2. 2
Mahmoud Darwish nacque nel 1941 nel villaggio di al-Birwa, situato in Alta
Galilea a est della città di Akko (Acri). Il suo villaggio natale oggi è distrutto e
non più presente sulle carte. Nel 1948 - durante il primo conflitto arabo-
israeliano - i genitori di Mahmoud per sfuggire ai rischi della guerra cercarono
rifugio in Libano con il resto della popolazione, ma furono tra i pochissimi che
riuscirono rientrare nel loro paese, illegalmente, dopo appena un anno. Nel
frattempo però la loro terra d'origine era diventata parte dello stato di Israele,
i loro beni confiscati.
In questa condizione fin da bambino Darwish si trovò nello status legale di
“alieno”, cittadino che risiede come “ospite illegale”. Da giovane fu arrestato e
condannato più volte a pene detentive, per la sua presenza in Israele senza
permesso e per aver recitato poesie sovversive in pubblico. Studiò peraltro la
lingua ebraica israeliana, perfezionando la conoscenza della sua lingua natia.
Cominciò l'attività pubblicistica a diciannove anni. Iscritto all'università non
ebbe la possibilità di laurearsi a causa delle interruzioni degli studi nei periodi
trascorsi in prigione, anche se in Unione Sovietica, a Mosca, si costruì nel
1971 una solida preparazione linguistico-letteraria.
Pubblicò la sua prima raccolta di poesie, Foglie d'Ulivo, nel 1964. È un'opera
che trasfigura in quadri di forte impatto emotivo l'identità nazionale
palestinese. Divennero famose alcune poesie che raccontano la condizione
dolorosa e folle dell'esilio. La carriera poetica di Mahmoud Darwish,
dall'epoca della prima pubblicazione, mantiene legami ideali con la lotta
armata del popolo palestinese per il ritorno alla sua terra (l'attività dei gruppi
armati cominciò anch'essa nel 1964). La poesia di Darwish assumeva un
ruolo di riferimento collettivo per la causa palestinese.
Fu direttore del quotidiano locale “Ittiḥād” (Unità) fino al 1970. In quell'anno
abbandonò definitivamente la Palestina/Israele per un periodo di studio in
Unione Sovietica. Da allora trascorse la sua vita risiedendo per periodi diversi
nelle principali città del mondo arabo: Il Cairo, Beirut, Tunisi, Amman. A
Beirut diresse un mensile palestinese (Shuʿūn Filasṭīniyya, "Affari
Palestinesi"), quindi divenne direttore della rivista letteraria palestinese "al-
Karmel", pubblicata da un dicastero dell'OLP. Visse per un lungo periodo a
Beirut fino al 1982, quando la città fu assediata dall'esercito israeliano.
Darwish dovette abbandonare il Libano insieme allo Stato Maggiore e al
Comitato Esecutivo dell'OLP. Dopo un periodo di esilio a Cipro, visse tra
Beirut e Parigi. Lavorò anche al Cairo presso il quotidiano nazionale "al¬
Ahrām".
3. 3
La seconda metà degli anni ottanta fu l'epoca del suo maggiore impegno
politico. Nel 1987 fu eletto nel Comitato Esecutivo dell'OLP. Sempre nell'87
Darwish partecipa a Firenze alla rassegna "Poeti del Mediterraneo per la
Pace", organizzato dagli Enti locali e dalla rivista culturale Collettivo R.
ConDarwish ci sono lo spagnolo Goytisolo, l'italo-jugoslavo Damiani,
l'israeliana Ravilovich, il greco Apostolatos.
Mahmoud Darwish ha redatto il testo della Dichiarazione d'Indipendenza
dello Stato Palestinese, documento promulgato nel 1988 e riconosciuto da
diversi stati.
Solo nel 1996, dopo 26 anni di esilio, ottenne un permesso per visitare la sua
famiglia nello stato di Israele. Fu nuovamente direttore di "al-Karmel"
(rifondata nel frattempo) e fu eletto nel Consiglio Legislativo Palestinese nei
Territori, oggi tuttora occupati.
Mahmoud Darwish è morto all'età di 67 anni a Houston (Texas) il 9 agosto
2008, per le complicanze di un intervento al cuore. Già nel 1984 e nel 1998
aveva subìto interventi al cuore.
Mahmoud Darwish è la prima e, ad oggi, unica personalità palestinese dopo
Arafat alla quale sono stati concessi i funerali di Stato.
SCHEDA DEL LIBRO
A cura di Elisabetta Bartuli Feltrinelli, Milano, 2014
Una trilogia palestinese raccoglie tre scritti in prosa sostanzialmente
autobiografici che disegnano un affresco storico e culturale della Palestina. E’
un testo impegnativo sia sotto il profilo emotivo, sia sotto quello della lingua e
della densità culturale, con una corposità forte dal punto di vista teoretico,
sebbene il suo incedere sia soave e molto scorrevole. E’ anche un grande
affresco storico-sociale, quello di un popolo costretto ad essere profugo in
casa propria.
Mai testo potrebbe essere più attuale in questo drammatico frangente nel
quale la Striscia di Gaza è tornata ad occupare spesso i nostri telegiornali,
con alcune date cruciali quali il 1948, la strage di Qasim del 1956, il 1967, la
strage di Damur del 1976, l’invasione del Libano da pare di Israele nel 1982.
Un’altra delle ragioni per leggerlo è la profondità dell’analisi sulla condizione
umana in situazioni drammatiche nelle quali l’uomo si trova in contesti di
4. 4
sradicamento come profugo, di violenza permanente come carcerato, allo
stesso tempo perseverante nel coltivare la propria umanità, nel segno della
dignità e del rispetto.
Infine, le pagine di Darwish sono una grande riflessione sul valore della
scrittura e in particolare della poesia; su come la parola dia voce e
consistenza al pensiero rendendo la realtà quella che è. Il poeta, come Dio è
creatore quando dà i nomi alle cose e nominandole le fa essere.
Quello che colpisce in Darwish è che il suo pensiero ben si adatta a
chiunque, anche all’uomo più semplice perché in fondo le cose, la vita, sono
per tutti uguali; solo che cambia il modo e la consapevolezza di guardarle. In
tal senso la missione del poeta si rende sociale e ‘utile’ nel senso più stretto
al nostro vivere, capace di raccontare attraverso una tazzina di caffè uno stile
di vita. Quanto alla lingua del poeta palestinese, le sue liriche sono diari intimi
dove il confine con la prosa sfuma in versi di grande modernità, senza
ornamento nel senso classico, anche se utilizza spesso il refrain come nella
lirica che chiude la Trilogia “Il giocatore d’azzardo”: ‘Chi sono io per dirvi quel
che vi dico?’. In questa domanda e nella sequenza di negazioni che fanno
seguito c’è tutta l’umiltà del poeta di fronte alla vita che in fondo anche nello
stato più penoso è un dono. Questo vale di per sé ed è sufficiente nel senso
che l’esistenza non ci deve altro. In fondo l’azzardo è il caso che gioca con
noi. Esistiamo per un caso, perché Dio ci ha fatti essere mentre avrebbe
potuto non farlo o non sceglierci, perché siamo scampati ad un incidente.
Quello che è da sottolineare della lirica di Darwish è che non si tratta di
fatalismo: nessuna rinuncia, ma una profonda autentica fede che porta
all’umile accettazione della realtà che non toglie responsabilità all’uomo, anzi
lo stimola a lottare per la libertà anche quando il risultato è una condanna.
Nei suoi versi non si può non scorgere la traccia lasciata dalla storia, quella
precarietà e fragilità che attraversa un popolo che ha nome Palestinese.
L’edizione curata da Elisabetta Bartuli riunisce per la prima volta tre testi che
rappresentano tre momenti diversi della vita di Mahmud. Il primo testo che
incontriamo è Diario di un’ordinaria tristezza: Darwish ha trent’anni e dopo
aver già pubblicato cinque raccolte di poesie, trascorso un periodo di studi a
Mosca (l’Urss del tempo ospitava molti dissidenti. Sono gli anni dell’amicizia
sovietica per molti paesi arabi come l’Algeria ad esempio) e un soggiorno al
Cairo, prende casa a Beirut. Prima aveva sempre vissuto in Palestina dove
aveva provato la condizione di profugo incarcerato più volte. Con quest’opera
nella quale racconta tutto il suo travaglio chiude secondo molti critici la fase
più patriottica del suo impegno iniziato nel 1964 con al struggente lirica
“Carta d’identità”, con il suo ‘ritornello’, ‘Scrivi! Sono un arabo…’ gravido di
futuro e preludio di quello che sta succedendo in quei luoghi. Un episodio
importante è certamente la bruciante sconfitta ad opera di Israele del 1967
che ha determinato una cesura nella storia del Medioriente.
5. 5
Nel 1987 è la volta di Memoria per l’oblio. Darwish ha lasciato Beirut e, dopo
una breve sosta a Tunisi, quindi al Cairo, si trasferisce a Parigi. E’ ormai
consacrato come uno dei più grandi poetici arabi. Si sente il travaglio
dell’elaborazione della sua poetica di pari passo con il suo cammino
esistenziale che diventa una riflessione articolata e meditata, non più ‘a
caldo’.
Infine In presenza d’assenza troviamo una grande riflessione e un
testamento poetico sull’arte e le possibilità della parola. Ad esso è affidato
anche il canto d’amore per una poetessa israeliana di cui non rivela il nome.
Lei diventa il simbolo dell’amore che è libertà e vita, che spesso è struggente
dolore.
Il libro merita più livelli di lettura. Il primo piano è certamente quello storico
che parte nel 1948 quando la nascita dello Stato di Israele pone la questione
palestinese dove emerge la dignità. Scrive Darwish “...per carattere e per
dignità, pur di conservare sempre e ovunque il proprio diritto, tutti i palestinesi
in Israele hanno preferito vivere in una prolungata situazione asfissiante,
anziché trovare un po’ di sollievo rinunciando a un pezzo di terra… Quella dei
padri era un’attesa negativa, per loro la terra significava cose concrete… Per
i figli, ossia per la mia generazione, in aggiunta a questo, terra significava
futuro e campo di lotta. Se la nostalgia è un potenziale umano passivo,
un’arma negativa, la lotta no”. Nell’ultima parte del libro parlando della
nostalgia la descrive come un dolore: “Però non è un dolore grave perché ci
ricorda che siamo malati di speranza”: un passaggio magnifico, un grande
inno alla vita. Sul tema della terra e della patria ci sono pagine molto dense
dove ad una riflessione più politica si unisce sempre il lato del vissuto e
l’amore per il mare, quel mar Mediterraneo unico che ci unisce anche se a
volte ci separa. Di tutt’altro respiro l’elogio del caffè che per chi lo ama è ‘la
chiave del giorno’, scrive Mahmud, e dal suo gusto si risale alla personalità e
alle inclinazioni di chi lo prepara. tema del caffè è lo spunto per raccontare la
pena per la privazione della bevanda in carcere, il senso di colpa per non
aver voluto dividerlo con un compagno e la giusta punizione avvertita quando
un carceriere rovescia il thermos che sua madre gli porta in visita. Darwish è
così, riesce a parlare del cielo citando il sottosuolo e viceversa. Sulla stessa
vena racconta del calcio, una follia che però riesce a far sedere insieme i
nemici e perfino a sospendere la guerra e sono righe di un’attualità estrema.
Nelle pagine di Darwish, infine, c’è anche una grande spiritualità che affiora
naturalmente, anche se bene si intuisce la sua conoscenza documentata dei
testi sacri, l’averla metabolizzata con licenza poetica e c’è tanto
Cristianesimo accanto all’islam, perché, come ha scritto qualcuno ‘pensiamo
la Palestina come un mondo arabo ma è una terra di cristiani’.
(Estratto da un articolo di Ilaria Guidantoni)
6. 6
Antologia di passi estrapolati dall’opera edita da Feltrinelli, 2014 (Per ciascun
estratto sono indicate le pagine del libro).
Prima parte: Diario di ordinaria tristezza. (prima pubblicazione:1973)
Seconda parte: Memoria per l’oblio. (p.p. 1987)
Terza parte: In presenza d’assenza. (p.p. 2006)
Vorrei un funerale con mazzi di rose rosse e gialle vorrei che a celebrare
fosse qualcuno di poche parole con la voce un po' roca, qualcuno che sappia
simulare sufficiente tristezza e che alterni la sua orazione alla registrazione
della mia voce; vorrei un funerale tranquillo semplice e partecipato. Pag.159
1 - DIARIO DI ORDINARIA TRISTEZZA p.19
Pag.7 Quando, nel 1973, dà alle stampe diario di ordinaria tristezza, Darwin
ha trent’anni , ha pubblicato cinque raccolte di poesie e, al termine di un
biennio scivolato via tra gli studi all’Università di Mosca e un lungo soggiorno
al Cairo, ha preso casa a Beirut. Prima aveva sempre vissuto in Palestina. In
Palestina era nato, in Palestina aveva trascorso infanzia e adolescenza, in
Palestina aveva studiato, era diventato un giovane uomo e aveva dato
forma alla sua coscienza politica. Prima profugo, poi presente-assente e
arabo di Israele senza cittadinanza, più volte incarcerato più volte
condannato agli arresti domiciliari nella sua casa di Haifa, aveva patito nella
sua carne la condizione vissuta dalla sua gente: l’esilio, l’esilio in patria, la
sete di libertà, le miserie del vivere quotidiano, l’atroce dolore della disfatta
del giugno 1967.
Pag, 8 Con diario di ordinaria tristezza chiude quella che i critici
chiamano la fase rivoluzionaria patriottica del suo percorso poetico, una fase
che si era inaugurata nel 1964 con la sua poesia forse più famosa:
carta d’identità :
Scrivi sono arabo/defraudato delle vigne dei miei avi /E della terra che
coltivavo/Insieme ai miei figli/A noi e a tutti i nostri posteri/Non hai
lasciato/Che queste pietre.
Più tardi nel 1987 quando pubblica memoria per l’oblio Darwish ha lasciato
Beirut e dopo una breve sosta prima a Tunisi poi al Cairo vive a Parigi.
7. 7
L’altro, il nemico, lo straniero
Il rapporto di M. Darwish con l’altro, il nemico, lo straniero, è parte importante
dell’analisi dell’opera di M. Darwish.
p.13 L’altro, per Darwish. non è solo Rita. L’altro sono tutte le persone, illustri
e sconosciute, che pervicacemente allinea una accanto all’altra nel secondo
e terzo capitolo del diario di ordinaria tristezza in cui la denuncia
dell’ideologia sionista e le distorsioni del pensiero politico sono supportate da
una profonda conoscenza della società e della psiche israeliane.
p. 54 - il senso di colpa
Nella letteratura ebraica moderna si trovano vari esempi di trasfigurazione del
senso di colpa. Tuttavia è un sentimento che emerge dalla fiducia in se
stessi, una sorta di confessione del più forte, fuori dai denti, in cui forza e
vittoria si mescolano a un velo di cipria liberalista e umanista, ma solo molto
più tardi e a strage avvenuta. E a ogni modo non sta a significare né
pentimento né rammarico. Somiglia molto di più ai monologhi interiori
dell’assassino, a omicidio commesso. Come, per esempio, l’intellettuale
americano che descrive la tragedia dei pellerossa simpatizzando con i vinti.
Questa conclusione è tratta dalla lettura del romanzo di Ioshua, Di fronte ai
boschi, Torino 1999 (p.52-54 della Trilogia)
Se ne consiglia la lettura.
Cosa significa la parola patria:
p.55
La carta geografica non ha la risposta perché somiglia molto più a un disegno
astratto. La tomba di tuo nonno non è una risposta, perché un boschetto può
farla scomparire. Non hanno occupato soltanto la terra e il lavoro, ma anche
la tua psiche, il tuo carattere e quello che ti lega alla patria tanto da farti
sorgere domande sul significato di patria.
Ti hanno strappato la terra da sotto i piedi, così l’hai nascosta sotto la pelle.
Ti hanno torturato, ma hai confessato un amore ancora più folle per quel che
ha causato la tua tortura.
Sotto lo stridio delle catene, l’alienazione che ti viene da ogni singolo giorno,
si trasforma in una tregua con il vento. In prigione ti abbraccia la libertà, in
prigione ti riempi anche di patria. La lotta è la risposta. Se combatti appartieni
a qualcosa. La patria è lotta. Tra valigia e memoria non c’è altra soluzione
che la lotta. Diritto, libertà, appartenenza, merito si dichiarano soltanto con la
lotta.
8. 8
Palestina ( vedi pagine 39-57).
p.42 - molto presto la parola Palestina è diventata proibita. Se tu ammetti di
essere venuto dal Libano sei considerato un infiltrato clandestino: non ottieni
più la carta d’identità. A cinque minuti di distanza da questo paese passa la
strada che da Acri porta a Safed. Per te non è una strada, ma un confine che
divide la terra del tuo esilio e del tuo rifugio dalla tua patria. A sud della strada
c’è la terra di tuo padre e di tuo nonno oggi coltivata da immigrati ebrei
yemeniti. Nel momento in cui sono arrivati lì definendo il loro destino e quello
dei loro figli, in quello stesso momento hanno definito anche il tuo destino.
Nel momento in cui loro sono diventati cittadini tu sei diventato profugo.
p.44 Un soldato israeliano, un poeta, mi ha raccontato che soltanto un giorno
in vita sua si era sentito straniero in Palestina, quando era entrato in un
paese arabo in Cisgiordania dopo la guerra del 1967. Era in uniforme e per
strada aveva visto una bambina che lo guardava in modo da fargli tremare la
terra sotto i piedi. Da quegli occhi, da quello sguardo inspiegabile si era reso
conto che lui era un occupante.
p.117-120 (estratto) Silenzio per Gaza
Si è legata l’esplosivo alla vita e si è fatta esplodere. Non si tratta di morte,
non si tratta di suicidio. È il modo in cui Gaza dichiara che merita di vivere.
Gaza non si vanta delle sue armi, né del suo spirito rivoluzionario, né del suo
bilancio. Lei offre la sua pellaccia dura, agisce di spontanea volontà e verso il
suo sangue. Gaza non è un fine oratore, non a gola. È la sua pelle a parlare
attraverso il sangue, il sudore, le fiamme. Per questo, il nemico lo odia fino
alla morte, la teme fino al punto di commettere crimini e cerca di affogarla nel
mare, nel deserto, nel sangue. Per questo gli amici suoi cari la mano con un
pudore che sfiora quasi la gelosia e talvolta la paura, perché Gaza e Barbara
lezione e luminoso esempio sia per i nemici che per gli amici. Gaza non è la
città più bella. Il suo litorale non è più blu di quello di altre città arabe. Le sue
arance non sono dei migliori del bacino del Mediterraneo.
Gaza non è la città più ricca. (Pesce, arance, sabbia, tende abbandonate dal
vento, merce di contrabbando, braccia noleggio.) Non è la città più raffinata,
nella più grande, ma equivale alla storia di una nazione. Perché agli occhi dei
nemici è la più ripugnante, la più povera, la più disgraziata, la più feroce di
tutti noi. Perché è la più abile a guastare l’umore e il riposo del nemico ed il
suo incubo. Perché arance esplosive, bambini senza infanzia, vecchi senza
vecchiaia, donne senza desideri. Proprio perché, nella più bella, la più pura,
la più ricca, la più degna d’amore tra tutti noi. Facciamo torto a Gaza quando
la trasformiamo in un mito, perché potremmo odiarla scoprendo che non è
niente di più di una piccola e povera città che resiste. Faremmo torto a Gaza
se la glorificassimo. Perché la nostra fascinazione per lei ci porterà ad
aspettarla. Ma Gaza non verrà da noi, non ci libererà. Non ha cavalleria, né
9. 9
aeronautica, né bacchetta magica, né uffici di rappresentanza nelle capitali
straniere. In un colpo solo, Gaza si scrolla di dosso i nostri attributi, la nostra
lingua e i suoi invasori. Gaza ha circostanze particolari e tradizioni
rivoluzionarie particolari. La resistenza a Gaza non si è trasformata in una
professione. La resistenza a Gaza non si è trasformata in una istituzione.
Non ha accettato ordini da nessuno, non ha affidato il proprio destino alla
firma né al marchio di nessuno. La ferita di Gaza non è stata trasformata in
pulpito per le prediche. Per questo Gaza sarà un pessimo affare per gli
allibratori. Per questo sarà un tesoro etico e morale inestimabile per tutti gli
arabi. La cosa bella di Gaza è che le nostre voci non la raggiungono, niente
la distoglie. Niente allontana il suo pugno dalla faccia del nemico. Né il modo
di spartire le poltrone nel congresso nazionale, né la forma di governo
palestinese che fonderemo nella parte est della luna o nella parte ovest di
Marte, quando sarà completamente esplorato. Niente la distoglie. È dedita al
dissenso: fame e dissenso, site e dissenso, diaspora e dissenso, tortura e
dissenso, assedio e dissenso, morte e dissenso. I nemici possono avere la
meglio sul Gaza. Il mare grosso può avere la meglio su una piccola isola.
Possono tagliarle tutti gli alberi. Possono spezzarle le ossa. Possono piantare
i carri armati nelle budella delle sue donne e dei suoi bambini. Possono
gettarla a mare, nella sabbia o nel sangue. Ma lei: non ripeterà le bugie. Non
dirà sì agli invasori. Continuerà a farsi esplodere. Non si tratta di morte, non
si tratta di suicidio. Ma è il modo in cui Gaza dichiara che merita di vivere.
(Scritto nel 1973!)
LE DUE MEMORIE
p.45 La memoria ebraica ha trasformato una delle sue pretese basilari in
rivendicazione di diritto alla Palestina, eppure è incapace di riconoscere il
diritto altrui e di apprezzarne il senso della memoria. Gli israeliani rifiutano di
convivere con la memoria palestinese, rifiutano di riconoscerla, nonostante
uno degli slogan nazionali ebraici sia “non dimenticheremo”.
Mantenere la coscienza collettiva in stato di perenne ricordo per polarizzare il
sentimento nazionale è una delle materie fondamentali insegnate nella
scuola israeliana, la prima nella scala delle priorità sioniste. Ripetono
sempre: “possa io dimenticare la mia mano destra, se ti dimentico,
Gerusalemme!”. Dopo l’olocausto a cui gli ebrei europei sono stati sottoposti
dal nazismo, il loro motto fondante è diventato “non dimenticheremo e non
perdoneremo”.
Ogni anno gli israeliani commemorano le proprie vittime. Israele si ferma. Ci
sono un museo specifico, un insegnamento specifico, un programma
specifico per ricordare l’olocausto alle nuove generazioni. Nel libro di Amos
10. 10
Elon intitolato Israeliani, c’è un capitolo specifico dedicato a questo
argomento che dice: “Agli occhi della giovane generazione post-sionista,
l’olocausto ha perciò confermato uno dei temi fondamentali del sionismo
classico del 19º secolo: senza un paese proprio si è la feccia della terra,
preda inevitabile delle belve”. Nel libro viene riconosciuto il fatto che la
politica israeliana strumentalizza l’olocausto come ricatto emotivo.
La cultura israeliana insiste nel saturare i cittadini con le memorie
dell’Olocausto avvenuto in Europa per acuire la sensazione di esilio e
isolamento dal resto del mondo. Sensazione essenziale nella psicologia e nel
temperamento israeliani. Alimentare la memoria israeliana ha un intento
politico preciso: acuire la rivendicazione sionista della Palestina inculcando
negli israeliani la convinzione che la minaccia dello sterminio rimane costante
e che tornare e rifugiarsi in “terra d’Israele” è l’unica garanzia di sicurezza
storica e politica.
p. 46 L’olocausto e sua utilizzazione a fini politici
Non dimenticare le stragi naziste è un dovere di tutti, non soltanto degli ebrei.
Qualsiasi livello di antagonismo arabo-israeliano si sia raggiunto, nessun
arabo ha il diritto di simpatizzare con il nemico del proprio nemico, perché il
nazismo è nemico di tutti i popoli. E questa è una cosa. Però Israele sfoga i
suoi rancori su un altro popolo chiedendo ai palestinesi e a qualsiasi altro
arabo di pagare il prezzo di crimini che non hanno commesso. E questa è
un’altra cosa. Gli israeliani si vantano di fronte al mondo di essere i primi
profughi ed esiliati nella storia dell’umanità, fino al punto di trasformare
questo attributo in un segno distintivo. Però sono completamente incapaci di
comprendere che anche altri possono possedere lo stesso senso. Non è
crudele affermare che il comportamento dei sionisti contro il popolo
palestinese è paragonabile alle pratiche naziste applicate contro gli stessi
ebrei. Non è crudele affermare che il comportamento israeliano e quello del
movimento sionista nei rapporti internazionali strappano proprio di bocca il
commento: commerciano con il sangue delle vittime ebree. Con i soldi e
l’equipaggiamento ricevuti in risarcimento delle vittime del nazismo uccidono
un altro popolo. Dunque non è crudele nemmeno affermare che il modo in cui
Israele commemora le vittime del nazismo è caratterizzato dal ricatto
emotivo;; in quanto saturare gli israeliani tramite il senso dell’olocausto spinto
all’eccesso e contemporaneamente tramite il bisogno di vendicarsi non del
proprio carnefice ma di un’altra vittima, ossia il popolo palestinese, è un
obiettivo politico. il sionista arrogante non si vergogna di vantare che la
perdita di 6 milioni di ebrei, o giù di lì, gli è valsa una patria.
(Mahmud Darwish, Una trilogia palestinese, Feltrinelli ed., 2014, p.46-47)
11. 11
KAFR QASIM
p.79
Nel
1956
alla
vigilia
dell’aggressione
tripartita anglo franco israeliana contro
l’Egitto,
il
colonnello
Shadmi
convoca
il
colonnello
Malinki
nel
quartier
generale
assegnandogli la missione per il suo distaccamento. È una di quelle missioni
affidate alla guardia di frontiera nel distretto centrale con l’ordine
operativo
di
imporre il coprifuoco dalle cinque di sera alle sei di mattina nel paese di Kafr
Qasim e in quelli circostanti. Shadmi: non è ammessa alcuna eccezione al
coprifuoco. Svolgete sorveglianza con pugno di ferro. Non arrestate i
trasgressori, sparategli. Meglio ucciderli piuttosto che incorrere nelle
complicazioni che comportano gli arresti. Malinki: che ne sarà dei cittadini che,
tornando
dal
lavoro
ignari
dell’ordine
di
coprifuoco,
con
tutta
probabilità
s’imbatteranno
delle
pattuglie
della
guardia
di
frontiera
all’ingresso
del
paese?
Shadmi:
Niente
sentimentalismi.
Pace
all’anima
loro.
Il seguente dialogo si svolge tra Malinki e i suoi soldati:
cosa dobbiamo fare dei feriti?
Malinki: Non è a far vostro. Non rimuoveteli. Non ci saranno feriti.
Che cosa dobbiamo fare con donne e bambini?
Malinki: Niente sentimentalismi.
Che cosa dobbiamo fare con chj torna dal lavoro?
Malinki:
Stesso
trattamento
per
tutti.
Pace
all’anima
loro.
Così
ha
dato
ordine
il
comandante.
A
un
bambino
di
otto
anni,
di
nome
Talal
Shakir
‘Issa,
scappa
una
capra
dal
cortile di casa e finisce in strada. Né il bambino né la capra sanno che il
coprifuoco in paese è già in vigore da qualche minuto. Il bambino corre dietro
alla capra, le pallottole gli scrosciano addosso e lo colpiscono a morte. Il padre
raggiunge il figlio e il fucile spara portando a termine la propria missione. La
madre corre verso il figlio e marito e il fucile spara portando a termine la
propria missione. La figlia Nura raggiunge genitori e fratello e il fucile spara
portando a termine la propria missione.
Il superstite:
Quel giorno lavoravo in un frutteto con due miei cugini. Poco dopo le quattro
avevamo terminato e stavamo tornando al paese in bicicletta. Per strada,
abbiamo incontrato
altri
braccianti,
ci
hanno
raccontato
che
in
paese
c’era
il
coprifuoco e sparavano, ma nessuno sapeva il perché. Dopo qualche esitazione
12. 12
abbiamo deciso di proseguire. Nel frattempo eravamo diventati 15. Siamo
arrivati a qualche chilometro dal paese, senza essere seriamente preoccupati.
Immaginavo
che
alla
peggio
ci
saremmo
imbattuti
in
Blum,
l’ufficiale
della
guardia
di
frontiera.
Magari
ci
avrebbe
umiliato
e
picchiato
un
po’,
come
al
solito,
ma non mi sarei mai aspettato qualcosa di diverso. Poco dopo abbiamo sentito
degli spari e mi sono reso conto che la faccenda era pericolosa. “Torniamo
indietro”,
ho
detto
a
mio
cugino. Lui mi ha fatto coraggio. All’improvviso
un
uomo
della
guardia
di
frontiera
ci
ha
sbarrato
la
strada:
“alt”. Siamo scesi dalle
biciclette. Il soldato ci ha ordinato di mettersi in fila:
“di
dove
siete?”
Di Kafr Qasim, abbiamo gridato in coro.
Dove eravate?
Al lavoro.
È
indietreggiato
di
5
m,
quando
è
stato
all’altezza
dei
due
commilitoni
che
imbracciavano le mitragliatrici, ha gridato: falciateli. Non ho creduto a quel che
stava succedendo, finché le pallottole non hanno cominciato a pioverci addosso.
La prima raffica mirava alle gambe, la seconda più in alto. Sono caduto a terra
con gli altri. …
Poco
dopo
è
arrivato
un
camion. Gli israeliani lo hanno fermato e
hanno ordinato di scendere a tutti i passeggeri. Si trattava per la maggior parte
di braccianti della ditta agricola Osamia, in seguito ho saputo che erano 23. I tre
assassini sono tornati verso di me e verso gli altri ciclisti uccisi e hanno
cominciato ad ammassare i corpi in un mucchio a 3 m di distanza. Davano il
colpo di grazia ai feriti con le pistole. Ho stretto i denti per non gridare, fingendo
di essere morto. Mi hanno trascinato per aggiungermi al mucchio e si sono
allontanati. Dopo è arrivato un altro carretto con due persone a bordo. Hanno
ammazzato anche loro. Ho
visto
i
tre
assassini
sedersi
al
pozzo.
Dopo
un
po’
è
arrivato un altro camion. …
Più
tardi
ho
saputo
che
dentro
c’erano
quattro
ragazzi e tredici ragazze dai 12 anni in su. All’improvviso
di
tre
assassini
hanno
iniziato a correre dietro al camion, lo hanno bloccato e hanno intimato a tutti i
passeggeri di scendere.. …
I
fischi
delle
pallottole
si
mescolavano
agli
strilli
delle
ragazze e ai tonfi dei corpi che cadevano a terra.
Dagli atti del processo:
avvocato: è vero che lavora al servizio del paese e che per tutta la vita avuto la
sensazione che gli arabi sono nostri nemici?
Soldato: sì, è vero.
Avvocato: è vero che ha questa sensazione sia verso gli
arabi
d’Israele
che
verso
quelli fuori da Israele?
13. 13
Soldato: sì. Non faccio differenza.
Avvocato:
è
vero
che
se
non
avesse
eseguito
l’ordine
di
uccidere
tutti
gli
arabi
che erano fuori casa si sarebbe sentito un traditore dello spirito inculcato
dall’esercito e dalla guardia di frontiera?
Soldato: sì, è vero.
Giudice: supponga che fosse accaduto quanto segue a Qasim: dopo le cinque di
sera una donna la chiama, sicuramente non costituisce un pericolo né una
minaccia per la sicurezza, la chiama soltanto per chiedere il permesso di tornare
a casa. Supponiamo per esempio che siano le cinque e venti e quella donna sia a
10 metri da casa sua e le chieda il permesso di entrarci. Che cosa farebbe?
Soldato: non glielo permetterei.
Giudice: che cosa farebbe?
Soldato: se fosse per strada le sparerei.
Il
giudice:
ma
non
c’è
alcun
pericolo.
Non
è
altro
che
una
persona
che,
o
per
errore o perché non sa che vige il coprifuoco, si dirige verso di lei e le chiede il
permesso di attraversare la strada. La domanda è: lei, nonostante questo,
ucciderebbe chiunque si presentasse oppure farebbe distinzione e non
sparerebbe in casi specifici?
Soldato: non farei distinzione.
Giudice: ucciderebbe chiunque?
Soldato: sì.
Giudice: persino donne e bambini?
Soldato: sì.
Giudice: ucciderebbe chiunque vede?
Soldato: sì.
…
pag.
90
Il processo si è svolto rapidamente. Il tribunale ha trovato Shadmi colpevole
soltanto
di
“un
errore
tecnico”,
per
cui
è
stato
condannato
a
una
tirata
d’orecchie
e
all’ammenda
di
un
centesimo. Il crimine di Kafr Qasim è stato un crimine
pianificato
ed
eseguito
“per
futili
motivi”.
Un
crimine
fine
a
se
stesso.
Ossia
la
più
alta forma di crimine mosso da istinti di omicidio e di vendetta. Il famoso
terrorista Menachem Begin alludeva a questo tipo di violenza armata quando
scriveva che i metodi violenti a cui hanno fatto ricorso dei sionisti prima del
14. 14
1948
erano
l’unico
modo
efficace
per
assicurare
gli
obiettivi
nazionali
in
Palestina
e
per
“saziare
la
brama
repressa
di
vendetta
degli
ebrei”.
Questo
prima
del 1948.
Perché
Kafr
Qasim,
dunque,
nel
1956?
Forse
perché
l’assioma
esistenzialista
dei
terroristi
sionisti
“combatto
dunque
sono”
ha
bisogno
di
pratica costante e continue dimostrazioni. O forse perché il sionista israeliano
che nutre un desiderio represso di vendetta, come afferma Begin, ha bisogno di
rigenerarsi in un unico modo, ossia con la guerra, e di riempire la propria
esistenza con nuove ragioni per distinguersi, ossia uccidere, uccidere, uccidere.
“Sii
mio
fratello,
altrimenti
ti
uccido”
aggiunge
il filosofo del crimine. E siccome
gli arabi sotto il giogo israeliano non riescono a fraternizzare con il loro
assassino,
il
cerchio
dell’omicidio
non
si
chiuderà
mai. Come non avranno mai
fine nel pensiero sionista le innumerevoli giustificazioni della violenza armata
ispirate persino dalla religione. Infatti, il Giosuè biblico è diventato un eroe
israeliano contemporaneo per la ferocia con cui trattava i non ebrei. Il popolo
arabo in Palestina ha saputo come vendicare i propri figli, si è aggrappato alla
patria
con
le
unghie
e
con
i
denti
e
ha
urlato
agli
invasori:
“Non
firmerò
l’atto
di
perdono”. Le autorità hanno continuato a vendicarsi di questo popolo,
raggiungendo
l’apoteosi
della
vendetta
con
l’inaugurazione
della
città
del
furto,
Karmiel, fondata sulle macerie di tre villaggi arabi in Galilea proprio il giorno
dell’anniversario
del
massacro
di
Kafr
Qasim.
COLLOQUIO TRA UN GIOVANE PALESTINESE E UN GIOVANE ISRAELIANO
p.62 "Scriviamo una pièce insieme?
“Va bene scriviamola”.
"Cerchiamo un punto d'incontro?"
"Va bene, cerchiamolo. "
"Svisceriamo per bene la questione?"
"Va bene, svisceriamola. "
"Una casa contesa potrebbe essere il fulcro della pièce?"
"Certo, potrebbe."
"Ci incontriamo tra un mese?"
" A tra un mese."
In quel momento, nel campo profughi, Khadija stava salutando il figlio, gli
consegnava le chiavi della casa che gli era appartenuta a Haifa, chiamata " Ia
casa rossa ". Nello stesso momento Sara, che ora abitava nella "casa rossa", stava
15. 15
salutando il figlio, richiamato da un comunicato radio che gli ordinava di
raggiungere la sua unità militare. I due ragazzi, provenienti da direzioni opposte
si incontrano in qualche parte nel bosco e si affrontano. Non importa sapere chi
dei due uccide l'altro.
"Hai finito il capitolo?"
"Sì, ho finito"
In esilio, mio padre non mi ha insegnato il suicidio né la disperazione, non mi ha
insegnato a-rinunciare
alla
mia
identità
ebraica,
mi
ha
cresciuto
con
l’idea
che
ero stato cacciato e malgrado questo mi ha insegnato a vivere.
"E tu cosa hai scritto?"
In esilio, mio padre non mi ha insegnato il suicidio né la disperazione, non mi ha
insegnato a rinunciare alla mia identità palestinese. Mi ha cresciuto con l'idea
che ero stato cacciato e malgrado questo mi ha insegnato a vivere.
"Questo è un punto d'incontro importante"
"La casa che polarizza i nostri destini è un punto d'incontro o un punto d'addio?"
"E un punto di scontro."
"Come lo risolve la pièce?"
"Possiamo dire che il diritto di proprietà non scaturisce dall'eredità ma dal
bisogno e dal merito. Secondo questo fondamento, l'uomo che ha costruito
questa casa cinquant'anni fa, ora non ne è più il proprietario di diritto, perché
abbandonandola, non importa per quali circostanze, è come se avesse rinunciato
al suo diritto, non avendone più bisogno.
Quanto al proprietario attuale ha fatto tutti gli sforzi possibili per impadronirsi
di questa casa che non appartiene a nessun altro."
"Dov'è la giustizia in questa pièce?"
" Giustizia, giustizia. Cerchiamola ora, insieme. Facciamo in modo che il senso di
rimorso domini nella casa finché il tempo non fa il suo corso. Facciamo in modo
che, esprimendo i sensi di colpa, gli ebrei risarciscano la perdita della casa da
parte degli arabi."
"Incontriamoci tra un mese affinché possa proporre un'altra formula di giustizia
più equa."
"Va bene, a tra un mese."
16. 16
In quel momento, c'erano altre case, in altre città, che stavano cambiando
proprietario. Chiavi nuove si ammucchiavano sopra quelle vecchie nei campi
profughi palestinesi che, guerra dopo guerra, diventavano sempre più stretti. Di
notte, dei ragazzi prendevano quelle chiavi e non tornavano più.
VUOI TORNARE A CASA IN TAXI?
p.68
Ti rivolgi al tassista in perfetto ebraico. Il tuo aspetto non denuncia la tua
identità.
"Dove andiamo, signore?" chiede il tassista.
"Via al-Mutanabbi."
Accendi
una
sigaretta
per
te
e
una
per
lui
perché
è
gentile.
All’improvviso
dice:
"Fino a quando dobbiamo sopportare questo schifo? Siamo stufi".
Credi che sia stufo dello stato di guerra, dell'aumento delle tasse, del prezzo del
latte e condividi: "Ha ragione, siamo proprio stufi".
Fino a quando il nostro stato manterrà questi sporchi nomi arabi? Deve
cancellare loro e i loro nomi dalla faccia della terra. "
"Loro chi?"
"Gli arabi, ovvio," esclama disgustato.
Gli chiedo il motivo e risponde: "Perché sono sporchi".
Dall'accento riconosci che è un ebreo immigrato da Marrakesh.
"Sono sporco fino a questo punto? Lei, per esempio, è più pulito di me?"
"Cosa intende?" sbotta sorpreso.
Gli chiedi di arrivarci da solo, allora capisce ma non ci crede.
"La smetta di scherzare!".
Solo dopo aver visto la tua carta d'identità crede davvero che sei arabo.
"Non intendevo i cristiani, intendevo i musulmani."
Precisi che sei musulmano e lui: "Non intendevo tutti i musulmani, intendevo
quelli di paese".
17. 17
Allora gli racconti che sei di un paese arretrato che è stato raso al suolo e
cancellato dalla faccia della terra a piacimento dello stato d'Israele'
"Con tutto il rispetto per lo Stato," esclama.
Scendi dal taxi decidendo di tornare a casa a piedi. Ti viene voglia di leggere i
nomi delle strade. In effetti li hanno cancellati. Via Salah al-din è diventata via
Shlomo. Allora ti domandi: "Come mai hanno mantenuto il nome di al-
Mutanabbi?".
Ma quando arrivi là, per la prima volta, leggi il nome della via e ti sembra Monte
Nebo in ebraico e non al-Mutanabbi come credevi tu.
p.121 A tarda notte il mondo va a dormire.
Uccidiamo la memoria
Così il mondo va a dormire e mi dimentica.
- Non svegliare la vittima, potrebbe gridare -.
- Chi l’ha svegliata? Chi è stato -?
- Un vento che soffia all’improvviso, rianima i morti -.
- Da dove soffia -?
- Da ogni direzione, dalla patria -.
- Chi ha insegnato loro questo termine desueto -?
- Poeti che cantano al suono del rababà -.
- Uccideteli -.
- Li abbiamo uccisi, ma hanno inventato un altro termine: libertà -.
- Chi ha insegnato loro questo termine sedizioso -?
- Ferventi rivoluzionari –
- Uccideteli -
- Li abbiamo uccisi, ma hanno imparato un’altra parola: giustizia -
- Chi ha insegnato loro questo termine? -
- L’oppressione. Possiamo uccidere l’oppressione? -
- Se annientate l’oppressione, annientate voi stessi -
18. 18
- Che facciamo? -
- Uccidiamo la memoria. -
2 - MEMORIA PER L'OBLIO (Pag. 139 )
Pag. 9 Memoria per l’oblio è un testo polifonico che accosta
discorsi diretti e indiretti, monologhi interiori, narrative contrapposte, sogni,
descrizioni, poesie e articoli di giornale, citazioni delle sacre scritture, esegesi
mussulmana, storiografia araba e non araba, lessicografia e letteratura
europea.
Il caffè. 154
Gli invasori sono capaci di tutto, sono in grado di scatenarmi contro il mare,
l’aria
e
la
terra,
ma
non
riusciranno
a
strapparmi
l’odore
del
caffè.
Mi
farò
un
caffè, adesso, subito. Berrò il mio caffè, adesso, subito. Adesso, subito, mi
ubriacherò
d’odore
di
caffè.
Lo
farò
per
distinguermi
dalle
pecore,
per
vivere
ancora
un
altro
giorno,
oppure
per
morire
avvolto
nell’odore
di
caffè.
…
Allontanare
il
recipiente
dal
fuoco
basso
per
permettere
che
la mano realizzi
la prima delle sue opere. Non badare ai missili, ai proiettili e agli aerei. Perché
questa è la mia volontà, questo è ciò che voglio: spargerò odor di caffè per
riappropriarmi della mia alba. Non guardare verso la montagna che sputa
matasse di fuoco contro la mano.
…
Una
cucchiaiata
di
caffè
esaltato
dal
cardamomo,
un’unica
cucchiaiata,
getta
l’ancora,
maestosa,
sull’incresparsi
dell’acqua
bollente.
Tu
mescola
muovendo
piano
il
cucchiaio,
prima
in
tondo
e
poi
dall’alto
verso
il
basso.
Aggiungi la
seconda cucchiaiata, porta la polvere da su a giù e poi, con un movimento
circolare,
da
sinistra
a
destra.
Versa
la
terza
cucchiaiata.
Fra
l’una
e
l’altra,
ogni
volta,
allontana
per
un
momento
il
recipiente
dal
fuoco,
e
subito
dopo
“carica”
il
caffè, ossia riempi il cucchiaio di polvere che va sciogliendosi, sollevalo bene in
alto
e
rituffalo
nell’acqua,
più
e
più
volte,
fino
a
quando
non
riprende
a
bollire
e
forma una pellicola bionda che si addensa in superficie e quasi affonda. Non
lasciare che vada a fondo. Spegni il fuoco e non badare ai missili. Porta il caffè nel
tuo angusto corridoio. Versalo, teneramente, con eleganza, in una tazza bianca -
quelle scure attentano alla libertà del caffè -. Osserva le volute di vapore, il velo
profumato che si leva. Accenditi una sigaretta, adesso, la tua prima sigaretta,
appositamente rollata per questa tazza di caffè; sarà una sigaretta dal sapore
galattico,
ineguagliabile
non
fosse
per
quella
che
segue
l’amore,
quella
che
fumi
mentre la donna che è con te secerne la sua ultima goccia di sudore e sospira.
19. 19
Eccomi, sto tornando al mondo. Nelle vene mi scorre una stimolante droga, un
fiume di vita nata dal matrimonio tra caffeina e nicotina, una cerimonia officiata
dalla mia mano. Chissà come fa a scrivere, mi chiedo, una mano che non sa
preparare il caffè. E che dire di tutti cardiologi che, fumando come ossessi, mi
hanno
ripetuto:
“non
fumare
e
non
bere
caffè”.
A
tutti
ho
risposto,
scherzando:
“gli
asini
non
fumano
e
non
bevono
caffè,
però
nemmeno
scrivono”.
Conosco il mio caffè, il caffè di mia madre e il caffè dei miei amici. Li riconosco da
lontano, so bene in cosa sono diversi. Non esistono due caffè che si somiglino. E
il
mio
panegirico
del
caffè
è
anche
un’apologia
della
diversità.
Non
c’è
sapore
che
possa essere
definito
“di
caffè”.
Il
caffè
non
è
un
concetto,
non
è
un
unico
elemento, non è un assoluto. Ognuno ha il proprio caffè, talmente particolare,
talmente
specifico
che
io,
dal
sapore
del
caffè
che
mi
offre,
riesco
a
farmi
un’idea
di una persona, a stabilirne il grado di eleganza interiore. Se il caffè sa di
coriandolo, significa che la padrona di casa non tiene in ordine la cucina. Se ha
un retrogusto di carruba, il padrone di casa è avaro. Se odora di profumo, la
signora
che
l’ha
fatto
è
molto
attenta
all’esteriorità.
Se
lascia
in
bocca
una
patina
muschiata,
l’ha
preparato
un
sinistrorso
mai
cresciuto.
Se
sa
di
vecchio
da
quanto
è
stato
lasciato
bollire,
è
l’opera
di
un
estremista
di
destra.
Se
si
sente
solo il cardamomo, è cosa da arricchiti.
Non esistono due caffè che si somiglino. Ogni casa ha il suo caffè, ogni mano il
suo, perché nessuno somiglia davvero a qualcun altro. Io lo sento arrivare da
lontano: inizialmente si muove in linea retta, poi serpeggia, si attorciglia e si
contorce, si lamenta avvolgendosi a declivi e pendii, si aggrappa a querce e a
pioppi,
lotta
per
scendere
a
valle,
si
gira
all’indietro,
si
strazia
dal
desiderio
di
risalire la montagna e poi, posato sulle note di un flauto, si dirige di nuovo verso
la sua prima dimora.
L’odore
del
caffè
è
un
ritorno,
un
rientro
nell’elemento
primigenio,
perché
rimanda
all’essenza
del
luogo
d’origine;
è
un
viaggio
iniziato
migliaia
d’anni
fa
ed
eternamente
ripetuto.
Il
caffè
è
un
luogo.
Il
caffè
è
una
porosità
da
cui
l’interno
traspira
all’esterno, è
un’interruzione
che
unisce
quel
che
solo
l’odore
di
caffè
può
unire.
Il
caffè
è
l’antitesi
dello
svezzamento,
è
una
mammella
che
nutre
da
lontano,
un
mattino
che
nasce
da
un
sapore
amaro,
è
l’arte
della
virilità.
Il
caffè
è
geografia.
L'acqua
p.165
mi importa poco di quel che succede al di là del vetro. Bombe. Missili. Sirene.
Aerei. Corazzate. Mi soffiano contro come soffia il vento. Piovono come
pioggia che cade. Sussultano come farebbe un terremoto. La volontà umana
non può far nulla per fermarli, pare sia un destino ineluttabile. Sui nostri corpi,
20. 20
oggi, si sta testando ogni nefandezza che l'ingegno umano ha potuto
partorire e, in aggiunta, tutto un bagaglio di innovazione tecnologica. Sarà il
giorno più lungo della storia? Nessuno lava i morti, siano quindi i morti a
lavarsi da sé. Col sangue, intendo, visto che l'acqua è introvabile. Faccio
sempre tesoro, io, delle mie preziose riserve idriche, utilizzo ogni goccia con
estrema parsimonia. Ogni goccia ha il suo ruolo. Le conto, quasi. 500 per
lavarmi i capelli. Duemila per il corpo. 100 per la bocca. 100 per farmi la
barba. 20 per ogni orecchio. 50 per ogni ascella e via di seguito. Ogni goccia
ha il suo pezzetto di corpo.
p.166
L'acqua è aria in gocce, palpabile, tangibile, pegno di luce. È per questo che i
profeti hanno voluto che i loro popoli la amassero: dall'acqua abbiamo fatto
germinare ogni cosa vivente (Corano, 21º, 30).
A Tell al-Za’tar i cecchini aspettavano le donne palestinesi vicino all'acqua,
vicino alle condutture bucate, esattamente come fanno i cacciatori quando
braccano le gazzelle assetate. Acqua assassina. Acqua che diluisce il
sangue di gente disidratata, disposta a rischiare la vita pur di inumidirsi le
labbra. Acqua che ha mosso i re degli arabi e li ha costretti loro malgrado a
telefonare al presidente americano per proporre uno scambio vantaggioso:
sangue in cambio dell'acqua. Petrolio in cambio dell'acqua. Noi stessi in
cambio dell'acqua.
Il rumore dell'acqua è come uno schiamazzo di nozze, più forte, molto più
forte di qualsiasi aereo. Il rumore dell'acqua fa da specchio alle vene della
terra che vive, il rumore dell'acqua è libertà. Il rumore dell'acqua è umanità.
179
Nell’area invasa, sul mare invaso, sulla montagna invasa e sulle sue distese
di pini continuano a piovere bombe, bombe di paure primordiali; la cacciata di
Adamo dal paradiso terrestre si inserisce nella moltitudine di storie che
raccontano un esodo. Non ho patria, non ho più corpo. Continuano a piovere
bombe sui cantici di gloria, sul conversare di morte che scorre nel sangue
come luce che infiamma domande gelide. I missili mi penetrano in ogni poro
della pelle e ne escono indenni. Non sento l’inferno che l’area diffonde,
perché lo respiro, lo sudo in ogni goccia di sudore.Voglio cantare. Sì, esatto,
voglio cantare questo giorno bruciato. Voglio cantare. Trovare le parole che
muteranno la lingua in acciaio dell’anima, una lingua che sappia battere
questi aerei, questi insetti d’argento scintillante. Voglio cantare. Inventare una
lingua che mi sostenga e che sosterrò, la lingua che mi dia prova e a cui darò
prova della forza che ci abita, una forza capace di trionfare sulla solitudine
universale. Voglio cantare e poi andar via.
21. 21
p.197
quante incongruenze tra noi palestinesi.
Ci sono interi uffici con tanto di aria condizionata e saloni di rappresentanza
che servono solo a diffondere calunnie e maldicenze. Qualche gruppuscolo si
è specializzato nel commercio di martiri: ce ne servirebbero altri 20 per
portarci al livello.
E così si è combattuto per accaparrarsi un martire di cui non si conosceva
l’affiliazione. Si è messo a morte un combattente perché ha rifiutato di
sparare a un amico che militava in un’altra organizzazione. Si è buttato il suo
cadavere in un pozzo abbandonato e lì è rimasto finché una veggente non
l’ha ritrovato.
p.200Begin come Giosuè (VI,16-26)
testo di cui si consiglia la lettura.
223 Il calcio e Paolo Rossi
Anche noi amiamo il calcio. Anche noi abbiamo il diritto di amare il calcio. E
abbiamo il diritto di assistere alla partita. Perché no? Perché non sfuggire un
po’ alla routine della morte? In un rifugio, siamo riusciti a procurarci l’energia
elettrica usando alla batteria di un’automobile. In un battibaleno Paolo Rossi
ci ha trasmesso la gioia che ci mancava. È un uomo che, in campo, si vede
solo dove conviene che lo si veda. Un diavolo smilzo che noti solo dopo che
ha segnato la rete, esattamente come un aereo da bombardamento si vede
solo dopo che i bersagli sono esplosi. Dove c’è Paolo Rossi c’è un gol, c’è
un’ovazione. Poi lui scompare, oppure si nasconde per aprire nell’aria un
varco per quei suoi piedi pronti a cercare le buone occasioni, a portarle a
maturazione, a raggiungerle in un picco di voluttà. Non è mai chiaro se sta
giocando a calcio oppure facendo l’amore con la rete, una rete ritrosa che lui,
sul torrido campo spagnolo, tenta e seduce con una raffinata galanteria
italiana. Che lusinga come farebbe un gatto in calore. E poi, infine, ecco che
Paolo Rossi, sotto gli occhi dei guardiani della virtù, un imene di 10 uomini
posto a protezione della verginità della rete, ecco che Paolo Rossi avanza,
avanza in un impeto di lussuria, avanza, muscolo d’aria, e sfonda. Ed ecco
che la rete, incapace di resistergli, si rilassa e si arrende al suo ineffabile
stupro.
Il calcio: cos’è quest’incantevole follia capace di imporre una tregua che ci fa
godere di un piacere innocente? Questa follia in grado di attenuare la
violenza della guerra e di ridurre i missili alla stregua di fastidiosi mosconi?
Cos’è questa follia che, per un’ora e mezzo, sospende la paura? Che
22. 22
rasserena corpo e anima più dell’ardore della poesia, più del vino e più del
primo incontro con una sconosciuta? È stato il calcio. Il calcio ha fatto il
miracolo, ha risvegliato un popolo che pensavamo morto, morto di paura e di
noia.
Video Youtube (3 minuti): http://youtu.be/gdtPuMxAjvI
225-229 In quell’anno i franchi conquistarono Gerusalemme
Ibn Kathir (1301-1373) l’inizio e la fine.
Testo di cui si consiglia la lettura.
229 presso i franchi non c’è ombra di senso dell’onore e di gelosia.
Usama ibn Munqidh (1095-1188), Il libro dell’ammaestramento con gli
esempi.
Testo di cui si consiglia la lettura.
i tacchi alti e l’amore in tempo di guerra
p.238 Sbatti i tuoi tacchi alti sulla pietra delle scale e maciulla le pareti
del mio cuore facendone pastura per i cani randagi. Ah, quanto mi piacciono i
tacchi alti che fanno stendere le gambe in un assoluto di femminilità pronta a
esplodere, che rimpiccioliscono il ventre, lo fanno arcuare quando è
raggrinzito per la sete, che arrotondano i seni e li fanno passare alti e superbi
sopra le teste dei passanti al cui desiderio si negano. I tacchi alti fanno sì che
il collo si tenda come quello di un cavallo quando sta per precipitare in un
baratro, fanno sì che la lancia si rizzi su un pulpito d’aria solidificata. Sbatti
contro il selciato con l’ombrosità di una gazzella che né braccia né parole
possono afferrare. Mostrati pian piano da dietro la porta chiusa. Dall’altro lato
c’è una poltroncina in pelle. Ci potrà reggere, è abbastanza larga per noi due.
Ma non toglierti i vestiti perché la morte non ci veda nudi. C’è tempo solo per
un amore frettoloso, per un sobbalzo di eternità temporanea.
p.246 … Facciamo attenzione alle armi letterarie capaci di nascondere il
loro tradimento e la loro pretesa di santità, capaci di infrangere i nostri sogni
fingendo disgusto per la politica - detto in altri termini: disgusto per la lotta.
Un uso corretto della lingua è diventato sinonimo di arretratezza, la
precisione della metrica, regresso. La chiarezza è diventata una vergogna, la
parola e l’effetto della parola sul pubblico, inciviltà. Per dirla in breve: siamo in
piena reazione. Lo spirito reazionario, spacciandosi per sinistrorso, si è fatto
23. 23
avanti con tutto l’armamentario tipico della modernità, stracolmo però di tutte
le teorie sul ritorno al passato.
…E intanto il figliol prodigo faceva ritorno alla sua comunità confessionale, al
suo ascetismo o al suo esoterismo e dichiarava a gran voce che era pentito
di essersi rovinato la vita partecipando a quei movimenti di liberazione che
avevano prodotto solo difficoltà impreviste e a quella rivoluzione che ha
dimostrato di avere costi troppo elevati.
p.260… Il cambiamento degli arabi.
Io non credo, né voglio credere, che la storia del medio oriente continuerà
meccanicamente a ripetere se stessa, né che lo farà per guizzi creativi. Per
quanto gli slogan della moderna politica siano ormai lontani anni luce dai
principi che li hanno generati, per quanto i discorsi siano vuoti di contenuto,
io, comunque, non mi convincerò che il cambiamento degli arabi, che il
progresso degli arabi, verrà dall’esterno, da qualcosa che non sia arabo.
Secondo me, un modello che si prefigge di sedurre con la fede quanti non
hanno fiducia nel presente non può che riportarci a un conflitto che affonda in
questioni non più nostre. E io cosa ho a che spartire con gli errori del terzo
successore del profeta, il califfo Uthman ibn ‘Affan? Ho altre storie, io: questa
non è l’unica che mi riguarda.
3 – IN PRESENZA D’ASSENZA (p.283)
p.10 …Nel 2006, quando pubblica in presenza d’assenza, Darwish vive tra
Ramallah, in Palestina, e Amman in Giordania. Nell’ultimo decennio si è
quasi totalmente liberato della pressione politica che gli pesava addosso in
quanto “poeta nazionale”. Ha potuto e voluto essere in prima istanza
semplicemente un poeta. I critici chiamano questa fase “lirico-epica” e “dei
temi indipendenti”.
…E mentre si interroga sul posto che la Palestina occupa nel mondo, il
lirismo intimista e il lirismo epico si riconciliano nell’immagine del palestinese
non più eroe e vittima, ma come essere umano che anela a una vita banale,
semplice, ordinaria.
p.11…A un certo punto la sua traiettoria poetica si spinge verso l’alto alla
ricerca di un punto di equilibrio in cui prosa e poesia si avvicinino l’una
all’altra, tanto da arrivare a confondersi.
In presenza di assenza il poeta si sforza di elevare al suo massimo
potenziale la prosa in arabo. Ed è una sorta di addio a se stesso quando si
dice: allora riposa in pace, se possibile. Riposa in pace nelle tue parole.
24. 24
(pag.287)…Secondo
le
tue
volontà,
eccomi
qui,
in
piedi,
a
ringraziare
a
nome
tuo
chi
è
venuto
a
darti
l’estremo
saluto
per
quest’ultimo
viaggio.
L’invito
a
non
dilungarsi troppo nel congedo per passare un banchetto più consono a
ricordarti.
Lascia che ti guardi, ora che ti sei staccato da me, indenne come pura prosa su di
una pietra che si tinge di verde o di giallo in tua assenza, lascia che ti guardi, ora
che mi sono staccato da te. Lascia che raccolga te e il tuo nome come fanno i
passanti con le olive dimenticate, nascoste tra i sassolini. Andiamocene insieme,
tu e io, in due direzioni diverse: tu, verso una seconda vita, promessa dalla
lingua, in un lettore che forse
sopravviverà
all’impatto
della
cometa
con
la
terra;
io,
verso
l’appuntamento
più
volte
posticipato
con
la
morte
a
cui,
in
una
poesia,
ho promesso un calice di vino rosso.
p.289-290
…Mentre
ci
separiamo
presso
questo
limbo
dalla
vita
alla
morte,
lasciami,
dunque,
rescindere
il
contratto
stipulato
tra
me
e
te,
tra
un’assurdità
e
l’altra.
Non
sappiamo
chi
di
noi
ha
vinto
e
chi
ha
perso,
se
io,
tu
o
la
morte. Tu,
mio
opposto,
sei
sempre
alla
spasmodica
ricerca
di
un’assurdità
necessaria
ad
allenare lo spirito alla tolleranza e a esercitare il privilegio di contemplare acqua
che ride nelle fossette, o vola di farfalla in farfalla e crea poesia da ogni viva
forza. Perché la leggerezza, come la rugiada, vince il metallo, lei vergine del
tempo, lei che insegna alle bestie a suonare il flauto.
…
Ti
hanno
buttato
fuori
dal
campo.
La
tua
ombra,
però,
non
ti
ha
seguito
né
tradito, si è pietrificata e inchiodata laggiù, poi si è trasformata in una pianta di
sesamo: verde di giorno, blu di notte. È cresciuta fino a diventare alta come un
salice, verde di giorno, blu di notte.
Nonostante tu sia lontano sarai vicino/nonostante ti abbiano ammazzato
vivrai/non credere di essere morto laggiù/sei vivo qui./Solo la metafora a
comprovarlo,/la metafora che ha insegnato il gioco delle parole alle creature/la
metafora che ha reso l’ombra
geografia/la metafora che raccoglierà te e il tuo
nome./…Scrivi
tu
stesso
la
storia
del
tuo
cuore/da quando Adamo si è
innamorato/fino a quando il tuo popolo è risorto./…
Alzati
affinché
ti
porti/avvicinati affinché ti riconosca/allontanati affinché ti riconosca.
L’esilio
p.334-336
…L’esilio
non
è
un
viaggio,
un
andare
e
tornare,
né
un
soggiornare
nella nostalgia. Forse è visita, attesa degli effetti del tempo, uscita da se stessi
incontro agli altri per fare conoscenza e stare in armonia o per tornare nella
propria conchiglia.
…In
esilio
ti
scegli
uno
spazio
per
domare
l’abitudine,
uno
spazio
personale
per
il
tuo diario e scrivi: il luogo non è trappola possiamo dire: qui abbiamo una strada
25. 25
laterale/un fornaio/una lavanderia/una tabaccheria/un angolino/un odore che
ricorda…
…L’esilio
è
un
ponte
tra
le
immagini
per
attraversare
la
fragilità,
è
il
narciso
sottoposto al test della superbia e della modestia al contempo, è la disputa dei
diversi, è l’accordo
dei
simili.
Non
tutto
ciò
che
somiglia
al
laggiù,
qui
chi
accoglie. Non tutto ciò che qui ti rifiuta, laggiù ti accoglie.
Le
città
sono
odori:
San
Giovanni
d’Acri
è
l’odore
di
iodio
e
spezie,
Haifa, l’odore
di pini e lenzuola sgualcite. Mosca, l’odore
di
vodka
con
ghiaccio.
Il
Cairo,
l’odore
di
mango
e
zenzero.
Beirut,
l’odore
di
sole,
mare,
fumo
e
limone.
Parigi,
l’odore
di
pane
fresco,
formaggi
e
prodotti
di
seduzione.
Damasco,
l’odore
di
gelsomino
e
frutta
secca.
Tunisi,
l’odore
di
muschio
notturno
e
sale.
Rabat,
l’odore
d’hennè,
incenso
e
miele…
Gli
esili
hanno
un
odore
condiviso:
odore
di
nostalgia
per
qualcos’altro,
odore
che
ne
rievoca
un
altro.
L’odore
del
luogo
d’origine.
L’odore
è
memoria
e
tramonto.
(p.336) Le parole sono le materie prime per costruire una casa. Le parole sono
una patria.
La nostalgia
p.355
La
nostalgia
è
l’ospite
della
sera
che
arriva
quando
cerchi
le
tue
tracce
in
quel che ti circonda e non le trovi, quando un passerotto si posa sul balcone e ti
sembra un messaggio inviato da un paese che, quando ci abitavi, non amavi
come lo ami adesso che è dentro di te. Prima era aria, terra e acqua, ora è poesia.
La nostalgia è il lamento del diritto incapace di dimostrare la forza del diritto
davanti al diritto della forza.
356…La
nostalgia
è
il
dolore
che
non
ha
nostalgia
del
dolore.
E’
il
dolore
provocato
dall’aria
pura
che
viene
dall’alto
di
un
monte
lontano,
il
dolore
della
ricerca di una gioia passata.
Però è un dolore di quelli sani, perché ci ricorda che siamo malati di speranza e
inguaribilmente sentimentali.
L’amore
p.357
L’amore
è
un
cammino
battuto
come
il
significato,
ma
impervio
come
la
poesia. Richiede talento, tenacia e foggia valente perché ha molti gradi. Non
basta amare, quella è una delle magie della natura simile al cadere della pioggia
o
all’abbaglio
del
lampo.
L’amore
ti
porta
su
un’altra
orbita
e
poi
te
la
devi
sbrigare da solo. Non basta amare, devi sapere come amare. Hai imparato come?
26. 26
p.360
…Tu
sei
quello
che
conosce
l’amore
solo
quando
ama
e
non
si
chiede cos’è
né
lo
cerca.
Una
volta
una
donna
ti
ha
chiesto
se
amavi
l’amore
in
sé
e
per
sé,
hai
glissato
e
te
la
sei
cavata
rispondendo:
“Amo
te”.
“Non
ami
l’amore?”
ha
insistito.
E tu: -Ti amo per quello che sei-. Ti ha lasciato, non eri affidabile quando lei non
c’era.
L’amore
non
è
un’idea.
È
un
sentimento
che
riscalda
e
raffredda,
che
viene
e va. Un sentimento che prende forma e corpo, che ha cinque sensi e più sensi.
Talvolta
ci
appare
in
forma
d’angelo,
dalle
ali
lievi,
capace
di
sollevarsi
in
aria.
Talvolta ci travolge in forma di toro: ci scaraventa a terra e se ne va. Alcune volte
si abbatte in forma di tempesta che riconosciamo soltanto poi, dagli effetti
devastanti che si lascia alle spalle. Altre volte ancora scende su di noi in forma di
rugiada notturna, quando una mano magica punge una nuvola vagabonda.
La
frutta
come
un’allegoria
cerebrale
p.364
…La
mela
è
forma
da
mordere,
senza
la
punizione
della
conoscenza.
La
pera è un seno di perfetta proporzione, né più né meno di un palmo di mano.
L’uva
è
il richiamo
dello
zucchero:
spremimi
in
bocca
o
nei
tini.
L’albicocca
è
il
ritorno
della
nostalgia
alla
sua
pallida
origine.
L’arancia
è
un’idea
che
illumina,
nella notte, e può essere mangiata sempre. Il fico è un paio di labbra che si
schiudono con due dita per ricevere erotico significato in un colpo solo. Il fico
d’India
è
la
vergine
che
difende
il
suo
tesoro.
La
ciliegia
è
accorciare
la
distanza
tra il desiderio degli occhi e la fregola delle labbra. La mela cotogna è la femmina
che litiga per il maschio, lasciando al deluso un groppo in gola. Il mango è la bava
che cola per visibile piacere. La fragola è un insieme di acini di colore, né rossi né
altro, che rinvia allo scandalo della similitudine. Il gelso, color zucchero o nero, è
il ricordo del primo bacio.
Il
melograno
è
il
rubino
celato
nell’allusione.
In viaggio da Ramallah a Gerico.
Il
papavero
e
l’erba.
p.371
…La vita è arrivata qui in fuga dal Mar Morto? Eppure, dalla desolazione
del luogo, ecco spuntare papaveri, ecco le loro piccole corolle affacciarsi dalle
rocce
grigie
e
nere.
Bastano
un
po’
di
pioggerellina
e
di
luce,
a
che
la
vita
prevalga sul nulla. Bastano
un
po’
di
speranza
e
di
tempo,
a
che
tu
attraversi
le
diramazioni del mito risparmiato dai destini dei tuoi avi. Prendi in prestito la
saggezza
dai
papaveri
e
di’:
“Non
ho
niente
a
che
fare
con
il
nulla,
sebbene
sia
circondato
dalla
morte”.
E se ti chiedono della forza della poesia rispondi: - l’erba
non
è
così
fragile
come
pensiamo. Da quando ha nascosto la sua ombra modesta nel segreto della terra,
non
si
spezza
più.
Nell’erba
spuntata
dalla
roccia
c’è
il
prodigio
della
parola
rivelata dal mistero divino,
senza
clamore
né
squilli
di
trombe.
L’erba
è
profezia
spontanea,
senz’altro
profeta
che
il
proprio
colore
opposto
a
quello
della
terra
arida.
L’erba
è
la
salvezza
del
viaggiatore
scampato
alla
bruttura
del
paesaggio
e
27. 27
a un esercito che preclude la strada
al
possibile.
E’
l’avvicinarsi
della
lingua
al
significato
e
il
connubio
del
significato
con
l’ospitalità
della
speranza
-. E se ti
chiedono
della
lotta
tra
poesia
e
morte,
guarda
l’erba
e
di’
quello
che
rasenta
la
verità: - nessuna poesia sconfigge la morte
nell’ora
dell’incontro,
però
può
posticiparla
per
il
tempo
necessario
a
saggiare
l’utilità
del
canto
fino
alla
fine
di
un lungo concerto, dopodiché il cantante cade nelle mani del suo cacciatore ritto
dietro la porta. Forse nessuno si accorgerebbe della morte del cantante, se la
canzone diventasse collettiva e i compagni di veglia continuassero il canto. E in
quel posticipo, immaginando che la morte si sia addormentata, i nuovi cantanti
si sveglieranno senza badarle, affacciandosi su papaveri che danno loro il
benvenuto, come gli incipit cananei lasciati incompiuti dai pastori di gazzelle,
occupati
a
dare
la
caccia
ai
lupi
e
sciacalli.
…
p.371
…All’improvviso,
una
pioggia
leggera
bagna
la
tua
anima,
bagna
le
farfalle.
Luce, pioggerella, farfalle che svolazzano radenti alla litoranea. Le farfalle,
pensieri
sparsi,
sensazioni
che
volano
nell’aria.
A cura di Elvira Paietta, Gianna Maestrelli, Isabella Donati, Rossella Fortini
Englaro, Urbano Cipriani.
28. 28
DANTE E DARWISH
LA PERLA E L’OSTRICA
La Perla è un prodotto del dolore, risultato dell'entrata di una sostanza estranea o
indesiderabile nell'interno dell'ostrica, come un parassita o un granello di sabbia.
Un'ostrica che non è mai stata ferita, in un modo o in un altro, non produce perle,
perché le perle sono ferite cicatrizzate.
O vos omnes qui transitis per viam attendite et videte si est dolor vester sicut dolor
meus. (Bibbia, Geremia,I,12 )
29. 29
O voi che per la via d'Amore passate
attendete e guardate
s'elli è dolore alcun, quanto 'l mio, grave.
(Dante, Vita Nova, VII, 3-6)
Ahi dal dolor comincia e nasce l'italo canto. (Leopardi: ad Angelo Mai)
La mia letteratura corrisponde a un preciso momento storico: Il poeta in fin dei
conti cerca di umanizzare la storia e fa emergere la bellezza come risposta alla
crudeltà dei nostri tempi. Io sono orgoglioso di essere palestinese, ma auspico
che
l’occupazione non sia condizione necessaria per diventare poeta.
(Darwish – Intervista fatta a Firenze nel 2005)
Sono tutti e due poeti dell’esilio e della sconfitta;
Tutti e due hanno fatto esperienze di governo;
Tutti e due hanno trovato nella poesia la fuoriuscita dalla banalità del male presente
intorno a loro.
LA TRILOGIA PALESTINESE E LA DIVINA COMMEDIA A CONFRONTO:
L’Inferno e il Purgatorio di Dante li apparento al “Diario di ordinaria tristezza” e
“Memoria per l’oblio” di Darwish;; il Paradiso ci fa vedere Dante che si distacca
dall’”aiuola che ci fa tanto feroci” volando in cielo con Beatrice-teologia;; “In
presenza d’assenza” Darwis supera le barriere della morte con la poesia che “vince di
mille secoli il silenzio”, per dirla con Ugo Foscolo.
Dante è la farfalla che vola via libera:
Non v’accorgete voi che noi siam vermi
Nati a formar l’angelica farfalla
che vola alla giustizia sanza schermi?
(Purgatorio, X, 24-27)
Darwish esce da se stesso, finalmente libero, verso una seconda vita:
Lascia che ti guardi, ora che ti sei staccato da me, indenne come pura prosa su di una
pietra che si tinge di verde o di giallo in tua assenza, lascia che ti guardi, ora che mi
sono staccato da te. Lascia che raccolga te il tuo nome come fanno i passanti con le
olive dimenticate, nascoste tra i sassolini. Andiamocene insieme, tu e io, in due
direzioni diverse: tu verso una seconda vita, promessa dalla lingua, in un lettore che
forse sopravvivrà all’impatto di una cometa con la terra;; io, verso un appuntamento
30. 30
più volte posticipato con la morte a cui, in una poesia, ho promesso un calice di vino
rosso. (Trilogia palestinese, p. 287)
Dante ci saluta dal cielo, finalmente libero:
O insensata cura de’ mortali,
quanto son difettivi silogismi
quei che ti fanno in basso batter l’ali!
Chi dietro a iura, e chi ad amforismi
sen giva, e chi seguendo sacerdozio,
e chi regnar per forza o per sofismi,
e chi rubare, e chi civil negozio,
chi nel diletto de la carne involto
s’affaticava e chi si dava a l’ozio,
quando, da tutte queste cose sciolto,
con Beatrice m’era suso in cielo
cotanto gloriosamente accolto.
(Paradiso, XI, 1-12)
Darwish: Voglio cantare e poi andar via.
Voglio cantare. Sì, esatto voglio cantare questo giorno bruciato. Voglio cantare.
Trovare le parole che muteranno la lingua in acciaio dell’anima, una lingua che
sappia battere questi aerei, questi insetti d’argento scintillante. Voglio cantare.
Inventare una lingua che mi sostenga, che sosterrò, la lingua che mi dia prova e a cui
darò prova della forza che ci abita, una forza capace di trionfare sulla solitudine
universale. Voglio cantare e poi andare via. (Trilogia p. 179)
Dante contempla il mondo dalla costellazione dei Gemelli (La sua):
Col viso ritornai per tutte quante
Le sette spere, e vidi questo globo
Tal, ch’io sorrisi del suo vil sembiante;;
e quel consiglio per migliore approbo
31. 31
che l’ha per meno;; e chi ad altro pensa
chiamar si puote veramente probo …
E tutti e sette mi si dimostraro
Quanto son grandi e quanto son veloci
E come sono in distante riparo.
L’aiuola che ci fa tanto feroci,
volgendom ’io con li eterni Gemelli,
tutta m’apparve da’ colli alle foci;;
poscia rivolsi gli occhi a li occhi belli.
(Paradiso, XXII, 133 sgg)
Darwish, più modestamente ma non meno acutamente, guarda i passanti dalla
finestra:
Fa’ quel che devi: difendi il diritto della finestra di guardare i passanti. Non schernirti
se non sei capace di addurre prove: l’aria è l’aria, non ha bisogno di certificato del
sangue. Non abbandonarti al rimpianto. Non rimpiangere quel che hai perso quando ti
sei assopito annotando i nomi degli invasori nel libro di sabbia. La formica racconta,
la pioggia cancella. Quando ti svegli non rimpiangere di aver sognato. (Trilogia,
p.289)
Dante rifiorisce come una pianta tramite la poesia:
Trasumanar significar per verba
Non si potria…
Io ritornai da la santissima onda
rifatto sì come piante novelle
rinovellate di novella fronda,
puro e disposto a salire alle stelle.
(Purg. XXXIII, 136-144)
Darwish: La poesia fa spuntare l’erba dalla roccia:
“l’erba non è così fragile come pensiamo. Da quando ha nascosto la sua ombra
modesta nel segreto della terra, non si spezza più. Nell’erba spuntata dalla roccia c’è
il prodigio della parola rivelata dal mistero divino, senza clamore né squilli di
trombe. L’erba è profezia spontanea, senz’altro profeta che il proprio colore opposto
32. 32
a quello della terra arida. L’erba è fluente poesia di intuizione, semplicemente
inafferrabile e inafferrabilmente semplice. È l’avvicinarsi della lingua al significato e
il connubio del significato con l’ospitalità della speranza”. ( Trilogia, p.372)
Dante: La poesia mi riporterà in patria:
Se mai continga che il poema sacro
vinca la crudeltà che fuor mi serra
del bell’ovile ov’io dormì’ agnello,
nimico ai lupi che mi danno guerra,
con altra voce ormai, con altro vello
ritornerò poeta, e in sul fonte
del mio battesmo prenderò il cappello.
(Paradiso 25,1-19 )
Darwish: Le parole valgono una patria
In questo tramonto soltanto le parole sono qualificate a riparare il tempo e il luogo
spezzati e a nominare dei che ti hanno trascurato e si sono gettati nelle proprie guerre
con armi primitive. Le parole sono le materie prime per costruire una casa. Le parole
sono una patria.
(Trilogia, pag. 336)
Dante ha problemi con i compagni di sventura:
“Tu proverai sì come sa di sale
lo pane altrui, e come è duro calle
lo scendere e il salir per l’altrui scale.
E quel che più ti graverà le spalle,
sarà la compagnia malvagia e scempia
con la qual tu cadrai in questa valle;
che tutta ingrata, tutta matta ed empia
si farà contr'a te; ma, poco appresso,
33. 33
ella, non tu, n'avrà rossa la tempia.
Di sua bestialitate il suo processo
farà la prova” …ma, poco appresso,
ella, non tu, n’avrà rossa la tempia.”
(Paradiso XVII, 58-66)
Darwish: “Quante incongruenze tra noi palestinesi”
“quante incongruenze,” ho esclamato, “tra noi palestinesi. Ci sono interi uffici con
tanto di aria condizionata e saloni di rappresentanza che servono solo a diffondere
calunnie maldicenze. Quel gruppuscolo si è specializzato nel commercio di martiri:
‘ce ne servirebbero altri 20 per portarci al livello’. E così si è combattuto per
accaparrarsi un martire di cui non si conosceva l’affiliazione. Si è messo a morte un
combattente perché ha rifiutato di sparare a un amico che militava in un’altra
organizzazione. Si è buttato il suo cadavere in un pozzo abbandonato e li è rimasto
finché una veggente non l’ha ritrovato”. (Trilogia, p.197)
Il materiale di cui si compongono le opere di Dante e Darwish comprende tutto
lo scibile a loro contemporaneo, impastato con le loro esperienze di vita:
Nel “ poema sacro al quale han posto mano e cielo e terra” trovi l’impegno politico di
Dante, l’esilio, i classici latini (Virgilio, Ovidio, Lucano, Stazio, Orazio, Cicerone…),
I padre della chiesa, la bibbia, la letteratura romanza, la filosofia e letteratura araba.
Nella Trilogia palestinese Darwish inserisce le vicende della patria e della famiglia,
la Bibbia, il Vangelo, la Thora, il Corano, i filosofi e saggi arabi:Abd Allah ibn
Salam, Ka’ab, Dahhak, Mujahid, Akrama. Al-Sirri, Abi Salik e Abu Malik, Murra al-
Hamadhani, Ibn Mas’ud, Ibn al-Athir …
Vedi a p. 186, in Matteo XIII Gesù che, cedendo alle insistenze di una madre, le
guarisce la figlia ( leggi: Palestina), vedi a p. 200 Begin marchiato da terrorista
crudele come il Giosuè biblico ( Bibbia, libro di Giosuè, VI, 6-26).
Vedi a p. 173-74 la sura del Calamo dove si evidenziano i vaneggiamenti pseudo
religiosi dei cosiddetti saggi.
IL TEMA DELL’ESILIO
Dante affronta così l’esilio:
E io, che ascolto nel parlar divino
Consolarsi e dolersi
Così alti dispersi,
34. 34
I'essilio che m'è dato, onor mi tegno.
(mi ritengo onorato di soffrire l’esilio
visto che così nobili esiliati soffrono
e si consolano col loro parlare divino.)
(Dante, la canzone dell'esilio )
E ancora:
…lungi da un uomo che predica la giustizia il pagare, dopo aver patito ingiustizie, il
suo denaro ai persecutori come a benefattori.
Non è questa la via del ritorno in patria; ché se non si entra Firenze per una qualche
siffatta via, a Firenze non entrerò mai.
E che mai? Forse che non vedrò dovunque la luce del sole e degli astri? Forse che
non potrò meditare dolcissime verità dovunque sotto il cielo, se prima non mi
riconsegni alla città, senza gloria e anzi ignominioso per il popolo fiorentino? Né
certo il pane mancherà. (Dante, lettera all’amico fiorentino, 1215)
Darwish affronta l’esilio, lo sfida e lo elogia:
l’esilio non è un viaggio, un andare e tornare, né un soggiornare nella nostalgia. Forse
è visita, attesa degli effetti del tempo, uscita da se stessi incontro agli altri per fare
conoscenza e stare in armonia o per tornare nella propria conchiglia.
…In esilio ti scegli uno spazio per domare l’abitudine, uno spazio personale per il tuo
diario e scrivi:
il luogo non è trappola, possiamo dire: qui abbiamo una strada laterale/un
fornaio/una
lavanderia/una
tabaccheria/un
angolino,
un
odore
che
ricorda…
L’esilio è un ponte tra le immagini per attraversare la fragilità, è il narciso sottoposto
al testo della superbia e della modestia al contempo, è la disputa dei diversi, è
l’accordo dei simili. Non tutto ciò che qui ti rifiuta, laggiù ti accoglie. Non tutto ciò
che somiglia al laggiù, qui chi accoglie. E non dimenticare di ringraziare l’esilio con
magnanimità: “ti elogerò, esilio, degno di elogio, laggiù, sotto un fico che mi darà
ospitalità, presso la casa di mia madre, come un passante in un autunno
passeggero”.(Darwish, Trilogia, p.334).
Post scriptum: Concludiamo con le seguenti parole di Dante che dedichiamo ai
palestinesi figli della Nakba, esiliati in patria e dispersi in ogni parte del pianeta
Terra:
“Soffro per tutti coloro che soffrono, ma maggior pietà provo per coloro che visitano
la loro patria soltanto in sogno”. (Dante, De Vulgari Eloquentia, II,6)
Firenze, BibliotecaNova dell’Isolotto, 12 marzo 2015 Urbano Cipriani