CRISI ECOLOGICA E SOCIALE - UN FUTURO SOSTENIBILE IN EUROPA? M. Morosini, ...morosini1952
Come ospitare degnamente 9-10 miliardi di abitanti della Terra, quanti arriveremo a essere nel 2050, senza stravolgere gli equilibri ecologici su cui si fondano l’alimentazione, il benessere e l’intera economia? Il progetto «Futuro sostenibile» da cui è scaturito un rapporto 1 del Wuppertal Institut 2 (cfr la scheda a p. XXX) vuole dare una risposta a questa domanda drammatica, offrendo un’opportunità di condurre anche in Italia una campagna per una svolta del nostro Paese verso la sostenibilità sociale ed ecologica secondo criteri d’equità globale. In questo momento storico il conflitto tra ecologia e giustizia palesa la sostenibilità come vero programma di sopravvivenza, perché la drammatica alternativa è tra la sostenibilità o l’autodistruzione. Lungi dal servire solo alla protezione dei panda e delle balene, l’ecologia è l’unica opzione per garantire sulla Terra il diritto d’ospitalità a un numero crescente di esseri umani. «Dobbiamo portare davanti agli occhi dell’opinione pubblica due ingiustizie: che i beni di questo mondo siano ripartiti in modo così sproporzionato e che quest’iniqua distribuzione non venga modificata». Quando nel 1958 il cardinale Joseph Frings pronunciò queste parole nel discorso di fondazione di Misereor, l’organizzazione tedesca cattolica per la cooperazione allo sviluppo che finanziò lo studio del 1996, forse non immaginava che 50 anni dopo i numeri di miliardari e di malnutriti nonché il grado di disuguaglianza che li separa avrebbero raggiunto record storici su un pianeta che già oggi potrebbe nutrire tutti i suoi abitanti. Fedele a quella consegna del 1958, lo scienziato tedesco Wolfgang Sachs Sachs, curatore del progetto, documenta l’evoluzione globale di povertà e ricchezza, constata l’inadeguatezza di molte ricette di sviluppo e conclude che «voler mitigare la povertà senza mitigare la ricchezza è ipocrisia» 3. Quel fuoco d’artificio di risorse che l’Europa brucia non è ripetibile nel mondo, non di certo con un numero crescente d’esseri umani. I due patrimoni che permisero l’ascesa dell’Europa non sono più a disposizione all’infinito: i combustibili fossili destabilizzano il clima e vanno esaurendosi, e per le materie prime biotiche 4 non sono più disponibili colonie oltreoceano. È questa la tragedia attuale: l’immaginario dei Paesi emergenti s’ispira alla civiltà euroatlantica, ma i mezzi per la sua realizzazione non sono più a disposizione. I ceti dei consumatori globali nel Nord e nel Sud, degli imprenditori e degli investitori sono chiamati a cedere alla natura e a chi sta peggio nel mondo una parte del loro potere in termini di capitale e confort. Se non lo faranno, resterà ben poco di ciò che ora rende la loro posizione così desiderabile. Il vero problema non è se vi sono risorse sufficienti, ma a chi sono destinate e per che cosa esse sono ripartite quando diventano scarse. Una politica ambientale che non si occupi anche di politica sociale non avrà successo.
Cambiamento climatico: un sfida per l’umanità?Quattrogatti.info
L’innalzamento delle temperature globali verificatosi negli ultimi 200 anni è un fenomeno anomalo e preoccupante, riconducibile con elevate probabilità all’attività dell’uomo sulla terra, alle nostre abitudini e all’organizzazione delle nostre società.
Questa presentazione fornisce una panoramica sul fenomeno scientifico del surriscaldamento della terra, sulle conseguenze drammatiche di un aumento delle temperature e sui principali fattori determinanti di tale fenomeno, con l’obiettivo di chiarire concetti a volte complessi. Viene inoltre approfondito il ruolo dei governi e il recente dibattito politico in vista della Conferenza Mondiale sul Clima di Copenaghen.
CRISI ECOLOGICA E SOCIALE - UN FUTURO SOSTENIBILE IN EUROPA? M. Morosini, ...morosini1952
Come ospitare degnamente 9-10 miliardi di abitanti della Terra, quanti arriveremo a essere nel 2050, senza stravolgere gli equilibri ecologici su cui si fondano l’alimentazione, il benessere e l’intera economia? Il progetto «Futuro sostenibile» da cui è scaturito un rapporto 1 del Wuppertal Institut 2 (cfr la scheda a p. XXX) vuole dare una risposta a questa domanda drammatica, offrendo un’opportunità di condurre anche in Italia una campagna per una svolta del nostro Paese verso la sostenibilità sociale ed ecologica secondo criteri d’equità globale. In questo momento storico il conflitto tra ecologia e giustizia palesa la sostenibilità come vero programma di sopravvivenza, perché la drammatica alternativa è tra la sostenibilità o l’autodistruzione. Lungi dal servire solo alla protezione dei panda e delle balene, l’ecologia è l’unica opzione per garantire sulla Terra il diritto d’ospitalità a un numero crescente di esseri umani. «Dobbiamo portare davanti agli occhi dell’opinione pubblica due ingiustizie: che i beni di questo mondo siano ripartiti in modo così sproporzionato e che quest’iniqua distribuzione non venga modificata». Quando nel 1958 il cardinale Joseph Frings pronunciò queste parole nel discorso di fondazione di Misereor, l’organizzazione tedesca cattolica per la cooperazione allo sviluppo che finanziò lo studio del 1996, forse non immaginava che 50 anni dopo i numeri di miliardari e di malnutriti nonché il grado di disuguaglianza che li separa avrebbero raggiunto record storici su un pianeta che già oggi potrebbe nutrire tutti i suoi abitanti. Fedele a quella consegna del 1958, lo scienziato tedesco Wolfgang Sachs Sachs, curatore del progetto, documenta l’evoluzione globale di povertà e ricchezza, constata l’inadeguatezza di molte ricette di sviluppo e conclude che «voler mitigare la povertà senza mitigare la ricchezza è ipocrisia» 3. Quel fuoco d’artificio di risorse che l’Europa brucia non è ripetibile nel mondo, non di certo con un numero crescente d’esseri umani. I due patrimoni che permisero l’ascesa dell’Europa non sono più a disposizione all’infinito: i combustibili fossili destabilizzano il clima e vanno esaurendosi, e per le materie prime biotiche 4 non sono più disponibili colonie oltreoceano. È questa la tragedia attuale: l’immaginario dei Paesi emergenti s’ispira alla civiltà euroatlantica, ma i mezzi per la sua realizzazione non sono più a disposizione. I ceti dei consumatori globali nel Nord e nel Sud, degli imprenditori e degli investitori sono chiamati a cedere alla natura e a chi sta peggio nel mondo una parte del loro potere in termini di capitale e confort. Se non lo faranno, resterà ben poco di ciò che ora rende la loro posizione così desiderabile. Il vero problema non è se vi sono risorse sufficienti, ma a chi sono destinate e per che cosa esse sono ripartite quando diventano scarse. Una politica ambientale che non si occupi anche di politica sociale non avrà successo.
Cambiamento climatico: un sfida per l’umanità?Quattrogatti.info
L’innalzamento delle temperature globali verificatosi negli ultimi 200 anni è un fenomeno anomalo e preoccupante, riconducibile con elevate probabilità all’attività dell’uomo sulla terra, alle nostre abitudini e all’organizzazione delle nostre società.
Questa presentazione fornisce una panoramica sul fenomeno scientifico del surriscaldamento della terra, sulle conseguenze drammatiche di un aumento delle temperature e sui principali fattori determinanti di tale fenomeno, con l’obiettivo di chiarire concetti a volte complessi. Viene inoltre approfondito il ruolo dei governi e il recente dibattito politico in vista della Conferenza Mondiale sul Clima di Copenaghen.
INTRODUZIONE 12 pagine FUTURO SOSTENIBILE 2011
La marea si è invertita. Ai vertici della politica e dell’economia hanno cominciato
a vacillare certezze di lunga data. Sono finiti i giorni d’euforia
neoliberista e di trionfante globalizzazione. Una rimozione durata anni
sembra terminare. L’uragano Katrina, gli iceberg che si sciolgono, le ondate
di caldo ricorrenti e gli uccelli migratori disorientati sembrano suggerire
ai popoli e ai loro leader: la natura restituisce i colpi che subisce.
Fino a quando sembrava che l’economia mondiale minacciasse soltanto
la stabilità del clima, si poteva lasciare questa preoccupazione agli ambientalisti.
Quando però nel 2006 il “Rapporto Stern”,1 commissionato
dal governo britannico, spiegò che i cambiamenti climatici minacciano
anche la stabilità dell’economia mondiale, i primi campanelli di allarme
hanno iniziato a squillare.
Eppure, finito il tempo della rimozione collettiva, sembra però propagarsi
ora una schizofrenia collettiva. Molti segnali indicano che siamo
davanti a un periodo di ambiguità: siamo provvisti di conoscenze, ma
incapaci di agire. Da un lato la società si è risvegliata alla consapevolezza
che la minaccia del caos climatico richiede un’inversione di marcia.
D’altro canto, molto va avanti come al solito. Gli aeroporti prevedono
un aumento di traffico e si espandono, alcune imprese ferroviarie mirano
a diventare imprese di logistica globale, le grandi compagnie elettriche
vogliono costruire decine di nuove centrali a carbone o atomiche, le
compagnie aeree a basso costo si rafforzano fondendosi con altre e si attrezzano
per il traffico intercontinentale, davanti ai ristoranti proliferano
le stufe a gas all’aperto, sulle strade di uscita dalle città fioriscono discount
Futuro.
e outlet. Di fronte alla decrescita causata dalla crisi finanziaria si moltiplicano
le sollecitazioni ai cittadini perché consumino di più e la logica
intrinseca di ogni singolo settore vanifica quello che dovrebbe essere l’obiettivo
comune. Ciò che tutt’al più finora procede bene, è una diversificazione
dell’offerta per corrispondere all’emergente sensibilità ecologica:
in qualche aeroporto circolano i primi autobus a idrogeno, le compagnie
elettriche vendono in segmenti di nicchia anche elettricità “verde”, alcune
compagnie ferroviarie noleggiano biciclette, le compagnie aeree a basso
costo fanno pubblicità di vacanze ecologiche, d’inverno, sotto le stufe
a fungo sui marciapiedi, vengono serviti alimenti dell’agricoltura biologica.
Ma nel complesso domina la schizofrenia: nel dibattito pubblico e
nei media quasi tutti sembrano favorevoli a una politica per il clima; nel
mondo della produzione materiale, però, l’uso di energia e combustibili
fossili continua ad aumentare.
Eppure non solo la natura, ma anche la globalizzazione si ritorce contro
di noi. La crescita delle economie emergenti, specialmente di Cina
e India, è un
erremoti, staminali, big data, energia, nucleare, inquinamento, sostenibilità, malattie rare, OGM, miliardi di euro spesi per la ricerca spaziale, il bosone di Higgs, ITER! Ricercare costa sempre di più e solo i paesi ricchi possono permetterselo. In un periodo economicamente difficile è ancora più complesso capire quale debba essere il rapporto fra tecnologia e ricerca e quali siano le responsabilità dei ricercatori? attraverso un gioco di domande e lettura di testi si animerà un dibattito con gli studenti sul problema delle rapporto fra ricerca, tecnologia e società e le responsabilità del ricercatore. (seminario in cui si chiede a gli studenti di partecipare)
E' ormai noto come il carbone sia il combustibile fossile più pericoloso per l'ambiente e la salute; anche le ultime tecnologie (impropriamente chiamate "carbone pulito") non sono altro che una foglia di fico messa sopra i devastanti effetti che la combustione del carbone ha sul clima e sulla salute umana. Il carbone è sempre il combustibile che emette più CO2 per unità bruciata (rispetto a petrolio e gas naturale), insieme a tutta una serie di elementi tossici che minano pesantemente la salute (dal particolato fine e ultrafine, mercurio, ossidi di zolfo, etc...) che, come orami dimostra una serie sterminata di studi, causano svariate patologie.▶▶bit.ly/stopcarbonedossier
Il carbone non serve all'Italia: il nostro paese, con una potenza installata che già supera i 106 GW, a fronte di una punta massima della domanda di circa 57 GW, ha una sovraccapacità di produzione di energia elettrica tale da costringere le centrali a funzionare a scartamento ridotto. Non abbiamo quindi alcun bisogno di investire in impianti a carbone.
INTRODUZIONE 12 pagine FUTURO SOSTENIBILE 2011
La marea si è invertita. Ai vertici della politica e dell’economia hanno cominciato
a vacillare certezze di lunga data. Sono finiti i giorni d’euforia
neoliberista e di trionfante globalizzazione. Una rimozione durata anni
sembra terminare. L’uragano Katrina, gli iceberg che si sciolgono, le ondate
di caldo ricorrenti e gli uccelli migratori disorientati sembrano suggerire
ai popoli e ai loro leader: la natura restituisce i colpi che subisce.
Fino a quando sembrava che l’economia mondiale minacciasse soltanto
la stabilità del clima, si poteva lasciare questa preoccupazione agli ambientalisti.
Quando però nel 2006 il “Rapporto Stern”,1 commissionato
dal governo britannico, spiegò che i cambiamenti climatici minacciano
anche la stabilità dell’economia mondiale, i primi campanelli di allarme
hanno iniziato a squillare.
Eppure, finito il tempo della rimozione collettiva, sembra però propagarsi
ora una schizofrenia collettiva. Molti segnali indicano che siamo
davanti a un periodo di ambiguità: siamo provvisti di conoscenze, ma
incapaci di agire. Da un lato la società si è risvegliata alla consapevolezza
che la minaccia del caos climatico richiede un’inversione di marcia.
D’altro canto, molto va avanti come al solito. Gli aeroporti prevedono
un aumento di traffico e si espandono, alcune imprese ferroviarie mirano
a diventare imprese di logistica globale, le grandi compagnie elettriche
vogliono costruire decine di nuove centrali a carbone o atomiche, le
compagnie aeree a basso costo si rafforzano fondendosi con altre e si attrezzano
per il traffico intercontinentale, davanti ai ristoranti proliferano
le stufe a gas all’aperto, sulle strade di uscita dalle città fioriscono discount
Futuro.
e outlet. Di fronte alla decrescita causata dalla crisi finanziaria si moltiplicano
le sollecitazioni ai cittadini perché consumino di più e la logica
intrinseca di ogni singolo settore vanifica quello che dovrebbe essere l’obiettivo
comune. Ciò che tutt’al più finora procede bene, è una diversificazione
dell’offerta per corrispondere all’emergente sensibilità ecologica:
in qualche aeroporto circolano i primi autobus a idrogeno, le compagnie
elettriche vendono in segmenti di nicchia anche elettricità “verde”, alcune
compagnie ferroviarie noleggiano biciclette, le compagnie aeree a basso
costo fanno pubblicità di vacanze ecologiche, d’inverno, sotto le stufe
a fungo sui marciapiedi, vengono serviti alimenti dell’agricoltura biologica.
Ma nel complesso domina la schizofrenia: nel dibattito pubblico e
nei media quasi tutti sembrano favorevoli a una politica per il clima; nel
mondo della produzione materiale, però, l’uso di energia e combustibili
fossili continua ad aumentare.
Eppure non solo la natura, ma anche la globalizzazione si ritorce contro
di noi. La crescita delle economie emergenti, specialmente di Cina
e India, è un
erremoti, staminali, big data, energia, nucleare, inquinamento, sostenibilità, malattie rare, OGM, miliardi di euro spesi per la ricerca spaziale, il bosone di Higgs, ITER! Ricercare costa sempre di più e solo i paesi ricchi possono permetterselo. In un periodo economicamente difficile è ancora più complesso capire quale debba essere il rapporto fra tecnologia e ricerca e quali siano le responsabilità dei ricercatori? attraverso un gioco di domande e lettura di testi si animerà un dibattito con gli studenti sul problema delle rapporto fra ricerca, tecnologia e società e le responsabilità del ricercatore. (seminario in cui si chiede a gli studenti di partecipare)
E' ormai noto come il carbone sia il combustibile fossile più pericoloso per l'ambiente e la salute; anche le ultime tecnologie (impropriamente chiamate "carbone pulito") non sono altro che una foglia di fico messa sopra i devastanti effetti che la combustione del carbone ha sul clima e sulla salute umana. Il carbone è sempre il combustibile che emette più CO2 per unità bruciata (rispetto a petrolio e gas naturale), insieme a tutta una serie di elementi tossici che minano pesantemente la salute (dal particolato fine e ultrafine, mercurio, ossidi di zolfo, etc...) che, come orami dimostra una serie sterminata di studi, causano svariate patologie.▶▶bit.ly/stopcarbonedossier
Il carbone non serve all'Italia: il nostro paese, con una potenza installata che già supera i 106 GW, a fronte di una punta massima della domanda di circa 57 GW, ha una sovraccapacità di produzione di energia elettrica tale da costringere le centrali a funzionare a scartamento ridotto. Non abbiamo quindi alcun bisogno di investire in impianti a carbone.
Materiale didattico del progetto "Il Risparmio Energetico comincia da Scuola" - Regione Piemonte
Maggiori info su
http://risparmioenergeticoascuola.com
http://en.wikipedia.org/wiki/2000-watt_society
La visione della società 2000 Watt mira ad
un approccio sostenibile ed equilibrato nell’utilizzo
delle risorse globali di materie prime. A
tal proposito, un presupposto indispensabile è
l’aumento dell’efficienza nell’impiego dell’energia
e delle materie ed un maggiore impiego delle
risorse energetiche rinnovabili. Novatlantis, il
programma per la sostenibilità nel settore dei
politecnici federali (PF), riunisce le forze che a livello
nazionale ed internazionale si orientano
verso l’obiettivo 2000 Watt seguente: il fabbisogno
di energia va ridotto di un fattore da 3 a 4.
E la quota parte di fossile va diminuita in modo
che le emissioni di gas ad effetto serra scendano
a 1 tonnellata per persona e per anno. Questi
obiettivi corrispondono alle raccomandazioni
dell’IPCC, il consiglio mondiale sul clima,
per stabilizzare i cambiamenti climatici a + 2 °C.
1. 1
Mario Agostinelli
35. Energenze
Idrogeno, fossili, crisi climatica e politiche energetiche
Premessa
La riconversione della centrale a carbone di Civitavecchia, si sta ponendo a livello nazionale come caso
emblematico della volontà politica di affrontare l’emergenza climatica non più tatticamente, ma confutando
alla radice le convenienze strettamente aziendali dei gruppi che operano nelle filiere dei combustibili fossili.
In alto Lazio è in atto un processo di convergenza su una proposta di produzione energetica alternativa al
metano, che coinvolge associazioni, sindacati, comitati, gruppi giovanili e rappresentanze politiche locali.
La “cifra” di una mobilitazione in continua crescita è data dalla consapevolezza che, dopo la pandemia,
occorra ripartire dalla salute, dalla vivibilità e dalla cura del territorio. Per farlo, occorre una cesura con la
“vocazione” a cui la città tirrenica è da sempre stata destinata con l’insediamento di centrali termiche di
grande potenza in riva al suo mare. Una rottura resa percorribile dalla maturazione della tecnologia delle
rinnovabili sostenuta da accumuli di idrogeno verde, al fine di stabilizzare il raggiungimento di una
sufficienza (ben oltre l’efficienza!) energetica, laddove le controparti pretendono invece di non modulare il
loro modello centralizzato e inquinante e di dilazionare così nel tempo una riconversione ecologica, che la
stessa UE sollecita a fare: da subito, non fra 20 anni.
Il binomio [rinnovabili – idrogeno] richiama da vicino gli elementi naturali – sole, vento ed acqua – e i cicli
naturali che regolano la vita sulla terra. È chiaro che il passaggio rapido (la parola “transizione” copre troppe
ambiguità) ad un sistema locale, basato sulla sufficienza energetica, sostenuto dalla popolazione, dai suoi
rappresentanti e, quindi, frutto di un processo democratico, debba garantire sotto ogni profilo una piena
compatibilità con la biosfera, un reale contributo al raggiungimento della neutralità climatica, la
riqualificazione dell’occupazione, l’integrità e la vivibilità del territorio.
Dato che il “cuneo” di Civitavecchia ha senso se si inserisce in un quadro generale di trasformazione del
settore energetico nazionale ed europeo, tratterò prima gli scenari entro cui analizzare i vantaggi del nuovo
vettore; successivamente le politiche - industriali e non solo – attraverso cui si può pervenire alla neutralità
climatica; da ultimo, farò più ampio cenno al caso paradigmatico di Civitavecchia.
Sul clima si deve intervenire, adesso!
Sta entrando nel senso comune la convinzione che l’umanità non possa più progettare di fare del Pianeta un
proprio manufatto, sottovalutando l’autonomia della sfera naturale con cui convive e puntando su una
illimitata “umanizzazione” della natura a spese di quella amica indispensabile a sopravvivere. Dimenticarsi
delle interconnessioni fra tutti gli elementi della biosfera è come porsi fuori dal tempo. Il nuovo immaginario
non può che adattarsi all’evidenza scientifica che tutto quanto è contenuto nell’universo evolve in
“cosmogenesi” continue da 14 miliardi di anni e che, come specie, ne siamo osservatori solo da non più di
mezzo milione di anni. La vita, cioè, ha un retroterra che rende conto non solo delle mutazioni dell’ambiente
in cui oggi viviamo, ma anche di quelle per cui non sopravviveremmo affatto. Dopo l’esperienza della
pandemia, ci troviamo di fronte ad un autentico strappo: le emergenze incombenti fanno sì che lo sviluppo
debba cedere il passo al bisogno di salute, cura e riproduzione. Si tratta di un nuovo retroterra che non
apparteneva alle generazioni passate e in questo contesto l’emergenza climatica ha tutta l’urgenza di un
2. 2
tempo che viene irreversibilmente a mancare. Innanzitutto, è diventato indispensabile - e non solo auspicabile
- programmare una “rivoluzione energetica”, che, inficiando antiche certezze, blocchi e non trasmetta alle
nuove generazioni la perturbazione e l’asincronia prodotta dalla combustione all’istante presente di fossili
accumulati in milioni e milioni di anni nelle viscere della terra e nei fondali marini, come risultato di “lenti”
scambi di energia tra il Sole e la Terra col suo manto vivente.
Di fronte a questa lettura, che è la stessa di Francesco e di Greta, il vecchio negazionismo climatico assume
un volto nuovo dalle parti del neo-capitalismo globalizzante: convincere che siamo ad un punto irreparabile
per invertire la tendenza al riscaldamento globale e che, di conseguenza, non c’è posto per tutti sul pianeta.
Pur di continuare a massimizzare i profitti andrebbe mantenuta la struttura della società e dell’economia
attuale, pur rendendosi consapevolmente conto di quanto l’attuale modo di produzione e consumo debba
mettere in conto scarti, inefficienze, rifiuti umani, una natura nemica.
Diciamo subito che il mantenimento del sistema fossile è una garanzia determinante per un “ritorno a
prima”. Contro questo disegno, privato dell’attrattiva dello sviluppo, muove passi ancora incerti
un’interpretazione scientifica del limite, che non prende ancora corpo come patrimonio conoscitivo generale,
ma che trova conferma nell’esperienza drammatica di eventi naturali vieppiù perniciosi quanto più
prevedibili e previsti.
Il ritardo nella formazione di una coscienza ecologica popolare ha molte spiegazioni, non ultima la
scoperta relativamente recente dell’effetto serra.
Che la CO2 dispersa in atmosfera fosse responsabile di variazioni della temperatura si cominciò a prendere
in considerazione solo intorno ai primi dell’800, osservando come le deforestazioni, dopo gli incend i,
influenzassero la temperatura locale. Solo dopo la metà di quel secolo venne confermato che, quando la Luna
appariva rossa al limite basso dell’orizzonte, si registrava un evidente assorbimento di radiazioni solari,
insieme ad un insolito raffreddamento. Qualcosa c’era nell’aria... Così, procedendo su queste tracce, dai
primi del ‘900 si individuarono modelli quantitativi che mettevano in relazione l’assorbimento di parte della
radiazione solare con il movimento e, quindi, con il calore prodotto da molecole di gas emesse in
sovrabbondanza dalla combustione dei fossili nell’era industriale. Ma solo dopo il 1950 i quotidiani
cominciarono a soffermarsi con maggiore frequenza sul ruolo pernicioso della combustione di carbone,
petrolio e gas: riuscì quindi facile fino alla svolta del secondo millennio minimizzarne o addirittura negare
gli effetti perversi prodotti sulle condizioni di vita e sulla stessa possibilità di riprodursi della biosfera nella
sua integrità.
Ai nostri giorni, l’attività antropica ha trasferito al pianeta una tale quantità di energia trattenuta
dall’atmosfera da spingerlo vicino alla soglia della barriera di potenziale che lo separa da un salto verso un
nuovo stato di equilibrio, che si colloca ad un livello di energia complessivamente più elevata. Questa
evenienza, tutt’altro che improbabile e che restringerebbe ulteriormente la finestra energetica entro cui è
agibile vivere, organizzare le relazioni sociali, fruire di buona salute, conservare i beni comuni e mantenerne
una virtuosa riproducibilità, è già contemplata nei piani delle multinazionali più spregiudicate e nelle
discipline dell’ingegneria climatica che, pur di evitare una decarbonizzazione rapida assai costosa per il
sistema economico attuale, sono disposte a ricorrere a consumi ancor più elevati di energia estratta a maggiori
profondità o catturata addirittura nello spazio extraterrestre. La questione è di attualità eminentemente
politica e, non a caso, anche le discriminanti fra destra e sinistra passano dai nodi della riconversione
ecologica.
Fortunatamente, ha crescente ascolto e ormai un credito istituzionale, seppure frequentemente tradito per
le pressioni delle grandi lobby, l’appoggio a piani programmatici più rigorosi e realistici, decisamente in
discontinuità con il passato, che si collocano sul versante del raggiungimento della neutralità climatica a
partire, qui ed ora, da una verifica al 2023, al 2030, non oltre il 2050. All’interno di tutti questi piani, spesso
a livello sovranazionale, è ricorrente il ricorso all’idrogeno come vettore decisivo a sostegno di un cambio
di paradigma. Esso diventa sostanzialmente insostituibile per dare stabilità e programmabilità alle fonti
naturali intrinsecamente discontinue e per mantenere pressoché intatto il complesso del loro potenziale
elettrico e di calore fornito e stoccato preferibilmente in loco o trasportato.
3. 3
I “colori” dell’idrogeno
Il dibattito aperto sull’introduzione accelerata e massiccia del vettore idrogeno in un futuro sistema
energetico più sostenibile, è incentrato in gran parte su aspetti rilevanti, ma che non tengono per ora
abbastanza in conto una risorsa vitale come l’acqua. Gli esperti si misurano sui costi, sulle evoluzioni
tecnologiche dei sistemi di produzione e di distribuzione, sui miglioramenti di efficienza di un ciclo ad oggi
ai primi passi. Gli economisti e i governi si mostrano più o meno sensibili all’interesse dei maggiori gruppi
multinazionali a mantenere centralizzato e dipendente da grandi impianti l’introduzione di un sistema di
accumulo innovativo sì, ma non tanto da invalidare l’economia di scala. Tutti, comunque sembrano
concordare sui vantaggi che deriverebbero dal conservare e immettere in rete l’energia prodotta, aumentando
l’efficienza del sistema e, soprattutto, decarbonizzando significativamente il ciclo di produzione e consumo.
L’economia dell’idrogeno sembrerebbe una soluzione ideale, ma occorre tener conto che l’elemento, pur
essendo diffuso in composti anche nell’atmosfera, lo si trova per lo più legato saldamente in diverse
molecole, come gli idrocarburi o l’acqua, in cui il legame chimico con l’ossigeno è talmente forte che, fino
agli ultimi decenni del ‘700, il liquido più diffuso sul pianeta era considerato inscindibile nei suoi
componenti.
Quasi mai si riflette sul fatto che l’idrogeno può essere prodotto in quantità importanti solo scindendo
molecole molto stabili, come ad esempio il metano (CH4) o, soprattutto, l’acqua (H2O), rilasciando nel primo
caso gas climalteranti e nel secondo – almeno a prima vista – soltanto ossigeno dopo aver consumato corrente
elettrica. L’acqua, la fonte più disponibile, da sola copre il 71% della superficie terrestre e il suo volume è di
circa 1,5 miliardi di chilometri cubi. Quindi, il ricorso ad essa, così drammaticamente preziosa e carente,
nonostante i grandi numeri di sopra, in gran parte del pianeta abitato, pone l’urgenza di trovare soluzioni al
cambiamento climatico senza perdere di vista i cicli naturali con cui impatterebbe un nuovo sistema
energetico.
Se andate su Google per sapere quanta acqua si consuma per produrre un chilogrammo di idrogeno farete
fatica a raccapezzarvi. Semplificando qui al massimo, potreste, dopo molti sforzi, arrivare a cogliere la
pericolosità di produrre idrogeno direttamente da metano e vapore acqueo (idrogeno grigio), come
vorrebbero i più imprudenti, dando luogo ad emissioni assai dannose oltre che a massicci consumi di acqua.
Sareste poi incuriositi dai processi di elettrolisi, per cui l’idrogeno viene ottenuto al catodo di una cella
contenente acqua con il passaggio di corrente elettrica. In sé, il consumo dell’elemento vitale per antonomasia
per quanto riguarda solo processo di idrolisi non appare eccessivo (circa 10 litri di acqua per 1 chilogrammo
di idrogeno). Ma come si può trascurare quanta acqua viene consumata per produrre la corrente necessaria a
scinderne la stupefacente struttura molecolare? A questo punto, ecco comparire due altri colori dell’idrogeno:
il blu, quando l’elettricità proviene da centrali a metano con sequestro di CO2, il verde, quando la corrente
proviene da eolico o fotovoltaico, che funzionano senza consumo d’acqua.
A parte i problemi di costi e la pericolosità dell’immissione di CO2 nel sottosuolo - che non trattiamo qui
– come non stupirci che non ci si faccia mai carico del fatto che l’idrogeno blu, in quanto prodotto da centrali
a carbone o gas fossili impegna enormi quantità d’acqua consumate in particolare nei cicli di raffreddamento?
Per esempio, uno dei vantaggi propagandati della futuristica economia dell'idrogeno negli Stati Uniti è che
l'approvvigionamento di idrogeno, sotto forma di acqua, sarebbe virtualmente illimitato. Questa ipotesi è
talmente scontata che nessuno studio importante ha considerato appieno di quanta acqua avrebbe bisogno
un'economia dell'idrogeno se non si alimentasse solo con fonti rinnovabili.
Se, come prevedono alcuni studi, gli Stati Uniti dovessero ottenere la quantità di idrogeno prevista dal
loro piano al 2030 con le attuali centrali termiche, una ricerca specializzata informa che si utilizzerebbero
circa dai 72 ai 260 trilioni di litri di acqua all'anno, non tanto come materia prima per la produzione
elettrolitica, ma, soprattutto, come refrigerante nelle caldaie delle centrali. Uno sproposito, soprattutto a
livello planetario, se, contemporaneamente, accanto ad un mutamento dei consumi, non ci fosse una
sostituzione pressoché totale di carbone petrolio e gas con le rinnovabili. Se si mette quindi in conto anche
lo spreco di acqua, l’unica alternativa sostenibile è quella di un binomio [rinnovabili – idrogeno] con un
livello decentrato della produzione da utilizzare più convenientemente nello spazio di comunità energetiche
4. 4
autosufficienti. In conclusione, solo l’idrogeno verde rappresenta una soluzione possibile sia all’emergenza
climatica che a quella idrica.
Idrogeno e 100% rinnovabili? Tenere i fossili sottoterra
Da cosa muove l’impressionante accelerazione che la UE sta cercando di imprimere alle politiche energetiche
di tutti i ventisette Paesi? E perché l’Italia continua a espandere in chiave strategica un sistema basato sul
gas, in evidente contraddizione con le indicazioni più autorevoli? Credo che queste due domande meritino
una risposta.
Evidenze empiriche contro il mito del disaccoppiamento tra attività economica e impatto ambientale sono
ormai inconfutabili ed è tempo di ridiscutere l’idea di un sistema economico in costante crescita in un mondo
di risorse finite. La vera sfida è quindi quella della riduzione dei consumi aggregati, accompagnata da una
ridistribuzione dei consumi tra classi sociali. La lotta alla povertà deve passare per una riduzione delle
diseguaglianze e non per un’ulteriore crescita del PIL. A tale scopo è indispensabile riorganizzare il modo in
cui produciamo e consumiamo, così da permettere a tutti di vivere dignitosamente utilizzando poche risorse,
producendo pochi rifiuti e garantendo la dignità del lavoro. Va in questo senso la svolta dell’European Green
Deal? Certamente il programma muove passi nella giusta direzione e risulta pertanto conseguente che le
pressioni delle lobby fossili si stiano organizzando per mantenere la vecchia rotta.
Ma non basta. Il decennio appena iniziato rappresenta l’ultima chiamata per un’inversione ormai sempre
più urgente e che non possiamo più permetterci il lusso di rimandare. Si tratta di ridiscutere l’identità stessa
della società occidentale basata su un modello di consumo irresponsabile. Per una posta così impegnativa,
non possiamo affermare che l’European Green Deal abbia la forza per omogenizzare l’ambiguità di progetti
ancora divergenti e possa supportare una visione che dovrà diventare più ambiziosa di quella proposta nel
2020 al Parlamento europeo. Le novità di fondo vanno tuttavia ben colte e già in base ad esse il Piano
energetico nazionale (PNIEC) va completamente riscritto, a partire dagli impegni che si erano angustamente
assunti ENEL, ENI e Terna.
Per quanto riguarda la strategia dell’Ue per l’idrogeno, viene annunciata una crescita di quello “verde”
per ridurre le emissioni di CO2, secondo una bozza di progetto non ancora ufficiale. L’obbiettivo è di
“raggiungere livelli di prezzi competitivi” grazie a fabbriche di idrogeno verde su scala gigawatt in grado di
produrre il vettore solo utilizzando energia rinnovabile. Ciò significa che nella Ue si dovrebbe potenziare al
massimo la quota di rinnovabili: infatti il progetto implica che la strategia finale quantifichi la quantità di
nuova produzione pulita necessaria a scadenze ben determinate già entro il 2030, quindi il 2040 e 2050. Cioè,
subito! La bozza suggerisce di utilizzare garanzie di origine “solide” o certificati simili per consentire la
negoziazione dell’elemento “rinnovabile” dell’idrogeno verde. Ciò richiederebbe anche una classificazione
o tassonomia comune dell’Ue per l’idrogeno pulito, con standard minimi di riduzione delle emissioni di
carbonio e criteri di sostenibilità, oltre a una carbon tax di peso crescente. L’attenzione si concentrerebbe
anche su “settori costosi da decarbonizzare, come l’industria pesante, i fertilizzanti, l’acciaio, i prodotti
chimici, il cemento e i trasporti, compresi l’aviazione e il trasporto marittimo”. La strategia suggerisce anche
di utilizzare un programma di contratti per differenza per supportare la produzione di idrogeno pulito su scala
di Gigawatt.
Con l’obbiettivo di riduzione delle emissioni al 2030 del 55% al di sotto dei livelli del 1990, la strategia
per l’idrogeno assumerà quindi un rilievo immediato sul piano industriale e non si nega che un approccio
così deciso potrebbe influire sulle relazioni con i paesi con gasdotti verso l’Ue o sui contratti di fornitura di
gas liquido a lungo termine. È fuori di dubbio che l’applicazione rigorosa di queste indicazioni rimetta in
discussione la politica industriale del nostro Paese e finisca con il riarticolare le posizioni concordate al
riguardo tra i principali attori del settore ENEL, ENI e Terna.
Infatti, l'UE afferma di voler uscire dai combustibili fossili e diventare il prima possibile climaticamente
neutrale. Tuttavia, l'ultimo elenco di progetti energetici ammissibili al finanziamento dell'UE prima della
presidenza Von der Leyden includeva ancora 32 progetti per il gas, inclusa la costruzione di nuovi terminali
GNL. Entro marzo 2021 verrà varata una legge per la neutralità climatica e, probabilmente, quei progetti non
saranno più supportati. Secondo un nuovo studio dei consulenti industriali Artelys per la European Climate
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Foundation “l'Europa non ha bisogno di nuove infrastrutture del gas per salvaguardare la sicurezza
dell'approvvigionamento, mentre c'è il rischio che 29 miliardi di euro vengano sprecati a danno delle
rinnovabili per 32 progetti di gas per lo più non necessari e che rappresentano un potenziale
sovrainvestimento di decine di miliardi, sostenuto da fondi pubblici europei".
Uno “Stato imprenditore” dovrebbe quindi mettere in campo politiche pubbliche capaci di andare oltre gli
interventi che modificano i prezzi relativi (come la carbon tax e i sussidi per le tecnologie verdi), imponendo
limiti stringenti alle emissioni e standard ambientali rigidi (no a nuove centrali a metano, vietare la vendita
d i autoveicoli a benzina e diesel, obbligare i produttori a diminuire gli imballaggi, vietare l’obsolescenza
programmata). Al contrario, l’European Green Deal replica un modello di partenariato pubblico privato
ormai screditato, anche se l’idea di fondo è quella di attirare finanziamenti privati per costruire impianti di
energia rinnovabile grazie a una garanzia pubblica in caso di fallimento del progetto emessa dalla BEI.
Occorrerebbe, alla fine, sostenere un’idea di fondo per fronteggiare la crescente disuguaglianza
economica e la crisi ecologica con una lista di proposte che vanno dal finanziamento pubblico della
transizione energetica fino alla sussidiarietà decisionale a favore delle comunità locali, da un programma di
lavoro di cittadinanza per la messa in sicurezza del territorio fino al sostegno dei movimenti per la giustizia
climatica, ma questo non è ancora l’orizzonte della UE.
In particolare, sul ricorso all’idrogeno, Irena (l’Agenzia Internazionale per le Rinnovabili) suggerisce
linee di politica industriale molto stringenti e sicuramente già accolte in Germania. Se si adottassero quelle
raccomandazioni, l’idrogeno prodotto con elettricità rinnovabile potrebbe competere sul piano dei costi con
i combustibili fossili entro il 2030, cioè, in tempi per cui la trasformazione a gas di Civitavecchia sarebbe già
messa fuori mercato se non intervenissero meccanismi di public spending riparatori che ricadono sulla
collettività e i consumatori. Il rapporto Irena considera i driver dell’innovazione e offre strategie che i governi
possono utilizzare per ridurre il costo degli elettrolizzatori del 40% a breve termine e fino all’80% a lungo
termine. Se i costi dell’energia solare ed eolica continuano a diminuire e le economie di scala riducono i costi
per gli elettrolizzatori, il prezzo dell’idrogeno verde potrebbe scendere al di sotto dei 2 euro al kg entro un
decennio, rendendo non più competitivo il Kwh ottenuto dal gas.
Perché mai l’Italia deve essere tagliata fuori da una trasformazione anche del tessuto occupazionale,
manifatturiero e, perché no, culturale, che ambisce a realizzare lo zero netto delle emissioni di gas serra entro
il 2050, riducendo la capacità fossile da immettere in reti che diventeranno presto obsolete? Questo rapporto
conclude che “i decisori non hanno alcun fondamento logico per giustificare la priorità di nuove infrastrutture
di gas fossile nel nome della sicurezza energetica dell'UE o della futura domanda di gas".
Germania e Francia: politiche industriali per il clima
Credo che prima di analizzare i nuovi approdi verso l’idrogeno e le rinnovabili di Germania e Francia,
occorra manifestare le contraddizioni che la loro politica energetica mostra sul versante del ritardo della
fuoriuscita dal carbone nel primo caso e l’esubero di ricorso al nucleare nel secondo. Fatta questa premessa,
va capita però fino in fondo l’effetto di una strategia congiunta di questi due paesi per attrezzare le loro
industrie alla svolta energetica in corso. Starne a lato sarebbe un’imprudenza che si paga col rimanere leader
nell’industria del fossile che si avvia alla marginalizzazione, mentre è evidente come sia di capitale
importanza occupare un ruolo strategico all’interno delle filiere emergenti, ancora concorrenti e non del tutto
cooperative in ambito UE. Strano che questo distacco presumibile non sia posto all’attenzione di un Paese
che avrà la presidenza UE nel 2021, oltretutto favorito dall’esposizione alle fonti rinnovabili e dalla
disponibilità di acqua “pubblica”, come dovrebbe ritenersi l’Italia. Come può il Governo starsene fuori, in
attesa e non utilizzando al meglio le disponibilità finanziarie attivate da Next Generation?
Oltretutto, il mondo imprenditoriale e politico delle due maggiori economie europee sta gettando le basi
per la decarbonizzazione dell’industria pesante e del settore trasporti. Ci sono attualmente 50 progetti per
l’idrogeno verde sulla rampa di lancio nel mondo, con una capacità rinnovabile stimata di circa 50 GW. Gli
investimenti complessivi ammontano a circa 75 miliardi di dollari (stima IEEFA), per produrre grandi
quantità l’anno, con le iniziative più interessanti in Germania e Francia. L’Amministratore Delegato di
Thyssenkrupp ha annunciato la trasformazione verde del maggiore gruppo siderurgico tedesco. L’intenzione
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è quella di garantire che in futuro in Germania si produca acciaio verde. Il progetto di Duisburg riguarderà
in gran parte impianti già esistenti, che riusciranno a mantenere l’intero portafoglio prodotti, il che significa
che i costi di investimento e di gestione saranno notevolmente inferiori. Per raggiungere gli obiettivi climatici
dall’accordo di Parigi, Thyssenkrupp intende ridurre le sue emissioni di CO2 del 30% entro il 2030 e prevede
di completare la parte principale dell’impianto entro il 2025, producendo a regime 400.000 tonnellate di
acciaio verde. La Germania, da parte sua, ha deciso di allocare sull’idrogeno quasi un quinto delle risorse di
stimolo all’economia messe a sua disposizione dal Recovery Fund europeo. Sette miliardi di euro
supporteranno la propria economia dell’idrogeno e la realizzazione di 5.000 MW di impianti di elettrolisi
entro il 2030.
In Francia, intanto, la legislazione per promuovere la produzione di idrogeno rinnovabile e a basse
emissioni di carbonio verrà varata entro il nuovo anno, Con il piano nazionale per l’idrogeno si prevede di
introdurre un incentivo per colmare il divario iniziale tra il costo della produzione di idrogeno a base fossile
e la produzione di idrogeno verde. I progetti in approvazione contano di costruire 7 GW di capacità di
elettrolisi entro il 2030, producendo solo idrogeno verde. Si arriverebbe al 50% dell’attuale consumo
nazionale: un obiettivo più ambizioso dell’attuale target ufficiale del 20-40% al 2030. Intanto si prevedono
incentivi per l’acquisto di veicoli alimentati a idrogeno, il sostegno per la creazione di infrastrutture per la
ricarica dei veicoli, una quota riservata all’idrogeno nei piani di decarbonizzazione del settore taxi e che entro
il 2030 il 10% dei gasdotti sia dedicato al trasporto dell’idrogeno.
La notizia di una collaborazione tra le due potenze economiche europee richiama piani di massicci
investimenti nel settore dell’idrogeno a scopi industriali, rispettivamente con interventi da 7 e 9 miliardi di
euro, dando nuovo slancio con l’accesso a risorse comunitarie alla manifattura in una fase di impreviste
difficoltà. Si calcola che, da qui al 2030, anno di auspicabile consolidamento del progetto idrogeno, saranno
stati investiti fino a 130 miliardi di euro. La crisi e la necessità di uscirne con proposte innovative, dunque,
hanno dato la spinta definitiva ad un piano sulle risorse rinnovabili che ancora non era decollato senza
l’integrazione della componente di stoccaggio che lo rendono più conveniente. Sembra incredibile che ENEL
ed ENI inseguano uno stesso modello solo fuori dei nostri confini, lasciando altresì inchiodata al presente la
struttura energetica di base del paese.
La vertenza Civitavecchia
Nel dicembre 2020 il Gruppo Enel si è aggiudicato 59,2 MW di contratti di capacità nella gara per il servizio
di regolazione ultrarapida della frequenza di Terna, detta anche Fast Reserve. In particolare, le aggiudicazioni
riguardano le aree denominate “Continente Centro-Nord” (40 MW) e “Continente Centro-Sud” (19,2 MW).
Mentre il Direttore di Enel Italia affermava che “lo sviluppo e l’utilizzo di tecnologie di accumulo
favoriscono il processo di decarbonizzazione e la partecipazione delle rinnovabili al mix energetico,
contribuendo a raggiungere gli obiettivi del PNIEC e accelerando la transizione energetica”, passava quasi
sotto silenzio il fatto che dal gennaio 2023 fino a dicembre 2027, alcune unità, tra cui Torrevaldaliga Nord a
Civitavecchia riconvertita a gas, “forniranno un servizio di risposta ultrarapida in un lasso di tempo inferiore
al secondo con un servizio disponibile per 1.000 ore / anno, in specifiche fasce orarie definite da Terna” e
pagate, anche se non richieste, da un meccanismo “a forfait” messo a bilancio pubblico – il capacity market
– individuato dal governo Monti e poi reiterato ad ogni giro di governo.
La domanda che è nata nei comitati locali contrari alla reiterazione di una centrale fossile e disponibili
invece ad una alternativa [rinnovabili + accumuli, idrogeno in particolare] richiama immediatamente le
considerazioni sull’emergenza climatica e gli effetti sulla salute riportati nella prima parte di queste note.
Nello stesso tempo pone la domanda alle istituzioni e ai governi locali e nazionali del senso più in generale,
oltre che della convenienza, di una riconversione garantita dal danaro di contribuenti che non hanno voce in
capitolo. Attorno ai comitati si è subito stretta una mobilitazione di associazioni, studenti, gruppi
ambientalisti, fino a pronunciamenti delle forze politiche locali e ad un richiamo alla responsabilità di
mandato da parte degli eletti in Consiglio Regionale e in Parlamento. Gli interventi si sono fatti sempre più
numerosi e hanno cominciato ad affollare le pagine dei giornali e le trasmissioni delle TV. A quel punto, la
CGIL locale ha preso una posizione di appoggio alla proposta di riconversione senza gas, che viene subito
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condivisa dalla Uil e questo segna un punto di svolta imprevisto anche nelle relazioni sindacali a livello
locale. Un atto coraggioso e carico di responsabilità sul futuro anche occupazionale, oltre che ambientale
dell’Alto Lazio. Come descrive un giornalista locale “queste prese di posizione rappresentano una
straordinaria e graditissima novità che in moltissimi sperano possa avere eccellenti riscontri (le adesioni che
già si contano sono un invito all’ottimismo). Politici un po’ troppo tiepidi di fronte ad una situazione così
importante e praticamente adagiati nell’idea della cosiddetta “transizione” prima di passare dal turbogas alle
agognatissime fonti di salubrità? Si direbbe proprio. E se andasse come sostengono, almeno altri vent’anni
di dipendenza da combustibile fossile sono… assicurati: qualcuno pensa di fare salti di gioia o di prendersi
una sonora sbornia di felicità? Vabbè, ce n’è per tutti i gusti e i disgusti. Dibattito serrato, porte aperte a varie
opinioni e, siccome non manca nulla, pure silenzi assordanti”. Un’ottima descrizione di una partita aperta e
portata alla ribalta nazionale come controprova della possibilità di partecipazione alle decisioni anche dal
basso, in una fase in cui il diritto alla cura diventa prevalente anche sulle convenienze delle grandi imprese,
foss’anche a partecipazione di capitale pubblico.
La partita è aperta e riassume i termini di una questione che vanno ben al di là dell’interesse locale. Una
partita che, comunque, verrà ricordata come emblematica di una fase storica da cui è impossibile cancellare
con un colpo di spugna le emergenze che si sono accumulate e si stanno accumulando, non solo per le
generazioni ora in gioco. Una battaglia che può anche andare persa, ma, in questo caso, i vincitori verranno
comunque ricordati come lo sono i protagonisti delle vittorie di Pirro.
4 marzo 2021
Codice ISSN 2420-8442