non è
crudele affermare che il comportamento dei sionisti contro il popolo
palestinese è paragonabile alle pratiche naziste applicate contro gli stessi
ebrei. Non è crudele affermare che il comportamento israeliano e quello del
movimento sionista nei rapporti internazionali strappano proprio di bocca il
commento: commerciano con il sangue delle vittime ebree. Con i soldi e
l’equipaggiamento  ricevuti  in  risarcimento  delle  vittime  del  nazismo  uccidono  
un altro popolo. Dunque non è crudele nemmeno affermare che il modo in cui
Israele commemora le vittime del nazismo è caratterizzato dal ricatto
emotivo;;  in  quanto  saturare  gli  israeliani  tramite  il  senso  dell’olocausto  spinto  
all’eccesso   e   contemporaneamente   tramite   il   bisogno   di   vendicarsi   non   del  
proprio   carnefice   ma   di   un’altra   vittima,   ossia   il   popolo   palestinese,   è   un  
obiettivo politico. il sionista arrogante non si vergogna di vantare che la
perdita di 6 milioni di ebrei, o giù di lì, gli è valsa una patria.
(Mahmud Darwish, Una trilogia palestinese, Feltrinelli ed., 2014, p.46-47)
11
KAFR QASIM
p.79
Nel	
   1956	
   alla	
   vigilia	
   dell’aggressione	
   tripartita anglo franco israeliana contro
l’Egitto,	
  il	
  colonnello	
  Shadmi	
  convoca	
  il	
  colonnello	
  Malinki	
  nel	
  quartier	
  generale	
  
assegnandogli la missione per il suo distaccamento. È una di quelle missioni
affidate alla guardia di frontiera nel distretto centrale con l’ordine	
  operativo	
  di	
  
imporre il coprifuoco dalle cinque di sera alle sei di mattina nel paese di Kafr
Qasim e in quelli circostanti. Shadmi: non è ammessa alcuna eccezione al
coprifuoco. Svolgete sorveglianza con pugno di ferro. Non arrestate i
trasgressori, sparategli. Meglio ucciderli piuttosto che incorrere nelle
complicazioni che comportano gli arresti. Malinki: che ne sarà dei cittadini che,
tornando	
   dal	
   lavoro	
   ignari	
   dell’ordine	
   di	
   coprifuoco,	
   con	
   tutta	
   probabilità	
  
s’imbatteranno	
  delle	
  pattuglie	
  della	
  guardia	
  di	
  frontiera	
  all’ingresso	
  del	
  paese?
Shadmi:	
  Niente	
  sentimentalismi.	
  Pace	
  all’anima	
  loro.
Il seguente dialogo si svolge tra Malinki e i suoi soldati:
cosa dobbiamo fare dei feriti?
Malinki: Non è a far vostro. Non rimuoveteli. Non ci saranno feriti.
Che cosa dobbiamo fare con donne e bambini?
Malinki: Niente sentimentalismi.
Che cosa dobbiamo fare con chj torna dal lavoro?
Malinki:	
  Stesso	
  trattamento	
  per	
  tutti.	
  Pace	
  all’anima	
  loro.	
  Così	
  ha	
  dato	
  ordine	
  il	
  
comandante.
A	
   un	
   bambino	
   di	
   otto	
   anni,	
   di	
   nome	
   Talal	
   Shakir	
   ‘Issa,	
   scappa	
   una	
   capra	
   dal	
  
cortile di casa e finisce in strada. Né il bambino né la capra sanno che il
coprifuoco in paese è già in vigore da qualche minuto. Il bambino corre dietro
alla capra, le pallottole gli scrosciano addosso e lo colpiscono a morte. Il padre
raggiunge il figlio e il fucile spara portando a termine la propria missione. La
madre corre verso il figlio e marito e il fucile spara portando a termine la
propria missione. La figlia Nura raggiunge genitori e fratello e il fucile spara
portando a termine la propria missione.
Il superstite:
Quel giorno lavoravo in un frutteto con due miei cugini. Poco dopo le quattro
avevamo terminato e stavamo tornando al paese in bicicletta. Per strada,
abbiamo incontrato	
   altri	
   braccianti,	
   ci	
   hanno	
   raccontato	
   che	
   in	
   paese	
   c’era	
   il	
  
coprifuoco e sparavano, ma nessuno sapeva il perché. Dopo qualche esitazione
12
abbiamo deciso di proseguire. Nel frattempo eravamo diventati 15. Siamo
arrivati a qualche chilometro dal paese, senza essere seriamente preoccupati.
Immaginavo	
   che	
   alla	
   peggio	
   ci	
   saremmo	
   imbattuti	
   in	
   Blum,	
   l’ufficiale	
   della	
  
guardia	
  di	
  frontiera.	
  Magari	
  ci	
  avrebbe	
  umiliato	
  e	
  picchiato	
  un	
  po’,	
  come	
  al	
  solito,	
  
ma non mi sarei mai aspettato qualcosa di diverso. Poco dopo abbiamo sentito
degli spari e mi sono reso conto che la faccenda era pericolosa. “Torniamo	
  
indietro”,	
   ho	
   detto	
   a	
   mio	
   cugino. Lui mi ha fatto coraggio. All’improvviso	
   un	
  
uomo	
  della	
  guardia	
  di	
  frontiera	
  ci	
  ha	
  sbarrato	
  la	
  strada:	
  “alt”. Siamo scesi dalle
biciclette. Il soldato ci ha ordinato di mettersi in fila:
“di	
  dove	
  siete?”
Di Kafr Qasim, abbiamo gridato in coro.
Dove eravate?
Al lavoro.
È	
   indietreggiato	
   di	
   5	
   m,	
   quando	
   è	
   stato	
   all’altezza	
   dei	
   due	
   commilitoni	
   che	
  
imbracciavano le mitragliatrici, ha gridato: falciateli. Non ho creduto a quel che
stava succedendo, finché le pallottole non hanno cominciato a pioverci addosso.
La prima raffica mirava alle gambe, la seconda più in alto. Sono caduto a terra
con gli altri. …	
  Poco	
  dopo	
  è	
  arrivato	
  un	
  camion. Gli israeliani lo hanno fermato e
hanno ordinato di scendere a tutti i passeggeri. Si trattava per la maggior parte
di braccianti della ditta agricola Osamia, in seguito ho saputo che erano 23. I tre
assassini sono tornati verso di me e verso gli altri ciclisti uccisi e hanno
cominciato ad ammassare i corpi in un mucchio a 3 m di distanza. Davano il
colpo di grazia ai feriti con le pistole. Ho stretto i denti per non gridare, fingendo
di essere morto. Mi hanno trascinato per aggiungermi al mucchio e si sono
allontanati. Dopo è arrivato un altro carretto con due persone a bordo. Hanno
ammazzato anche loro. Ho	
  visto	
  i	
  tre	
  assassini	
  sedersi	
  al	
  pozzo.	
  Dopo	
  un	
  po’	
  è	
  
arrivato un altro camion. …	
   Più	
   tardi	
   ho	
   saputo	
   che	
   dentro	
   c’erano	
   quattro	
  
ragazzi e tredici ragazze dai 12 anni in su. All’improvviso	
  di	
  tre	
  assassini	
  hanno	
  
iniziato a correre dietro al camion, lo hanno bloccato e hanno intimato a tutti i
passeggeri di scendere.. …	
  I	
  fischi	
  delle	
  pallottole	
  si	
  mescolavano	
  agli	
  strilli	
  delle	
  
ragazze e ai tonfi dei corpi che cadevano a terra.
Dagli atti del processo:
avvocato: è vero che lavora al servizio del paese e che per tutta la vita avuto la
sensazione che gli arabi sono nostri nemici?
Soldato: sì, è vero.
Avvocato: è vero che ha questa sensazione sia verso gli	
  arabi	
  d’Israele	
  che	
  verso	
  
quelli fuori da Israele?
13
Soldato: sì. Non faccio differenza.
Avvocato:	
  è	
  vero	
  che	
  se	
  non	
  avesse	
  eseguito	
  l’ordine	
  di	
  uccidere	
  tutti	
  gli	
  arabi	
  
che erano fuori casa si sarebbe sentito un traditore dello spirito inculcato
dall’esercito e dalla guardia di frontiera?
Soldato: sì, è vero.
Giudice: supponga che fosse accaduto quanto segue a Qasim: dopo le cinque di
sera una donna la chiama, sicuramente non costituisce un pericolo né una
minaccia per la sicurezza, la chiama soltanto per chiedere il permesso di tornare
a casa. Supponiamo per esempio che siano le cinque e venti e quella donna sia a
10 metri da casa sua e le chieda il permesso di entrarci. Che cosa farebbe?
Soldato: non glielo permetterei.
Giudice: che cosa farebbe?
Soldato: se fosse per strada le sparerei.
Il	
   giudice:	
   ma	
   non	
   c’è	
   alcun	
   pericolo.	
   Non	
   è	
   altro	
   che	
   una	
   persona	
   che,	
   o	
   per	
  
errore o perché non sa che vige il coprifuoco, si dirige verso di lei e le chiede il
permesso di attraversare la strada. La domanda è: lei, nonostante questo,
ucciderebbe chiunque si presentasse oppure farebbe distinzione e non
sparerebbe in casi specifici?
Soldato: non farei distinzione.
Giudice: ucciderebbe chiunque?
Soldato: sì.
Giudice: persino donne e bambini?
Soldato: sì.
Giudice: ucciderebbe chiunque vede?
Soldato: sì.
…	
  pag.	
  90
Il processo si è svolto rapidamente. Il tribunale ha trovato Shadmi colpevole
soltanto	
  di	
  “un	
  errore	
  tecnico”,	
  per	
  cui	
  è	
  stato	
  condannato	
  a	
  una	
  tirata	
  d’orecchie	
  
e	
   all’ammenda	
   di	
   un	
   centesimo. Il crimine di Kafr Qasim è stato un crimine
pianificato	
  ed	
  eseguito	
  “per	
  futili	
  motivi”.	
  Un	
  crimine	
  fine	
  a	
  se	
  stesso.	
  Ossia	
  la	
  più	
  
alta forma di crimine mosso da istinti di omicidio e di vendetta. Il famoso
terrorista Menachem Begin alludeva a questo tipo di violenza armata quando
scriveva che i metodi violenti a cui hanno fatto ricorso dei sionisti prima del
14
1948	
   erano	
   l’unico	
   modo	
   efficace	
   per	
   assicurare	
   gli	
   obiettivi	
   nazionali	
   in	
  
Palestina	
  e	
  per	
  “saziare	
  la	
  brama	
  repressa	
  di	
  vendetta	
  degli	
  ebrei”.	
  Questo	
  prima	
  
del 1948.	
   Perché	
   Kafr	
   Qasim,	
   dunque,	
   nel	
   1956?	
   Forse	
   perché	
   l’assioma	
  
esistenzialista	
   dei	
   terroristi	
   sionisti	
   “combatto	
   dunque	
   sono”	
   ha	
   bisogno	
   di	
  
pratica costante e continue dimostrazioni. O forse perché il sionista israeliano
che nutre un desiderio represso di vendetta, come afferma Begin, ha bisogno di
rigenerarsi in un unico modo, ossia con la guerra, e di riempire la propria
esistenza con nuove ragioni per distinguersi, ossia uccidere, uccidere, uccidere.
“Sii	
  mio	
  fratello,	
  altrimenti	
  ti	
  uccido”	
  aggiunge	
  il filosofo del crimine. E siccome
gli arabi sotto il giogo israeliano non riescono a fraternizzare con il loro
assassino,	
  il	
  cerchio	
  dell’omicidio	
  non	
  si	
  chiuderà	
  mai. Come non avranno mai
fine nel pensiero sionista le innumerevoli giustificazioni della violenza armata
ispirate persino dalla religione. Infatti, il Giosuè biblico è diventato un eroe
israeliano contemporaneo per la ferocia con cui trattava i non ebrei. Il popolo
arabo in Palestina ha saputo come vendicare i propri figli, si è aggrappato alla
patria	
  con	
  le	
  unghie	
  e	
  con	
  i	
  denti	
  e	
  ha	
  urlato	
  agli	
  invasori:	
  “Non	
  firmerò	
  l’atto	
  di	
  
perdono”. Le autorità hanno continuato a vendicarsi di questo popolo,
raggiungendo	
  l’apoteosi	
  della	
  vendetta	
  con	
  l’inaugurazione	
  della	
  città	
  del	
  furto,	
  
Karmiel, fondata sulle macerie di tre villaggi arabi in Galilea proprio il giorno
dell’anniversario	
  del	
  massacro	
  di	
  Kafr	
  Qasim.
COLLOQUIO TRA UN GIOVANE PALESTINESE E UN GIOVANE ISRAELIANO
p.62 "Scriviamo una pièce insieme?
“Va bene scriviamola”.
"Cerchiamo un punto d'incontro?"
"Va bene, cerchiamolo. "
"Svisceriamo per bene la questione?"
"Va bene, svisceriamola. "
"Una casa contesa potrebbe essere il fulcro della pièce?"
"Certo, potrebbe."
"Ci incontriamo tra un mese?"
" A tra un mese."
In quel momento, nel campo profughi, Khadija stava salutando il figlio, gli
consegnava le chiavi della casa che gli era appartenuta a Haifa, chiamata " Ia
casa rossa ". Nello stesso momento Sara, che ora abitava nella "casa rossa", stava
15
salutando il figlio, richiamato da un comunicato radio che gli ordinava di
raggiungere la sua unità militare. I due ragazzi, provenienti da direzioni opposte
si incontrano in qualche parte nel bosco e si affrontano. Non importa sapere chi
dei due uccide l'altro.
"Hai finito il capitolo?"
"Sì, ho finito"
In esilio, mio padre non mi ha insegnato il suicidio né la disperazione, non mi ha
insegnato a-rinunciare	
  alla	
  mia	
  identità	
  ebraica,	
  mi	
  ha	
  cresciuto	
  con	
  l’idea	
  che	
  
ero stato cacciato e malgrado questo mi ha insegnato a vivere.
"E tu cosa hai scritto?"
In esilio, mio padre non mi ha insegnato il suicidio né la disperazione, non mi ha
insegnato a rinunciare alla mia identità palestinese. Mi ha cresciuto con l'idea
che ero stato cacciato e malgrado questo mi ha insegnato a vivere.
"Questo è un punto d'incontro importante"
"La casa che polarizza i nostri destini è un punto d'incontro o un punto d'addio?"
"E un punto di scontro."
"Come lo risolve la pièce?"
"Possiamo dire che il diritto di proprietà non scaturisce dall'eredità ma dal
bisogno e dal merito. Secondo questo fondamento, l'uomo che ha costruito
questa casa cinquant'anni fa, ora non ne è più il proprietario di diritto, perché
abbandonandola, non importa per quali circostanze, è come se avesse rinunciato
al suo diritto, non avendone più bisogno.
Quanto al proprietario attuale ha fatto tutti gli sforzi possibili per impadronirsi
di questa casa che non appartiene a nessun altro."
"Dov'è la giustizia in questa pièce?"
" Giustizia, giustizia. Cerchiamola ora, insieme. Facciamo in modo che il senso di
rimorso domini nella casa finché il tempo non fa il suo corso. Facciamo in modo
che, esprimendo i sensi di colpa, gli ebrei risarciscano la perdita della casa da
parte degli arabi."
"Incontriamoci tra un mese affinché possa proporre un'altra formula di giustizia
più equa."
"Va bene, a tra un mese."
16
In quel momento, c'erano altre case, in altre città, che stavano cambiando
proprietario. Chiavi nuove si ammucchiavano sopra quelle vecchie nei campi
profughi palestinesi che, guerra dopo guerra, diventavano sempre più stretti. Di
notte, dei ragazzi prendevano quelle chiavi e non tornavano più.
VUOI TORNARE A CASA IN TAXI?
p.68
Ti rivolgi al tassista in perfetto ebraico. Il tuo aspetto non denuncia la tua
identità.
"Dove andiamo, signore?" chiede il tassista.
"Via al-Mutanabbi."
Accendi	
  una	
  sigaretta	
  per	
  te	
  e	
  una	
  per	
  lui	
  perché	
  è	
  gentile.	
  All’improvviso	
  dice:	
  
"Fino a quando dobbiamo sopportare questo schifo? Siamo stufi".
Credi che sia stufo dello stato di guerra, dell'aumento delle tasse, del prezzo del
latte e condividi: "Ha ragione, siamo proprio stufi".
Fino a quando il nostro stato manterrà questi sporchi nomi arabi? Deve
cancellare loro e i loro nomi dalla faccia della terra. "
"Loro chi?"
"Gli arabi, ovvio," esclama disgustato.
Gli chiedo il motivo e risponde: "Perché sono sporchi".
Dall'accento riconosci che è un ebreo immigrato da Marrakesh.
"Sono sporco fino a questo punto? Lei, per esempio, è più pulito di me?"
"Cosa intende?" sbotta sorpreso.
Gli chiedi di arrivarci da solo, allora capisce ma non ci crede.
"La smetta di scherzare!".
Solo dopo aver visto la tua carta d'identità crede davvero che sei arabo.
"Non intendevo i cristiani, intendevo i musulmani."
Precisi che sei musulmano e lui: "Non intendevo tutti i musulmani, intendevo
quelli di paese".
17
Allora gli racconti che sei di un paese arretrato che è stato raso al suolo e
cancellato dalla faccia della terra a piacimento dello stato d'Israele'
"Con tutto il rispetto per lo Stato," esclama.
Scendi dal taxi decidendo di tornare a casa a piedi. Ti viene voglia di leggere i
nomi delle strade. In effetti li hanno cancellati. Via Salah al-din è diventata via
Shlomo. Allora ti domandi: "Come mai hanno mantenuto il nome di al-
Mutanabbi?".
Ma quando arrivi là, per la prima volta, leggi il nome della via e ti sembra Monte
Nebo in ebraico e non al-Mutanabbi come credevi tu.
p.121 A tarda notte il mondo va a dormire.
Uccidiamo la memoria
Così il mondo va a dormire e mi dimentica.
- Non svegliare la vittima, potrebbe gridare -.
- Chi  l’ha  svegliata?  Chi  è  stato  -?
- Un  vento  che  soffia  all’improvviso,  rianima  i  morti  -.
- Da dove soffia -?
- Da ogni direzione, dalla patria -.
- Chi ha insegnato loro questo termine desueto -?
- Poeti che cantano al suono del rababà -.
- Uccideteli -.
- Li abbiamo uccisi, ma hanno inventato un altro termine: libertà -.
- Chi ha insegnato loro questo termine sedizioso -?
- Ferventi rivoluzionari –
- Uccideteli -
- Li  abbiamo  uccisi,  ma  hanno  imparato  un’altra  parola:  giustizia -
- Chi ha insegnato loro questo termine? -
- L’oppressione.  Possiamo  uccidere  l’oppressione?  -
- Se  annientate  l’oppressione,  annientate  voi  stessi  -
18
- Che facciamo? -
- Uccidiamo la memoria. -
2 - MEMORIA PER L'OBLIO (Pag. 139 )
Pag. 9 Memoria   per   l’oblio è un testo polifonico che accosta
discorsi diretti e indiretti, monologhi interiori, narrative contrapposte, sogni,
descrizioni, poesie e articoli di giornale, citazioni delle sacre scritture, esegesi
mussulmana, storiografia araba e non araba, lessicografia e letteratura
europea.
Il caffè. 154
Gli invasori sono capaci di tutto, sono in grado di scatenarmi contro il mare,
l’aria	
  e	
  la	
  terra,	
  ma	
  non	
  riusciranno	
  a	
  strapparmi	
  l’odore	
  del	
  caffè.	
  Mi	
  farò	
  un	
  
caffè, adesso, subito. Berrò il mio caffè, adesso, subito. Adesso, subito, mi
ubriacherò	
   d’odore	
   di	
   caffè.	
   Lo	
   farò	
   per	
   distinguermi	
   dalle	
   pecore,	
   per	
   vivere	
  
ancora	
  un	
  altro	
  giorno,	
  oppure	
  per	
  morire	
  avvolto	
  nell’odore	
  di	
  caffè.
…	
  Allontanare	
  il	
  recipiente	
  dal	
  fuoco	
  basso	
  per	
  permettere	
  che	
  la mano realizzi
la prima delle sue opere. Non badare ai missili, ai proiettili e agli aerei. Perché
questa è la mia volontà, questo è ciò che voglio: spargerò odor di caffè per
riappropriarmi della mia alba. Non guardare verso la montagna che sputa
matasse di fuoco contro la mano.
…
Una	
   cucchiaiata	
   di	
   caffè	
   esaltato	
   dal	
   cardamomo,	
   un’unica	
   cucchiaiata,	
   getta	
  
l’ancora,	
   maestosa,	
   sull’incresparsi	
   dell’acqua	
   bollente.	
   Tu	
   mescola	
   muovendo	
  
piano	
   il	
   cucchiaio,	
   prima	
   in	
   tondo	
   e	
   poi	
   dall’alto	
   verso	
   il	
   basso.	
   Aggiungi la
seconda cucchiaiata, porta la polvere da su a giù e poi, con un movimento
circolare,	
  da	
  sinistra	
  a	
  destra.	
  Versa	
  la	
  terza	
  cucchiaiata.	
  Fra	
  l’una	
  e	
  l’altra,	
  ogni	
  
volta,	
  allontana	
  per	
  un	
  momento	
  il	
  recipiente	
  dal	
  fuoco,	
  e	
  subito	
  dopo	
  “carica”	
  il	
  
caffè, ossia riempi il cucchiaio di polvere che va sciogliendosi, sollevalo bene in
alto	
  e	
  rituffalo	
  nell’acqua,	
  più	
  e	
  più	
  volte,	
  fino	
  a	
  quando	
  non	
  riprende	
  a	
  bollire	
  e	
  
forma una pellicola bionda che si addensa in superficie e quasi affonda. Non
lasciare che vada a fondo. Spegni il fuoco e non badare ai missili. Porta il caffè nel
tuo angusto corridoio. Versalo, teneramente, con eleganza, in una tazza bianca -
quelle scure attentano alla libertà del caffè -. Osserva le volute di vapore, il velo
profumato che si leva. Accenditi una sigaretta, adesso, la tua prima sigaretta,
appositamente rollata per questa tazza di caffè; sarà una sigaretta dal sapore
galattico,	
  ineguagliabile	
  non	
  fosse	
  per	
  quella	
  che	
  segue	
  l’amore,	
  quella	
  che	
  fumi	
  
mentre la donna che è con te secerne la sua ultima goccia di sudore e sospira.
19
Eccomi, sto tornando al mondo. Nelle vene mi scorre una stimolante droga, un
fiume di vita nata dal matrimonio tra caffeina e nicotina, una cerimonia officiata
dalla mia mano. Chissà come fa a scrivere, mi chiedo, una mano che non sa
preparare il caffè. E che dire di tutti cardiologi che, fumando come ossessi, mi
hanno	
  ripetuto:	
  “non	
  fumare	
  e	
  non	
  bere	
  caffè”.	
  A	
  tutti	
  ho	
  risposto,	
  scherzando:	
  
“gli	
  asini	
  non	
  fumano	
  e	
  non	
  bevono	
  caffè,	
  però	
  nemmeno	
  scrivono”.
Conosco il mio caffè, il caffè di mia madre e il caffè dei miei amici. Li riconosco da
lontano, so bene in cosa sono diversi. Non esistono due caffè che si somiglino. E
il	
  mio	
  panegirico	
  del	
  caffè	
  è	
  anche	
  un’apologia	
  della	
  diversità.	
  Non	
  c’è	
  sapore	
  che	
  
possa essere	
   definito	
   “di	
   caffè”.	
   Il	
   caffè	
   non	
   è	
   un	
   concetto,	
   non	
   è	
   un	
   unico	
  
elemento, non è un assoluto. Ognuno ha il proprio caffè, talmente particolare,
talmente	
  specifico	
  che	
  io,	
  dal	
  sapore	
  del	
  caffè	
  che	
  mi	
  offre,	
  riesco	
  a	
  farmi	
  un’idea	
  
di una persona, a stabilirne il grado di eleganza interiore. Se il caffè sa di
coriandolo, significa che la padrona di casa non tiene in ordine la cucina. Se ha
un retrogusto di carruba, il padrone di casa è avaro. Se odora di profumo, la
signora	
  che	
  l’ha	
  fatto	
  è	
  molto	
  attenta	
  all’esteriorità.	
  Se	
  lascia	
  in	
  bocca	
  una	
  patina	
  
muschiata,	
   l’ha	
   preparato	
   un	
   sinistrorso	
   mai	
   cresciuto.	
   Se	
   sa	
   di	
   vecchio	
   da	
  
quanto	
  è	
  stato	
  lasciato	
  bollire,	
  è	
  l’opera	
  di	
  un	
  estremista	
  di	
  destra.	
  Se	
  si	
  sente	
  
solo il cardamomo, è cosa da arricchiti.
Non esistono due caffè che si somiglino. Ogni casa ha il suo caffè, ogni mano il
suo, perché nessuno somiglia davvero a qualcun altro. Io lo sento arrivare da
lontano: inizialmente si muove in linea retta, poi serpeggia, si attorciglia e si
contorce, si lamenta avvolgendosi a declivi e pendii, si aggrappa a querce e a
pioppi,	
  lotta	
  per	
  scendere	
  a	
  valle,	
  si	
  gira	
  all’indietro,	
  si	
  strazia	
  dal	
  desiderio	
  di	
  
risalire la montagna e poi, posato sulle note di un flauto, si dirige di nuovo verso
la sua prima dimora.
L’odore	
   del	
   caffè	
   è	
   un	
   ritorno,	
   un	
   rientro	
   nell’elemento	
   primigenio,	
   perché	
  
rimanda	
  all’essenza	
  del	
  luogo	
  d’origine;	
  è	
  un	
  viaggio	
  iniziato	
  migliaia	
  d’anni	
  fa	
  ed	
  
eternamente	
  ripetuto.	
  Il	
  caffè	
  è	
  un	
  luogo.	
  Il	
  caffè	
  è	
  una	
  porosità	
  da	
  cui	
  l’interno	
  
traspira	
  all’esterno, è	
  un’interruzione	
  che	
  unisce	
  quel	
  che	
  solo	
  l’odore	
  di	
  caffè	
  
può	
  unire.	
  Il	
  caffè	
  è	
  l’antitesi	
  dello	
  svezzamento,	
  è	
  una	
  mammella	
  che	
  nutre	
  da	
  
lontano,	
  un	
  mattino	
  che	
  nasce	
  da	
  un	
  sapore	
  amaro,	
  è	
  l’arte	
  della	
  virilità.	
  Il	
  caffè	
  è	
  
geografia.
L'acqua
p.165
mi importa poco di quel che succede al di là del vetro. Bombe. Missili. Sirene.
Aerei. Corazzate. Mi soffiano contro come soffia il vento. Piovono come
pioggia che cade. Sussultano come farebbe un terremoto. La volontà umana
non può far nulla per fermarli, pare sia un destino ineluttabile. Sui nostri corpi,
20
oggi, si sta testando ogni nefandezza che l'ingegno umano ha potuto
partorire e, in aggiunta, tutto un bagaglio di innovazione tecnologica. Sarà il
giorno più lungo della storia? Nessuno lava i morti, siano quindi i morti a
lavarsi da sé. Col sangue, intendo, visto che l'acqua è introvabile. Faccio
sempre tesoro, io, delle mie preziose riserve idriche, utilizzo ogni goccia con
estrema parsimonia. Ogni goccia ha il suo ruolo. Le conto, quasi. 500 per
lavarmi i capelli. Duemila per il corpo. 100 per la bocca. 100 per farmi la
barba. 20 per ogni orecchio. 50 per ogni ascella e via di seguito. Ogni goccia
ha il suo pezzetto di corpo.
p.166
L'acqua è aria in gocce, palpabile, tangibile, pegno di luce. È per questo che i
profeti hanno voluto che i loro popoli la amassero: dall'acqua abbiamo fatto
germinare ogni cosa vivente (Corano, 21º, 30).
A Tell al-Za’tar    i  cecchini  aspettavano  le  donne  palestinesi  vicino  all'acqua,  
vicino alle condutture bucate, esattamente come fanno i cacciatori quando
braccano le gazzelle assetate. Acqua assassina. Acqua che diluisce il
sangue di gente disidratata, disposta a rischiare la vita pur di inumidirsi le
labbra. Acqua che ha mosso i re degli arabi e li ha costretti loro malgrado a
telefonare al presidente americano per proporre uno scambio vantaggioso:
sangue in cambio dell'acqua. Petrolio in cambio dell'acqua. Noi stessi in
cambio dell'acqua.
Il rumore dell'acqua è come uno schiamazzo di nozze, più forte, molto più
forte di qualsiasi aereo. Il rumore dell'acqua fa da specchio alle vene della
terra che vive, il rumore dell'acqua è libertà. Il rumore dell'acqua è umanità.
179
Nell’area  invasa,  sul  mare  invaso,  sulla  montagna  invasa  e  sulle  sue  distese  
di pini continuano a piovere bombe, bombe di paure primordiali; la cacciata di
Adamo dal paradiso terrestre si inserisce nella moltitudine di storie che
raccontano un esodo. Non ho patria, non ho più corpo. Continuano a piovere
bombe sui cantici di gloria, sul conversare di morte che scorre nel sangue
come luce che infiamma domande gelide. I missili mi penetrano in ogni poro
della   pelle   e   ne   escono   indenni.   Non   sento   l’inferno   che   l’area   diffonde,  
perché lo respiro, lo sudo in ogni goccia di sudore.Voglio cantare. Sì, esatto,
voglio cantare questo giorno bruciato. Voglio cantare. Trovare le parole che
muteranno   la   lingua   in   acciaio   dell’anima,   una   lingua   che   sappia   battere  
questi  aerei,  questi  insetti  d’argento  scintillante.  Voglio  cantare.  Inventare  una  
lingua che mi sostenga e che sosterrò, la lingua che mi dia prova e a cui darò
prova della forza che ci abita, una forza capace di trionfare sulla solitudine
universale. Voglio cantare e poi andar via.
21
p.197
quante incongruenze tra noi palestinesi.
Ci sono interi uffici con tanto di aria condizionata e saloni di rappresentanza
che servono solo a diffondere calunnie e maldicenze. Qualche gruppuscolo si
è specializzato nel commercio di martiri: ce ne servirebbero altri 20 per
portarci al livello.
E così si è combattuto per accaparrarsi un martire di cui non si conosceva
l’affiliazione.   Si   è   messo   a   morte   un   combattente   perché   ha   rifiutato   di  
sparare  a  un  amico  che  militava  in  un’altra  organizzazione.  Si  è  buttato  il  suo  
cadavere in un pozzo abbandonato e lì è rimasto finché una veggente non
l’ha ritrovato.
p.200Begin come Giosuè (VI,16-26)
testo di cui si consiglia la lettura.
223 Il calcio e Paolo Rossi
Anche noi amiamo il calcio. Anche noi abbiamo il diritto di amare il calcio. E
abbiamo il diritto di assistere alla partita. Perché no? Perché non sfuggire un
po’  alla  routine  della  morte?  In  un  rifugio,  siamo  riusciti  a  procurarci  l’energia  
elettrica  usando  alla  batteria  di  un’automobile.  In  un  battibaleno  Paolo  Rossi  
ci ha trasmesso la gioia che ci mancava. È un uomo che, in campo, si vede
solo dove conviene che lo si veda. Un diavolo smilzo che noti solo dopo che
ha segnato la rete, esattamente come un aereo da bombardamento si vede
solo  dopo  che  i  bersagli  sono  esplosi.  Dove  c’è  Paolo  Rossi  c’è  un  gol,  c’è  
un’ovazione.   Poi   lui   scompare,   oppure   si   nasconde   per   aprire   nell’aria   un  
varco per quei suoi piedi pronti a cercare le buone occasioni, a portarle a
maturazione, a raggiungerle in un picco di voluttà. Non è mai chiaro se sta
giocando  a  calcio  oppure  facendo  l’amore  con  la  rete,  una  rete  ritrosa che lui,
sul torrido campo spagnolo, tenta e seduce con una raffinata galanteria
italiana. Che lusinga come farebbe un gatto in calore. E poi, infine, ecco che
Paolo Rossi, sotto gli occhi dei guardiani della virtù, un imene di 10 uomini
posto a protezione della verginità della rete, ecco che Paolo Rossi avanza,
avanza  in  un  impeto  di  lussuria,  avanza,  muscolo  d’aria,  e  sfonda.  Ed  ecco  
che la rete, incapace di resistergli, si rilassa e si arrende al suo ineffabile
stupro.
Il  calcio:  cos’è  quest’incantevole  follia  capace  di  imporre  una  tregua  che  ci  fa  
godere di un piacere innocente? Questa follia in grado di attenuare la
violenza della guerra e di ridurre i missili alla stregua di fastidiosi mosconi?
Cos’è   questa   follia   che,   per   un’ora   e   mezzo,   sospende   la   paura?   Che  
22
rasserena  corpo  e  anima  più  dell’ardore  della  poesia,  più  del  vino  e  più  del  
primo incontro con una sconosciuta? È stato il calcio. Il calcio ha fatto il
miracolo, ha risvegliato un popolo che pensavamo morto, morto di paura e di
noia.
Video Youtube (3 minuti): http://youtu.be/gdtPuMxAjvI
225-229 In  quell’anno  i franchi conquistarono Gerusalemme
Ibn Kathir (1301-1373)  l’inizio  e  la  fine.
Testo di cui si consiglia la lettura.
229 presso  i  franchi  non  c’è  ombra  di  senso  dell’onore  e  di  gelosia.
Usama ibn Munqidh (1095-1188),   Il   libro   dell’ammaestramento   con   gli  
esempi.
Testo di cui si consiglia la lettura.
i  tacchi  alti  e  l’amore  in  tempo  di  guerra
p.238 Sbatti i tuoi tacchi alti sulla pietra delle scale e maciulla le pareti
del mio cuore facendone pastura per i cani randagi. Ah, quanto mi piacciono i
tacchi alti che fanno stendere le gambe in un assoluto di femminilità pronta a
esplodere, che rimpiccioliscono il ventre, lo fanno arcuare quando è
raggrinzito per la sete, che arrotondano i seni e li fanno passare alti e superbi
sopra le teste dei passanti al cui desiderio si negano. I tacchi alti fanno sì che
il collo si tenda come quello di un cavallo quando sta per precipitare in un
baratro,  fanno  sì  che  la  lancia  si  rizzi  su  un  pulpito  d’aria  solidificata.  Sbatti  
contro   il   selciato   con   l’ombrosità   di   una   gazzella   che   né   braccia   né   parole  
possono  afferrare.  Mostrati  pian  piano  da  dietro  la  porta  chiusa.  Dall’altro  lato
c’è  una  poltroncina  in  pelle.  Ci  potrà  reggere,  è  abbastanza  larga  per  noi  due.  
Ma  non  toglierti  i  vestiti  perché  la  morte  non  ci  veda  nudi.  C’è  tempo  solo  per  
un amore frettoloso, per un sobbalzo di eternità temporanea.
p.246   …   Facciamo   attenzione   alle armi letterarie capaci di nascondere il
loro tradimento e la loro pretesa di santità, capaci di infrangere i nostri sogni
fingendo disgusto per la politica - detto in altri termini: disgusto per la lotta.
Un uso corretto della lingua è diventato sinonimo di arretratezza, la
precisione della metrica, regresso. La chiarezza è diventata una vergogna, la
parola  e  l’effetto  della  parola  sul  pubblico,  inciviltà.  Per  dirla  in  breve:  siamo  in  
piena reazione. Lo spirito reazionario, spacciandosi per sinistrorso, si è fatto
23
avanti  con  tutto  l’armamentario  tipico  della  modernità,  stracolmo  però  di  tutte  
le teorie sul ritorno al passato.
…E  intanto  il  figliol  prodigo  faceva  ritorno  alla  sua  comunità  confessionale,  al  
suo ascetismo o al suo esoterismo e dichiarava a gran voce che era pentito
di essersi rovinato la vita partecipando a quei movimenti di liberazione che
avevano prodotto solo difficoltà impreviste e a quella rivoluzione che ha
dimostrato di avere costi troppo elevati.
p.260…  Il cambiamento degli arabi.
Io non credo, né voglio credere, che la storia del medio oriente continuerà
meccanicamente a ripetere se stessa, né che lo farà per guizzi creativi. Per
quanto gli slogan della moderna politica siano ormai lontani anni luce dai
principi che li hanno generati, per quanto i discorsi siano vuoti di contenuto,
io, comunque, non mi convincerò che il cambiamento degli arabi, che il
progresso   degli   arabi,   verrà   dall’esterno,   da   qualcosa   che   non   sia   arabo.  
Secondo me, un modello che si prefigge di sedurre con la fede quanti non
hanno fiducia nel presente non può che riportarci a un conflitto che affonda in
questioni non più nostre. E io cosa ho a che spartire con gli errori del terzo
successore  del  profeta,  il  califfo  Uthman  ibn  ‘Affan?  Ho  altre  storie,  io:  questa  
non è  l’unica  che  mi  riguarda.
3 – IN  PRESENZA  D’ASSENZA  (p.283)
p.10  …Nel  2006,  quando  pubblica  in  presenza  d’assenza,  Darwish  vive  tra  
Ramallah,   in   Palestina,   e   Amman   in   Giordania.   Nell’ultimo   decennio   si   è  
quasi totalmente liberato della pressione politica che gli pesava addosso in
quanto   “poeta   nazionale”.   Ha   potuto   e   voluto   essere   in   prima   istanza  
semplicemente   un  poeta.  I  critici  chiamano   questa   fase  “lirico-epica”   e   “dei  
temi  indipendenti”.
…E   mentre   si   interroga   sul   posto   che   la   Palestina   occupa   nel   mondo, il
lirismo  intimista  e  il  lirismo  epico  si  riconciliano  nell’immagine  del  palestinese  
non più eroe e vittima, ma come essere umano che anela a una vita banale,
semplice, ordinaria.
p.11…A   un   certo   punto   la   sua   traiettoria   poetica   si   spinge   verso   l’alto alla
ricerca   di   un   punto   di   equilibrio   in   cui   prosa   e   poesia   si   avvicinino   l’una  
all’altra,  tanto  da  arrivare  a  confondersi.
In presenza di assenza il poeta si sforza di elevare al suo massimo
potenziale la prosa in arabo. Ed è una sorta di addio a se stesso quando si
dice: allora riposa in pace, se possibile. Riposa in pace nelle tue parole.
24
(pag.287)…Secondo	
  le	
  tue	
  volontà,	
  eccomi	
  qui,	
  in	
  piedi,	
  a	
  ringraziare	
  a	
  nome	
  tuo	
  
chi	
   è	
   venuto	
   a	
   darti	
   l’estremo	
   saluto	
   per	
   quest’ultimo	
   viaggio.	
   L’invito	
   a	
   non	
  
dilungarsi troppo nel congedo per passare un banchetto più consono a
ricordarti.
Lascia che ti guardi, ora che ti sei staccato da me, indenne come pura prosa su di
una pietra che si tinge di verde o di giallo in tua assenza, lascia che ti guardi, ora
che mi sono staccato da te. Lascia che raccolga te e il tuo nome come fanno i
passanti con le olive dimenticate, nascoste tra i sassolini. Andiamocene insieme,
tu e io, in due direzioni diverse: tu, verso una seconda vita, promessa dalla
lingua, in un lettore che forse	
  sopravviverà	
  all’impatto	
  della	
  cometa	
  con	
  la	
  terra;	
  
io,	
  verso	
  l’appuntamento	
  più	
  volte	
  posticipato	
  con	
  la	
  morte	
  a	
  cui,	
  in	
  una	
  poesia,	
  
ho promesso un calice di vino rosso.
p.289-290	
   …Mentre	
   ci	
   separiamo	
   presso	
   questo	
   limbo	
   dalla	
   vita	
   alla	
   morte,	
  
lasciami,	
  dunque,	
  rescindere	
  il	
  contratto	
  stipulato	
  tra	
  me	
  e	
  te,	
  tra	
  un’assurdità	
  e	
  
l’altra.	
  Non	
  sappiamo	
  chi	
  di	
  noi	
  ha	
  vinto	
  e	
  chi	
  ha	
  perso,	
  se	
  io,	
  tu	
  o	
  la	
  morte. Tu,
mio	
  opposto,	
  sei	
  sempre	
  alla	
  spasmodica	
  ricerca	
  di	
  un’assurdità	
  necessaria	
  ad	
  
allenare lo spirito alla tolleranza e a esercitare il privilegio di contemplare acqua
che ride nelle fossette, o vola di farfalla in farfalla e crea poesia da ogni viva
forza. Perché la leggerezza, come la rugiada, vince il metallo, lei vergine del
tempo, lei che insegna alle bestie a suonare il flauto.
…	
  Ti	
  hanno	
  buttato	
  fuori	
  dal	
  campo.	
  La	
  tua	
  ombra,	
  però,	
  non	
  ti	
  ha	
  seguito	
  né	
  
tradito, si è pietrificata e inchiodata laggiù, poi si è trasformata in una pianta di
sesamo: verde di giorno, blu di notte. È cresciuta fino a diventare alta come un
salice, verde di giorno, blu di notte.
Nonostante tu sia lontano sarai vicino/nonostante ti abbiano ammazzato
vivrai/non credere di essere morto laggiù/sei vivo qui./Solo la metafora a
comprovarlo,/la metafora che ha insegnato il gioco delle parole alle creature/la
metafora che ha reso l’ombra	
  geografia/la metafora che raccoglierà te e il tuo
nome./…Scrivi	
   tu	
   stesso	
   la	
   storia	
   del	
   tuo	
   cuore/da quando Adamo si è
innamorato/fino a quando il tuo popolo è risorto./…	
   Alzati	
   affinché	
   ti	
  
porti/avvicinati affinché ti riconosca/allontanati affinché ti riconosca.
L’esilio
p.334-336	
  …L’esilio	
  non	
  è	
  un	
  viaggio,	
  un	
  andare	
  e	
  tornare,	
  né	
  un	
  soggiornare	
  
nella nostalgia. Forse è visita, attesa degli effetti del tempo, uscita da se stessi
incontro agli altri per fare conoscenza e stare in armonia o per tornare nella
propria conchiglia.
…In	
  esilio	
  ti	
  scegli	
  uno	
  spazio	
  per	
  domare	
  l’abitudine,	
  uno	
  spazio	
  personale	
  per	
  il	
  
tuo diario e scrivi: il luogo non è trappola possiamo dire: qui abbiamo una strada
25
laterale/un fornaio/una lavanderia/una tabaccheria/un angolino/un odore che
ricorda…
…L’esilio	
   è	
   un	
   ponte	
   tra	
   le	
   immagini	
   per	
   attraversare	
   la	
   fragilità,	
   è	
   il	
   narciso	
  
sottoposto al test della superbia e della modestia al contempo, è la disputa dei
diversi, è l’accordo	
   dei	
   simili.	
   Non	
   tutto	
   ciò	
   che	
   somiglia	
   al	
   laggiù,	
   qui	
   chi	
  
accoglie. Non tutto ciò che qui ti rifiuta, laggiù ti accoglie.
Le	
  città	
  sono	
  odori:	
  San	
  Giovanni	
  d’Acri	
  è	
  l’odore	
  di	
  iodio	
  e	
  spezie,	
  Haifa, l’odore	
  
di pini e lenzuola sgualcite. Mosca, l’odore	
  di	
  vodka	
  con	
  ghiaccio.	
  Il	
  Cairo,	
  l’odore	
  
di	
  mango	
  e	
  zenzero.	
  Beirut,	
  l’odore	
  di	
  sole,	
  mare,	
  fumo	
  e	
  limone.	
  Parigi,	
  l’odore	
  
di	
  pane	
  fresco,	
  formaggi	
  e	
  prodotti	
  di	
  seduzione.	
  Damasco,	
  l’odore	
  di	
  gelsomino	
  
e	
  frutta	
  secca.	
  Tunisi,	
  l’odore	
  di	
  muschio	
  notturno	
  e	
  sale.	
  Rabat,	
  l’odore	
  d’hennè,	
  
incenso	
  e	
  miele…
Gli	
  esili	
  hanno	
  un	
  odore	
  condiviso:	
  odore	
  di	
  nostalgia	
  per	
  qualcos’altro,	
  odore	
  
che	
   ne	
   rievoca	
   un	
   altro.	
   L’odore	
   del	
   luogo	
   d’origine.	
   L’odore	
   è	
   memoria	
   e	
  
tramonto.
(p.336) Le parole sono le materie prime per costruire una casa. Le parole sono
una patria.
La nostalgia
p.355	
  	
  	
  La	
  nostalgia	
  è	
  l’ospite	
  della	
  sera	
  che	
  arriva	
  quando	
  cerchi	
  le	
  tue	
  tracce	
  in	
  
quel che ti circonda e non le trovi, quando un passerotto si posa sul balcone e ti
sembra un messaggio inviato da un paese che, quando ci abitavi, non amavi
come lo ami adesso che è dentro di te. Prima era aria, terra e acqua, ora è poesia.
La nostalgia è il lamento del diritto incapace di dimostrare la forza del diritto
davanti al diritto della forza.
356…La	
   nostalgia	
   è	
   il	
   dolore	
   che	
   non	
   ha	
   nostalgia	
   del	
   dolore.	
   E’	
   il	
   dolore	
  
provocato	
  dall’aria	
  pura	
  che	
  viene	
  dall’alto	
  di	
  un	
  monte	
  lontano,	
  il	
  dolore	
  della	
  
ricerca di una gioia passata.
Però è un dolore di quelli sani, perché ci ricorda che siamo malati di speranza e
inguaribilmente sentimentali.
L’amore
p.357	
  L’amore	
  è	
  un	
  cammino	
  battuto	
  come	
  il	
  significato,	
  ma	
  impervio	
  come	
  la	
  
poesia. Richiede talento, tenacia e foggia valente perché ha molti gradi. Non
basta amare, quella è una delle magie della natura simile al cadere della pioggia
o	
   all’abbaglio	
   del	
   lampo.	
   L’amore	
   ti	
   porta	
   su	
   un’altra	
   orbita	
   e	
   poi	
   te	
   la	
   devi	
  
sbrigare da solo. Non basta amare, devi sapere come amare. Hai imparato come?
26
p.360	
  …Tu	
  sei	
  quello	
  che	
  conosce	
  l’amore	
  solo	
  quando	
  ama	
  e	
  non	
  si	
  chiede cos’è	
  
né	
  lo	
  cerca.	
  Una	
  volta	
  una	
  donna	
  ti	
  ha	
  chiesto	
  se	
  amavi	
  l’amore	
  in	
  sé	
  e	
  per	
  sé,	
  hai	
  
glissato	
  e	
  te	
  la	
  sei	
  cavata	
  rispondendo:	
  “Amo	
  te”.	
  “Non	
  ami	
  l’amore?”	
  ha	
  insistito.	
  
E tu: -Ti amo per quello che sei-. Ti ha lasciato, non eri affidabile quando lei non
c’era.	
  L’amore	
  non	
  è	
  un’idea.	
  È	
  un	
  sentimento	
  che	
  riscalda	
  e	
  raffredda,	
  che	
  viene	
  
e va. Un sentimento che prende forma e corpo, che ha cinque sensi e più sensi.
Talvolta	
  ci	
  appare	
  in	
  forma	
  d’angelo,	
  dalle	
  ali	
  lievi,	
  capace	
  di	
  sollevarsi	
  in	
  aria.	
  
Talvolta ci travolge in forma di toro: ci scaraventa a terra e se ne va. Alcune volte
si abbatte in forma di tempesta che riconosciamo soltanto poi, dagli effetti
devastanti che si lascia alle spalle. Altre volte ancora scende su di noi in forma di
rugiada notturna, quando una mano magica punge una nuvola vagabonda.
La	
  frutta	
  come	
  un’allegoria	
  cerebrale	
  
p.364	
   …La	
   mela	
   è	
   forma	
   da	
   mordere,	
  senza	
   la	
   punizione	
  della	
   conoscenza.	
   La	
  
pera è un seno di perfetta proporzione, né più né meno di un palmo di mano.
L’uva	
  è	
  il richiamo	
  dello	
  zucchero:	
  spremimi	
  in	
  bocca	
  o	
  nei	
  tini.	
  L’albicocca	
  è	
  il	
  
ritorno	
  della	
  nostalgia	
  alla	
  sua	
  pallida	
  origine.	
  L’arancia	
  è	
  un’idea	
  che	
  illumina,	
  
nella notte, e può essere mangiata sempre. Il fico è un paio di labbra che si
schiudono con due dita per ricevere erotico significato in un colpo solo. Il fico
d’India	
  è	
  la	
  vergine	
  che	
  difende	
  il	
  suo	
  tesoro.	
  La	
  ciliegia	
  è	
  accorciare	
  la	
  distanza	
  
tra il desiderio degli occhi e la fregola delle labbra. La mela cotogna è la femmina
che litiga per il maschio, lasciando al deluso un groppo in gola. Il mango è la bava
che cola per visibile piacere. La fragola è un insieme di acini di colore, né rossi né
altro, che rinvia allo scandalo della similitudine. Il gelso, color zucchero o nero, è
il ricordo del primo bacio.	
  Il	
  melograno	
  è	
  il	
  rubino	
  celato	
  nell’allusione.
In viaggio da Ramallah a Gerico.
Il	
  papavero	
  e	
  l’erba.
p.371	
  …La vita è arrivata qui in fuga dal Mar Morto? Eppure, dalla desolazione
del luogo, ecco spuntare papaveri, ecco le loro piccole corolle affacciarsi dalle
rocce	
   grigie	
   e	
   nere.	
   Bastano	
   un	
   po’	
   di	
   pioggerellina	
   e	
   di	
   luce,	
   a	
   che	
   la	
   vita	
  
prevalga sul nulla. Bastano	
  un	
  po’	
  di	
  speranza	
  e	
  di	
  tempo,	
  a	
  che	
  tu	
  attraversi	
  le	
  
diramazioni del mito risparmiato dai destini dei tuoi avi. Prendi in prestito la
saggezza	
  dai	
  papaveri	
  e	
  di’:	
  “Non	
  ho	
  niente	
  a	
  che	
  fare	
  con	
  il	
  nulla,	
  sebbene	
  sia	
  
circondato	
  dalla	
  morte”.
E se ti chiedono della forza della poesia rispondi: - l’erba	
  non	
  è	
  così	
  fragile	
  come	
  
pensiamo. Da quando ha nascosto la sua ombra modesta nel segreto della terra,
non	
   si	
   spezza	
   più.	
   Nell’erba	
   spuntata	
   dalla	
   roccia	
   c’è	
   il	
   prodigio	
   della	
   parola	
  
rivelata dal mistero divino,	
  senza	
  clamore	
  né	
  squilli	
  di	
  trombe.	
  L’erba	
  è	
  profezia	
  
spontanea,	
  senz’altro	
  profeta	
  che	
  il	
  proprio	
  colore	
  opposto	
  a	
  quello	
  della	
  terra	
  
arida.	
  L’erba	
  è	
  la	
  salvezza	
  del	
  viaggiatore	
  scampato	
  alla	
  bruttura	
  del	
  paesaggio	
  e	
  
27
a un esercito che preclude la strada	
  al	
  possibile.	
  E’	
  l’avvicinarsi	
  della	
  lingua	
  al	
  
significato	
  e	
  il	
  connubio	
  del	
  significato	
  con	
  l’ospitalità	
  della	
  speranza	
   -. E se ti
chiedono	
  della	
  lotta	
  tra	
  poesia	
  e	
  morte,	
  guarda	
  l’erba	
  e	
  di’	
  quello	
  che	
  rasenta	
  la	
  
verità: - nessuna poesia sconfigge la morte	
   nell’ora	
   dell’incontro,	
   però	
   può	
  
posticiparla	
  per	
  il	
  tempo	
  necessario	
  a	
  saggiare	
  l’utilità	
  del	
  canto	
  fino	
  alla	
  fine	
  di	
  
un lungo concerto, dopodiché il cantante cade nelle mani del suo cacciatore ritto
dietro la porta. Forse nessuno si accorgerebbe della morte del cantante, se la
canzone diventasse collettiva e i compagni di veglia continuassero il canto. E in
quel posticipo, immaginando che la morte si sia addormentata, i nuovi cantanti
si sveglieranno senza badarle, affacciandosi su papaveri che danno loro il
benvenuto, come gli incipit cananei lasciati incompiuti dai pastori di gazzelle,
occupati	
  a	
  dare	
  la	
  caccia	
  ai	
  lupi	
  e	
  sciacalli.	
  …
p.371	
  …All’improvviso,	
  una	
  pioggia	
  leggera	
  bagna	
  la	
  tua	
  anima,	
  bagna	
  le	
  farfalle.	
  
Luce, pioggerella, farfalle che svolazzano radenti alla litoranea. Le farfalle,
pensieri	
  sparsi,	
  sensazioni	
  che	
  volano	
  nell’aria.
A cura di Elvira Paietta, Gianna Maestrelli, Isabella Donati, Rossella Fortini
Englaro, Urbano Cipriani.
28
DANTE E DARWISH
LA PERLA E L’OSTRICA
La Perla è un prodotto del dolore, risultato dell'entrata di una sostanza estranea o
indesiderabile nell'interno dell'ostrica, come un parassita o un granello di sabbia.
Un'ostrica che non è mai stata ferita, in un modo o in un altro, non produce perle,
perché le perle sono ferite cicatrizzate.
O vos omnes qui transitis per viam attendite et videte si est dolor vester sicut dolor
meus. (Bibbia, Geremia,I,12 )
29
O voi che per la via d'Amore passate
attendete e guardate
s'elli è dolore alcun, quanto 'l mio, grave.
(Dante, Vita Nova, VII, 3-6)
Ahi dal dolor comincia e nasce l'italo canto. (Leopardi: ad Angelo Mai)
La mia letteratura corrisponde a un preciso momento storico: Il poeta in fin dei
conti cerca di umanizzare la storia e fa emergere la bellezza come risposta alla
crudeltà dei nostri tempi. Io sono orgoglioso di essere palestinese, ma auspico
che	
  l’occupazione non sia condizione necessaria per diventare poeta.
(Darwish – Intervista fatta a Firenze nel 2005)
Sono  tutti  e  due  poeti  dell’esilio  e della sconfitta;
Tutti e due hanno fatto esperienze di governo;
Tutti e due hanno trovato nella poesia la fuoriuscita dalla banalità del male presente
intorno a loro.
LA TRILOGIA PALESTINESE E LA DIVINA COMMEDIA A CONFRONTO:
L’Inferno  e  il  Purgatorio  di  Dante    li  apparento  al  “Diario di ordinaria tristezza” e
“Memoria   per   l’oblio”   di   Darwish;;   il Paradiso ci fa vedere Dante che si distacca
dall’”aiuola   che   ci   fa   tanto   feroci”   volando   in   cielo   con Beatrice-teologia;;   “In  
presenza  d’assenza”  Darwis supera le barriere della morte con  la  poesia  che  “vince  di  
mille  secoli  il  silenzio”, per dirla con Ugo Foscolo.
Dante è la farfalla che vola via libera:
Non  v’accorgete  voi  che  noi  siam  vermi
Nati  a  formar  l’angelica  farfalla  
che vola alla giustizia sanza schermi?
(Purgatorio, X, 24-27)
Darwish esce da se stesso, finalmente libero, verso una seconda vita:
Lascia che ti guardi, ora che ti sei staccato da me, indenne come pura prosa su di una
pietra che si tinge di verde o di giallo in tua assenza, lascia che ti guardi, ora che mi
sono staccato da te. Lascia che raccolga te il tuo nome come fanno i passanti con le
olive dimenticate, nascoste tra i sassolini. Andiamocene insieme, tu e io, in due
direzioni diverse: tu verso una seconda vita, promessa dalla lingua, in un lettore che
forse  sopravvivrà  all’impatto  di  una  cometa  con  la  terra;;  io,  verso  un  appuntamento  
30
più volte posticipato con la morte a cui, in una poesia, ho promesso un calice di vino
rosso. (Trilogia palestinese, p. 287)
Dante ci saluta dal cielo, finalmente libero:
O  insensata  cura  de’  mortali,
quanto son difettivi silogismi
quei che ti fanno in basso batter  l’ali!
Chi dietro a iura, e chi ad amforismi
sen giva, e chi seguendo sacerdozio,
e chi regnar per forza o per sofismi,
e chi rubare, e chi civil negozio,
chi nel diletto de la carne involto
s’affaticava  e  chi  si  dava  a  l’ozio,
quando, da tutte queste cose sciolto,
con  Beatrice  m’era  suso  in  cielo
cotanto gloriosamente accolto.
(Paradiso, XI, 1-12)
Darwish: Voglio cantare e poi andar via.
Voglio cantare. Sì, esatto voglio cantare questo giorno bruciato. Voglio cantare.
Trovare le parole che muteranno   la   lingua   in   acciaio   dell’anima,   una   lingua   che  
sappia   battere   questi   aerei,   questi   insetti   d’argento   scintillante.   Voglio   cantare.  
Inventare una lingua che mi sostenga, che sosterrò, la lingua che mi dia prova e a cui
darò prova della forza che ci abita, una forza capace di trionfare sulla solitudine
universale. Voglio cantare e poi andare via. (Trilogia p. 179)
Dante contempla il mondo dalla costellazione dei Gemelli (La sua):
Col viso ritornai per tutte quante
Le sette spere, e vidi questo globo
Tal,  ch’io  sorrisi  del  suo  vil  sembiante;;
e quel consiglio per migliore approbo
31
che  l’ha  per  meno;;  e  chi  ad  altro  pensa
chiamar  si  puote  veramente  probo  …  
E tutti e sette mi si dimostraro
Quanto son grandi e quanto son veloci
E come sono in distante riparo.
L’aiuola  che  ci  fa  tanto  feroci,
volgendom  ’io  con  li  eterni  Gemelli,
tutta  m’apparve  da’  colli  alle  foci;;  
poscia rivolsi gli occhi a li occhi belli.
(Paradiso, XXII, 133 sgg)
Darwish, più modestamente ma non meno acutamente, guarda i passanti dalla
finestra:
Fa’ quel che devi: difendi il diritto della finestra di guardare i passanti. Non schernirti
se  non  sei  capace  di  addurre  prove:  l’aria  è  l’aria,  non  ha  bisogno  di  certificato  del  
sangue. Non abbandonarti al rimpianto. Non rimpiangere quel che hai perso quando ti
sei assopito annotando i nomi degli invasori nel libro di sabbia. La formica racconta,
la pioggia cancella. Quando ti svegli non rimpiangere di aver sognato. (Trilogia,
p.289)
Dante rifiorisce come una pianta tramite la poesia:
Trasumanar significar per verba
Non  si  potria…
Io ritornai da la santissima onda
rifatto sì come piante novelle
rinovellate di novella fronda,
puro e disposto a salire alle stelle.
(Purg. XXXIII, 136-144)
Darwish: La poesia fa spuntare  l’erba  dalla  roccia:
“l’erba   non   è   così   fragile   come   pensiamo.   Da   quando   ha   nascosto   la   sua   ombra  
modesta  nel  segreto  della  terra,  non  si  spezza  più.  Nell’erba  spuntata  dalla  roccia  c’è  
il prodigio della parola rivelata dal mistero divino, senza clamore né squilli di
trombe.  L’erba  è  profezia  spontanea,  senz’altro  profeta  che  il  proprio  colore  opposto  
32
a   quello   della   terra   arida.   L’erba   è   fluente   poesia   di   intuizione,   semplicemente  
inafferrabile  e  inafferrabilmente  semplice.  È  l’avvicinarsi  della  lingua al significato e
il  connubio  del  significato  con  l’ospitalità  della  speranza”. ( Trilogia, p.372)
Dante: La poesia mi riporterà in patria:
Se mai continga che il poema sacro
vinca la crudeltà che fuor mi serra
del  bell’ovile  ov’io  dormì’  agnello,  
nimico ai lupi che mi danno guerra,
con altra voce ormai, con altro vello
ritornerò poeta, e in sul fonte
del mio battesmo prenderò il cappello.
(Paradiso 25,1-19 )
Darwish: Le parole valgono una patria
In questo tramonto soltanto le parole sono qualificate a riparare il tempo e il luogo
spezzati e a nominare dei che ti hanno trascurato e si sono gettati nelle proprie guerre
con armi primitive. Le parole sono le materie prime per costruire una casa. Le parole
sono una patria.
(Trilogia, pag. 336)
Dante ha problemi con i compagni di sventura:
“Tu  proverai  sì  come  sa  di  sale
lo pane altrui, e come è duro calle
lo  scendere  e  il  salir  per  l’altrui  scale.
E quel che più ti graverà le spalle,
sarà la compagnia malvagia e scempia
con la qual tu cadrai in questa valle;
che tutta ingrata, tutta matta ed empia
si farà contr'a te; ma, poco appresso,
33
ella, non tu, n'avrà rossa la tempia.
Di sua bestialitate il suo processo
farà  la  prova”  …ma,  poco  appresso,
ella,  non  tu,  n’avrà  rossa  la  tempia.”
(Paradiso XVII, 58-66)
Darwish: “Quante  incongruenze  tra  noi  palestinesi”  
“quante  incongruenze,”  ho  esclamato,  “tra  noi  palestinesi.  Ci  sono  interi  uffici  con  
tanto di aria condizionata e saloni di rappresentanza che servono solo a diffondere
calunnie maldicenze. Quel gruppuscolo si è specializzato nel commercio di martiri:
‘ce   ne   servirebbero   altri   20   per   portarci   al   livello’.   E   così   si   è   combattuto   per  
accaparrarsi  un  martire  di  cui  non  si  conosceva  l’affiliazione.  Si  è  messo  a  morte  un  
combattente   perché   ha   rifiutato   di   sparare   a   un   amico   che   militava   in   un’altra  
organizzazione. Si è buttato il suo cadavere in un pozzo abbandonato e li è rimasto
finché  una  veggente  non  l’ha  ritrovato”. (Trilogia, p.197)
Il materiale di cui si compongono le opere di Dante e Darwish comprende tutto
lo scibile a loro contemporaneo, impastato con le loro esperienze di vita:
Nel  “ poema sacro al quale han posto mano e cielo e terra”  trovi  l’impegno  politico di
Dante,  l’esilio,  i  classici  latini (Virgilio,  Ovidio,  Lucano,  Stazio,  Orazio,  Cicerone…),  
I padre della chiesa, la bibbia, la letteratura romanza, la filosofia e letteratura araba.
Nella Trilogia palestinese Darwish inserisce le vicende della patria e della famiglia,
la Bibbia, il Vangelo, la Thora, il Corano, i filosofi e saggi arabi:Abd Allah ibn
Salam,  Ka’ab,  Dahhak,  Mujahid,  Akrama.  Al-Sirri, Abi Salik e Abu Malik, Murra al-
Hamadhani,  Ibn  Mas’ud, Ibn al-Athir …
Vedi a p. 186, in Matteo XIII Gesù che, cedendo alle insistenze di una madre, le
guarisce la figlia ( leggi: Palestina), vedi a p. 200 Begin marchiato da terrorista
crudele come il Giosuè biblico ( Bibbia, libro di Giosuè, VI, 6-26).
Vedi a p. 173-74 la sura del Calamo dove si evidenziano i vaneggiamenti pseudo
religiosi dei cosiddetti saggi.
IL TEMA DELL’ESILIO
Dante  affronta  così  l’esilio:
E io, che ascolto nel parlar divino
Consolarsi e dolersi
Così alti dispersi,
34
I'essilio che m'è dato, onor mi tegno.
(mi  ritengo  onorato  di  soffrire  l’esilio    
visto che così nobili esiliati soffrono
e si consolano col loro parlare divino.)
(Dante, la canzone dell'esilio )
E ancora:
…lungi da un uomo che predica la giustizia il pagare, dopo aver patito ingiustizie, il
suo denaro ai persecutori come a benefattori.
Non è questa la via del ritorno in patria; ché se non si entra Firenze per una qualche
siffatta via, a Firenze non entrerò mai.
E che mai? Forse che non vedrò dovunque la luce del sole e degli astri? Forse che
non potrò meditare dolcissime verità dovunque sotto il cielo, se prima non mi
riconsegni alla città, senza gloria e anzi ignominioso per il popolo fiorentino? Né
certo il pane mancherà. (Dante, lettera  all’amico  fiorentino,  1215)
Darwish  affronta  l’esilio, lo sfida e lo elogia:
l’esilio  non  è  un  viaggio,  un  andare  e  tornare,  né  un  soggiornare  nella  nostalgia.  Forse  
è visita, attesa degli effetti del tempo, uscita da se stessi incontro agli altri per fare
conoscenza e stare in armonia o per tornare nella propria conchiglia.
…In  esilio  ti  scegli  uno  spazio  per  domare  l’abitudine,  uno  spazio  personale per il tuo
diario e scrivi:
il luogo non è trappola, possiamo dire: qui abbiamo una strada laterale/un
fornaio/una	
  lavanderia/una	
  tabaccheria/un	
  angolino,	
  un	
  odore	
  che	
  ricorda…
L’esilio è un ponte tra le immagini per attraversare la fragilità, è il narciso sottoposto
al testo della superbia e della modestia al contempo, è la disputa dei diversi, è
l’accordo  dei  simili.  Non  tutto  ciò  che  qui  ti  rifiuta,  laggiù  ti  accoglie.  Non  tutto  ciò  
che somiglia al laggiù, qui chi accoglie. E  non  dimenticare  di  ringraziare  l’esilio  con  
magnanimità:  “ti  elogerò, esilio, degno di elogio, laggiù, sotto un fico che mi darà
ospitalità, presso la casa di mia madre, come un passante in un autunno
passeggero”.(Darwish, Trilogia, p.334).
Post scriptum: Concludiamo con le seguenti parole di Dante che dedichiamo ai
palestinesi figli della Nakba, esiliati in patria e dispersi in ogni parte del pianeta
Terra:
“Soffro  per  tutti  coloro  che  soffrono,  ma  maggior  pietà  provo per coloro che visitano
la  loro  patria  soltanto  in  sogno”.  (Dante, De Vulgari Eloquentia, II,6)
Firenze,  BibliotecaNova  dell’Isolotto,  12  marzo  2015 Urbano Cipriani
35

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Fascicolo Darwish

  • 1. 1 BIOGRAFIA DI MAHMUD DARWISH Birwa 13.03.1941 – Houston 9.08.2008
  • 2. 2 Mahmoud Darwish nacque nel 1941 nel villaggio di al-Birwa, situato in Alta Galilea a est della città di Akko (Acri). Il suo villaggio natale oggi è distrutto e non più presente sulle carte. Nel 1948 - durante il primo conflitto arabo- israeliano - i genitori di Mahmoud per sfuggire ai rischi della guerra cercarono rifugio in Libano con il resto della popolazione, ma furono tra i pochissimi che riuscirono rientrare nel loro paese, illegalmente, dopo appena un anno. Nel frattempo però la loro terra d'origine era diventata parte dello stato di Israele, i loro beni confiscati. In questa condizione fin da bambino Darwish si trovò nello status legale di “alieno”,  cittadino  che  risiede  come  “ospite  illegale”.  Da  giovane  fu  arrestato  e   condannato più volte a pene detentive, per la sua presenza in Israele senza permesso e per aver recitato poesie sovversive in pubblico. Studiò peraltro la lingua ebraica israeliana, perfezionando la conoscenza della sua lingua natia. Cominciò l'attività pubblicistica a diciannove anni. Iscritto all'università non ebbe la possibilità di laurearsi a causa delle interruzioni degli studi nei periodi trascorsi in prigione, anche se in Unione Sovietica, a Mosca, si costruì nel 1971 una solida preparazione linguistico-letteraria. Pubblicò la sua prima raccolta di poesie, Foglie d'Ulivo, nel 1964. È un'opera che trasfigura in quadri di forte impatto emotivo l'identità nazionale palestinese. Divennero famose alcune poesie che raccontano la condizione dolorosa e folle dell'esilio. La carriera poetica di Mahmoud Darwish, dall'epoca della prima pubblicazione, mantiene legami ideali con la lotta armata del popolo palestinese per il ritorno alla sua terra (l'attività dei gruppi armati cominciò anch'essa nel 1964). La poesia di Darwish assumeva un ruolo di riferimento collettivo per la causa palestinese. Fu  direttore  del  quotidiano  locale  “Ittiḥād”  (Unità)  fino al 1970. In quell'anno abbandonò definitivamente la Palestina/Israele per un periodo di studio in Unione Sovietica. Da allora trascorse la sua vita risiedendo per periodi diversi nelle principali città del mondo arabo: Il Cairo, Beirut, Tunisi, Amman. A Beirut   diresse   un   mensile   palestinese   (Shuʿūn   Filasṭīniyya,   "Affari   Palestinesi"), quindi divenne direttore della rivista letteraria palestinese "al- Karmel", pubblicata da un dicastero dell'OLP. Visse per un lungo periodo a Beirut fino al 1982, quando la città fu assediata dall'esercito israeliano. Darwish dovette abbandonare il Libano insieme allo Stato Maggiore e al Comitato Esecutivo dell'OLP. Dopo un periodo di esilio a Cipro, visse tra Beirut e Parigi. Lavorò anche al Cairo presso il quotidiano nazionale "al¬ Ahrām".  
  • 3. 3 La seconda metà degli anni ottanta fu l'epoca del suo maggiore impegno politico. Nel 1987 fu eletto nel Comitato Esecutivo dell'OLP. Sempre nell'87 Darwish partecipa a Firenze alla rassegna "Poeti del Mediterraneo per la Pace", organizzato dagli Enti locali e dalla rivista culturale Collettivo R. ConDarwish ci sono lo spagnolo Goytisolo, l'italo-jugoslavo Damiani, l'israeliana Ravilovich, il greco Apostolatos. Mahmoud Darwish ha redatto il testo della Dichiarazione d'Indipendenza dello Stato Palestinese, documento promulgato nel 1988 e riconosciuto da diversi stati. Solo nel 1996, dopo 26 anni di esilio, ottenne un permesso per visitare la sua famiglia nello stato di Israele. Fu nuovamente direttore di "al-Karmel" (rifondata nel frattempo) e fu eletto nel Consiglio Legislativo Palestinese nei Territori, oggi tuttora occupati. Mahmoud Darwish è morto all'età di 67 anni a Houston (Texas) il 9 agosto 2008, per le complicanze di un intervento al cuore. Già nel 1984 e nel 1998 aveva subìto interventi al cuore. Mahmoud Darwish è la prima e, ad oggi, unica personalità palestinese dopo Arafat alla quale sono stati concessi i funerali di Stato. SCHEDA DEL LIBRO A cura di Elisabetta Bartuli Feltrinelli, Milano, 2014 Una trilogia palestinese raccoglie tre scritti in prosa sostanzialmente autobiografici  che  disegnano  un  affresco  storico  e  culturale  della  Palestina.  E’   un testo impegnativo sia sotto il profilo emotivo, sia sotto quello della lingua e della densità culturale, con una corposità forte dal punto di vista teoretico, sebbene  il  suo  incedere  sia  soave  e  molto  scorrevole.  E’  anche  un  grande   affresco storico-sociale, quello di un popolo costretto ad essere profugo in casa propria. Mai testo potrebbe essere più attuale in questo drammatico frangente nel quale la Striscia di Gaza è tornata ad occupare spesso i nostri telegiornali, con alcune date cruciali quali il 1948, la strage di Qasim del 1956, il 1967, la strage  di  Damur  del  1976,  l’invasione  del  Libano  da  pare  di  Israele  nel  1982.   Un’altra  delle  ragioni  per  leggerlo  è  la  profondità  dell’analisi  sulla  condizione   umana   in   situazioni   drammatiche     nelle   quali   l’uomo   si   trova   in   contesti   di  
  • 4. 4 sradicamento come profugo, di violenza permanente come carcerato, allo stesso tempo perseverante nel coltivare la propria umanità, nel segno della dignità e del rispetto. Infine, le pagine di Darwish sono una grande riflessione sul valore della scrittura e in particolare della poesia; su come la parola dia voce e consistenza al pensiero rendendo la realtà quella che è. Il poeta, come Dio è creatore quando dà i nomi alle cose e nominandole le fa essere. Quello che colpisce in Darwish è che il suo pensiero ben si adatta a chiunque,  anche  all’uomo  più  semplice  perché  in  fondo  le  cose,  la  vita,  sono   per tutti uguali; solo che cambia il modo e la consapevolezza di guardarle. In tal  senso  la  missione  del  poeta  si  rende  sociale  e  ‘utile’  nel  senso  più  stretto   al nostro vivere, capace di raccontare attraverso una tazzina di caffè uno stile di vita. Quanto alla lingua del poeta palestinese, le sue liriche sono diari intimi dove il confine con la prosa sfuma in versi di grande modernità, senza ornamento nel senso classico, anche se utilizza spesso il refrain come nella lirica  che  chiude  la  Trilogia  “Il  giocatore  d’azzardo”:  ‘Chi  sono  io  per  dirvi  quel   che  vi  dico?’.  In  questa  domanda  e  nella  sequenza  di  negazioni  che  fanno   seguito  c’è  tutta  l’umiltà  del  poeta  di  fronte  alla  vita  che  in  fondo  anche  nello   stato più penoso è un dono. Questo vale di per sé ed è sufficiente nel senso che  l’esistenza  non  ci  deve  altro.  In  fondo  l’azzardo  è  il  caso  che  gioca  con   noi. Esistiamo per un caso, perché Dio ci ha fatti essere mentre avrebbe potuto non farlo o non sceglierci, perché siamo scampati ad un incidente. Quello che è da sottolineare della lirica di Darwish è che non si tratta di fatalismo: nessuna rinuncia, ma una profonda autentica fede che porta all’umile  accettazione  della  realtà  che  non  toglie  responsabilità  all’uomo,  anzi   lo stimola a lottare per la libertà anche quando il risultato è una condanna. Nei suoi versi non si può non scorgere la traccia lasciata dalla storia, quella precarietà e fragilità che attraversa un popolo che ha nome Palestinese. L’edizione  curata  da  Elisabetta  Bartuli  riunisce  per  la  prima  volta tre testi che rappresentano tre momenti diversi della vita di Mahmud. Il primo testo che incontriamo è Diario   di   un’ordinaria   tristezza:   Darwish   ha   trent’anni   e   dopo   aver già pubblicato cinque raccolte di poesie, trascorso un periodo di studi a Mosca  (l’Urss  del  tempo  ospitava  molti  dissidenti.  Sono  gli  anni  dell’amicizia   sovietica  per  molti  paesi  arabi  come  l’Algeria  ad  esempio)  e  un  soggiorno  al   Cairo, prende casa a Beirut. Prima aveva sempre vissuto in Palestina dove aveva provato la condizione di profugo  incarcerato  più  volte.  Con  quest’opera   nella quale racconta tutto il suo travaglio chiude secondo molti critici la fase più patriottica del suo impegno iniziato nel 1964 con al struggente lirica “Carta  d’identità”,    con  il  suo  ‘ritornello’,  ‘Scrivi!  Sono  un  arabo…’  gravido  di   futuro e preludio di quello che sta succedendo in quei luoghi. Un episodio importante è certamente la bruciante sconfitta ad opera di Israele del 1967 che ha determinato una cesura nella storia del Medioriente.
  • 5. 5 Nel 1987 è la volta di Memoria  per  l’oblio. Darwish ha lasciato Beirut e, dopo una   breve   sosta   a   Tunisi,   quindi   al   Cairo,   si   trasferisce   a   Parigi.   E’   ormai   consacrato come uno dei più grandi poetici arabi. Si sente il travaglio dell’elaborazione   della   sua   poetica   di   pari   passo con il suo cammino esistenziale   che   diventa   una   riflessione   articolata   e   meditata,   non   più   ‘a   caldo’.   Infine In   presenza   d’assenza troviamo una grande riflessione e un testamento   poetico  sull’arte   e   le   possibilità   della   parola.  Ad   esso   è   affidato   anche il  canto  d’amore  per  una  poetessa  israeliana  di  cui  non  rivela  il  nome.     Lei  diventa  il  simbolo  dell’amore  che  è  libertà  e  vita,  che  spesso  è  struggente   dolore. Il libro merita più livelli di lettura. Il primo piano è certamente quello storico che parte nel 1948 quando la nascita dello Stato di Israele pone la questione palestinese   dove   emerge   la   dignità.   Scrive   Darwish   “...per   carattere   e   per   dignità, pur di conservare sempre e ovunque il proprio diritto, tutti i palestinesi in Israele hanno preferito vivere in una prolungata situazione asfissiante, anziché  trovare  un  po’  di  sollievo  rinunciando  a  un  pezzo  di  terra…  Quella  dei   padri  era  un’attesa  negativa,  per  loro  la  terra  significava  cose  concrete…  Per   i figli, ossia per la mia generazione, in aggiunta a questo, terra significava futuro e campo di lotta. Se la nostalgia è un potenziale umano passivo, un’arma   negativa,   la   lotta   no”.     Nell’ultima   parte   del   libro   parlando della nostalgia  la  descrive  come  un  dolore:  “Però  non  è  un  dolore  grave  perché  ci   ricorda  che  siamo  malati  di  speranza”:  un    passaggio  magnifico,  un  grande   inno alla vita. Sul tema della terra e della patria ci sono pagine molto dense dove ad una riflessione più politica si unisce sempre il lato del vissuto e l’amore  per  il  mare,  quel  mar  Mediterraneo  unico  che  ci  unisce  anche  se  a   volte  ci  separa.    Di  tutt’altro  respiro  l’elogio  del  caffè  che  per  chi  lo  ama  è  ‘la   chiave  del  giorno’,  scrive  Mahmud,  e dal suo gusto si risale alla personalità e alle inclinazioni di chi lo prepara. tema del caffè è lo spunto per raccontare la pena per la privazione della bevanda in carcere, il senso di colpa per non aver voluto dividerlo con un compagno e la giusta punizione avvertita quando un carceriere rovescia il thermos che sua madre gli porta in visita. Darwish è così, riesce a parlare del cielo citando il sottosuolo e viceversa. Sulla stessa vena racconta del calcio, una follia che però riesce a far sedere insieme i nemici  e  perfino  a  sospendere  la  guerra  e  sono  righe  di  un’attualità  estrema.   Nelle  pagine  di  Darwish,  infine,  c’è  anche  una  grande  spiritualità  che  affiora   naturalmente, anche se bene si intuisce la sua conoscenza documentata dei testi   sacri,   l’averla   metabolizzata   con   licenza   poetica   e   c’è   tanto   Cristianesimo  accanto  all’islam,  perché,  come  ha  scritto  qualcuno  ‘pensiamo   la  Palestina  come  un  mondo  arabo  ma  è  una  terra  di  cristiani’.   (Estratto da un articolo di Ilaria Guidantoni)
  • 6. 6 Antologia di passi estrapolati  dall’opera  edita  da  Feltrinelli,  2014 (Per ciascun estratto sono indicate le pagine del libro). Prima parte: Diario di ordinaria tristezza. (prima pubblicazione:1973) Seconda  parte:  Memoria  per  l’oblio.  (p.p.  1987) Terza  parte:  In  presenza  d’assenza. (p.p. 2006) Vorrei un funerale con mazzi di rose rosse e gialle vorrei che a celebrare fosse qualcuno di poche parole con la voce un po' roca, qualcuno che sappia simulare sufficiente tristezza e che alterni la sua orazione alla registrazione della mia voce; vorrei un funerale tranquillo semplice e partecipato. Pag.159 1 - DIARIO DI ORDINARIA TRISTEZZA p.19 Pag.7 Quando, nel 1973, dà alle stampe diario di ordinaria tristezza, Darwin ha     trent’anni   ,   ha   pubblicato   cinque   raccolte   di   poesie   e,   al   termine   di   un   biennio  scivolato  via  tra  gli  studi  all’Università  di  Mosca  e  un  lungo  soggiorno   al Cairo, ha preso casa a Beirut. Prima aveva sempre vissuto in Palestina. In Palestina era nato, in Palestina aveva trascorso infanzia e adolescenza, in Palestina aveva studiato, era diventato un giovane uomo e aveva dato forma alla sua coscienza politica. Prima profugo, poi presente-assente e arabo di Israele senza cittadinanza, più volte incarcerato più volte condannato agli arresti domiciliari nella sua casa di Haifa, aveva patito nella sua carne la condizione vissuta dalla  sua  gente:  l’esilio,  l’esilio  in  patria,  la   sete di libertà,  le  miserie  del  vivere  quotidiano,  l’atroce  dolore  della  disfatta   del giugno 1967. Pag, 8 Con diario di ordinaria tristezza chiude quella che i critici chiamano la fase rivoluzionaria patriottica del suo percorso poetico, una fase che si era inaugurata nel 1964 con la sua poesia forse più famosa: carta    d’identità  : Scrivi sono arabo/defraudato delle vigne dei miei avi /E della terra che coltivavo/Insieme ai miei figli/A noi e a tutti i nostri posteri/Non hai lasciato/Che queste pietre. Più tardi nel 1987 quando pubblica memoria  per  l’oblio Darwish ha lasciato Beirut e dopo una breve sosta prima a Tunisi poi al Cairo vive a Parigi.
  • 7. 7 L’altro,    il  nemico,  lo  straniero Il rapporto di M. Darwish con  l’altro,  il  nemico,  lo  straniero,  è  parte  importante   dell’analisi  dell’opera  di  M.  Darwish. p.13 L’altro,  per  Darwish.  non  è  solo  Rita.  L’altro  sono  tutte  le  persone,  illustri   e  sconosciute,  che  pervicacemente  allinea  una  accanto  all’altra  nel  secondo e terzo capitolo del diario di ordinaria tristezza in cui la denuncia dell’ideologia  sionista  e  le  distorsioni  del  pensiero  politico  sono  supportate  da   una profonda conoscenza della società e della psiche israeliane. p. 54 - il senso di colpa Nella letteratura ebraica moderna si trovano vari esempi di trasfigurazione del senso di colpa. Tuttavia è un sentimento che emerge dalla fiducia in se stessi, una sorta di confessione del più forte, fuori dai denti, in cui forza e vittoria si mescolano a un velo di cipria liberalista e umanista, ma solo molto più tardi e a strage avvenuta. E a ogni modo non sta a significare né pentimento né rammarico. Somiglia molto di più ai monologhi interiori dell’assassino,   a   omicidio   commesso.   Come,   per   esempio,   l’intellettuale americano che descrive la tragedia dei pellerossa simpatizzando con i vinti. Questa conclusione è tratta dalla lettura del romanzo di Ioshua, Di fronte ai boschi, Torino 1999 (p.52-54 della Trilogia) Se ne consiglia la lettura. Cosa significa la parola patria: p.55 La carta geografica non ha la risposta perché somiglia molto più a un disegno astratto. La tomba di tuo nonno non è una risposta, perché un boschetto può farla scomparire. Non hanno occupato soltanto la terra e il lavoro, ma anche la tua psiche, il tuo carattere e quello che ti lega alla patria tanto da farti sorgere domande sul significato di patria. Ti  hanno  strappato  la  terra  da  sotto  i  piedi,  così  l’hai  nascosta  sotto  la  pelle.   Ti hanno torturato, ma hai confessato un amore ancora più folle per quel che ha causato la tua tortura. Sotto  lo  stridio  delle  catene,  l’alienazione  che  ti  viene  da  ogni  singolo  giorno,   si trasforma in una tregua con il vento. In prigione ti abbraccia la libertà, in prigione ti riempi anche di patria. La lotta è la risposta. Se combatti appartieni a  qualcosa.  La  patria  è  lotta.  Tra  valigia  e  memoria  non  c’è  altra  soluzione   che la lotta. Diritto, libertà, appartenenza, merito si dichiarano soltanto con la lotta.
  • 8. 8 Palestina ( vedi pagine 39-57). p.42 - molto presto la parola Palestina è diventata proibita. Se tu ammetti di essere venuto dal Libano sei considerato un infiltrato clandestino: non ottieni più  la  carta  d’identità.  A  cinque  minuti  di  distanza  da  questo  paese  passa  la   strada che da Acri porta a Safed. Per te non è una strada, ma un confine che divide la terra del tuo esilio e del tuo rifugio dalla tua patria. A sud della strada c’è   la   terra   di   tuo   padre   e   di   tuo   nonno   oggi   coltivata   da   immigrati   ebrei   yemeniti. Nel momento in cui sono arrivati lì definendo il loro destino e quello dei loro figli, in quello stesso momento hanno definito anche il tuo destino. Nel momento in cui loro sono diventati cittadini tu sei diventato profugo. p.44 Un soldato israeliano, un poeta, mi ha raccontato che soltanto un giorno in vita sua si era sentito straniero in Palestina, quando era entrato in un paese arabo in Cisgiordania dopo la guerra del 1967. Era in uniforme e per strada aveva visto una bambina che lo guardava in modo da fargli tremare la terra sotto i piedi. Da quegli occhi, da quello sguardo inspiegabile si era reso conto che lui era un occupante. p.117-120 (estratto) Silenzio per Gaza Si  è  legata  l’esplosivo  alla  vita  e  si  è  fatta  esplodere.  Non  si  tratta  di  morte,   non si tratta di suicidio. È il modo in cui Gaza dichiara che merita di vivere. Gaza non si vanta delle sue armi, né del suo spirito rivoluzionario, né del suo bilancio. Lei offre la sua pellaccia dura, agisce di spontanea volontà e verso il suo sangue. Gaza non è un fine oratore, non a gola. È la sua pelle a parlare attraverso il sangue, il sudore, le fiamme. Per questo, il nemico lo odia fino alla morte, la teme fino al punto di commettere crimini e cerca di affogarla nel mare, nel deserto, nel sangue. Per questo gli amici suoi cari la mano con un pudore che sfiora quasi la gelosia e talvolta la paura, perché Gaza e Barbara lezione e luminoso esempio sia per i nemici che per gli amici. Gaza non è la città più bella. Il suo litorale non è più blu di quello di altre città arabe. Le sue arance non sono dei migliori del bacino del Mediterraneo. Gaza non è la città più ricca. (Pesce, arance, sabbia, tende abbandonate dal vento, merce di contrabbando, braccia noleggio.) Non è la città più raffinata, nella più grande, ma equivale alla storia di una nazione. Perché agli occhi dei nemici è la più ripugnante, la più povera, la più disgraziata, la più feroce di tutti  noi.  Perché  è  la  più  abile  a  guastare  l’umore  e  il  riposo  del  nemico  ed  il   suo incubo. Perché arance esplosive, bambini senza infanzia, vecchi senza vecchiaia, donne senza desideri. Proprio perché, nella più bella, la più pura, la  più  ricca,  la  più  degna  d’amore  tra  tutti  noi. Facciamo torto a Gaza quando la trasformiamo in un mito, perché potremmo odiarla scoprendo che non è niente di più di una piccola e povera città che resiste. Faremmo torto a Gaza se la glorificassimo. Perché la nostra fascinazione per lei ci porterà ad aspettarla. Ma Gaza non verrà da noi, non ci libererà. Non ha cavalleria, né
  • 9. 9 aeronautica, né bacchetta magica, né uffici di rappresentanza nelle capitali straniere. In un colpo solo, Gaza si scrolla di dosso i nostri attributi, la nostra lingua e i suoi invasori. Gaza ha circostanze particolari e tradizioni rivoluzionarie particolari. La resistenza a Gaza non si è trasformata in una professione. La resistenza a Gaza non si è trasformata in una istituzione. Non ha accettato ordini da nessuno, non ha affidato il proprio destino alla firma né al marchio di nessuno. La ferita di Gaza non è stata trasformata in pulpito per le prediche. Per questo Gaza sarà un pessimo affare per gli allibratori. Per questo sarà un tesoro etico e morale inestimabile per tutti gli arabi. La cosa bella di Gaza è che le nostre voci non la raggiungono, niente la distoglie. Niente allontana il suo pugno dalla faccia del nemico. Né il modo di spartire le poltrone nel congresso nazionale, né la forma di governo palestinese che fonderemo nella parte est della luna o nella parte ovest di Marte, quando sarà completamente esplorato. Niente la distoglie. È dedita al dissenso: fame e dissenso, site e dissenso, diaspora e dissenso, tortura e dissenso, assedio e dissenso, morte e dissenso. I nemici possono avere la meglio sul Gaza. Il mare grosso può avere la meglio su una piccola isola. Possono tagliarle tutti gli alberi. Possono spezzarle le ossa. Possono piantare i carri armati nelle budella delle sue donne e dei suoi bambini. Possono gettarla a mare, nella sabbia o nel sangue. Ma lei: non ripeterà le bugie. Non dirà sì agli invasori. Continuerà a farsi esplodere. Non si tratta di morte, non si tratta di suicidio. Ma è il modo in cui Gaza dichiara che merita di vivere. (Scritto nel 1973!) LE DUE MEMORIE p.45 La memoria ebraica ha trasformato una delle sue pretese basilari in rivendicazione di diritto alla Palestina, eppure è incapace di riconoscere il diritto altrui e di apprezzarne il senso della memoria. Gli israeliani rifiutano di convivere con la memoria palestinese, rifiutano di riconoscerla, nonostante uno  degli  slogan  nazionali  ebraici  sia  “non  dimenticheremo”. Mantenere la coscienza collettiva in stato di perenne ricordo per polarizzare il sentimento nazionale è una delle materie fondamentali insegnate nella scuola israeliana, la prima nella scala delle priorità sioniste. Ripetono sempre:   “possa   io   dimenticare   la   mia   mano   destra, se ti dimentico, Gerusalemme!”.  Dopo  l’olocausto  a  cui  gli  ebrei  europei  sono  stati  sottoposti   dal  nazismo,  il  loro  motto  fondante  è  diventato  “non  dimenticheremo  e  non   perdoneremo”.   Ogni anno gli israeliani commemorano le proprie vittime. Israele si ferma. Ci sono un museo specifico, un insegnamento specifico, un programma specifico  per  ricordare  l’olocausto  alle  nuove  generazioni.  Nel  libro  di  Amos  
  • 10. 10 Elon intitolato Israeliani,   c’è   un   capitolo   specifico   dedicato   a   questo   argomento   che   dice:   “Agli   occhi della giovane generazione post-sionista, l’olocausto   ha   perciò   confermato   uno   dei   temi   fondamentali   del   sionismo   classico del 19º secolo: senza un paese proprio si è la feccia della terra, preda   inevitabile   delle   belve”.   Nel   libro   viene   riconosciuto   il   fatto che la politica  israeliana  strumentalizza  l’olocausto  come  ricatto  emotivo. La cultura israeliana insiste nel saturare i cittadini con le memorie dell’Olocausto   avvenuto   in   Europa   per   acuire   la   sensazione   di   esilio   e   isolamento dal resto del mondo. Sensazione essenziale nella psicologia e nel temperamento israeliani. Alimentare la memoria israeliana ha un intento politico preciso: acuire la rivendicazione sionista della Palestina inculcando negli israeliani la convinzione che la minaccia dello sterminio rimane costante e   che   tornare   e  rifugiarsi   in   “terra   d’Israele”   è   l’unica  garanzia   di  sicurezza   storica e politica. p. 46 L’olocausto  e  sua  utilizzazione  a  fini  politici Non dimenticare le stragi naziste è un dovere di tutti, non soltanto degli ebrei. Qualsiasi livello di antagonismo arabo-israeliano si sia raggiunto, nessun arabo ha il diritto di simpatizzare con il nemico del proprio nemico, perché il nazismo è nemico di tutti i popoli. E questa è una cosa. Però Israele sfoga i suoi rancori su un altro popolo chiedendo ai palestinesi e a qualsiasi altro arabo di pagare il prezzo di crimini che non hanno commesso. E questa è un’altra   cosa. Gli israeliani si vantano di fronte al mondo di essere i primi profughi   ed   esiliati   nella   storia   dell’umanità,   fino   al punto di trasformare questo attributo in un segno distintivo. Però sono completamente incapaci di comprendere che anche altri possono possedere lo stesso senso. Non è crudele affermare che il comportamento dei sionisti contro il popolo palestinese è paragonabile alle pratiche naziste applicate contro gli stessi ebrei. Non è crudele affermare che il comportamento israeliano e quello del movimento sionista nei rapporti internazionali strappano proprio di bocca il commento: commerciano con il sangue delle vittime ebree. Con i soldi e l’equipaggiamento  ricevuti  in  risarcimento  delle  vittime  del  nazismo  uccidono   un altro popolo. Dunque non è crudele nemmeno affermare che il modo in cui Israele commemora le vittime del nazismo è caratterizzato dal ricatto emotivo;;  in  quanto  saturare  gli  israeliani  tramite  il  senso  dell’olocausto  spinto   all’eccesso   e   contemporaneamente   tramite   il   bisogno   di   vendicarsi   non   del   proprio   carnefice   ma   di   un’altra   vittima,   ossia   il   popolo   palestinese,   è   un   obiettivo politico. il sionista arrogante non si vergogna di vantare che la perdita di 6 milioni di ebrei, o giù di lì, gli è valsa una patria. (Mahmud Darwish, Una trilogia palestinese, Feltrinelli ed., 2014, p.46-47)
  • 11. 11 KAFR QASIM p.79 Nel   1956   alla   vigilia   dell’aggressione   tripartita anglo franco israeliana contro l’Egitto,  il  colonnello  Shadmi  convoca  il  colonnello  Malinki  nel  quartier  generale   assegnandogli la missione per il suo distaccamento. È una di quelle missioni affidate alla guardia di frontiera nel distretto centrale con l’ordine  operativo  di   imporre il coprifuoco dalle cinque di sera alle sei di mattina nel paese di Kafr Qasim e in quelli circostanti. Shadmi: non è ammessa alcuna eccezione al coprifuoco. Svolgete sorveglianza con pugno di ferro. Non arrestate i trasgressori, sparategli. Meglio ucciderli piuttosto che incorrere nelle complicazioni che comportano gli arresti. Malinki: che ne sarà dei cittadini che, tornando   dal   lavoro   ignari   dell’ordine   di   coprifuoco,   con   tutta   probabilità   s’imbatteranno  delle  pattuglie  della  guardia  di  frontiera  all’ingresso  del  paese? Shadmi:  Niente  sentimentalismi.  Pace  all’anima  loro. Il seguente dialogo si svolge tra Malinki e i suoi soldati: cosa dobbiamo fare dei feriti? Malinki: Non è a far vostro. Non rimuoveteli. Non ci saranno feriti. Che cosa dobbiamo fare con donne e bambini? Malinki: Niente sentimentalismi. Che cosa dobbiamo fare con chj torna dal lavoro? Malinki:  Stesso  trattamento  per  tutti.  Pace  all’anima  loro.  Così  ha  dato  ordine  il   comandante. A   un   bambino   di   otto   anni,   di   nome   Talal   Shakir   ‘Issa,   scappa   una   capra   dal   cortile di casa e finisce in strada. Né il bambino né la capra sanno che il coprifuoco in paese è già in vigore da qualche minuto. Il bambino corre dietro alla capra, le pallottole gli scrosciano addosso e lo colpiscono a morte. Il padre raggiunge il figlio e il fucile spara portando a termine la propria missione. La madre corre verso il figlio e marito e il fucile spara portando a termine la propria missione. La figlia Nura raggiunge genitori e fratello e il fucile spara portando a termine la propria missione. Il superstite: Quel giorno lavoravo in un frutteto con due miei cugini. Poco dopo le quattro avevamo terminato e stavamo tornando al paese in bicicletta. Per strada, abbiamo incontrato   altri   braccianti,   ci   hanno   raccontato   che   in   paese   c’era   il   coprifuoco e sparavano, ma nessuno sapeva il perché. Dopo qualche esitazione
  • 12. 12 abbiamo deciso di proseguire. Nel frattempo eravamo diventati 15. Siamo arrivati a qualche chilometro dal paese, senza essere seriamente preoccupati. Immaginavo   che   alla   peggio   ci   saremmo   imbattuti   in   Blum,   l’ufficiale   della   guardia  di  frontiera.  Magari  ci  avrebbe  umiliato  e  picchiato  un  po’,  come  al  solito,   ma non mi sarei mai aspettato qualcosa di diverso. Poco dopo abbiamo sentito degli spari e mi sono reso conto che la faccenda era pericolosa. “Torniamo   indietro”,   ho   detto   a   mio   cugino. Lui mi ha fatto coraggio. All’improvviso   un   uomo  della  guardia  di  frontiera  ci  ha  sbarrato  la  strada:  “alt”. Siamo scesi dalle biciclette. Il soldato ci ha ordinato di mettersi in fila: “di  dove  siete?” Di Kafr Qasim, abbiamo gridato in coro. Dove eravate? Al lavoro. È   indietreggiato   di   5   m,   quando   è   stato   all’altezza   dei   due   commilitoni   che   imbracciavano le mitragliatrici, ha gridato: falciateli. Non ho creduto a quel che stava succedendo, finché le pallottole non hanno cominciato a pioverci addosso. La prima raffica mirava alle gambe, la seconda più in alto. Sono caduto a terra con gli altri. …  Poco  dopo  è  arrivato  un  camion. Gli israeliani lo hanno fermato e hanno ordinato di scendere a tutti i passeggeri. Si trattava per la maggior parte di braccianti della ditta agricola Osamia, in seguito ho saputo che erano 23. I tre assassini sono tornati verso di me e verso gli altri ciclisti uccisi e hanno cominciato ad ammassare i corpi in un mucchio a 3 m di distanza. Davano il colpo di grazia ai feriti con le pistole. Ho stretto i denti per non gridare, fingendo di essere morto. Mi hanno trascinato per aggiungermi al mucchio e si sono allontanati. Dopo è arrivato un altro carretto con due persone a bordo. Hanno ammazzato anche loro. Ho  visto  i  tre  assassini  sedersi  al  pozzo.  Dopo  un  po’  è   arrivato un altro camion. …   Più   tardi   ho   saputo   che   dentro   c’erano   quattro   ragazzi e tredici ragazze dai 12 anni in su. All’improvviso  di  tre  assassini  hanno   iniziato a correre dietro al camion, lo hanno bloccato e hanno intimato a tutti i passeggeri di scendere.. …  I  fischi  delle  pallottole  si  mescolavano  agli  strilli  delle   ragazze e ai tonfi dei corpi che cadevano a terra. Dagli atti del processo: avvocato: è vero che lavora al servizio del paese e che per tutta la vita avuto la sensazione che gli arabi sono nostri nemici? Soldato: sì, è vero. Avvocato: è vero che ha questa sensazione sia verso gli  arabi  d’Israele  che  verso   quelli fuori da Israele?
  • 13. 13 Soldato: sì. Non faccio differenza. Avvocato:  è  vero  che  se  non  avesse  eseguito  l’ordine  di  uccidere  tutti  gli  arabi   che erano fuori casa si sarebbe sentito un traditore dello spirito inculcato dall’esercito e dalla guardia di frontiera? Soldato: sì, è vero. Giudice: supponga che fosse accaduto quanto segue a Qasim: dopo le cinque di sera una donna la chiama, sicuramente non costituisce un pericolo né una minaccia per la sicurezza, la chiama soltanto per chiedere il permesso di tornare a casa. Supponiamo per esempio che siano le cinque e venti e quella donna sia a 10 metri da casa sua e le chieda il permesso di entrarci. Che cosa farebbe? Soldato: non glielo permetterei. Giudice: che cosa farebbe? Soldato: se fosse per strada le sparerei. Il   giudice:   ma   non   c’è   alcun   pericolo.   Non   è   altro   che   una   persona   che,   o   per   errore o perché non sa che vige il coprifuoco, si dirige verso di lei e le chiede il permesso di attraversare la strada. La domanda è: lei, nonostante questo, ucciderebbe chiunque si presentasse oppure farebbe distinzione e non sparerebbe in casi specifici? Soldato: non farei distinzione. Giudice: ucciderebbe chiunque? Soldato: sì. Giudice: persino donne e bambini? Soldato: sì. Giudice: ucciderebbe chiunque vede? Soldato: sì. …  pag.  90 Il processo si è svolto rapidamente. Il tribunale ha trovato Shadmi colpevole soltanto  di  “un  errore  tecnico”,  per  cui  è  stato  condannato  a  una  tirata  d’orecchie   e   all’ammenda   di   un   centesimo. Il crimine di Kafr Qasim è stato un crimine pianificato  ed  eseguito  “per  futili  motivi”.  Un  crimine  fine  a  se  stesso.  Ossia  la  più   alta forma di crimine mosso da istinti di omicidio e di vendetta. Il famoso terrorista Menachem Begin alludeva a questo tipo di violenza armata quando scriveva che i metodi violenti a cui hanno fatto ricorso dei sionisti prima del
  • 14. 14 1948   erano   l’unico   modo   efficace   per   assicurare   gli   obiettivi   nazionali   in   Palestina  e  per  “saziare  la  brama  repressa  di  vendetta  degli  ebrei”.  Questo  prima   del 1948.   Perché   Kafr   Qasim,   dunque,   nel   1956?   Forse   perché   l’assioma   esistenzialista   dei   terroristi   sionisti   “combatto   dunque   sono”   ha   bisogno   di   pratica costante e continue dimostrazioni. O forse perché il sionista israeliano che nutre un desiderio represso di vendetta, come afferma Begin, ha bisogno di rigenerarsi in un unico modo, ossia con la guerra, e di riempire la propria esistenza con nuove ragioni per distinguersi, ossia uccidere, uccidere, uccidere. “Sii  mio  fratello,  altrimenti  ti  uccido”  aggiunge  il filosofo del crimine. E siccome gli arabi sotto il giogo israeliano non riescono a fraternizzare con il loro assassino,  il  cerchio  dell’omicidio  non  si  chiuderà  mai. Come non avranno mai fine nel pensiero sionista le innumerevoli giustificazioni della violenza armata ispirate persino dalla religione. Infatti, il Giosuè biblico è diventato un eroe israeliano contemporaneo per la ferocia con cui trattava i non ebrei. Il popolo arabo in Palestina ha saputo come vendicare i propri figli, si è aggrappato alla patria  con  le  unghie  e  con  i  denti  e  ha  urlato  agli  invasori:  “Non  firmerò  l’atto  di   perdono”. Le autorità hanno continuato a vendicarsi di questo popolo, raggiungendo  l’apoteosi  della  vendetta  con  l’inaugurazione  della  città  del  furto,   Karmiel, fondata sulle macerie di tre villaggi arabi in Galilea proprio il giorno dell’anniversario  del  massacro  di  Kafr  Qasim. COLLOQUIO TRA UN GIOVANE PALESTINESE E UN GIOVANE ISRAELIANO p.62 "Scriviamo una pièce insieme? “Va bene scriviamola”. "Cerchiamo un punto d'incontro?" "Va bene, cerchiamolo. " "Svisceriamo per bene la questione?" "Va bene, svisceriamola. " "Una casa contesa potrebbe essere il fulcro della pièce?" "Certo, potrebbe." "Ci incontriamo tra un mese?" " A tra un mese." In quel momento, nel campo profughi, Khadija stava salutando il figlio, gli consegnava le chiavi della casa che gli era appartenuta a Haifa, chiamata " Ia casa rossa ". Nello stesso momento Sara, che ora abitava nella "casa rossa", stava
  • 15. 15 salutando il figlio, richiamato da un comunicato radio che gli ordinava di raggiungere la sua unità militare. I due ragazzi, provenienti da direzioni opposte si incontrano in qualche parte nel bosco e si affrontano. Non importa sapere chi dei due uccide l'altro. "Hai finito il capitolo?" "Sì, ho finito" In esilio, mio padre non mi ha insegnato il suicidio né la disperazione, non mi ha insegnato a-rinunciare  alla  mia  identità  ebraica,  mi  ha  cresciuto  con  l’idea  che   ero stato cacciato e malgrado questo mi ha insegnato a vivere. "E tu cosa hai scritto?" In esilio, mio padre non mi ha insegnato il suicidio né la disperazione, non mi ha insegnato a rinunciare alla mia identità palestinese. Mi ha cresciuto con l'idea che ero stato cacciato e malgrado questo mi ha insegnato a vivere. "Questo è un punto d'incontro importante" "La casa che polarizza i nostri destini è un punto d'incontro o un punto d'addio?" "E un punto di scontro." "Come lo risolve la pièce?" "Possiamo dire che il diritto di proprietà non scaturisce dall'eredità ma dal bisogno e dal merito. Secondo questo fondamento, l'uomo che ha costruito questa casa cinquant'anni fa, ora non ne è più il proprietario di diritto, perché abbandonandola, non importa per quali circostanze, è come se avesse rinunciato al suo diritto, non avendone più bisogno. Quanto al proprietario attuale ha fatto tutti gli sforzi possibili per impadronirsi di questa casa che non appartiene a nessun altro." "Dov'è la giustizia in questa pièce?" " Giustizia, giustizia. Cerchiamola ora, insieme. Facciamo in modo che il senso di rimorso domini nella casa finché il tempo non fa il suo corso. Facciamo in modo che, esprimendo i sensi di colpa, gli ebrei risarciscano la perdita della casa da parte degli arabi." "Incontriamoci tra un mese affinché possa proporre un'altra formula di giustizia più equa." "Va bene, a tra un mese."
  • 16. 16 In quel momento, c'erano altre case, in altre città, che stavano cambiando proprietario. Chiavi nuove si ammucchiavano sopra quelle vecchie nei campi profughi palestinesi che, guerra dopo guerra, diventavano sempre più stretti. Di notte, dei ragazzi prendevano quelle chiavi e non tornavano più. VUOI TORNARE A CASA IN TAXI? p.68 Ti rivolgi al tassista in perfetto ebraico. Il tuo aspetto non denuncia la tua identità. "Dove andiamo, signore?" chiede il tassista. "Via al-Mutanabbi." Accendi  una  sigaretta  per  te  e  una  per  lui  perché  è  gentile.  All’improvviso  dice:   "Fino a quando dobbiamo sopportare questo schifo? Siamo stufi". Credi che sia stufo dello stato di guerra, dell'aumento delle tasse, del prezzo del latte e condividi: "Ha ragione, siamo proprio stufi". Fino a quando il nostro stato manterrà questi sporchi nomi arabi? Deve cancellare loro e i loro nomi dalla faccia della terra. " "Loro chi?" "Gli arabi, ovvio," esclama disgustato. Gli chiedo il motivo e risponde: "Perché sono sporchi". Dall'accento riconosci che è un ebreo immigrato da Marrakesh. "Sono sporco fino a questo punto? Lei, per esempio, è più pulito di me?" "Cosa intende?" sbotta sorpreso. Gli chiedi di arrivarci da solo, allora capisce ma non ci crede. "La smetta di scherzare!". Solo dopo aver visto la tua carta d'identità crede davvero che sei arabo. "Non intendevo i cristiani, intendevo i musulmani." Precisi che sei musulmano e lui: "Non intendevo tutti i musulmani, intendevo quelli di paese".
  • 17. 17 Allora gli racconti che sei di un paese arretrato che è stato raso al suolo e cancellato dalla faccia della terra a piacimento dello stato d'Israele' "Con tutto il rispetto per lo Stato," esclama. Scendi dal taxi decidendo di tornare a casa a piedi. Ti viene voglia di leggere i nomi delle strade. In effetti li hanno cancellati. Via Salah al-din è diventata via Shlomo. Allora ti domandi: "Come mai hanno mantenuto il nome di al- Mutanabbi?". Ma quando arrivi là, per la prima volta, leggi il nome della via e ti sembra Monte Nebo in ebraico e non al-Mutanabbi come credevi tu. p.121 A tarda notte il mondo va a dormire. Uccidiamo la memoria Così il mondo va a dormire e mi dimentica. - Non svegliare la vittima, potrebbe gridare -. - Chi  l’ha  svegliata?  Chi  è  stato  -? - Un  vento  che  soffia  all’improvviso,  rianima  i  morti  -. - Da dove soffia -? - Da ogni direzione, dalla patria -. - Chi ha insegnato loro questo termine desueto -? - Poeti che cantano al suono del rababà -. - Uccideteli -. - Li abbiamo uccisi, ma hanno inventato un altro termine: libertà -. - Chi ha insegnato loro questo termine sedizioso -? - Ferventi rivoluzionari – - Uccideteli - - Li  abbiamo  uccisi,  ma  hanno  imparato  un’altra  parola:  giustizia - - Chi ha insegnato loro questo termine? - - L’oppressione.  Possiamo  uccidere  l’oppressione?  - - Se  annientate  l’oppressione,  annientate  voi  stessi  -
  • 18. 18 - Che facciamo? - - Uccidiamo la memoria. - 2 - MEMORIA PER L'OBLIO (Pag. 139 ) Pag. 9 Memoria   per   l’oblio è un testo polifonico che accosta discorsi diretti e indiretti, monologhi interiori, narrative contrapposte, sogni, descrizioni, poesie e articoli di giornale, citazioni delle sacre scritture, esegesi mussulmana, storiografia araba e non araba, lessicografia e letteratura europea. Il caffè. 154 Gli invasori sono capaci di tutto, sono in grado di scatenarmi contro il mare, l’aria  e  la  terra,  ma  non  riusciranno  a  strapparmi  l’odore  del  caffè.  Mi  farò  un   caffè, adesso, subito. Berrò il mio caffè, adesso, subito. Adesso, subito, mi ubriacherò   d’odore   di   caffè.   Lo   farò   per   distinguermi   dalle   pecore,   per   vivere   ancora  un  altro  giorno,  oppure  per  morire  avvolto  nell’odore  di  caffè. …  Allontanare  il  recipiente  dal  fuoco  basso  per  permettere  che  la mano realizzi la prima delle sue opere. Non badare ai missili, ai proiettili e agli aerei. Perché questa è la mia volontà, questo è ciò che voglio: spargerò odor di caffè per riappropriarmi della mia alba. Non guardare verso la montagna che sputa matasse di fuoco contro la mano. … Una   cucchiaiata   di   caffè   esaltato   dal   cardamomo,   un’unica   cucchiaiata,   getta   l’ancora,   maestosa,   sull’incresparsi   dell’acqua   bollente.   Tu   mescola   muovendo   piano   il   cucchiaio,   prima   in   tondo   e   poi   dall’alto   verso   il   basso.   Aggiungi la seconda cucchiaiata, porta la polvere da su a giù e poi, con un movimento circolare,  da  sinistra  a  destra.  Versa  la  terza  cucchiaiata.  Fra  l’una  e  l’altra,  ogni   volta,  allontana  per  un  momento  il  recipiente  dal  fuoco,  e  subito  dopo  “carica”  il   caffè, ossia riempi il cucchiaio di polvere che va sciogliendosi, sollevalo bene in alto  e  rituffalo  nell’acqua,  più  e  più  volte,  fino  a  quando  non  riprende  a  bollire  e   forma una pellicola bionda che si addensa in superficie e quasi affonda. Non lasciare che vada a fondo. Spegni il fuoco e non badare ai missili. Porta il caffè nel tuo angusto corridoio. Versalo, teneramente, con eleganza, in una tazza bianca - quelle scure attentano alla libertà del caffè -. Osserva le volute di vapore, il velo profumato che si leva. Accenditi una sigaretta, adesso, la tua prima sigaretta, appositamente rollata per questa tazza di caffè; sarà una sigaretta dal sapore galattico,  ineguagliabile  non  fosse  per  quella  che  segue  l’amore,  quella  che  fumi   mentre la donna che è con te secerne la sua ultima goccia di sudore e sospira.
  • 19. 19 Eccomi, sto tornando al mondo. Nelle vene mi scorre una stimolante droga, un fiume di vita nata dal matrimonio tra caffeina e nicotina, una cerimonia officiata dalla mia mano. Chissà come fa a scrivere, mi chiedo, una mano che non sa preparare il caffè. E che dire di tutti cardiologi che, fumando come ossessi, mi hanno  ripetuto:  “non  fumare  e  non  bere  caffè”.  A  tutti  ho  risposto,  scherzando:   “gli  asini  non  fumano  e  non  bevono  caffè,  però  nemmeno  scrivono”. Conosco il mio caffè, il caffè di mia madre e il caffè dei miei amici. Li riconosco da lontano, so bene in cosa sono diversi. Non esistono due caffè che si somiglino. E il  mio  panegirico  del  caffè  è  anche  un’apologia  della  diversità.  Non  c’è  sapore  che   possa essere   definito   “di   caffè”.   Il   caffè   non   è   un   concetto,   non   è   un   unico   elemento, non è un assoluto. Ognuno ha il proprio caffè, talmente particolare, talmente  specifico  che  io,  dal  sapore  del  caffè  che  mi  offre,  riesco  a  farmi  un’idea   di una persona, a stabilirne il grado di eleganza interiore. Se il caffè sa di coriandolo, significa che la padrona di casa non tiene in ordine la cucina. Se ha un retrogusto di carruba, il padrone di casa è avaro. Se odora di profumo, la signora  che  l’ha  fatto  è  molto  attenta  all’esteriorità.  Se  lascia  in  bocca  una  patina   muschiata,   l’ha   preparato   un   sinistrorso   mai   cresciuto.   Se   sa   di   vecchio   da   quanto  è  stato  lasciato  bollire,  è  l’opera  di  un  estremista  di  destra.  Se  si  sente   solo il cardamomo, è cosa da arricchiti. Non esistono due caffè che si somiglino. Ogni casa ha il suo caffè, ogni mano il suo, perché nessuno somiglia davvero a qualcun altro. Io lo sento arrivare da lontano: inizialmente si muove in linea retta, poi serpeggia, si attorciglia e si contorce, si lamenta avvolgendosi a declivi e pendii, si aggrappa a querce e a pioppi,  lotta  per  scendere  a  valle,  si  gira  all’indietro,  si  strazia  dal  desiderio  di   risalire la montagna e poi, posato sulle note di un flauto, si dirige di nuovo verso la sua prima dimora. L’odore   del   caffè   è   un   ritorno,   un   rientro   nell’elemento   primigenio,   perché   rimanda  all’essenza  del  luogo  d’origine;  è  un  viaggio  iniziato  migliaia  d’anni  fa  ed   eternamente  ripetuto.  Il  caffè  è  un  luogo.  Il  caffè  è  una  porosità  da  cui  l’interno   traspira  all’esterno, è  un’interruzione  che  unisce  quel  che  solo  l’odore  di  caffè   può  unire.  Il  caffè  è  l’antitesi  dello  svezzamento,  è  una  mammella  che  nutre  da   lontano,  un  mattino  che  nasce  da  un  sapore  amaro,  è  l’arte  della  virilità.  Il  caffè  è   geografia. L'acqua p.165 mi importa poco di quel che succede al di là del vetro. Bombe. Missili. Sirene. Aerei. Corazzate. Mi soffiano contro come soffia il vento. Piovono come pioggia che cade. Sussultano come farebbe un terremoto. La volontà umana non può far nulla per fermarli, pare sia un destino ineluttabile. Sui nostri corpi,
  • 20. 20 oggi, si sta testando ogni nefandezza che l'ingegno umano ha potuto partorire e, in aggiunta, tutto un bagaglio di innovazione tecnologica. Sarà il giorno più lungo della storia? Nessuno lava i morti, siano quindi i morti a lavarsi da sé. Col sangue, intendo, visto che l'acqua è introvabile. Faccio sempre tesoro, io, delle mie preziose riserve idriche, utilizzo ogni goccia con estrema parsimonia. Ogni goccia ha il suo ruolo. Le conto, quasi. 500 per lavarmi i capelli. Duemila per il corpo. 100 per la bocca. 100 per farmi la barba. 20 per ogni orecchio. 50 per ogni ascella e via di seguito. Ogni goccia ha il suo pezzetto di corpo. p.166 L'acqua è aria in gocce, palpabile, tangibile, pegno di luce. È per questo che i profeti hanno voluto che i loro popoli la amassero: dall'acqua abbiamo fatto germinare ogni cosa vivente (Corano, 21º, 30). A Tell al-Za’tar    i  cecchini  aspettavano  le  donne  palestinesi  vicino  all'acqua,   vicino alle condutture bucate, esattamente come fanno i cacciatori quando braccano le gazzelle assetate. Acqua assassina. Acqua che diluisce il sangue di gente disidratata, disposta a rischiare la vita pur di inumidirsi le labbra. Acqua che ha mosso i re degli arabi e li ha costretti loro malgrado a telefonare al presidente americano per proporre uno scambio vantaggioso: sangue in cambio dell'acqua. Petrolio in cambio dell'acqua. Noi stessi in cambio dell'acqua. Il rumore dell'acqua è come uno schiamazzo di nozze, più forte, molto più forte di qualsiasi aereo. Il rumore dell'acqua fa da specchio alle vene della terra che vive, il rumore dell'acqua è libertà. Il rumore dell'acqua è umanità. 179 Nell’area  invasa,  sul  mare  invaso,  sulla  montagna  invasa  e  sulle  sue  distese   di pini continuano a piovere bombe, bombe di paure primordiali; la cacciata di Adamo dal paradiso terrestre si inserisce nella moltitudine di storie che raccontano un esodo. Non ho patria, non ho più corpo. Continuano a piovere bombe sui cantici di gloria, sul conversare di morte che scorre nel sangue come luce che infiamma domande gelide. I missili mi penetrano in ogni poro della   pelle   e   ne   escono   indenni.   Non   sento   l’inferno   che   l’area   diffonde,   perché lo respiro, lo sudo in ogni goccia di sudore.Voglio cantare. Sì, esatto, voglio cantare questo giorno bruciato. Voglio cantare. Trovare le parole che muteranno   la   lingua   in   acciaio   dell’anima,   una   lingua   che   sappia   battere   questi  aerei,  questi  insetti  d’argento  scintillante.  Voglio  cantare.  Inventare  una   lingua che mi sostenga e che sosterrò, la lingua che mi dia prova e a cui darò prova della forza che ci abita, una forza capace di trionfare sulla solitudine universale. Voglio cantare e poi andar via.
  • 21. 21 p.197 quante incongruenze tra noi palestinesi. Ci sono interi uffici con tanto di aria condizionata e saloni di rappresentanza che servono solo a diffondere calunnie e maldicenze. Qualche gruppuscolo si è specializzato nel commercio di martiri: ce ne servirebbero altri 20 per portarci al livello. E così si è combattuto per accaparrarsi un martire di cui non si conosceva l’affiliazione.   Si   è   messo   a   morte   un   combattente   perché   ha   rifiutato   di   sparare  a  un  amico  che  militava  in  un’altra  organizzazione.  Si  è  buttato  il  suo   cadavere in un pozzo abbandonato e lì è rimasto finché una veggente non l’ha ritrovato. p.200Begin come Giosuè (VI,16-26) testo di cui si consiglia la lettura. 223 Il calcio e Paolo Rossi Anche noi amiamo il calcio. Anche noi abbiamo il diritto di amare il calcio. E abbiamo il diritto di assistere alla partita. Perché no? Perché non sfuggire un po’  alla  routine  della  morte?  In  un  rifugio,  siamo  riusciti  a  procurarci  l’energia   elettrica  usando  alla  batteria  di  un’automobile.  In  un  battibaleno  Paolo  Rossi   ci ha trasmesso la gioia che ci mancava. È un uomo che, in campo, si vede solo dove conviene che lo si veda. Un diavolo smilzo che noti solo dopo che ha segnato la rete, esattamente come un aereo da bombardamento si vede solo  dopo  che  i  bersagli  sono  esplosi.  Dove  c’è  Paolo  Rossi  c’è  un  gol,  c’è   un’ovazione.   Poi   lui   scompare,   oppure   si   nasconde   per   aprire   nell’aria   un   varco per quei suoi piedi pronti a cercare le buone occasioni, a portarle a maturazione, a raggiungerle in un picco di voluttà. Non è mai chiaro se sta giocando  a  calcio  oppure  facendo  l’amore  con  la  rete,  una  rete  ritrosa che lui, sul torrido campo spagnolo, tenta e seduce con una raffinata galanteria italiana. Che lusinga come farebbe un gatto in calore. E poi, infine, ecco che Paolo Rossi, sotto gli occhi dei guardiani della virtù, un imene di 10 uomini posto a protezione della verginità della rete, ecco che Paolo Rossi avanza, avanza  in  un  impeto  di  lussuria,  avanza,  muscolo  d’aria,  e  sfonda.  Ed  ecco   che la rete, incapace di resistergli, si rilassa e si arrende al suo ineffabile stupro. Il  calcio:  cos’è  quest’incantevole  follia  capace  di  imporre  una  tregua  che  ci  fa   godere di un piacere innocente? Questa follia in grado di attenuare la violenza della guerra e di ridurre i missili alla stregua di fastidiosi mosconi? Cos’è   questa   follia   che,   per   un’ora   e   mezzo,   sospende   la   paura?   Che  
  • 22. 22 rasserena  corpo  e  anima  più  dell’ardore  della  poesia,  più  del  vino  e  più  del   primo incontro con una sconosciuta? È stato il calcio. Il calcio ha fatto il miracolo, ha risvegliato un popolo che pensavamo morto, morto di paura e di noia. Video Youtube (3 minuti): http://youtu.be/gdtPuMxAjvI 225-229 In  quell’anno  i franchi conquistarono Gerusalemme Ibn Kathir (1301-1373)  l’inizio  e  la  fine. Testo di cui si consiglia la lettura. 229 presso  i  franchi  non  c’è  ombra  di  senso  dell’onore  e  di  gelosia. Usama ibn Munqidh (1095-1188),   Il   libro   dell’ammaestramento   con   gli   esempi. Testo di cui si consiglia la lettura. i  tacchi  alti  e  l’amore  in  tempo  di  guerra p.238 Sbatti i tuoi tacchi alti sulla pietra delle scale e maciulla le pareti del mio cuore facendone pastura per i cani randagi. Ah, quanto mi piacciono i tacchi alti che fanno stendere le gambe in un assoluto di femminilità pronta a esplodere, che rimpiccioliscono il ventre, lo fanno arcuare quando è raggrinzito per la sete, che arrotondano i seni e li fanno passare alti e superbi sopra le teste dei passanti al cui desiderio si negano. I tacchi alti fanno sì che il collo si tenda come quello di un cavallo quando sta per precipitare in un baratro,  fanno  sì  che  la  lancia  si  rizzi  su  un  pulpito  d’aria  solidificata.  Sbatti   contro   il   selciato   con   l’ombrosità   di   una   gazzella   che   né   braccia   né   parole   possono  afferrare.  Mostrati  pian  piano  da  dietro  la  porta  chiusa.  Dall’altro  lato c’è  una  poltroncina  in  pelle.  Ci  potrà  reggere,  è  abbastanza  larga  per  noi  due.   Ma  non  toglierti  i  vestiti  perché  la  morte  non  ci  veda  nudi.  C’è  tempo  solo  per   un amore frettoloso, per un sobbalzo di eternità temporanea. p.246   …   Facciamo   attenzione   alle armi letterarie capaci di nascondere il loro tradimento e la loro pretesa di santità, capaci di infrangere i nostri sogni fingendo disgusto per la politica - detto in altri termini: disgusto per la lotta. Un uso corretto della lingua è diventato sinonimo di arretratezza, la precisione della metrica, regresso. La chiarezza è diventata una vergogna, la parola  e  l’effetto  della  parola  sul  pubblico,  inciviltà.  Per  dirla  in  breve:  siamo  in   piena reazione. Lo spirito reazionario, spacciandosi per sinistrorso, si è fatto
  • 23. 23 avanti  con  tutto  l’armamentario  tipico  della  modernità,  stracolmo  però  di  tutte   le teorie sul ritorno al passato. …E  intanto  il  figliol  prodigo  faceva  ritorno  alla  sua  comunità  confessionale,  al   suo ascetismo o al suo esoterismo e dichiarava a gran voce che era pentito di essersi rovinato la vita partecipando a quei movimenti di liberazione che avevano prodotto solo difficoltà impreviste e a quella rivoluzione che ha dimostrato di avere costi troppo elevati. p.260…  Il cambiamento degli arabi. Io non credo, né voglio credere, che la storia del medio oriente continuerà meccanicamente a ripetere se stessa, né che lo farà per guizzi creativi. Per quanto gli slogan della moderna politica siano ormai lontani anni luce dai principi che li hanno generati, per quanto i discorsi siano vuoti di contenuto, io, comunque, non mi convincerò che il cambiamento degli arabi, che il progresso   degli   arabi,   verrà   dall’esterno,   da   qualcosa   che   non   sia   arabo.   Secondo me, un modello che si prefigge di sedurre con la fede quanti non hanno fiducia nel presente non può che riportarci a un conflitto che affonda in questioni non più nostre. E io cosa ho a che spartire con gli errori del terzo successore  del  profeta,  il  califfo  Uthman  ibn  ‘Affan?  Ho  altre  storie,  io:  questa   non è  l’unica  che  mi  riguarda. 3 – IN  PRESENZA  D’ASSENZA  (p.283) p.10  …Nel  2006,  quando  pubblica  in  presenza  d’assenza,  Darwish  vive  tra   Ramallah,   in   Palestina,   e   Amman   in   Giordania.   Nell’ultimo   decennio   si   è   quasi totalmente liberato della pressione politica che gli pesava addosso in quanto   “poeta   nazionale”.   Ha   potuto   e   voluto   essere   in   prima   istanza   semplicemente   un  poeta.  I  critici  chiamano   questa   fase  “lirico-epica”   e   “dei   temi  indipendenti”. …E   mentre   si   interroga   sul   posto   che   la   Palestina   occupa   nel   mondo, il lirismo  intimista  e  il  lirismo  epico  si  riconciliano  nell’immagine  del  palestinese   non più eroe e vittima, ma come essere umano che anela a una vita banale, semplice, ordinaria. p.11…A   un   certo   punto   la   sua   traiettoria   poetica   si   spinge   verso   l’alto alla ricerca   di   un   punto   di   equilibrio   in   cui   prosa   e   poesia   si   avvicinino   l’una   all’altra,  tanto  da  arrivare  a  confondersi. In presenza di assenza il poeta si sforza di elevare al suo massimo potenziale la prosa in arabo. Ed è una sorta di addio a se stesso quando si dice: allora riposa in pace, se possibile. Riposa in pace nelle tue parole.
  • 24. 24 (pag.287)…Secondo  le  tue  volontà,  eccomi  qui,  in  piedi,  a  ringraziare  a  nome  tuo   chi   è   venuto   a   darti   l’estremo   saluto   per   quest’ultimo   viaggio.   L’invito   a   non   dilungarsi troppo nel congedo per passare un banchetto più consono a ricordarti. Lascia che ti guardi, ora che ti sei staccato da me, indenne come pura prosa su di una pietra che si tinge di verde o di giallo in tua assenza, lascia che ti guardi, ora che mi sono staccato da te. Lascia che raccolga te e il tuo nome come fanno i passanti con le olive dimenticate, nascoste tra i sassolini. Andiamocene insieme, tu e io, in due direzioni diverse: tu, verso una seconda vita, promessa dalla lingua, in un lettore che forse  sopravviverà  all’impatto  della  cometa  con  la  terra;   io,  verso  l’appuntamento  più  volte  posticipato  con  la  morte  a  cui,  in  una  poesia,   ho promesso un calice di vino rosso. p.289-290   …Mentre   ci   separiamo   presso   questo   limbo   dalla   vita   alla   morte,   lasciami,  dunque,  rescindere  il  contratto  stipulato  tra  me  e  te,  tra  un’assurdità  e   l’altra.  Non  sappiamo  chi  di  noi  ha  vinto  e  chi  ha  perso,  se  io,  tu  o  la  morte. Tu, mio  opposto,  sei  sempre  alla  spasmodica  ricerca  di  un’assurdità  necessaria  ad   allenare lo spirito alla tolleranza e a esercitare il privilegio di contemplare acqua che ride nelle fossette, o vola di farfalla in farfalla e crea poesia da ogni viva forza. Perché la leggerezza, come la rugiada, vince il metallo, lei vergine del tempo, lei che insegna alle bestie a suonare il flauto. …  Ti  hanno  buttato  fuori  dal  campo.  La  tua  ombra,  però,  non  ti  ha  seguito  né   tradito, si è pietrificata e inchiodata laggiù, poi si è trasformata in una pianta di sesamo: verde di giorno, blu di notte. È cresciuta fino a diventare alta come un salice, verde di giorno, blu di notte. Nonostante tu sia lontano sarai vicino/nonostante ti abbiano ammazzato vivrai/non credere di essere morto laggiù/sei vivo qui./Solo la metafora a comprovarlo,/la metafora che ha insegnato il gioco delle parole alle creature/la metafora che ha reso l’ombra  geografia/la metafora che raccoglierà te e il tuo nome./…Scrivi   tu   stesso   la   storia   del   tuo   cuore/da quando Adamo si è innamorato/fino a quando il tuo popolo è risorto./…   Alzati   affinché   ti   porti/avvicinati affinché ti riconosca/allontanati affinché ti riconosca. L’esilio p.334-336  …L’esilio  non  è  un  viaggio,  un  andare  e  tornare,  né  un  soggiornare   nella nostalgia. Forse è visita, attesa degli effetti del tempo, uscita da se stessi incontro agli altri per fare conoscenza e stare in armonia o per tornare nella propria conchiglia. …In  esilio  ti  scegli  uno  spazio  per  domare  l’abitudine,  uno  spazio  personale  per  il   tuo diario e scrivi: il luogo non è trappola possiamo dire: qui abbiamo una strada
  • 25. 25 laterale/un fornaio/una lavanderia/una tabaccheria/un angolino/un odore che ricorda… …L’esilio   è   un   ponte   tra   le   immagini   per   attraversare   la   fragilità,   è   il   narciso   sottoposto al test della superbia e della modestia al contempo, è la disputa dei diversi, è l’accordo   dei   simili.   Non   tutto   ciò   che   somiglia   al   laggiù,   qui   chi   accoglie. Non tutto ciò che qui ti rifiuta, laggiù ti accoglie. Le  città  sono  odori:  San  Giovanni  d’Acri  è  l’odore  di  iodio  e  spezie,  Haifa, l’odore   di pini e lenzuola sgualcite. Mosca, l’odore  di  vodka  con  ghiaccio.  Il  Cairo,  l’odore   di  mango  e  zenzero.  Beirut,  l’odore  di  sole,  mare,  fumo  e  limone.  Parigi,  l’odore   di  pane  fresco,  formaggi  e  prodotti  di  seduzione.  Damasco,  l’odore  di  gelsomino   e  frutta  secca.  Tunisi,  l’odore  di  muschio  notturno  e  sale.  Rabat,  l’odore  d’hennè,   incenso  e  miele… Gli  esili  hanno  un  odore  condiviso:  odore  di  nostalgia  per  qualcos’altro,  odore   che   ne   rievoca   un   altro.   L’odore   del   luogo   d’origine.   L’odore   è   memoria   e   tramonto. (p.336) Le parole sono le materie prime per costruire una casa. Le parole sono una patria. La nostalgia p.355      La  nostalgia  è  l’ospite  della  sera  che  arriva  quando  cerchi  le  tue  tracce  in   quel che ti circonda e non le trovi, quando un passerotto si posa sul balcone e ti sembra un messaggio inviato da un paese che, quando ci abitavi, non amavi come lo ami adesso che è dentro di te. Prima era aria, terra e acqua, ora è poesia. La nostalgia è il lamento del diritto incapace di dimostrare la forza del diritto davanti al diritto della forza. 356…La   nostalgia   è   il   dolore   che   non   ha   nostalgia   del   dolore.   E’   il   dolore   provocato  dall’aria  pura  che  viene  dall’alto  di  un  monte  lontano,  il  dolore  della   ricerca di una gioia passata. Però è un dolore di quelli sani, perché ci ricorda che siamo malati di speranza e inguaribilmente sentimentali. L’amore p.357  L’amore  è  un  cammino  battuto  come  il  significato,  ma  impervio  come  la   poesia. Richiede talento, tenacia e foggia valente perché ha molti gradi. Non basta amare, quella è una delle magie della natura simile al cadere della pioggia o   all’abbaglio   del   lampo.   L’amore   ti   porta   su   un’altra   orbita   e   poi   te   la   devi   sbrigare da solo. Non basta amare, devi sapere come amare. Hai imparato come?
  • 26. 26 p.360  …Tu  sei  quello  che  conosce  l’amore  solo  quando  ama  e  non  si  chiede cos’è   né  lo  cerca.  Una  volta  una  donna  ti  ha  chiesto  se  amavi  l’amore  in  sé  e  per  sé,  hai   glissato  e  te  la  sei  cavata  rispondendo:  “Amo  te”.  “Non  ami  l’amore?”  ha  insistito.   E tu: -Ti amo per quello che sei-. Ti ha lasciato, non eri affidabile quando lei non c’era.  L’amore  non  è  un’idea.  È  un  sentimento  che  riscalda  e  raffredda,  che  viene   e va. Un sentimento che prende forma e corpo, che ha cinque sensi e più sensi. Talvolta  ci  appare  in  forma  d’angelo,  dalle  ali  lievi,  capace  di  sollevarsi  in  aria.   Talvolta ci travolge in forma di toro: ci scaraventa a terra e se ne va. Alcune volte si abbatte in forma di tempesta che riconosciamo soltanto poi, dagli effetti devastanti che si lascia alle spalle. Altre volte ancora scende su di noi in forma di rugiada notturna, quando una mano magica punge una nuvola vagabonda. La  frutta  come  un’allegoria  cerebrale   p.364   …La   mela   è   forma   da   mordere,  senza   la   punizione  della   conoscenza.   La   pera è un seno di perfetta proporzione, né più né meno di un palmo di mano. L’uva  è  il richiamo  dello  zucchero:  spremimi  in  bocca  o  nei  tini.  L’albicocca  è  il   ritorno  della  nostalgia  alla  sua  pallida  origine.  L’arancia  è  un’idea  che  illumina,   nella notte, e può essere mangiata sempre. Il fico è un paio di labbra che si schiudono con due dita per ricevere erotico significato in un colpo solo. Il fico d’India  è  la  vergine  che  difende  il  suo  tesoro.  La  ciliegia  è  accorciare  la  distanza   tra il desiderio degli occhi e la fregola delle labbra. La mela cotogna è la femmina che litiga per il maschio, lasciando al deluso un groppo in gola. Il mango è la bava che cola per visibile piacere. La fragola è un insieme di acini di colore, né rossi né altro, che rinvia allo scandalo della similitudine. Il gelso, color zucchero o nero, è il ricordo del primo bacio.  Il  melograno  è  il  rubino  celato  nell’allusione. In viaggio da Ramallah a Gerico. Il  papavero  e  l’erba. p.371  …La vita è arrivata qui in fuga dal Mar Morto? Eppure, dalla desolazione del luogo, ecco spuntare papaveri, ecco le loro piccole corolle affacciarsi dalle rocce   grigie   e   nere.   Bastano   un   po’   di   pioggerellina   e   di   luce,   a   che   la   vita   prevalga sul nulla. Bastano  un  po’  di  speranza  e  di  tempo,  a  che  tu  attraversi  le   diramazioni del mito risparmiato dai destini dei tuoi avi. Prendi in prestito la saggezza  dai  papaveri  e  di’:  “Non  ho  niente  a  che  fare  con  il  nulla,  sebbene  sia   circondato  dalla  morte”. E se ti chiedono della forza della poesia rispondi: - l’erba  non  è  così  fragile  come   pensiamo. Da quando ha nascosto la sua ombra modesta nel segreto della terra, non   si   spezza   più.   Nell’erba   spuntata   dalla   roccia   c’è   il   prodigio   della   parola   rivelata dal mistero divino,  senza  clamore  né  squilli  di  trombe.  L’erba  è  profezia   spontanea,  senz’altro  profeta  che  il  proprio  colore  opposto  a  quello  della  terra   arida.  L’erba  è  la  salvezza  del  viaggiatore  scampato  alla  bruttura  del  paesaggio  e  
  • 27. 27 a un esercito che preclude la strada  al  possibile.  E’  l’avvicinarsi  della  lingua  al   significato  e  il  connubio  del  significato  con  l’ospitalità  della  speranza   -. E se ti chiedono  della  lotta  tra  poesia  e  morte,  guarda  l’erba  e  di’  quello  che  rasenta  la   verità: - nessuna poesia sconfigge la morte   nell’ora   dell’incontro,   però   può   posticiparla  per  il  tempo  necessario  a  saggiare  l’utilità  del  canto  fino  alla  fine  di   un lungo concerto, dopodiché il cantante cade nelle mani del suo cacciatore ritto dietro la porta. Forse nessuno si accorgerebbe della morte del cantante, se la canzone diventasse collettiva e i compagni di veglia continuassero il canto. E in quel posticipo, immaginando che la morte si sia addormentata, i nuovi cantanti si sveglieranno senza badarle, affacciandosi su papaveri che danno loro il benvenuto, come gli incipit cananei lasciati incompiuti dai pastori di gazzelle, occupati  a  dare  la  caccia  ai  lupi  e  sciacalli.  … p.371  …All’improvviso,  una  pioggia  leggera  bagna  la  tua  anima,  bagna  le  farfalle.   Luce, pioggerella, farfalle che svolazzano radenti alla litoranea. Le farfalle, pensieri  sparsi,  sensazioni  che  volano  nell’aria. A cura di Elvira Paietta, Gianna Maestrelli, Isabella Donati, Rossella Fortini Englaro, Urbano Cipriani.
  • 28. 28 DANTE E DARWISH LA PERLA E L’OSTRICA La Perla è un prodotto del dolore, risultato dell'entrata di una sostanza estranea o indesiderabile nell'interno dell'ostrica, come un parassita o un granello di sabbia. Un'ostrica che non è mai stata ferita, in un modo o in un altro, non produce perle, perché le perle sono ferite cicatrizzate. O vos omnes qui transitis per viam attendite et videte si est dolor vester sicut dolor meus. (Bibbia, Geremia,I,12 )
  • 29. 29 O voi che per la via d'Amore passate attendete e guardate s'elli è dolore alcun, quanto 'l mio, grave. (Dante, Vita Nova, VII, 3-6) Ahi dal dolor comincia e nasce l'italo canto. (Leopardi: ad Angelo Mai) La mia letteratura corrisponde a un preciso momento storico: Il poeta in fin dei conti cerca di umanizzare la storia e fa emergere la bellezza come risposta alla crudeltà dei nostri tempi. Io sono orgoglioso di essere palestinese, ma auspico che  l’occupazione non sia condizione necessaria per diventare poeta. (Darwish – Intervista fatta a Firenze nel 2005) Sono  tutti  e  due  poeti  dell’esilio  e della sconfitta; Tutti e due hanno fatto esperienze di governo; Tutti e due hanno trovato nella poesia la fuoriuscita dalla banalità del male presente intorno a loro. LA TRILOGIA PALESTINESE E LA DIVINA COMMEDIA A CONFRONTO: L’Inferno  e  il  Purgatorio  di  Dante    li  apparento  al  “Diario di ordinaria tristezza” e “Memoria   per   l’oblio”   di   Darwish;;   il Paradiso ci fa vedere Dante che si distacca dall’”aiuola   che   ci   fa   tanto   feroci”   volando   in   cielo   con Beatrice-teologia;;   “In   presenza  d’assenza”  Darwis supera le barriere della morte con  la  poesia  che  “vince  di   mille  secoli  il  silenzio”, per dirla con Ugo Foscolo. Dante è la farfalla che vola via libera: Non  v’accorgete  voi  che  noi  siam  vermi Nati  a  formar  l’angelica  farfalla   che vola alla giustizia sanza schermi? (Purgatorio, X, 24-27) Darwish esce da se stesso, finalmente libero, verso una seconda vita: Lascia che ti guardi, ora che ti sei staccato da me, indenne come pura prosa su di una pietra che si tinge di verde o di giallo in tua assenza, lascia che ti guardi, ora che mi sono staccato da te. Lascia che raccolga te il tuo nome come fanno i passanti con le olive dimenticate, nascoste tra i sassolini. Andiamocene insieme, tu e io, in due direzioni diverse: tu verso una seconda vita, promessa dalla lingua, in un lettore che forse  sopravvivrà  all’impatto  di  una  cometa  con  la  terra;;  io,  verso  un  appuntamento  
  • 30. 30 più volte posticipato con la morte a cui, in una poesia, ho promesso un calice di vino rosso. (Trilogia palestinese, p. 287) Dante ci saluta dal cielo, finalmente libero: O  insensata  cura  de’  mortali, quanto son difettivi silogismi quei che ti fanno in basso batter  l’ali! Chi dietro a iura, e chi ad amforismi sen giva, e chi seguendo sacerdozio, e chi regnar per forza o per sofismi, e chi rubare, e chi civil negozio, chi nel diletto de la carne involto s’affaticava  e  chi  si  dava  a  l’ozio, quando, da tutte queste cose sciolto, con  Beatrice  m’era  suso  in  cielo cotanto gloriosamente accolto. (Paradiso, XI, 1-12) Darwish: Voglio cantare e poi andar via. Voglio cantare. Sì, esatto voglio cantare questo giorno bruciato. Voglio cantare. Trovare le parole che muteranno   la   lingua   in   acciaio   dell’anima,   una   lingua   che   sappia   battere   questi   aerei,   questi   insetti   d’argento   scintillante.   Voglio   cantare.   Inventare una lingua che mi sostenga, che sosterrò, la lingua che mi dia prova e a cui darò prova della forza che ci abita, una forza capace di trionfare sulla solitudine universale. Voglio cantare e poi andare via. (Trilogia p. 179) Dante contempla il mondo dalla costellazione dei Gemelli (La sua): Col viso ritornai per tutte quante Le sette spere, e vidi questo globo Tal,  ch’io  sorrisi  del  suo  vil  sembiante;; e quel consiglio per migliore approbo
  • 31. 31 che  l’ha  per  meno;;  e  chi  ad  altro  pensa chiamar  si  puote  veramente  probo  …   E tutti e sette mi si dimostraro Quanto son grandi e quanto son veloci E come sono in distante riparo. L’aiuola  che  ci  fa  tanto  feroci, volgendom  ’io  con  li  eterni  Gemelli, tutta  m’apparve  da’  colli  alle  foci;;   poscia rivolsi gli occhi a li occhi belli. (Paradiso, XXII, 133 sgg) Darwish, più modestamente ma non meno acutamente, guarda i passanti dalla finestra: Fa’ quel che devi: difendi il diritto della finestra di guardare i passanti. Non schernirti se  non  sei  capace  di  addurre  prove:  l’aria  è  l’aria,  non  ha  bisogno  di  certificato  del   sangue. Non abbandonarti al rimpianto. Non rimpiangere quel che hai perso quando ti sei assopito annotando i nomi degli invasori nel libro di sabbia. La formica racconta, la pioggia cancella. Quando ti svegli non rimpiangere di aver sognato. (Trilogia, p.289) Dante rifiorisce come una pianta tramite la poesia: Trasumanar significar per verba Non  si  potria… Io ritornai da la santissima onda rifatto sì come piante novelle rinovellate di novella fronda, puro e disposto a salire alle stelle. (Purg. XXXIII, 136-144) Darwish: La poesia fa spuntare  l’erba  dalla  roccia: “l’erba   non   è   così   fragile   come   pensiamo.   Da   quando   ha   nascosto   la   sua   ombra   modesta  nel  segreto  della  terra,  non  si  spezza  più.  Nell’erba  spuntata  dalla  roccia  c’è   il prodigio della parola rivelata dal mistero divino, senza clamore né squilli di trombe.  L’erba  è  profezia  spontanea,  senz’altro  profeta  che  il  proprio  colore  opposto  
  • 32. 32 a   quello   della   terra   arida.   L’erba   è   fluente   poesia   di   intuizione,   semplicemente   inafferrabile  e  inafferrabilmente  semplice.  È  l’avvicinarsi  della  lingua al significato e il  connubio  del  significato  con  l’ospitalità  della  speranza”. ( Trilogia, p.372) Dante: La poesia mi riporterà in patria: Se mai continga che il poema sacro vinca la crudeltà che fuor mi serra del  bell’ovile  ov’io  dormì’  agnello,   nimico ai lupi che mi danno guerra, con altra voce ormai, con altro vello ritornerò poeta, e in sul fonte del mio battesmo prenderò il cappello. (Paradiso 25,1-19 ) Darwish: Le parole valgono una patria In questo tramonto soltanto le parole sono qualificate a riparare il tempo e il luogo spezzati e a nominare dei che ti hanno trascurato e si sono gettati nelle proprie guerre con armi primitive. Le parole sono le materie prime per costruire una casa. Le parole sono una patria. (Trilogia, pag. 336) Dante ha problemi con i compagni di sventura: “Tu  proverai  sì  come  sa  di  sale lo pane altrui, e come è duro calle lo  scendere  e  il  salir  per  l’altrui  scale. E quel che più ti graverà le spalle, sarà la compagnia malvagia e scempia con la qual tu cadrai in questa valle; che tutta ingrata, tutta matta ed empia si farà contr'a te; ma, poco appresso,
  • 33. 33 ella, non tu, n'avrà rossa la tempia. Di sua bestialitate il suo processo farà  la  prova”  …ma,  poco  appresso, ella,  non  tu,  n’avrà  rossa  la  tempia.” (Paradiso XVII, 58-66) Darwish: “Quante  incongruenze  tra  noi  palestinesi”   “quante  incongruenze,”  ho  esclamato,  “tra  noi  palestinesi.  Ci  sono  interi  uffici  con   tanto di aria condizionata e saloni di rappresentanza che servono solo a diffondere calunnie maldicenze. Quel gruppuscolo si è specializzato nel commercio di martiri: ‘ce   ne   servirebbero   altri   20   per   portarci   al   livello’.   E   così   si   è   combattuto   per   accaparrarsi  un  martire  di  cui  non  si  conosceva  l’affiliazione.  Si  è  messo  a  morte  un   combattente   perché   ha   rifiutato   di   sparare   a   un   amico   che   militava   in   un’altra   organizzazione. Si è buttato il suo cadavere in un pozzo abbandonato e li è rimasto finché  una  veggente  non  l’ha  ritrovato”. (Trilogia, p.197) Il materiale di cui si compongono le opere di Dante e Darwish comprende tutto lo scibile a loro contemporaneo, impastato con le loro esperienze di vita: Nel  “ poema sacro al quale han posto mano e cielo e terra”  trovi  l’impegno  politico di Dante,  l’esilio,  i  classici  latini (Virgilio,  Ovidio,  Lucano,  Stazio,  Orazio,  Cicerone…),   I padre della chiesa, la bibbia, la letteratura romanza, la filosofia e letteratura araba. Nella Trilogia palestinese Darwish inserisce le vicende della patria e della famiglia, la Bibbia, il Vangelo, la Thora, il Corano, i filosofi e saggi arabi:Abd Allah ibn Salam,  Ka’ab,  Dahhak,  Mujahid,  Akrama.  Al-Sirri, Abi Salik e Abu Malik, Murra al- Hamadhani,  Ibn  Mas’ud, Ibn al-Athir … Vedi a p. 186, in Matteo XIII Gesù che, cedendo alle insistenze di una madre, le guarisce la figlia ( leggi: Palestina), vedi a p. 200 Begin marchiato da terrorista crudele come il Giosuè biblico ( Bibbia, libro di Giosuè, VI, 6-26). Vedi a p. 173-74 la sura del Calamo dove si evidenziano i vaneggiamenti pseudo religiosi dei cosiddetti saggi. IL TEMA DELL’ESILIO Dante  affronta  così  l’esilio: E io, che ascolto nel parlar divino Consolarsi e dolersi Così alti dispersi,
  • 34. 34 I'essilio che m'è dato, onor mi tegno. (mi  ritengo  onorato  di  soffrire  l’esilio     visto che così nobili esiliati soffrono e si consolano col loro parlare divino.) (Dante, la canzone dell'esilio ) E ancora: …lungi da un uomo che predica la giustizia il pagare, dopo aver patito ingiustizie, il suo denaro ai persecutori come a benefattori. Non è questa la via del ritorno in patria; ché se non si entra Firenze per una qualche siffatta via, a Firenze non entrerò mai. E che mai? Forse che non vedrò dovunque la luce del sole e degli astri? Forse che non potrò meditare dolcissime verità dovunque sotto il cielo, se prima non mi riconsegni alla città, senza gloria e anzi ignominioso per il popolo fiorentino? Né certo il pane mancherà. (Dante, lettera  all’amico  fiorentino,  1215) Darwish  affronta  l’esilio, lo sfida e lo elogia: l’esilio  non  è  un  viaggio,  un  andare  e  tornare,  né  un  soggiornare  nella  nostalgia.  Forse   è visita, attesa degli effetti del tempo, uscita da se stessi incontro agli altri per fare conoscenza e stare in armonia o per tornare nella propria conchiglia. …In  esilio  ti  scegli  uno  spazio  per  domare  l’abitudine,  uno  spazio  personale per il tuo diario e scrivi: il luogo non è trappola, possiamo dire: qui abbiamo una strada laterale/un fornaio/una  lavanderia/una  tabaccheria/un  angolino,  un  odore  che  ricorda… L’esilio è un ponte tra le immagini per attraversare la fragilità, è il narciso sottoposto al testo della superbia e della modestia al contempo, è la disputa dei diversi, è l’accordo  dei  simili.  Non  tutto  ciò  che  qui  ti  rifiuta,  laggiù  ti  accoglie.  Non  tutto  ciò   che somiglia al laggiù, qui chi accoglie. E  non  dimenticare  di  ringraziare  l’esilio  con   magnanimità:  “ti  elogerò, esilio, degno di elogio, laggiù, sotto un fico che mi darà ospitalità, presso la casa di mia madre, come un passante in un autunno passeggero”.(Darwish, Trilogia, p.334). Post scriptum: Concludiamo con le seguenti parole di Dante che dedichiamo ai palestinesi figli della Nakba, esiliati in patria e dispersi in ogni parte del pianeta Terra: “Soffro  per  tutti  coloro  che  soffrono,  ma  maggior  pietà  provo per coloro che visitano la  loro  patria  soltanto  in  sogno”.  (Dante, De Vulgari Eloquentia, II,6) Firenze,  BibliotecaNova  dell’Isolotto,  12  marzo  2015 Urbano Cipriani
  • 35. 35