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Report della prima edizione del Ferrara Sharing Festival, 20 - 22 maggio 2016
The Sharing World
Scenari e prospettive del mondo che cambia
Un evento di Sedicieventi srl, con la collaborazione del Comune di Ferrara,
l’Università di Ferrara, la Regione Emilia Romagna.
Direzione artistica: Davide Pellegrini
3,5 miliardi di euro per 100 mila
posti di lavoro, il rapporto per
l’economia italiana del 2015
presentato da Air BNB.
Un dato di fondamentale
importanza, considerato che la
proposta di legge presentata in 12
articoli dall’Intergruppo
Innovazione del Parlamento
sembra considerare le grandi
piattaforme digitali come una
priorità.
Ma cosa è la sharing economy,
tolto il fenomeno del neo-
capitalismo digitale?
Cosa è la sharing economy
Definizioni, modelli, piattaforme e comunità
di Davide Pellegrini
2
SOMMARIO
Introduzione. La sharing economy: lo scenario
Fenomeno sharing:
- La ricomposizione della frattura fra spazio e tempo
- Il punto di vista di Bonomi
- Sharing economy: is the new black?
L’impresa dei millenial:
- Essere collaborativi, anche all’interno
- Ripartire dalle competenze
- Gli Italiani e la sharing economy
- Perché è difficile realizzare un’impresa digitale in Italia
Sezione 1: Digital Economy
- Il turismo e la sharing economy
- Il punto di vista
- L’importanza di un governo digitale
- Food Revolution
- Last Minute sotto casa
- Workshop il turismo e la sharing economy
Sezione 2: Social Enterprise
- Dalla coop alla platform cooperative
- Cosa è il business inclusivo
- Il diritto dell’eccezione, non della regola
- Tempi ibridi
- Open Innovation
- Workshop le nuove professioni
Sezione 3: Community
- Le esperienze di community e il valore condiviso
- Vivere il co-housing
- Workshop gli spazi della collaborazione
La felicità non costa niente:
- Cosa diventerebbe il mondo se la sharing...
3
- Progettare la sostenibilità
- Riflessioni su un’economia della felicità
- Il contributo della finanza etica all’economia della condivi-
sione
- La città intelligente come habitat relazionale
- Universo Bergonzoni
La cultura come cura:
- Le politiche culturali e l’orientamento dell’UE
- Workshop la cultura e la sharing economy
Pubblicazione gratuita a cura di Aise.
A cura di: Davide Pellegrini.
Editing ebook: Francesca Fornari, Edicoletta servizi editoriali
Contenuti: liberamente concessi dai partecipanti al Ferrara Sharing Festi-
val.
Fotografie: Giulia Paratelli.
Immagini: alcune immagini sono state prese da internet. Se dovessimo aver
infranto il copyright, vi preghiamo di comunicarcelo tempestivamente e prov-
vederemo a rimuoverle.
4
La sharing economy: lo scenario - di Davide Pellegrini
In un recente articolo, dal titolo La sfida del valore condiviso e le trappole
della sharing economy, Andrea Granelli pubblica un’interessante riflessione
sul tema dell’economia collaborativa. È un’ottima occasione per aprire un
dibattito che, in varie forme, oggi investe tutti gli operatori che lavorano nei
percorsi di innovazione. L’articolo pone l’interrogativo se il comportamento
dello sharing sia, in contrapposizione con il concetto di dono di Marcel
Mauss, da intendersi più come una forma di condivisione (dato che il pro-
prietario resta di fatto in possesso di ciò che condivide). 
L’idea che, come abbiamo avuto modo di sperimentare, il termine sharing
rappresenti attualmente un contenitore di differenti interpretazioni che pon-
gono al centro la società connettiva, prima ancora che collettiva – come di-
rebbe Manuel Castells – sembra piuttosto scontata. Così come lo è stata,
fino a ora, la necessità di dividere chirurgicamente il mondo profit da quello
no profit, ancora oggi fatalmente suggestionati dallo scopo dell’azione prima
ancora che dalla possibile ricaduta benefica dei suoi effetti (Air Bnb è neoca-
pitalismo digitale o un’opportunità per microeconomie di scala? E, soprattut-
to, in che modo il valore condiviso si esprime in un servizio on demand?).
Che il terzo settore da sempre sia connotato in modo molto specifico, nessu-
no lo nega. Ma in un periodo di crisi e di totale e radicale trasformazione co-
me questo, credo sia più giusto concentrarsi sul ruolo che l'azione imprendi-
toriale deve avere, piuttosto che sulla esclusiva natura del servizio che
offre. Giustamente, nel suo articolo, Granelli cita il famoso testo del 2011 di
Porter e Kramer, Creating Shared Value, apparso su Harvard Business Re-
view Italia nel gennaio-febbraio 2011. Secondo i due teorici «le aziende po-
trebbero riconciliare affari e società civile se solo ridefinissero il proprio
obiettivo nei termini di creazione di “valore condiviso” e rimettessero in con-
tatto il successo di un'azienda con il progresso sociale». Qualcosa di
non lontano dalla CSR che, però, appare distante dalla reale fisionomia del
fenomeno innescato dalla cultura della sharing economy.
Non solo per il fatto che interpretare un’azienda dal punto di vista dei colle-
gamenti infrastrutturali con un territorio non basta a costruire un legame pro-
fondo con il territorio sul quale opera; poi, perché non è affatto semplice in-
tercettare una serie di fenomeni che spesso sono mossi da processi di ge-
stazione spontanea come nel caso degli spazi collaborativi, hub o fablab o,
ad esempio, tutti quei progetti che propongono in ottica locale e collaborati-
va prodotti e servizi di nicchia (prendete, ad esempio, il caso dei servizi cul-
turali come TeatroxCasa o CitofonareInterno7). Fuori dall’idea che dietro
l’ideologia del free si nascondano strategie di guadagno (anche se non per
tutti), posso assicurarvi che alcune piattaforme si confrontano con il proble-
ma della sostenibilità giorno per giorno e, il più delle volte, senza alcuna op-
portunità di dialogo con le imprese del territorio sul quale operano.
È evidente che, per la maggior parte di questi team, il primo proposito sia
quello della finalità sociale.
Se la sensibilità al sociale (visto che si parla ormai quotidianamente di im-
prese ibride e di b-corp) sta abbattendo il confine stabilito dal fine di lucro,
sta anche riconfigurando un intero sistema che stabilisce nuovi parametri: la
differenza tra interazioni sociali e relazioni sociali. Nella sessione introdutti-
va al recente Festival di Ferrara – tra gli altri – ce ne hanno parlato Paolo
Venturi e Luigi Corvo, moderati da Alessia Maccaferri. Le interazioni, come
nel caso delle piattaforme digitali, possono essere contatti favoriti dal fine
utilitaristico del rapporto (un esempio sono proprio i servizi on demand),
mentre le relazioni costruiscono valore. Ne parlo con grande trasporto per-
ché, rispetto al dibattito che si è infuocato, e che ancora non riesce a eman-
ciparsi dalla sua visione economico-aziendale, stiamo finalmente scoprendo
che la sharing economy è prima di tutto un fenomeno che ha alla base un
manifesto di idee di cambiamento che si esprime per comunità fisiche. Quel-
lo che è uscito fuori, in quelle bellissime giornate ferraresi, è l’urgenza da
parte delle persone di ritrovarsi in gruppi e avere l’opportunità di sentirsi co-
involti in community attive prima ancora di diluirsi nel network aperto e illimi-
5
tato della rete. Il sociologo Davide Bennato ha espresso un’idea ben preci-
sa quando ha detto che in una fase storica in cui il contesto delle relazioni si
caratterizza come ecosistema in cui prevale la desincronizzazione e la de-
territorializzazione (ci si rapporta all’altro in tempo e luoghi diversi, pensate
ai social media), il futuro creerà sempre più una netta distinzione tra i net-
work e le community. Distinzione che, tra le altre cose – come dimostrano
gli studi sul nostro paese – rafforza pienamente il retaggio culturale che
esalta la propensione alla prossimità fisica, alla ricerca del gruppo e alla
cooperazione. 
L’emancipazione dalla visione radicale aziendalista, che per la verità cita an-
che Andrea Granelli, e la valorizzazione del genius loci al di fuori dalle retori-
che coloniali di stampo anglosassone, ci aiutano nel recuperare la ricchez-
za non solo produttiva, ma di idee e contenuti che possediamo come un te-
soro naturale. Ora che anche il marketing si è fatto umanistico (giocando
con Kotler), possiamo finalmente concentrarci su alcune importanti caratteri-
stiche dell’economia collaborativa nel nostro paese:
1) l’impresa sociale di tipo collaborativo non si lega al territorio, ma da essa-
nasce e con esso si sviluppa grazie all’interesse manifesto dei suoi soci,
che sono espressione stessa del territorio che abitano, vivono e sono in-
teressati a migliorare. Il concetto di “locale” non è affatto una limitazione
concettuale del valore di un’impresa, ma può diventare un’opportunità nel-
la misura dell’azione condivisa con infrastrutture, stakeholders, associa-
zioni e comunità con i quali coordinare un’azione di sistema. L’impresa
sociale non si misurerà più solo sulla base di indicatori econometrici, ma
sul reale capitale sociale, di conoscenze e competenze sviluppare sul ter-
ritorio;
6
2) la costruzione di innovazione (che non si misura ex post, ma che ha un-
suo senso più che manifesto nel compiersi del processo) e la nuova catena
del valore fatta di progetti, piattaforme e spazi collaborativi, obbedi-sce alla
volontà di riconfigurare il sistema sociale e culturale prima che all’obiettivo
di realizzare un indotto milionario.  Mark Federman ha coniato il termine pu-
blicy per definire la contaminazione tra la sfera pubblica e quella privata,
propria di chi opera in rete (una condizione per dire che ormai la convergen-
za delle due dimensioni ci costringe di fatto all’attenzione verso l’etica socia-
le), Laura Boella, in Un Mondo Condiviso, scrive che il primo motore della
collaborazione è l’empatia, una condizione naturale che avvicina le perso-
ne nell’identificarsi l’uno nell’altro e nel condividere la rappresentazione di
uno stresso destino. La spinta all’idealità dei gruppi collaborativi giustifica il
passaggio dal capitalismo dell’iper-consumo alla partecipazione collettiva
alla governance pubblica e alla gestione dei beni comuni. Obiettivo: trova-
re soluzioni; 
3) il superamento della logica della rottamazione e il riconoscimento del
senso del cambiamento. Parlando di neocapitalismo digitale, ad esempio, è
un fatto che siano stati intaccati gli interessi di corporazioni e associazioni
di categoria che cercano in qualche modo di mantenere delle posizioni, pur
disponibili ad aggiornarle tramite un confronto con i nuovi attori. Il punto è
che la dialettica, più che interessare il rapporto tra ciò che è vecchio e ciò
che è nuovo, dovrebbe essere vista come un complesso dialogo tra gruppi
che difendono interessi di gruppo. Da un lato ci sono le associazioni di cate-
goria che, per come vengono rappresentate, difendono i proprio interessi e
sono reticenti al cambiamento; dall’altro ci sono i neo-operatori delle gran-
di corporate che, per come vengono raccontati, difendono gli interessi della
nuova imprenditoria digitale; poi, ci sono le community di innovatori che, pe-
rò, nel costruire delle alternative rappresentano di fatto un altro gruppo, di-
verso per obiettivi e modalità, ma chiuso nelle proprie posizioni. Costrui-
re ponti, collegare identità e missioni diverse equivale a trovare il giusto
equilibrio narrativo per comunicare che l’urgenza di cambiamento non vuol
dire necessariamente destituzione forzosa di chi c’era prima;
4) la prossima civiltà sociale, la società partecipe, obbedisce a una finalità
curativa. Tornando all’empatia, la malattia del millennio è nella rivelazione di
tutto lo scibile senza più alcun contenimento. La storia si è sciolta e, nel flus-
so che la vuole ormai come un eterno presente in movimento, ha svelato le
sue fragilità, i suoi controsensi, obbligando ognuno di noi a subire un incipit
narrativo come quello della Grande Crisi Globale, senza soluzioni né svilup-
pi di sorta. In questo senso, la diffusione della necessità collaborativa, nel
suo acquisire un rilievo collettivo, obbliga tutti a credere che un miglioramen-
to sia possibile e ad agire perché accada. L’empatia è la cura. L’intenzionali-
tà, la volontà di assecondare il cambiamento per mezzo di strategia positi-
ve, sono gli strumenti. Nei giorni di Ferrara si è svolto un workshop sulla feli-
cità in cui si è parlato di nuovi modelli. Dall’economia circolare («circolare,
7
circolare, non c’è nulla da vedere», come direbbe Bergonzoni) all’economia
civile, dal mutualismo alla ricerca della felicità.
5) l’innovazione può fare molta paura. Non siamo in un racconto di Asimov
o di Philip Dick. Non c’è quella barriera della finzione a rafforzare il patto
tra l’autore e il lettore. È qualcosa che succede realmente e ha delle riper-
cussioni importanti nella vita di tutti. Se l’idea che abbiamo anche discus-
so in alcuni workshop è quella del agire per cambiare, anche se non si
viene capiti, si ripete probabilmente l’annosa quaestio che è alla base del-
l’alternanza storica delle generazioni. In questo senso, gli innovatori sa-
rebbero le avanguardie, così come ci sono state nella prima metà del No-
vecento, e la dinamica sarebbe quella del conflitto, della contrapposizio-
ne, della rottura degli equilibri e dell’instaurazione di nuovi paradigmi so-
ciali, culturali, ecc. Oggi, invece, possediamo strumenti più efficaci e pe-
netranti per costruire una dialettica rassicurante sul futuro e sull’innova-
zione. L’obiettivo dell’innovatore non consiste più nella ghettizzazione del
suo ruolo, ma nello sforzo di rendere comprensibile quello che fa rispetto a
ciò che è stato. 
Fenomeno sharing
riflessioni e appunti sul cambiamento
3,5 miliardi di euro per 100 mila
posti di lavoro, il rapporto per
l’economia italiana del 2015
presentato da Air BNB.
Un dato di fondamentale
importanza, considerato che la
proposta di legge presentata in 12
articoli dall’Intergruppo
Innovazione del Parlamento
sembra considerare le grandi
piattaforme digitali come una
priorità.
Ma cosa è la sharing economy,
tolto il fenomeno del neo-
capitalismo digitale?
9
La ricomposizione della frattura fra spazio e tempo - di Davide Bennato
Le retoriche più diffuse alla base del contemporaneo cambiamento profes-
sionale sono essenzialmente due: la novità dei processi lavorativi (come il
lavoro a distanza) e l’ineluttabilità della componente tecnologica (la rete co-
me unico spazio per gestire le attività professionali).
In realtà entrambe le retoriche peccano di “presentismo”, ovvero di una esa-
gerata quanto errata attenzione al presente.
Prendiamo la prima retorica: la novità dei processi lavorativi.
L’attuale componente professionale deve confrontarsi con due interessanti
processi macro-sociali assolutamente interconnessi che sono la deterritoria-
lizzazione e la desincronizzazione. La deterritorializzazione è il processo in
base al quale il lavoratore professionista non condivide lo stesso spazio fisi-
co della sua attività lavorativa: per esempio un professionista che lavora su
mercati internazionali e pertanto lo spazio fisico del mercato in cui opera
non è lo spazio fisico dove si trova il suo ufficio. Come conseguenza della
deterritorializzazione abbiamo la desincronizzazione, ovvero il processo se-
condo cui i ritmi di lavoro sono scollegati dallo spazio fisico in cui avviene
effettivamente l’attività lavorativa: come il caso del professionista che lavo-
rando su mercati internazionali deve relazionarsi con clienti che non si trova-
no nel suo stesso fuso orario e quindi lavora in un tempo che non appartie-
ne al suo ufficio ma al suo mercato.
La deterritorializzazione non è un fenomeno nuovo: prende le mosse dalla
rivoluzione industriale in cui lo spazio di lavoro (la fabbrica) non si trova più
nello stesso posto dove vivevano gli operai (quartieri dormitorio o in tempi
più recenti quartieri residenziali). Il tempo ancora non era un problema per-
ché la distanza fra questi luoghi era relativamente breve, al netto di cambia-
menti sociali come la nascita delle periferie e il progressivo allontanamento
dal centro cittadino. Con la
globalizzazione degli anni
’80 del XX secolo le cose
cambiano radicalmente.
Nascono le multinazionali,
imprese che travalicano i
confini dello stato-nazione
allontanando sempre di più
lo spazio dei processi lavo-
rativi dallo spazio dei mer-
cati. Il problema da fisico
diventa temporale, ci si tro-
va a lavorare con altri fusi
orari, entrano in gioco tec-
nologie per lo spostamento
sempre più efficienti come i
trasporti aerei. Finché pro-
gressivamente invece di spostare merci e persone, si cominciano a sposta-
re i processi.
E qui entrano le dinamiche che ci aiutano a smontare la retorica del-
l’ineluttabilità della tecnologia.
Le tecnologie ICT in genere – e in tempi recenti quelle legate a internet –
non sono ineluttabili, sono frutto semplicemente del processo di remotizza-
zione, ovvero servono tecnologie che permettono di agire a distanza, in re-
moto, che permettono cioè di ovviare all’inconveniente per cui il professioni-
sta (ma anche il lavoratore in genere) si trova in uno spazio/tempo diverso
dal suo cliente e dal suo mercato. L’attuale successo dei processi lavorativi
gestiti soprattutto grazie alle tecnologie della rete internet, sono in realtà la
radicalizzazione di processi che sono stati attivati da strumenti come l’aereo
Docente di Sociologia dei media digitali,
Università di Catania
Davide Bennato
10
e il telefono e il fax, veri simboli dell’infrastruttura lavorativa delle multinazionali degli anni ’80. Quasi tutta la letteratura sociologica su lavoro e organizza-
zioni ha tematizzato con forza questo aspetto. Studiosi come Manuel Castells (autore del concetto di spazio dei flussi), Anthony Giddens (la cui teoria di è
concentrata sulle dinamiche di disintermediazione/reintermediazione) e John Urry (con i suoi illuminanti studi sulla sociologia della mobilità) hanno concen-
trato la loro analisi sulla tripartizione tempo/spazio/tecnologia, ovvero la tecnologia è uno strumento che funge da collante per ricomporre la frattura socia-
le fra tempo e spazio attivata dai processi lavorativi della fabbrica del XIX secolo.
Cosa c’entra questo con la sharing economy?
Se noi consideriamo la componente multinazionale della sharing economy – per esempio Uber – possiamo vedere come la tecnologia (l’algoritmo) serve
per rendere accessibile e pertanto monetizzabile le strade della città (lo spazio), agendo sulla capacità di segmentare il tempo che si impiega per svolgere
il servizio. Dinamiche simili se consideriamo la componente partecipativa della sharing economy ovvero economia della condivisione di merci/servizi basa-
ta su una community di persone. In questo caso la tecnologia (la rete) è lo strumento di collante sociale che consente l’accesso a prodotti/servizi (il tem-
po) cercando di ovviare alla scarsità di questi rispetto ad un preciso spazio fisico.
La tecnologia non è causa di queste nuove dinamiche sociali, ma la sua importanza cresce in quanto risposta a processi di frammentazione sociale che la
velocità dello sviluppo economico (ma non solo) hanno estremamente accelerato.
Nell’Italia in metamorfosi c’è un tessuto di economia diffusa fatto di capitalisti molecolari attivi nella manifattura,
nel commercio, nel turismo. Questi, nel bene e nel male, sono un’intelaiatura economica del paese proliferata
nel primo postfordismo, fatto di distretti manifatturieri che hanno usato la rete per tenersi nelle filiere produttive e
per la promozione di sé. Potevano fare riferimento al welfare e contare sulle istituzioni.
I nuovi mercati rimandano al secondo postfordismo della conoscenza globale in rete, soprattutto a base urbana,
che dà corpo alla sharing economy, che ridisegna smart city in un’economia circolare della città possibile dove
acqua, energia, rifiuti, mobilità, logistica, spazi pubblici, sicurezza, sanità, sono big data di un consumo e di una
governance di nuove forme di convivenza. La società circolare che viene avanti, con la digitalizzazione, si chie-
de come cambiano l’amministrazione, la partecipazione, la conoscenza, la formazione continua, l’accoglienza e
l’inclusione. Nei comportamenti sociali, come sempre, ci sono alleati con cui tessere la ragnatela del valore.
di Aldo Bonomi, sociologo
12
Sharing economy: is the new black? - di Luigi Corvo
Ma cosa è questa sharing economy di cui si sente così tanto parlare
(ora persino in Parlamento)?
Proviamo a mescolare 3 fattori:
- il lavoro non riesce più ad essere il principale vettore per ridistribuire il
valore fra coloro che hanno contribuito a generarlo;
- abbiamo accumulato asset che nel corso degli anni abbiamo sotto-u-
tilizzato, per via di costi di coordinamento che ne rendevano inefficien-
te una gestione condivisa;
- l’innovazione tecnologica ha ridotto quasi a zero i costi di coordina-
mento e ha reso pop piattaforme di condivisione degli asset che fino
ad oggi erano per lo più dormienti.
Mescolando questi elementi, e inserendo alcuni ingredienti fondamen-
tali quali la centralità delle relazioni e la possibilità di incrementare i li-
velli di fiducia fra gli agenti in condizioni di disintermediazione, si ottie-
ne quell’effetto che chiamiamo sharing economy.
L’impatto è e sarà sempre più dirompente. Il messaggio forte è che
qualunque asset, qualunque bene, materiale e immateriale, può avere
una gestione condivisa, può generare valore con il contributo di più per-
sone e a favore di più persone a patto che i costi di coordinamento sia-
no quasi zero e che ci sia una governance inclusiva con una catena
del valore circolare.
Ma ci sono due elementi che emergono e che aprono degli spazi per
costruire una nuova economia. Il primo riguarda l’approccio al rischio:
se una piattaforma riesce a coordinare gli asset diffusi, riesce anche a
sbriciolare il rischio che ciascun agente assume, e questo rende il mo-
dello di business lean, scalabile e, soprattutto, antifragile. Pensiamo
alla differenza fra le migliaia di stanze offerte da Airbnb e un hotel. Un
host di Airbnb non ha costi fissi elevati, non necessita di ingenti investi-
menti, non ha costi di personale e non ha strutture rigide cui far fronte.
Il suo rischio è quasi zero, così come il costo di coordinamento, e que-
sto funge da potente fattore abilitante, in grado di spiazzare il mercato
degli hotel che, al contrario, hanno rigidità tali da necessitare di una do-
manda quantomeno in grado di garantire il raggiungimento del punto di
break even.
Applicando tale cambiamento a diversi settori/bisogni si ottiene un effet-
to di shift che fa impressione. E che richiede politiche nuove, dall’istru-
zione alla tassazione passando per la revisione delle regolamentazioni
(e non solo).
Il secondo elemento attiene alla logica con cui l’economia ha trattato la
questione delle inefficienze. Avere una parte di casa, quindi un asset,
dormiente è una inefficienza, così come il fare un viaggio in automobile
senza riuscire ad ottimizzare i posti di trasporto disponibili (e quindi i
consumi). Le innovazioni che sono alla base della sharing economy rie-
scono ad intercettare queste (e molte altre) inefficienze e trovano il
modo per derivare valore da esse. Potrebbe sembrare un paradosso,
ma per gli agenti dello sharing l’inefficienza è una bella notizia, perché
in essa è insita l’opportunità di scovare l’innovazione che riuscirà a di-
segnare una nuova catena del valore e a creare nuovi mercati e nuove
prospettive.
In sintesi, dunque, viviamo una fase di transizione in cui ciò che gene-
rava valore risulta sempre più inadeguato a garantire la sostenibilità
13
sociale ed ambientale e avvertiamo l’urgenza di identificare nuove for-
me di generazione e redistribuzione del valore. Non sarà immediato
effettuare il cambio di paradigma, ma
possiamo partire da un punto: lavorare
sulle inefficienze come alleate del cam-
biamento. Per farlo, e per fare in modo
che i benefici non siano centralizzati nel-
le mani di pochi, occorrerà lavorare mol-
to sulla governance di questi processi e
sulla misurazione e valutazione del loro
impatto sociale ed ambientale.
Luigi Corvo, Docente di Social
Entrepreneurship and Innova-
tion, Università di Roma Tor
Vergata
La campagna di CoRete, rete delle realtà collaborative romane
L’impresa dei millenial
piattaforme, servizi, idee e comportamenti della collaborazione
La sharing economy ha cambiato
l’idea del lavoro. L’incertezza di
questi tempi, l’impossibilità di
prevedere gli esiti della Crisi
Globale non sono in realtà che
alcune delle variabili.
Alla base del nuovo mutualismo e
della spinta alla collaborazione c’è
anche l’identità di una generazione
(definita dei millenials) che convive
con la mobilità, con la condivisione
e che ha fatto della propria volontà
di cambiamento il motore per
ripensare ogni aspetto della vita
politica, economica, civile,
culturale, professionale.
L’identikit delle nuove imprese.
15
Essere collaborativi, anche all’interno - Emanuele Quintarelli
Insieme ai file, abbiamo scoperto come in un ecosistema collaborativo possano circolare posti di lavoro, stanze, pasti, passaggi in auto, con risvolti in
molti casi dirompenti su interi settori industriali.
La Sharing Economy ha introdotto una lunga lista di questioni legate all'impatto della digitalizzazione sul rapporto azienda-dipendente, sulla poten-
ziale messa in discussione di diritti acquisiti con grande fatica, sulla necessità di nuove regole per il riconoscimento ed inserimento di attori econo-
mici difficilmente classificabili all'interno degli schemi di mercato che anno caratterizzato il secolo precedente.
Per quanto simili domande siano ancora ben lungi dal trovare una risposta chiara e condivisa, esiste un'ulteriore dimensione dell'economia collaborativa
che finora non ha addirittura trovato spazio all'interno della discussione pubblica. In un mondo dominato dalle piattaforme, in cui da fruitori gli utenti di-
ventano partner, in cui il concetto stesso di lavoro si sfaccetta e fluidifica, dove il cliente è attratto da esperienze distintive, multicanale ed una relazione
paritetica e trasparente con i provider, la prima a frantumarsi in mille pezzi è l'azienda tradizionale.
Dalle ceneri dei silos dipartimentali, del micromanagement, delle strutture verticiste, rinasce un'organizzazione finalmente pensata non tanto per
sopravvivere, quanto per trarre il massimo vantaggio dalle dinamiche partecipative peer-to-peer tipiche del nuovo corso.
Aldilà di un buon marketing e di business model efficaci, è ormai evidente come l'era della condivisione imponga un vero e proprio cambio di DNA, in pri-
ma istanza relativo al ruolo ed alle modalità di partecipazione di chi in azienda vive tutti i giorni.
La trasformazione della fabbrica di Taylor nell'azienda collaborativa richiede pertanto tre passaggi:
" •" Il superamento della gerarchica a favore di una struttura basata su team (pod) dotati di autonomia ed invitati a scambi paritetici
" •" Il riconoscimento delle community di clienti quali attori che affiancano l'azienda nel fornire servizi, creare prodotti e raggiungere il mercato
" •" L'inclusione degli stessi fornitori in qualità di co-creatori ed innovatori della proposta di valore di cui l'azienda si fa portatrice
Ancora prima della costruzione di piattaforme per attirare milioni di persone, startup ed incumbent stanno finalmente comprendendo come volatilità e
complessità dell'economia attuale richiedano un'agilità, adattabilità e capacità di ascolto dei bisogni del cliente possibili solamente lasciando che la rete
entri in azienda e l'azienda diventi essa stessa rete.
16
Infografica della Social Enterprise - da Gist
17
Emanuele Quintarelli, Locial Enterprise Leader,
EMEIA Center of Excellence – EY
Per approfondire:
Titolo: Enterprise 2.0
Autore: Andrew McAfee
Editore: Harvard Business Press
Data: 9 dicembre 2009
Costo: Kindle, € 16,74
19
Ho toccato con mano come non siano l’età o il settore economico a
delineare i percorsi di sharing ma la capacità dei singoli (spesso in
organizzazioni) di comprendere le potenzialità, anche di mercato, che
un’economia basata sulla fiducia, l’uso intelligente delle risorse, obiet-
tivi di medio-lungo termine a fare la differenza.
Diverse aziende italiane cominciano a affrontare i loro progetti con logiche
di crowdsourcing tra i dipendenti liberando idee e energie a lungo sopite, e
mettendo talvolta in crisi rendite di posizione minacciate dagli ultimi arrivati
magari più attenti o preparati. Gli stessi spazi di coworking stanno diventan-
do veri servizi per l’impiego dove le persone vivono un inedito ‘apprendista-
to alle professioni autonome’
In questo senso, gli ambiti di competenza richiesti dalla SE – spesso tra lo-
ro correlati - sono:
1. La creazione, gestione, manutenzione di fiducia sia dei singoli e delle
community
2. La capacità di strutturare processi di facilitazione e accelerazione nella
creazione di relazioni volte a rendere lo ‘scambio’ facile, vantaggioso,
attrattivo.
Ripartire dalle competenze - di Andrea Pugliese
II dibattito sulle prospettive e le opportunità legate alla Sharing Economy
(SE) si focalizza da tempo sui temi dei modelli di business che la rendano
sostenibile, della fiscalità che la deve accompagnare e delle piattafor-
me necessarie a disintermediare le risorse che vengono condivise, siano
esse tempo, talenti, auto, case o altro. Molta riflessione è poi per classifica-
re i servizi: sono ‘buoni’ o ‘nocivi’ per l’economia? Creano o distruggono
posti di lavoro? Uber è sharing o no? La nuova proposta di legge serve e
ha senso? Nel frattempo le aziende profit e no profit si devono posizionare
in un mercato poco regolato, dove muoversi per primi consente di intercet-
tare bisogni più urgenti e creare community più ampie e motivate, e dove
aleggia l’aforisma “E’ meglio chiedere scusa che chiedere permesso.”
Ecco che operare nella SE diventa una scelta che presuppone com-
petenze specifiche, spesso aggiuntive a quelle più tradizionali.
Occupandomi di servizi per il lavoro ed essendo immerso ormai dal 2011
nelle spinte al cambiamento della Social Innovation, vorrei contribuire a
orientare/riorientare le professionalità di chi vuole cogliere le opportunità
della SE e per condividere qualche spunto anche con chi si occupa di pro-
grammazione formativa e orientamento professionale.
Come è già stato per la Green Economy, la SE determina almeno due am-
biti di impatto nel sistema delle competenze:
1." La comparsa di nuove professionalità, sebbene piuttosto poche;
2. L’evoluzione dei set di competenze professionali già in possesso di
molti che vanno a essere integrate o evolute da conoscenze e abilità
specifiche.
21
3. Capacità di progettare esperienze (di incontro, di scambio, …) e conver-
sazioni, on line e off line che siano funzionali ai servizi,
4. Capacità di portare i cittadini/clienti dall’inclusione all’azione di ‘scam-
bio’ attraverso leve motivazionali coerenti con i valori che si vogliono
esprimere, anche attraverso il gioco
5. Una concezione dei Beni Comuni abilitanti a processi di inclusione e
sviluppo locale la cui cura e rigenerazione creino valore per il più alto
numero di persone
6. Capacità di definire modelli di business in cui si trasmettano non solo i
valori economici ma anche culturali, ambientali e sociali.
7. Capacità di business storytelling focalizzate sul ‘perché’ degli interventi/
servizi piuttosto che sul ‘cosa’ e sul ‘come’.
8. Capacità di interpretare ed evolvere l’impianto delle regole normative,
procedurali, finanziarie e fiscali in una logica aperta alla collaborazione
e alla fiducia.
9. Capacità di valutare gli impatti degli interventi sulle relazioni, le conver-
sazioni, la creazione di valore
Da questo elenco, di certo parziale, si evince subito come la dimensione
umanistica, quella tecnologica, artistica, le scienze sociali, economia, legge
declinate anche nel game design, il community management, la facilitazio-
ne, debbano interagire spesso con le competenze tecnologiche.
In conclusione, vedo nella SE un'occasione imperdibile per un mercato del
lavoro di maggiore qualità, in cui trova spazio la costruzione di fiducia e rela-
zioni, la narrazione, la multicompetenza. Tutto questo per generare maggio-
re resilienza dei singoli, della imprese e delle comunità.
Andrea Pugliese, consulente strategico in materia
di programmazione di Fondi Europei, di politiche e
servizi per lo sviluppo territoriale e occupazionale
Per approfondire:
Titolo: Mi fido di te
Autore: Gea Scancarello
Editore: Chiarelettere
Data: 2015
Costo: € 13,90
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Gli Italiani e la sharing economy - da Pubblicitaitalia - intervista a Federi-
co Capeci
“La crescita della sharing economy in Italia è una crescita con il freno a
mano – ha dichiarato Federico Capeci -. Da un lato vi è un’alta propensio-
ne del cittadino a provare e usare servizi in condivisione, dall’altro, sia dal
fronte dell’offerta e sia da quello delle istituzioni, gli attori del sistema sono
al palo. Il consumatore è ben più avanti delle imprese e delle istituzioni in
quanto ci mostra un insieme di possibili utilizzi e di motivazioni della sha-
ring economy molto vasti, solo in parte colte dagli attori attuali”.
Uno dei motivi sottostanti a queste pratiche è il risparmio economico (lo
studio effettuato da TNS segnala che il saving è una motivazione per il
41% degli utilizzatori), ma non è l’unico motivo per dare e chiedere servizi
in sharing:
ci sono utenti mossi da desiderio di condivisione, da motivi di solida-
rietà; dalla volontà di fare un’esperienza di uso più ricca; dalla voglia
di fare impresa; dalla voglia di sperimentare nuove pratiche e esse-
re al centro delle novità sociali. In Italia, la sharing economy è cono-
sciuta dal 70% della popolazione.
Un Italiano su 4 la utilizza e la prospettiva è di ulteriore crescita: la mag-
gior parte dei non utilizzatori sono propensi all’uso futuro (22%) o necessi-
tano di maggiori informazioni (18%). Fra gli utilizzatori, un 10% di intervista-
ti dichiara di usare alcuni dei servizi suggeriti, ma non li associa spontanea-
mente al mondo ‘sharing’.
Fra i servizi utilizzati, gli italiani fruiscono di Servizi di mobilità (26%), Servi-
zi organizzati di scambio e baratto di oggetti di vario tipo (10%), Servizi di
alloggio di una camera o casa private (9%), Servizi culturali (8%), Servizi
di Social lending, prestiti fra privati (4%). Ma quali sono le barriere? La diffi-
coltà a fidarsi e la mancanza di regole chiare e garanzie nell’utilizzo, pena-
lizzano purtroppo ancora lo sviluppo.
Quello che vediamo da un punto di vista delle tutele e degli inqua-
dramenti fiscali, assicurativi e sociali – ha affermato Capeci – è che
le istituzioni sono al palo di fronte a questa crescente complessità e
come risultato, stanno frenando l’esplosione di quella che potrebbe
essere una leva di crescita di assoluto rispetto per il nostro paese.
“Dal lato dell’offerta – ha continuato Capeci – le proposte non sono in gra-
do di seguire l’ampia gamma di opportunità, segmenti e servizi con chiari
posizionamenti e benefit concreti per l’utente. La visione da parte dei
Player dovrebbe mettere al centro l’utente, ‘ascoltarlo’ per valutarne
aspettative ed esperienze concrete, in un continuo processo di finetu-
ning ed ottimizzazione della proposta e della comunicazione. Gli uten-
ti sono aperti all’utilizzo di nuovi modelli di business, come testimonia l’ele-
vato livello di conoscenza dei servizi in condivisione e anche la propensio-
ne all’uso in futuro, considerando che solo il 5% degli intervistati si dichia-
ra non interessato a questa tipologia di servizi”.
Federico Capeci, Chief Digital Officer – CEO di
TNS Italia, leader mondiale nelle ricerche di mer-
cato ad hoc e nella consulenza di marketing.
Puoi scaricare la ricerca di TNS-Global
Italia cliccando sulla copertina del-
l’ebook alla pagina seguente!
24
Quali piattaforme?
Homeaway è un sito
che, sul modello di Air
Bnb, propone soluzioni
di local hosting.
Il sito conta 1 milione di offerte per
160 paesi ed è parte del Gruppo Ho-
meaway, i cui siti hanno registrato cir-
ca 32 milioni di visitatori al mese.
www.homeaway.it
VizEat è un sito di
social eating nato
in Francia nel
2014.
Il sito conta 20.000 eaters in 50 paesi
ed è leader europeo. Riunisce viag-
giatori e locali di tutto il mondo a tavo-
la in incontri gradevoli da buongustai.
https://it.vizeat.com
GoGoBus nasce nel
2015, fondata da
un gruppo di profes-
sionisti di Torino.
Si tratta di Social Bus Sharing, sia
per singoli che per piccoli gruppi. Spe-
cializzato in trasporti per eventi e con-
certi conta già migliaia di utenti.
www.gogobus.it
ICarry è stata fondata
nel 2015 con l’idea di
rivoluzionare il delivery.
Il sito, sul modello sha-
ring economy, trasporta beni e merci
facendo risparmiare agli utenti tempo
e denaro. Oggi conta 8500 iscritti, tra
utenti e corrieri.
www.icarry.it
Guide Me Right nasce
nel 2014 e propone un
nuovo tipo di turismo.
Con GMR si possono sco-
prire e prenotare esperienze locali in
compagnia di un Local Friend. Il sito
offre 1757 esperienze in 561 città e
727 Local Friend.
www.guidemeright.com
Cocontest è un sito fon-
dato nel 2012 e ha un
seguito su FB di
57mila utenti.
Il sito permette a clienti da tutto il
mondo di lanciare piccoli concorsi pri-
vati di progettazione e arredo di inter-
ni, aperti a tutti i professionisti.
www.cocontest.com
Imprese digitali da seguire
Perché è difficile realizzare un’impresa digitale in Italia - di Ales-
sandro Rossi
Le startup italiane non crescono, tranne rarissime e per altro relative
eccezioni, perché il sistema è pensato per non farle crescere, o alme-
no è strutturato in modo tale che nessuna abbia veramente la possibili-
tà di farlo. Mi spiego meglio: noi abbiamo moltissimi acceleratori, fac-
ciamo un fiume di microseed da 30-50K che non servono a nulla (sen-
za parlare della proliferazione di premi e premietti da 10K, che sono
veramente utili solo ad illudere dei giovani ragazzi) perché poi sarà
praticamente impossibile chiudere un Serie A. Non conosco i numeri
precisi ma il meccanismo è chiaro ed è più o meno questo: su 100
startup che prendono un microseed, 30-40 riescono a prendere (il più
delle volte a rate, non fatevi ammaliare dagli annunci di fundraising sui
blog di settore) quello che in Italia definiamo un Seed, cioè dai 200 ai
600-700K. Di queste però solo 3-4 faranno un Serie A da 2-4 milioni e
nessuna farà mai un Serie B da 20-30 milioni (almeno non in Italia e
certamente non da fondi italiani). Ora, a meno che non si tratti di siti di
e-commerce con orizzonti di scalata molto locali, per scalare veramen-
te una startup innovativa deve arrivare a fare almeno un Serie B se
non Round ancora più grandi. Dunque o fai il giochino in Italia, e poi
vai all'estero a cercare i soldi veri, oppure ti tengono in vita con 50K
all'anno, lavori gratis per far fare i belli ai vari acceleratori di turno, e
poi fallisci avendo perso un mare di tempo e di energie. Il discorso è
molto, molto serio e riguarda il futuro di migliaia di giovani italiani, for-
se i migliori, sicuramente i meno omologati, i più creativi e coraggiosi.
Eppure nessuno ne parla, magari lo scrupolo è far arrabbiare il mini
investitore di turno.
Detto che il vero problema è l'atavica mancanza di finanziamenti, in
particolare dei tagli dal Serie A in su (se ci fossero i soldi noi avremmo
diversi team in grado di portare la loro startup a diventare l'incumbent
internazionale del proprio mercato), sicuramente il legislatore e in ge-
nerale il pubblico sono i soggetti più distanti dalla cultura dell'innovazio-
ne digitale a cui facevo riferimento nella precedente risposta.
La ricetta è ghettizzare chiunque sostenga la malsana, e sem-
pre di moda idea che si possa fare l'ecosistema innovativo all'ita-
liana! Per queste persone qualsiasi cosa si fa, si fa all'italiana,
che poi vuol dire farla malissimo o non farla proprio.
Semplicemente, e con maggiore umiltà, si deve copiare da chi l'inno-
27
vazione digitale la fa serissimamente da decenni e continua a farla:
cioè la Silicon Valley. Non inventare astruse ricette nostrane, sfornate
da personaggi che non hanno mai fatto una startup in vita loro o peg-
gio non ne hanno mai nemmeno utilizzata una, ma semplicemente
concentrarsi a rendere il terreno il più fertile possibile per le nostre star-
tup, per quelle italiane.
Faccio giusto un esempio, ma ce ne sarebbero decine e decine: uno
dei fattori che storicamente ha influenzato la crescita degli investimen-
ti di Venture Capital in Usa è stata la possibilità data ai grandi fondi
pensione di diversificare il portafoglio, investendo anche in società in-
novative contro equity. Immagina se Inarcassa investisse milioni su
progetti come CoContest, invece di denigralo pubblicamente sui vari
blog del settore. Diversamente, vedo che anche il nuovo sindaco di
Roma, che se non sbaglio ha solo 37 anni, dichiara (se pur in campa-
gna elettorale) che è contro Uber e a favore dei tassisti Allora capisco
che non c'è davvero futuro per un ecosistema innovativo in Italia.
Sono proprio le startup (in questo caso le grandi aziende)
disruptive come Uber che cambiano il mondo, il mercato del la-
voro ed in generale la società, rendendo il tutto più dinamico,
flessibile e meritocratico.
Noi invece non solo abbiamo rinunciato in partenza a creare i nostri
Uber (colpa degli investitori non dei politici in questo caso), ma addirit-
tura vogliamo negare ai nostri cittadini (consumatori) i vantaggi con-
nessi alle rivoluzioni che vengono create nel resto del mondo, pazze-
sco.
Credo sia cruciale la distinzione tra lavori a basso livello di specializza-
zione (ad esempio il tassista, tutti alla fine sappiamo guidare una mac-
china) e lavori ad alto livello di specializzazione (esempio l'architetto
con CoContest).
Infatti se l'innovazione web (vedi Uber) nel primo caso rivoluziona le
dinamiche del lavoro in quei mercati, permettendo a tutti di sostituirsi
ad esempio al tassista, nel secondo caso è solo un mezzo nuovo, più
dinamico, ecologico, trasparente e moderno di far concorrere tra loro i
professionisti del settore e dunque non permettono al cittadino qualsia-
si di sostituirsi al professionista. Questa distinzione è importante, infat-
ti sicuramente le startup della prima categoria sono ancora più pro-
consumatore e rivoluzionarie di quelle della seconda, ma anche, pro-
babilmente, più rischiose sotto il profilo della transizione per i vecchi
professionisti del settore.
La mia personale idea è questa: il legislatore dovrebbe essere
concreto e cercare di limitare le startup solo quando ci siano ve-
ri, e sottolineo veri, rischi per la sicurezza del consumatore.
Come esempio faccio il mio cavallo di battaglia, tu dove abbiamo man-
giato da piccoli la stragrande maggioranza delle volte? Immagino a ca-
sa grazie alla cucina di mamma o di nonna. Ora se siamo ancora vivi,
come lo siamo tutti noi che leggiamo quest'articolo, vuol dire che pur
senza aver superato i controlli sanitari la cucina delle nostre madri era
sicura. Ergo, non c'è alcun vero motivo di sicurezza per limitare l'home
restaurant, se poi il motivo è la tutela degli investimenti sostenuti da
chi fa un determinato mestiere in maniera tradizionale o di presunta
28
equità concorrenziale, allora dovremmo vietare per concetto qualsiasi
tipo di innovazione vera nei modelli di business. Lo stesso ragiona-
mento si può fare per Uber e i tassisti ad esempio. Poi noi, come amia-
mo fare, andiamo oltre e vogliamo bloccare perfino quelle piattaforme
come CoContest che non permettono alla collettività di sostituirsi ai
professionisti del settore, in nome della dignità della professione o di
qualche altra eresia anacronistica.
Ci sono varie situazioni emblematiche, pensa al caso di Soundreef
che dovrebbe essere un vanto made in Italy e invece ha subito resi-
stenze da parte della politica per proteggere un monopolio vecchio e
cattivo come quello della Siae.
Alessandro Rossi, Architetto, Cofounder di
Cocontest
L’ideografica dell’impresa digitale all’epoca della sharing economy
Paragrafi
1. Il turismo e la sharing economy
2. Il punto di vista
3. L’importanza di un governo digitale
4. Food Revolution
5. Last Minute sotto casa
6. Workshop il turismo e sharing economy
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Speciale imprese e sharing economy
Digital Economy
Piattaforme e nuove intermediazioni
Il turismo e la sharing economy - di Maurizio Davolio
Il processo innescato dalla sharing economy nel settore del turismo è desti-
nato non solo a continuare ma anche a svilupparsi ulteriormente, con ritmi
crescenti.
E’ emerso con chiarezza un aspetto finora poco considerato: tra
l’economia convenzionale e quella condivisa e collaborativa sono in
atto fenomeni di contaminazione e di avvicinamento.
Ci sono guide turistiche, con regolare patentino, che collaborano su piatta-
forme come Guide me right o come greeters; stanno cioè attuando un ripo-
sizionamento professionale che tiene conto dei cambiamenti in atto e sono
consapevoli dell’interesse che almeno una parte della domanda turistica
rivolge alla cultura tangibile e intangibile dei luoghi e delle popolazioni
(non solo monumenti, musei e siti archeologici, ma anche botteghe artigia-
ne, incontri con artisti, scoperta del patrimonio gastronomico ecc.).
Ci sono cuochi professionali che nei giorni liberi dal lavoro ospitano turisti
e clienti nelle loro case all’interno delle piattaforme VizEat o Gnammo.
Per le case e appartamenti per vacanza posizionati su piattaforme con
Airbnb o HomeAway, sono in offerta sistemi di revenue management co-
me per gli alberghi, ovvero sistemi di check in collettivi.
D’altra parte anche parecchi albergatori si stanno strutturando per
competere con le altre forme emergenti di ospitalità, puntando su
personale in grado di offrire storytelling o indicazioni per il turismo
esperienziale.
Rispetto al disegno di legge presentato dall’On. Veronica Tentori, la mag-
31
gior parte degli operatori concorda sull’esigenza di una legge che faccia
chiarezza e che consenta di operare nella tranquillità e nella legalità.
A tutti pare ormai chiaro che i fenomeni della sharing economy vada-
no regolamentati ma non imbrigliati; va favorita la concorrenza in un
quadro di correttezza e di parità; vanno garantite adeguate tutele ai
consumatori e fruitori; il regime fiscale non dovrà essere oppressivo,
trattandosi per lo più di attività non professionali e puramente inte-
grative.
In occasioni future sarà interessante studiare gli sviluppi dei vari fenomeni
anche alla luce dell’eventuale entrata in vigore e applicazione della legge.
Maurizio Davolio, Presidente AITR – Associazione
Italiana Turismo Responsabile.
Il punto di vista - Zeno Govoni
Perché un bel problema?
✓ Un aspetto per nulla trascurabile nella sharing economy nel turismo
è lo spostamento del rischio. Non è di certo la piattaforma ma sono i
singoli host, autisti, ecc a caricare sulle proprie spalle lo shock della
domanda, gli investimenti sul capitale produttivo, i problemi sulle tran-
sazioni, i danni causati da catastrofi non prevedibili.
Questa platform economy crea un’appropriazione dei profitti ed
una esternalizzazione dei rischi.
✓ Nella sharing economy il nuovo competitor non è più un’impresa/a-
zienda ma è il privato.
✓Con la sharing economy l’offerta è diventata estremamente elastica
e questo è diventato un problema per i revenue manager.
Prima l’offerta su una location era pressoché statica, ora invece
non solo è dinamica ma imprevedibile.
Arriva sul mercato per motivi diversi: per un evento, una festività nazio-
nale, un concerto oppure anche solamente dalla voglia di andare in
vacanza e, quindi, dalla possibilità di recuperare del budget attraverso
l’affitto dell’appartamento.
Perché un’ottima opportunità?
✓ Perché ci pone davanti a un ragionamento, a una riflessione da fare
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✓ Per la voglia di condivisione e d’incontrare i residenti, che porta a
ridisegnare le parti comuni degli hotel come GENERATOR HOSTELS,
THE STUDENT HOTEL.
✓ Perché la possibilità di spacchettizzare i classici servizi degli hotel
porta a destrutturare gli hotel come OASIS COLLECTION [parallelo
con quello che è successo nel mondo della musica online e cioè la
possibilità di acquistare una sola canzona, quella che ti piace, e non
tutto l’album].
✓ Perché la voglia di local porta a ripensare alle colazioni degli hotel
CANOPY by HILTON
Perché la voglia di scoprire il quartiere, la zona, e di conoscere
le chicche del posto, consente di riscoprire l’importanza dello
staff e del concierge, da veder sempre più come uno storytel-
ler.
✓ Perché l’hotel dovrà cambiare pelle, e questa è una bella opportuni-
tà per mettere sul mercato qualcosa di nuovo. Uno degli aspetti per
cui si sceglie AIRBNB è anche per il prezzo. Una realtà come GENE-
RATOR ha pensato di togliere tutto quello che è superfluo nella came-
ra, che spesso non si tocca né si usa mai, ma che porta a costi, ripara-
zioni, manutenzione.
✓ Per rivedere i siti degli hotel, renderli più friendly e far capire che die-
tro ci sono delle persone. Un sito classico di un hotel molto spesso
vende solo se stesso, ora occorre vendere anche il quartiere, l’atmo-
sfera local come avviene su Airbnb.
nell’individuare i perché del successo di AIRBNB e della sharing eco-
nomy nel nostro settore. E una volta individuati i punti di forza e le novi-
tà, occorre fare un’analisi per capire se e come introdurli negli hotel o
come rivisitarli. Una bella sfida e un stimolo per non adagiarsi e quindi
essere proattivi.
✓ Per la voglia di deregolamentazione per andare incontro al mercato e
interpretare le nuove esigenze/richieste del viaggiatore.
✓ Perché riporta al centro il rapporto tra le persone.
Il modello di AIRBNB si basa molto sulla costruzione della fiducia
e in questo noi albergatori dobbiamo imparare. Certo in AIRBNB
la differenza sostanziale con noi è che la fiducia è costruita in
modo bidirezionale invece da noi in modo unidirezionale.
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✓ Perché il modello iniziale di Airbnb ora sta lasciando il posto a un
modello che vuole avvicinarsi a quello dell’hotel. Già i Superhosts so-
no una selezione di host che forniscono un servizio di qualità rispetto
agli altri, ora la selezione SONOMA, con servizi tipo alberghiero, poi le
City Guide.
Inoltre sta introducendo una serie di servizi per gli host che pro-
vengono dal mondo dell’hotellerie come ad esempio un softwa-
re per fare revenue, un cruscotto per le aziende e per i soggior-
ni del canale business.
Zeno Govoni, Manager Director di Hotel Annun-
ziata di Ferrara.
L’importanza di un governo digitale - di Luca Sini
Quando abbiamo iniziato Guide Me Right eravamo sicuri del nostro ap-
proccio (Andrea, uno dei miei soci co-fondatori, un po’ meno). L’idea era
quella di facilitare al massimo l’incontro tra un viaggiatore e un esperto lo-
cale permettendo loro di definire l’esperienza insieme e con la massima
flessibilità. Il Guest poteva unire più attività per comporre la sua esperien-
za. Poteva definire lui la durata dell’esperienza e scegliere quali attività, in
quell’arco di tempo, fossero attività “for sure” (si sarebbero dovute fare, si
o si) e attività “maybe” (da fare in alternativa o se fosse avanzato del tem-
po).
Un casino, vero.
Dopo qualche mese di lavoro e un po’ di esperienza maturata ho ricono-
sciuto il nostro errore:
era stato un viaggio pindarico, con delle intenzioni sane ma troppo
decontestualizzato e autoreferenziale. Questo è anche quello che
mi è venuto in mente ultimamente leggendo, ascoltando e dibatten-
do della proposta di legge sulla Sharing Economy.
La legge si pone come obiettivo quello di regolamentare un fenomeno in
forte crescita. Lo fa intervenendo su diversi fronti: dalla definizione di Sha-
ring a quella dei soggetti che la compongono, dal nuovo regime fiscale per
gli utenti operatori (10% di tassazione fino ai 10.000€ di guadagni occasio-
nali) al ruolo di sostituto d’imposta per gli utenti abilitatori, dalla previsione
del rispetto di condizioni minime per i portali della Sharing (assicurazione,
pagamenti online, condivisione dei dati di utilizzo ecc) all’identificazione di
un ente centrale incaricato di identificare chi è Sharing e chi non lo è.
Da una prima lettura, molte di queste iniziative possono sembrare sensa-
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te, ma più si entra nel dettaglio e più emergono dubbi e difficoltà nel regola-
re e comprendere tutte le casistiche che possono venire a crearsi.
Mi sorge un domanda: siamo sicuri che la lezione che dobbiamo portar-
ci a casa dall’enorme crescita di questo movimento della Sharing
Economy sia che serve un regolamento per farla crescere all’interno
del nostro sistema? 
E se fosse esattamente il contrario: se invece la vera lezione fosse
quella che dobbiamo adattare il sistema attuale a quello che la Sha-
ring Economy sta facendo emergere?
Il vero problema che la Sharing Economy ha fatto emergere, agli occhi di
chi scrive, è l’eccesso di burocrazia che si é generato nel tentativo di rego-
lamentare ogni singolo servizio e i relativi requisiti necessari per operare
sul mercato.
Se questo è vero, allora l’approccio non dovrebbe essere quello “permis-
sion first” adottato dalla proposta di legge, che cerca di delimitare dei confi-
ni chiari a qualcosa in costante evoluzione attribuendo ancora una volta a
un organo centrale l’assegnazione del permesso a operare o meno sul
mercato, in questo caso quello della Sharing Economy.
Questo è lo stesso errore che abbiamo fatto con Guide Me Right: aveva-
mo sviluppato un’esperienza utente pensando che avrebbe facilitato enor-
memente i nostri utenti ma che poi, alla luce dei fatti, si è rivelata un qual-
cosa che gli utenti non solo non capivano ma che proprio non cercavano.

Fare questi errori è normale e comprensibile. In una startup digitale è faci-
le porre rimedio. Ma in un governo, anche se digitale, lo è meno.
Nel frattempo, piuttosto che affermarci come primo paese in Europa
in grado di prevedere una legge sulla Sharing Economy, rischiamo
di diventare gli unici a porre dei freni a questa evoluzione sociale ed
economica.
Quindi? Bisogna cambiare approccio muovendosi per davvero come un
governo digitale, con un approccio rivolto a snellire e non ad appesantire
ulteriormente tutto.
Due sono le azioni che andrebbero intraprese:


1. Prevedere 2/3 requisiti minimi comuni a tutte le iniziative di Sharing e
che dovrebbero essere rispettati a tutela di tutti, concentrandosi piuttosto
sul renderli possibili. Ad esempio facilitando l’offerta di una copertura assi-
curativa per questo tipo di iniziative, primo limite per chi vuole fare Sharing
in Italia. Non è necessario entrare nel merito di cosa è Sharing e di cosa
non lo è, sarà il tempo a dirlo accompagnato da un’attività di studio e moni-
toraggio volta a capire nel dettaglio questo percorso evolutivo prima di re-
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2. Snellire la burocrazia attuale per permettere agli operatori attuali di adat-
tarsi e rimanere competitivi affinché gli stessi possano finalmente avere un
ruolo attivo, e non ostruttivo, nella crescita di questo nuovo ecosistema
competitivo.
Questo è quello che ci ha insegnato la Sharing:
viviamo in un mondo aperto, dinamico e globale dove le risposte
non vanno trovate ma vanno cercate, dove la validazione non è cen-
tralizzata a livello pubblico ma viene esternalizzata alla community,
dove il lavoro non è fisso e garantito ma è flessibile e meritato. An-
che, e soprattutto, in questo mondo chi ha qualità e disponibilità da
offrire troverà il suo posto. Questo è uno dei motivi per cui certi pro-
fessionisti non dovrebbero sentirsi minacciati dalla Sharing Eco-
nomy ma piuttosto dovrebbero cominciare a prenderne parte attiva-
mente per essere certi che questa si evolva anche in base a quelle
che sono le loro esigenze e conoscenze.
Allora non mettiamo i paletti a questa evoluzione, che tocca e andrà a toc-
care tutti i settori produttivi vecchi, attuali e futuri. Rendiamola possibile
creando un ecosistema favorevole, dinamico e flessibile come il mondo in
cui viviamo. Forse è quello che serve a questo paese per rilanciarsi.
Luca Sini, Founder Guide Me Right.
Guarda l’infografica su Booking BlogInfografica sulle piattaforme del turismo sharing
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Food Revolution - di Eugenio Sapora - coordinatore Italia Alveare che
dice sì
Un nuovo modo per vendere e comprare i prodotti locali utilizzando inter-
net e la sharing economy: questa l’idea alla base de L'Alveare che dice
Sì!, progetto nato in Francia nel 2011 che arriva ora anche nelle diverse
città d'Italia.
Unendo agricoltori, cittadini consapevoli e innovazione digitale, L'Alveare
che dice Sì! è una piattaforma online che permette una distribuzione più
efficiente dei prodotti locali, per dar vita ad un modello replicabile di impre-
sa sociale: la piattaforma di vendita favorisce gli scambi diretti fra agricolto-
ri locali e comunità di consumatori, che si ritrovano una volta alla settimana
creando piccoli mercati temporanei a Km 0, conosciuti come Alveari.
Ad oggi sono più di 750 gli Alveari presenti in Francia, e oltre 70
quelli nati da inizio anno in Italia.
 Come funziona L’Alveare che dice sì!
I produttori locali presenti nel raggio di 250 km si iscrivono al portale
www.alvearechedicesi.it e si uniscono in un “Alveare”, mettendo in vendita
online i loro prodotti: frutta, verdura, latticini, formaggi. I consumatori che si
registrano sul sito posso acquistare ciò che desiderano presso l’Alveare
più vicino casa, scegliendo direttamente sulla piattaforma.
Il ritiro dei prodotti avviene settimanalmente nel giorno della distribuzione
organizzata dal gestore dell’Alveare, cioè colui che ha preso l’impegno di
tenere il contatto con gli agricoltori e che si occupa di pianificare eventi,
aperitivi e visite guidate nelle aziende dei produttori per creare un vero net-
work di relazione e conoscenza diretta.
L’incontro tra agricoltori e consumatori può avvenire in luoghi diversi, dal
bar al ristorante, alla sala dell’associazione che mette a disposizione i pro-
pri spazi.
Lo spirito però è sempre lo stesso: permettere ai produttori di vende-
re direttamente e in modo facile e dare ai consumatori accesso ad
alimenti freschi, locali e di qualità, rivalutando il cibo e il suo ruolo
nella  promozione di uno stile di vita sano.
In questo meccanismo, che mette al centro la comunità e la genuinità dei
prodotti, è fondamentale il ruolo della tecnologia: la piattaforma è stata svi-
luppata lavorando a stretto contatto con gli utilizzatori, per modernizzare
ed accelerare la filiera corta e promuovere un modello di commercio più
equo.
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Cosa è il Food sharing - di Francesco Ardito, cofounder LMSC
LMSC, nata all’interno dell’Incubatore I3P del Politecnico di Torino, da piat-
taforma desktop è diventata un’apprezzata App che propone una formula
originale di marketing di prossimità. Gli esercenti con prodotti alimentari in
eccedenza informano con immediatezza e semplicità i consumatori che si
trovano nelle vicinanze, i quali possono approfittare della promozione “last
minute” in corso.
La App (e il portale) danno la possibilità ai consumer di indicare a che di-
stanza vogliono ricevere le proposte in tempo reale e da quali tipologie di
negozio, ricevendo così solo offerte specifiche “sotto-casa”.
E’ questa la filosofia vincente di Last Minute Sotto casa: concreti van-
taggi commerciali ai negozianti, ai quali si aprono nuove prospettive
economiche grazie all’accesso di nuovi clienti e risparmio quotidiano
per questi ultimi, che possono acquistare prodotti sempre freschi ne-
gli esercizi vicino casa.
Gli effetti positivi non sono solo economici, ma dai risvolti etici ed ecososte-
nibili. Già oggi, ogni mese, due tonnellate e mezzo di prodotti alimentari
non vengono gettati nella spazzatura grazie a LMSC! Il progetto, la cui ori-
ginalità è stata sottolineata dal riconoscimento di numerosi premi nazionali
ed internazionali, è l’unico italiano arrivato alla finale della European
Social Innovation Competition 2015, fra più di 1.000 progetti sottoposti
alla valutazione della EU ed è il vincitore del premio Edison Pulse 2015.
Durante il percorso di sviluppo del portale si sono potute osservare le po-
tenzialità di questo strumento che tutela non soltanto il commerciante, il
consumatore e il pianeta ma permette alla categoria dei piccoli esercizi
commerciali di ridurre il digital divide rispetto ad altri soggetti più organizza-
ti.
”Il progetto è nato un quartiere della città di Torino – sottolinea Francesco
Ardito, co-fondatore LMSC con Massimo Ivul – “con l’idea che si potesse
recuperare il pane invenduto a fine giornata, poi si sono aggiunti altri quar-
tieri della città e altre tipologie di attività commerciali come pescherie, ga-
stronomie, macellerie e ultimamente i mini-market di prossimità, tutti con il
problema comune del prodotto fresco che a fine giornata, se non venduto,
deve essere buttato. Abbiamo fatto un conto di massima sul risparmio che
ogni mese grazie all’utilizzo del portale abbiamo garantito ad una città co-
me quella di Torino; ebbene il risultato è sorprendente, più di una tonnella-
ta di cibo, 1.000 chilogrammi! A un anno e mezzo dal lancio ufficiale del
progetto, abbiamo raggiunto quasi 50.000 utenti registrati e stiamo arrivan-
do sempre più capillarmente nelle principali città italiane. Grazie alla part-
nership con il Gruppo UP e al sostegno che una importante e autorevole
organizzazione come LifeGate ci potrà offrire, stiamo preparando un piano
di sbarco al di fuori dei confini nazionali”.
Il workshop il turismo e la sharing economy
I nuovi modelli di turismo. Coordinatore Maurizio Davolio - di Redazione
Elisabetta Luise: HomeAway è il leader mondiale nel mercato online degli affitti di case vacanza e ingloba ad
oggi oltre 1 Milione e 200 mila annunci in circa 190 paesi nel mondo. Online su HomeAway, proprietari privati e
professionisti immobiliari offrono un’amplia selezione di case vacanze offrendo ai viaggiatori di tutto il mondo la
possibilità di sperimentare esperienze memorabili assieme ad altri numerosi benefit, come più stanze a disposizio-
ne dove rilassarsi godendo di maggior privacy a fronte di un minor costo rispetto alle sistemazioni più tradizionali
come gli hotel. La società è infatti un punto di riferimento sia per i proprietari privati di case vacanze che per i pro-
fessionisti immobiliari che desiderano pubblicizzare le loro proprietà e gestirne le prenotazioni online. Il portfolio
di HomeAway include 50 siti leader di mercato che attraggono ogni mese più di 44 milioni di viaggiatori e sono
declinati in 13 lingue diverse. HomeAway è oggi parte della famiglia Expedia Inc.
“E’ la tua vacanza perché condividerla?” campagna di brand HomeAway 2016
https://www.youtube.com/watch?v=Cio5fClAtDA
HomeAway lancia un messaggio provocatorio e nel contempo ridisegna il concetto della Sharing Economy
così come intesa in relazione ai viaggi e al turismo. E’ davvero un bene condividere tutto con tutti?  HomeA-
way chiarisce così il proprio posizionamento a livello globale per l’affitto breve di case vacanza per intero,
da condividere sì, ma con i propri cari e la famiglia, non con gli estranei e gioca ironicamente con alcuni
aspetti che i viaggiatori non gradiscono dei altre tipologie di sistemazioni: buffet affollati, piscina condivisa
con ospiti rumorosi, stanze e appartamenti condivisi con estranei etc.
La diversità e la complessità dell’offerta turistica online, che troviamo oggi declinata in un proliferare di siti web,
OTA, agenzie etc.. deve necessariamente presupporre una conoscenza approfondita della sharing economy e
dei suoi modelli da parte del legislatore che si approccia a regolamentare il settore. Giusto semplificare ma senza
penalizzare e imbrigliare un settore  che al suo interno raccoglie una grande complessità e che sta dando grandi
opportunità al mercato.
Luca Sini: Guide Me Right è un community marketplace dove
scoprire e prenotare esperienze local autentiche in tutta Italia: il
progetto nasce dalla volontà di rinnovare e rilanciare un'industria
turistica che ha la responsabilità di essere uno degli asset della
ripartenza del sistema Italia. Per dare risalto alle bellezze italiane
(non solo nelle grandi città ma anche nei piccoli paesi) abbiamo
adottato un approccio "dal basso". GMR cerca di coinvolgere atti-
vamente i cittadini nella promozione attiva del territorio a vantag-
gio dei cittadini stessi (opportunità di guadagno), dei viaggiatori
(nuove esperienze) e dei territori stessi (soddisfazione del viag-
giatore e distribuzione della ricchezza)l. 
GMR è attivo in più di 550 città Italiane grazie a più di 700 esperti
locali (Local Friend) che offrono più di 1700 esperienze: creare
un marketplace liquido di esperienze gioverebbe a tutti.
Infatti, piuttosto che a una potenziale riduzione dei guadagni per chi offre il servizio (da dimostrare nel lun-
go periodo), i marketplace della sharing economy che riescono a funzionare non fanno altro cha favorire
l'efficienza riducendo i tempi morti e permettendo di sfruttare al massimo le proprie risorse (stanze, posti
auto, tempo libero) grazie alla tecnologia. I professionisti pre-sharing economy dovrebbero prendere parte
a questo movimento, che alla fine va a premiare comunque chi (A) ha un'offerta di qualità da offrire e (B)
ha la disponibilità per garantire l'offerta.
La pubblica amministrazione dovrebbe invece cambiare approccio legislativo nei confronti della Sharing, impo-
stando dei requisiti minimi a tutela di tutti (assicurazioni, professionale vs occasionale ecc) e parallelamente dere-
golamentando in maniera da semplificare la macchina burocratica/legislativa. 
Presidente AITR
Maurizio Davolio
Paragrafi
1. Dalla coop alla platform cooperative
2. Cosa è il business inclusivo
3. Il diritto dell’eccezione, non della regola
4. Tempi ibridi
5. Open Innovation
6. Workshop le nuove professioni
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Dalla coop alla platform cooperative - di Andrea Rapisardi
Quando con alcuni colleghi cooperatori si è cominciato a riflettere sul tema
dell’economia collaborativa alcune delle reazioni alla vicenda Uber-taxisti
che andavano per la maggiore erano le seguenti:
“La cooperazione esiste da quasi 2 secoli! I soci cooperatori si sono sem-
pre uniti per raggiungere uno stesso fine sulla base dei principi di collabo-
razione e solidarietà. Cosa c’è di innovativo nell’economia collaborativa?
Come mai da un lato la collaborazione va tanto di moda sembra essere la
cosa più “cool” del momento e invece la “cooperazione” ha raggiunto uno
dei momenti più bassi di reputazione (almeno in Italia)? Fra l’altro Uber sot-
topaga i conducenti!”.
Bene, sembrerebbero chiacchiere da bar ma in realtà niente è più attuale
di queste affermazioni!
Proverò a fare alcuni esempi per farvi capire cosa c’è di differente fra Eco-
nomia Collaborativa e Cooperazione e quali invece sono le opportunità
che la cooperazione potrebbe cogliere per giocare un ruolo attivo all’inter-
no di questo variegato fenomeno.
Prima degli esempi però possiamo già fare una prima grande distinzione.
L’economia collaborativa è innanzitutto un fenomeno estremamente varie-
gato, è come parlare di Green Economy o New Economy e si riferisce quin-
di a settori diversi, organizzazioni societarie diverse, ecc…
La cooperazione rappresenta un movimento altrettanto variegato che si
basa sulla promozione di una specifica forma di impresa, la cooperativa,
che ha una sua architettura chiara e normata dalla legge.
Vediamo alcuni casi di studio.
Speciale imprese e sharing economy
Social Enterprise
Imprese, cooperazione, comunità
44
ES.1: MOBILIFICIO
A) Pensate ad una classica fabbrica di mobili degli anni cinquanta. Nel-
la maggior parte dei casi si trattava di un’impresa di capitale in cui la-
voravano i componenti della famiglia proprietaria. Per svolgere la sua
funzione produttiva, l’azienda aveva bisogno di una fornitura di mate-
rie prime conveniente, di un luogo di produzione, macchinari, dipen-
denti. Creava una linea di prodotti ed organizzava la vendita o diretta-
mente o con accordi di distribuzione sui mercati di riferimento o con
accordi di produzione per terzi.
B) La cooperativa rappresenta un’innovazione economica e sociale di
grandissima rilevanza che passa dal cambio di modello societario. Il
funzionamento aziendale poteva essere esattamente lo stesso, la diffe-
renza stava nel fatto che la proprietà era dei lavoratori, che questa ri-
specchiava l’equilibrio di governance rappresentativa 1 testa 1 voto,
che il patrimonio prodotto era intergenerazionale e che l’unione dei la-
voratori era finalizzata al raggiungimento di un obiettivo comune: la ga-
ranzia di condizioni di lavoro migliori! 
- INNOVAZIONE NELL’ORGANIZZAZIONE SOCIETARIA
C) L’azienda che mette in pratica il modello piattaforma è portatrice di
un’innovazione altrettanto rilevante che passa invece dal cambio di
modello di business. La compagine societaria potrebbe essere esatta-
mente la stessa. Cosa realmente si innova è il modello di relazione fra
i diversi attori della filiera produttiva. L’azienda crea una piattaforma
digitale di scambio che abilita uno scambio fra Designer (che vendono
i loro progetti), Makers (che vendono l’utilizzo dei macchinari o diretta-
mente la loro capacità produttiva), Clienti finali (che acquistano il pro-
prio mobile riadattato secondo le proprie necessità). La piattaforma
guadagna da percentuali sulle transazioni ma lascia che i pari si auto-
selezionino in tutto il mondo secondo un sistema reputazionale, non
assumono dipendenti per la parte creativa o per la parte produttiva
(bensì solo quelli che servono per sviluppare e promuovere la piattafor-
ma), non stabiliscono i prezzi se non le percentuali di commissione su-
gli scambi (le regole del gioco per l’utilizzo della piattaforma).
Perché è più “cool”? Perché in termini capitalistici è molto scalabile. In
2 soli anni di attività si rivolge a milioni di utenti, in tutto il mondo, non
ha costi fissi enormi, non ha costi logistici, ecc… E’ sicuramente un
buon soggetto nel quale investire!
- INNOVAZIONE NEL MODELLO DI BUSINESS
45
ES.2: MACCHINA CON CONDUCENTE
A) Probabilmente un tempo (ed esistono ancora) le agenzie di noleg-
gio erano delle società di capitale, che erano proprietarie di una flotta
di macchine, avevano fra i dipendenti i conducenti, avevano alleanze
commerciali e strategie di comunicazione specifiche (es.: convenzio-
ne con gli alberghi e con i musei).
B) La cooperativa di conducenti funziona nello stesso modo in termini
organizzativi, i soci spesso non sono proprietari della macchina, sono
legati alla cooperativa perché ne sono soci e perché hanno un contrat-
to di lavoro.
- INNOVAZIONE NELL’ORGANIZZAZIONE SOCIETARIA
C) Uber detiene la piattaforma, si basa sul lavoro on demand, non de-
tiene la flotta di macchine, i conducenti non sono dipendenti, apre con
facilità in tutto il mondo (a meno di problemi di regolamentazione). È
più “cool” perché in pochissimi anni ha raggiunto un valore di circa 60
Miliardi di dollari, ha solo 400 dipendenti, ha raccolto più di 2 Miliardi
di investimenti.
- INNOVAZIONE NEL MODELLO DI BUSINESS
Alla luce di questi due esempi il confine sembrerebbe netto. Il punto è che
la cooperazione può sicuramente cogliere degli spunti dal mondo delle im-
prese (e delle altre organizzazioni) tipiche del fenomeno dell’Economia
Collaborativa.
Il vero confine è quello dell’innovazione e di un’innovazione che sia
fedele e che anzi metta in risalto i valori e le caratteristiche distintive
della cooperazione. L’obiettivo è quello di rilanciare le cooperative
esistenti e di crearne di nuove rendendole al passo con i tempi!
Allo stesso tempo l’economia collaborativa nelle sue forme di collaborazio-
ne competitiva e non solo ha molto da imparare dalla cooperazione per-
ché come abbiamo visto in alcuni casi (soprattutto riferendoci ai casi più
famosi) gli impatti possono essere quantomeno discutibili in termini di so-
stenibilità economica, sociale e ambientale.
La vera domanda a cui ci interessa allora rispondere è: quali sono
le frontiere di innovazione che possono far SVILUPPARE e RIGE-
NERARE la cooperazione in futuro?
Proverò ad elencarvi alcuni spunti che ritengo estremamente interessanti:
1. la cooperazione non ha ancora sfruttato a pieno la tecnologia digitale a
disposizione che invece potrebbe portare grandi vantaggi sia in ambito pro-
duttivo, che in ambito comunicativo, di governance, commerciale, di gestio-
ne dei dati, di R&D. Come costruire una identità digitale cooperativa?
2. come ripensare e innovare i modi e i concetti della mutualità riportando
al centro la relazione e lo scambio tra soci?
3. come ripensare i modelli e gli strumenti per cooperare in ottica multista-
46
keholder (mutualità plurima) tra soggetti attivi nella produzione e fruizione
dei servizi?
4. come sfruttare il potenziale dell’open manifacturing e l’open innovation
anche attraverso la nascita di luoghi come coworking e fablabs?
5. come coinvolgere comunità e reti su ampia scala facendo collaborare
tra loro anche persone molto distanti e creando nuove forme di
relazione (sia interne che esterne alla cooperativa)?
6. come favorire un maggiore scambio e collaborazione intra e inter-setto-
riale, anche tra cooperative di professionisti, imprese e imprenditori?
7. come sviluppare nuove risposte ai bisogni favorendo l’accesso alla pro-
prietà, mettendo in rete le persone e le risorse e incorporando/applicando
l’economia collaborativa nei processi di produzione del valore?
8. come utilizzare gli strumenti digitali per favorire la valutazione e il feed-
back sui servizi da parte degli utenti, che possono essere coinvolti anche
nella co-costruzione dal basso dei servizi ?
9. come rinnovare le forme di comunicazione e di engagement coinvolgen-
do le nuove generazioni?
10. come valorizzare gli strumenti in rete per sviluppare nuove forme e so-
luzioni che rispondano alle sfide?
11. come giocare un ruolo di primo piano nell’ambito della gestione di beni
collettivi e della rigenerazione di asset comunitari dormienti?
Andrea Rapisardi, Economista dello sviluppo, Pre-
sidente e socio fondatore di LAMA.
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Che cosa è il business inclusivo - di Lucia Dal Negro
Il punto di contatto tra la Sharing Economy e il Business Inclusivo è nel-
l’uso di metodi partecipativi per ideare soluzioni di mercato che risolvano i
bisogni delle persone che vivono in stato di povertà (i) e nel condividere
processi di NDP (new product development) tra attori di natura diversa
(aziende, persone svantaggiate, istituzioni pubbliche, attori intermedi).
La parola-‐chiave quindi è inclusione, dacché e per includere bisogna con-
dividere. La prospettiva del business inclusivo, quindi, muove dall’inte-
resse di attori profit a condividere con altri soggetti i processi di R&D
che caratterizzano l’innovazione di prodotto e di processo.
La scommessa è quella di riuscire a produrre modelli di busi-
ness più responsabili, proprio perché partecipati e condivisi con per-
sone che solitamente non hanno la possibilità di poter contribuire
con idee, esperienze e know-‐how all’interno delle operation azien-
dali.
Chiaramente questo processo che arricchisce le aziende del valore ag-
giunto innovativo di persone che co-‐creeranno con esse le soluzioni alle
sfide del futuro (cioè prodotti che contribuiranno al raggiungimento dei
SDGs, per esempio) va gestito in maniera responsabile per evitare due
rischi:
1) che si confonda la natura profit dell’attore aziendale che resta ta-
le, pur aprendosi allo scambio e alla condivisione con attori diversi;
2) che si generino soluzioni solo apparentemente partecipate e non real-
mente portatrici di un cambio culturale nel modo contemporaneo di opera-
re sul mercato.
Per chi fosse interessato a capire meglio quale tipo di contributo possa da-
re una persona svantaggiata a un’azienda in espansione sui mercati in
via di sviluppo, vale la pena citare il caso di un progetto seguito personal-
mente dalla Dott.ssa Del Negro, localizzato in Senegal, in cui la partner-
ship tra azienda e comunità a basso reddito (seguita e studiata da De-‐
LAB) ha portato alla costituzione di un modello commerciale originale
per l’uso e la manutenzione di pannelli fotovoltaici manutenuti e distri-
buiti con modalità studiate dall’azienda e dagli stessi beneficiari, con im-
patti sociali di empowerment della comunità e rafforzamento delle relazioni
commerciali.
Lucia Dal Negro, fondatrice di De-LAB, il primo focal point
italiano di progettazione sociale per imprese.
Per approfondire:
Titolo: Base of Pyramid
Autore: Stuart L. Hart
Editore: Greenleaf Publishing
Data: 15 aprile 2015
Costo: Kindle, € 27,66
48
Il diritto dell’eccezione, non la regola - di Enrico Parisio
Sharing economy, social innovation, open governament, commons, open
data… sono azioni o politiche che avranno la forza di traghettare il grande
passaggio dall’economia manifatturiera a quella digitale? Siamo solo all’ini-
zio, e sicuramente i dati non sono incoraggianti: dai bilanci delle start up
innovative al polarizzarsi della ricchezza, fino all’impoverimento del
ceto medio e ai flussi migratori, sembra proprio che il futuro sharing
stenti ad accontentare i più. Ma tralasciamo i dati per ora, e cerchiamo
di capire il vero motore dell’innovazione, cioè la semantica dell’uomo digi-
tale, il dispositivo retorico che definisce e orienta tutti noi.
Superata la dialettica capitale/lavoro, il lavoratore è l’impresa, e l’impresa
è il lavoratore.
Più che guardare al numero degli independent contractors statuni-
tensi, o al lavoro autonomo e la microimpresa italiana, agli knowled-
ge workers europei, guardiamo alla rappresentazione di questi lavo-
ratori: i valori dell’impresa (economicità, efficacia, just in time, 24
hours, aggiornamento, competizione, innovazione…), albergano nel-
la coscienza infelice dei soggetti infelici della nuova classe aspiran-
te lavoratrice; o essi trasformano i propri corpi in nodi della rete, in
hubs che veicolano e diffondono i flussi, o non esistono.
Il modello di business sharing si basa sulla creazione di valore attraverso
le interazioni peer to peer tra gli aderenti alle communities. Le piattaforme
possono essere “di proprietà” degli users (o abbandonare addirittura il mo-
dello “gerarchico validante” attraverso il blockchain, e quindi di owners-
hip), e in questo caso il valore generato appartiene alla comunità, oppure
tale valore può essere “estratto” (modello dominante delle grandi piattafor-
me di sharing).
Il valore estratto, oltre ad
essere immediatamente
economico (la fee sulla
transazione, ad esempio),
è soprattutto costituito dal-
l’immagazzinamento delle
nostre abitudini e dei no-
stri gusti in forma di open
data. Quest’ultimo è tutto
lavoro gratuito, non mal
pagato, sfruttato, precariz-
zato, semplicemente non
è lavoro. Attraverso la co-
struzione di un ambiente
accessibile, in grado di
accogliere il mio desiderio
(di far due chiacchiere, di
una casa al mare, di un passaggio in auto…), trovo un luogo in cui il mio
narcisismo e il mio bisogno è rappresentato. Anche la prospettiva di un gua-
dagno passa per questa rappresentazione (essere aggiornato, smart, creati-
vo, poliglotta, friendly…). Uno su mille arriva a un reddito (e qui ritornano i
dati di cui sopra), ma il resto è comunque al lavoro, inconsapevolmente, o
meglio, senza altra alternativa che l’accesso.
Ma poi ci sono i corpi, che vivono in luoghi, ci sono bisogni.
Luoghi abbandonati, corpi da nutrire, e nessuno a cui chiedere, per-
ché una volta estratto tutto il valore possibile, si perde l’accesso. Il
sistema di welfare dovrebbe pensare loro, ma anche da questo dispo-
sitivo è stato estratto tutto il valore, e gli abbandonati sono i più, non i
meno.
Presidente dell’associazione di promozio-
ne sociale e coworking “Millepiani”
Enrico Parisio
49
E il “public sector”, da questa posizione di debolezza, deve fare una scelta,
se vuole essere “public”: abilitare, sostenere, investire in tutte quelle piatta-
forme che trattengono valore nei luoghi, occuparsi di costruire comunità au-
togovernate, accompagnare nella creazione di diritto locale, di lavorare sul-
l’eccezione, non sulla regola. Se il tema è il superamento della proprietà a
favore dell’accesso e dell’uso, deve essere il primo a cedere proprietà e so-
vranità a favore delle comunità decentrate.
La ricchezza che poi sono in grado di esprimente le comunità abbandonate
sono sotto gli occhi di tutti: esperienze partecipate, ricche di competenza,
mutualismo, vera creatività. Ma serve una mano, questa volta non invisibile.
Infografica del 16 marzo
2016, dal sito memefactory.
51
Non bastano  i manuali di diritto societario per fare nuove imprese ibride.
Non solo perché si tratta di organizzazioni che sfidano le suddivisioni clas-
siche – tra pubblico e privato, tra lucrativo e non lucrativo, tra individuale e
collettivo – intorno alle quali sono stati costruiti assetti di governance e mo-
delli di gestione che riempiono i toolkit manageriali. Ma soprattutto perché
occorre comprendere la direzione e la portata di quelli che  leggiamo co-
me vettori di cambiamento profondo a livello economico e sociale e che si
apprestano a definire la nuova architettura della nostra società. Driver che
diventano pilastri: come le persone escluse dal mercato del lavoro e dal
welfare che nel giro di pochi anni definiscono, loro malgrado, una compo-
nente strutturale e in alcuni contesti maggioritaria della società. Oppure
come il crescente numero di immobili abbandonati e sottoutilizzati che trat-
teggiano lo skyline dei paesaggi urbani e delle aree interne, antenne non
solo del degrado ma del fallimento di modelli di sviluppo, sia pubblici che
privati. E ancora come un tessuto imprenditoriale che da una parte perde
preziosi asset in settori chiave e si ripropone in altri ambiti come i servizi di
terziario sociale, facendo però ancora fatica a generare risultati  in termini
di innovazione, di produzione di ricchezza e, non da ultimo, di mobilità so-
ciale. Sono queste alcune delle sfide sociali che richiedono di elaborare
nuove risposte nell’alveo dell’innovazione sociale.
Risposte che scaturiscono non solo da strategie e azioni di change
making nell’ambito delle istituzioni, ma piuttosto dal consolidamento
e dalla diffusione di nuovi modelli ibridi d’impresa.
A prima vista si tratta di un manipolo di organizzazioni, in buona parte in
fase di avvio e quindi non ancora in grado di generare impatti rilevanti. In
realtà, esperienze come le startup a vocazione sociale, le imprese sociali
di capitali, le cooperative di comunità e le più recenti imprese benefit pog-
giano su più consistenti “popolazioni organizzative” che operano da tempo
con l’intento di definire nuove catene di produzione del valore dove sociale
ed economico sono reciprocamente condizione necessaria di efficacia.
Ecco quindi imprese ibride che nascono grazie ad amministrazioni
locali che si pongono il problema di come riconoscere e rigenerare i
propri “beni comuni”; che si sviluppano come articolazioni di filiere
di Pmi che lavorano su economie coesive legate ad asset espressio-
ne del made in Italy; che si moltiplicano tra organizzazioni nonprofit
che individuano nello scambio di mercato una modalità non residua-
le per perseguire la loro missione public benefit.
Il fare, l’associarsi, il partecipare, il condividere, il proteggere si esercitano
in modo sempre più diffuso attraverso matrici nuove che ridefiniscono mez-
zi e fini dell’azione in senso più cooperativo. In questa prospettiva i nuovi
attori ibridi rispondono allestendo community hub, dove si processano in
senso imprenditoriale le sfide che la società del rischio propone. Il welfare
per una società degli esclusi si realizza incrociando le piattaforme di sha-
ring economy non solo per essere più sostenibile, ma soprattutto per favo-
rire l’empowerment dei beneficiari. L’accompagnamento all’imprenditoria
avviene non solo attraverso l’erogazione di “servizi reali” ma gestendo in
senso mutualistico gli spazi di coworking; la rigenerazione dell’abbandono
costituisce ormai una nuova asset class di infrastrutture sociali per la coe-
sione, l’accoglienza, l’educazione.
L’ampiezza dei mutamenti in atto e i divari rilevati nella capacità di risposta
lasciano intravedere una soluzione che non si limita a riposizionare il pen-
dolo tra Stato e mercato o a rinforzare l’effetto cuscinetto esercitato dalla
“società civile organizzata”. Le imprese ibride si sviluppano nei “sotterra-
nei” delle istituzioni tradizionali, ma assumono un peso sempre più rilevan-
Tempi ibridi - di Paolo Venturi
52
te perché possono contare su ecosistemi vocati all’innovazione sempre
meglio distribuiti lungo i principali divide della nostra epoca: tra nord e sud
del Paese, tra innovazioni tecnologiche e sociali, tra risorse donative e fi-
nanziarie, tra nuova domanda sociale e riconversione produttiva, ecc.
Quel che conta è favorire al massimo le occasioni di fertilizzazione incro-
ciata che non significa replicazione nuda e cruda, ma piuttosto apprendi-
mento e capacità adattativa. Per questo è necessario aggiornare il quadro
normativo rendendolo più rispondente alle trasformazioni. La scelta di ma-
cro politica prevedeva due opzioni: dar vita a un nuovo aggregato istituzio-
nale dove raccogliere i diversi rivoli di  ibridazione, oppure consolidare i
principali contesti generativi senza intaccare gli aggregati tradizionali.
La Riforma del Terzo Settore che, salvo inconvenienti dell’ultima ora, si ap-
presta a essere varata dal Parlamento va in questa ultima direzione. Ha il
merito di incorporare alcuni marcatori dell’ibridazione (la parziale remune-
razione degli utili, l’apertura dei settori e della governance) e di consolida-
re un importante bacino di imprenditoria sociale – il non profit – ma forse
ha meno appeal su altre fenomenologie che però potranno trovare forme
di regolazione nel quadro delle startup e Pmi innovative o delle già citate
società benefit. È in ogni caso un avanzamento  pensato per innescare
quell’impreditorialità orientata all’impatto sociale che sta emergendo nella
terra di mezzo fra profit e non profit.
 Paolo Venturi, Direttore di AICCON
Per approfondire:
Titolo: Imprese Ibride, modelli d’inno-
vazione sociale per rigenerare valore
Autori: Paolo Venturi, Flaviano Zando-
nai
Editore: Egea
Data: Maggio 2016
Costo: € 15,00
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Open Innovation - di Carlo Boccazzi Varotto
Nel nostro paese, come corollario del dibattito sulla Social Innovation,
stimolato dalla programmazione europea H2020, si sta fortemente ra-
dicando la consapevolezza di come la tecnologia nei prossimi anni po-
trebbe cambiare molti aspetti nell’elargizione dei servi di welfare. Cre-
scente disintermediazione, sharing economy, produzione/erogazione
on-demand, propensione alla customizzazione ecc. sono solo alcuni
dei fattori che si potrebbero integrare nelle nuove progettazioni di wel-
fare.
Eppure, in Italia il modello organizzativo e finanziario del terzo settore
fa fatica ad investire in ricerca e sviluppo, soprattutto, tecnologico, pro-
ponendo schemi poco adatti a incorporare le competenze economiche
e culturali che questo comporterebbe. Il risultato e' oggi una dispersio-
ne di energie e risorse attorno ad esperienze “finaziate a bando” che,
spesso, si esauriscano limitatamente alle conseguenze istituzionali o,
nell'ipotesi più alta, negli ambienti di prossimità e che, raramente, si
consolidano trasformando le soluzioni tecnologiche innovative in vero
valore economico.
Sara' necessario, nei prossimi mesi, costruire strumenti collaborativi
non solo rivolti alla produzione ed elargizione dei servizi ma anche
con l'obiettivo di fare interagire in modo efficace e conveniente i diver-
si attori che avrebbero vantaggio nel collaborare: ad esempio, il terzo
settore e le startup tecnologiche che operano nella conciliazione; nella
distribuzione alimentare; nell'assistenza ecc., che, distanti dall'impresa
sociale tradizionale, affidano il proprio successo (e spesso insucces-
so) alla costruzione di community on line. Il punto di incontro potrebbe
essere, ad esempio, in una logica di open innovation, dare evidenza
ad alcuni asset del terzo settore: la possibilità di verificare e sperimen-
talmente aspetti della business idea; la possibilità di abilitare servizi
gia' esistenti; la possibilità di interagire con community gia' strutturate
ecc. e trasformali in capitale d'investimento da investire nelle startup.
Attivista nel coinvolgimento delle comunità creati-
ve e tecnologiche nello sviluppo delle imprese e
dei contesti locali.
Le nuove professioni - di Chiara Bertelli
Come l'innovazione tecnologica e la sharing economy stanno modificando il mondo del lavoro nell'ambito delle
professioni intellettuali. Quali nuovi bisogni esprimono i professionisti e quali sono le possibili risposte.
Ne abbiamo parlato con Chiara Bertelli, Coordinatrice territoriale per Ferrara di Legacoop Estense, Diego Farina,
Presidente della Cooperativa Città della Cultura Cultura della Città, Demetrio Chiappa, Presidente della Coopera-
tiva Doc Servizi, Dario Carrera, Co-founder di Impact Hub Roma e Mico Rao, Co-founder di Lab21 e con i parteci-
panti al world cafè.
Gli interventi introduttivi dei discussant hanno dipinto uno scenario caratterizzato da:
1) trasformazione dei ruoli e delle competenze dei professionisti (dagli architetti ai grafici, dagli artisti ai consulen-
ti, passando per gli archeologi e gli infermieri) che operano in contesti sempre meno codificati e codificabili;
2) flessibilità del lavoro; dalla commessa al progetto, dalle competenze alle esperienze;
3) sempre maggiore complessità ed eterogeneità dei team di lavoro per raggiungere un obiettivo che in preceden-
za poteva essere raggiunto grazie all'apporto di un singolo professionista;
4) condivisione delle esperienze e delle expertise che diventa necessaria e allo stesso tempo rischiosa. La condi-
visione deve produrre valore per più persone, non creare precariato intellettuale;
5) scarsa rappresentazione pubblica dei bisogni dei lavoratori precari e intellettuali. Le istituzioni e le organizzazio-
ni sindacali continuano a privilegiare, nell'elaborazione delle politiche del lavoro, la visione del lavoro salariato,
faticando a trovare soluzioni normative alle problematiche dei professionisti;
Il workshop nuove professioni
6) attualizzazione dei luoghi della collaborazione (contesti associativi, case del popolo, spazi autogestiti...) come
luoghi fisici e virtuali in cui stabilire connessioni, favorire lo scambio di idee e la ricerca di soluzioni condivise
(coworking, fab lab, laboratori urbani...);
7) nascita di cooperative tra professionisti, come forma strutturata di collaborazione tra professionalità diverse.
Ai partecipanti è stato chiesto di dividersi in maniera casuale in 5 tavoli. Ogni tavolo era coordinato da un discus-
sant.
Ogni tavolo aveva il compito di rispondere a 3 domande:
DOMANDA 1: LO SCENARIO
In che modo l’innovazione sta cambiando il mondo dei lavori creativi e intellettuali?
Nuove competenze, nuovi profili, nuovi bisogni: quali sono le professioni del futuro?
DOMANDA 2: COSA MANCA
Cosa rende difficile regolamentare e tutelare le nuove professioni?
Quali bisogni sono senza risposta?
DOMANDA 3: COME RISPONDIAMO
Quali strutture organizzative e quali strumenti si possono creare e adottare per dare risposte ai nuovi bisogni del-
le nuove professioni?
Restituzione del lavoro svolto nei gruppi:
Domanda n.1
Non cambiano le professioni, cambiano le competenze. I “nuovi professionisti” devono possedere competenze
trasversali, soft skills, saper interagire con il contesto e creare connessioni con altri professionisti. Per fare questo
attualmente manca una formazione che sia orientata alle professioni e ai bisogni del futuro (ma anche a quelli at-
tuali).
I nuovi professionisti vengono definiti “empatizzatori”, “service designers”, “facilitatori di comunità”. A questi
viene richiesto sempre più di creare valore, non solo economico. Il lavoro di architetti, sociologi, progettisti
etc... deve avere una ricaduta positiva sulla società, sulle comunità in cui operano.
Domanda n. 2
a) non riconoscibilità del valore economico delle professionalità e delle prestazioni;
b) difficile operare un controllo della qualità dell'operato dei nuovi professionisti, se non attraverso la misurazione
dell'impatto sociale che essi generano;
c) difficoltà del legislatore ad adeguarsi ai cambiamenti;
d) regolamentare le nuove professioni è una necessità, ma anche un rischio (rigidità come disvalore);
e) mancanza di una rappresentanza del mondo dei nuovi professionisti;
f) mancanza di tutele e di welfare;
g) scarsa consapevolezza “di classe” dei nuovi professionisti (chi siamo, quanti siamo, che bisogni condividiamo);
h) bisogno di autoformazione dei nuovi professionisti;
i) problemi con gli ordini professionali, spesso guidati da logiche
superate, e con le casse previdenziali.
Domanda n. 3
k) sviluppo di luoghi della collaborazione (Fab Lab dei servizi, ma-
ker space, coworking, piattaforme) in cui fare rete, aggregarsi,
trovare una risposta collettiva ai bisogni;
l) cooperative di professionisti;
m)dare voce ai professionisti intellettuali, ai precari, anche attra-
verso lo sviluppo di attività formative, la creazione di luoghi del-
la partecipazione;
n) la riscoperta del valore della cooperazione, non solo come mo-
dello imprenditoriale per stare sul mercato, ma anche come
elemento che favorisce la consapevolezza della propria condi-
zione professionale e aumenta le possibilità di successo nel “fare lobby”.
Coordinatrice territoriale di Legacoop
Estense per la provincia di Ferrara
Chiara Bertelli
Paragrafi
1. Le esperienze di community e il valore condiviso
2. Vivere il co-housing
3. Workshop: gli spazi della collaborazione
59
Speciale imprese e change making
Community
Le comunità di cambiamento e gli
spazi di collaborazione
Le esperienze di community e il valore condiviso - di Silvia Candida
Se c’è un aspetto fondamentale alla base della sharing economy senza il
quale essa non sarebbe ciò che è, è l’aspetto relazionale, quello cioè che
punta alla generazione di legami di comunità come valore in sé, a prescin-
dere dal suo tradursi o meno in attività d’impresa vera e propria o comun-
que generatrice di valore monetario. È questo tornare a centro scena della
relazione – che presuppone contatto e scambio tra le persone - rispetto a
un’economia tradizionale fatta di transazioni sempre più astratte e imperso-
nali, che rappresenta il primo ‘moto’ da cui prende vita ciò che oggi è un
fenomeno da analizzare anche sub specie economica.
Il tema del community building è ormai centrale. Non si tratta di atti-
vità economiche strettamente intese, quanto di un substrato sociale
e culturale che rappresenta a sua volta - a volte anche in tensione
con l’idea di una sua possibile valenza ‘commerciale’ -  un processo
di (ri)costruzione di valore dopo la grande crisi del 2008.
Esperienze come quella di via Fondazza a Bologna, la prima social street:
un esempio chiaro del fatto che il concetto di ‘condivisione’ non rimanda
primariamente a una strategia di mercato bensì ad un comportamento so-
ciale. Tra gli elementi che definiscono la comunità  bolognese - e tante al-
tre che si sono formate in Italia e nel mondo sulla sua scia - c’è, non a ca-
so, la gratuità dello scambio e del mutuo aiuto tra i membri, insieme a
un’inclusività trasversale a qualsiasi categorizzazione etnica, anagrafica,
culturale, socio-economica... e alla ricerca di uno spazio di socialità reale,
da vivere nel quotidiano. Si crea così un percorso “dal virtuale al reale al
virtuoso” che può anche produrre economia nel senso di risparmio e mi-
glior uso delle risorse, ma prima di tutto una qualità della vita più appagan-
te.
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1 la rivista del Ferrara Sharing Festival

  • 1. Report della prima edizione del Ferrara Sharing Festival, 20 - 22 maggio 2016 The Sharing World Scenari e prospettive del mondo che cambia Un evento di Sedicieventi srl, con la collaborazione del Comune di Ferrara, l’Università di Ferrara, la Regione Emilia Romagna. Direzione artistica: Davide Pellegrini
  • 2. 3,5 miliardi di euro per 100 mila posti di lavoro, il rapporto per l’economia italiana del 2015 presentato da Air BNB. Un dato di fondamentale importanza, considerato che la proposta di legge presentata in 12 articoli dall’Intergruppo Innovazione del Parlamento sembra considerare le grandi piattaforme digitali come una priorità. Ma cosa è la sharing economy, tolto il fenomeno del neo- capitalismo digitale? Cosa è la sharing economy Definizioni, modelli, piattaforme e comunità di Davide Pellegrini
  • 3. 2 SOMMARIO Introduzione. La sharing economy: lo scenario Fenomeno sharing: - La ricomposizione della frattura fra spazio e tempo - Il punto di vista di Bonomi - Sharing economy: is the new black? L’impresa dei millenial: - Essere collaborativi, anche all’interno - Ripartire dalle competenze - Gli Italiani e la sharing economy - Perché è difficile realizzare un’impresa digitale in Italia Sezione 1: Digital Economy - Il turismo e la sharing economy - Il punto di vista - L’importanza di un governo digitale - Food Revolution - Last Minute sotto casa - Workshop il turismo e la sharing economy Sezione 2: Social Enterprise - Dalla coop alla platform cooperative - Cosa è il business inclusivo - Il diritto dell’eccezione, non della regola - Tempi ibridi - Open Innovation - Workshop le nuove professioni Sezione 3: Community - Le esperienze di community e il valore condiviso - Vivere il co-housing - Workshop gli spazi della collaborazione La felicità non costa niente: - Cosa diventerebbe il mondo se la sharing...
  • 4. 3 - Progettare la sostenibilità - Riflessioni su un’economia della felicità - Il contributo della finanza etica all’economia della condivi- sione - La città intelligente come habitat relazionale - Universo Bergonzoni La cultura come cura: - Le politiche culturali e l’orientamento dell’UE - Workshop la cultura e la sharing economy Pubblicazione gratuita a cura di Aise. A cura di: Davide Pellegrini. Editing ebook: Francesca Fornari, Edicoletta servizi editoriali Contenuti: liberamente concessi dai partecipanti al Ferrara Sharing Festi- val. Fotografie: Giulia Paratelli. Immagini: alcune immagini sono state prese da internet. Se dovessimo aver infranto il copyright, vi preghiamo di comunicarcelo tempestivamente e prov- vederemo a rimuoverle.
  • 5. 4 La sharing economy: lo scenario - di Davide Pellegrini In un recente articolo, dal titolo La sfida del valore condiviso e le trappole della sharing economy, Andrea Granelli pubblica un’interessante riflessione sul tema dell’economia collaborativa. È un’ottima occasione per aprire un dibattito che, in varie forme, oggi investe tutti gli operatori che lavorano nei percorsi di innovazione. L’articolo pone l’interrogativo se il comportamento dello sharing sia, in contrapposizione con il concetto di dono di Marcel Mauss, da intendersi più come una forma di condivisione (dato che il pro- prietario resta di fatto in possesso di ciò che condivide).  L’idea che, come abbiamo avuto modo di sperimentare, il termine sharing rappresenti attualmente un contenitore di differenti interpretazioni che pon- gono al centro la società connettiva, prima ancora che collettiva – come di- rebbe Manuel Castells – sembra piuttosto scontata. Così come lo è stata, fino a ora, la necessità di dividere chirurgicamente il mondo profit da quello no profit, ancora oggi fatalmente suggestionati dallo scopo dell’azione prima ancora che dalla possibile ricaduta benefica dei suoi effetti (Air Bnb è neoca- pitalismo digitale o un’opportunità per microeconomie di scala? E, soprattut- to, in che modo il valore condiviso si esprime in un servizio on demand?). Che il terzo settore da sempre sia connotato in modo molto specifico, nessu- no lo nega. Ma in un periodo di crisi e di totale e radicale trasformazione co- me questo, credo sia più giusto concentrarsi sul ruolo che l'azione imprendi- toriale deve avere, piuttosto che sulla esclusiva natura del servizio che offre. Giustamente, nel suo articolo, Granelli cita il famoso testo del 2011 di Porter e Kramer, Creating Shared Value, apparso su Harvard Business Re- view Italia nel gennaio-febbraio 2011. Secondo i due teorici «le aziende po- trebbero riconciliare affari e società civile se solo ridefinissero il proprio obiettivo nei termini di creazione di “valore condiviso” e rimettessero in con- tatto il successo di un'azienda con il progresso sociale». Qualcosa di non lontano dalla CSR che, però, appare distante dalla reale fisionomia del fenomeno innescato dalla cultura della sharing economy. Non solo per il fatto che interpretare un’azienda dal punto di vista dei colle- gamenti infrastrutturali con un territorio non basta a costruire un legame pro- fondo con il territorio sul quale opera; poi, perché non è affatto semplice in- tercettare una serie di fenomeni che spesso sono mossi da processi di ge- stazione spontanea come nel caso degli spazi collaborativi, hub o fablab o, ad esempio, tutti quei progetti che propongono in ottica locale e collaborati- va prodotti e servizi di nicchia (prendete, ad esempio, il caso dei servizi cul- turali come TeatroxCasa o CitofonareInterno7). Fuori dall’idea che dietro l’ideologia del free si nascondano strategie di guadagno (anche se non per tutti), posso assicurarvi che alcune piattaforme si confrontano con il proble- ma della sostenibilità giorno per giorno e, il più delle volte, senza alcuna op- portunità di dialogo con le imprese del territorio sul quale operano. È evidente che, per la maggior parte di questi team, il primo proposito sia quello della finalità sociale. Se la sensibilità al sociale (visto che si parla ormai quotidianamente di im- prese ibride e di b-corp) sta abbattendo il confine stabilito dal fine di lucro, sta anche riconfigurando un intero sistema che stabilisce nuovi parametri: la differenza tra interazioni sociali e relazioni sociali. Nella sessione introdutti- va al recente Festival di Ferrara – tra gli altri – ce ne hanno parlato Paolo Venturi e Luigi Corvo, moderati da Alessia Maccaferri. Le interazioni, come nel caso delle piattaforme digitali, possono essere contatti favoriti dal fine utilitaristico del rapporto (un esempio sono proprio i servizi on demand), mentre le relazioni costruiscono valore. Ne parlo con grande trasporto per- ché, rispetto al dibattito che si è infuocato, e che ancora non riesce a eman- ciparsi dalla sua visione economico-aziendale, stiamo finalmente scoprendo che la sharing economy è prima di tutto un fenomeno che ha alla base un manifesto di idee di cambiamento che si esprime per comunità fisiche. Quel- lo che è uscito fuori, in quelle bellissime giornate ferraresi, è l’urgenza da parte delle persone di ritrovarsi in gruppi e avere l’opportunità di sentirsi co- involti in community attive prima ancora di diluirsi nel network aperto e illimi-
  • 6. 5 tato della rete. Il sociologo Davide Bennato ha espresso un’idea ben preci- sa quando ha detto che in una fase storica in cui il contesto delle relazioni si caratterizza come ecosistema in cui prevale la desincronizzazione e la de- territorializzazione (ci si rapporta all’altro in tempo e luoghi diversi, pensate ai social media), il futuro creerà sempre più una netta distinzione tra i net- work e le community. Distinzione che, tra le altre cose – come dimostrano gli studi sul nostro paese – rafforza pienamente il retaggio culturale che esalta la propensione alla prossimità fisica, alla ricerca del gruppo e alla cooperazione.  L’emancipazione dalla visione radicale aziendalista, che per la verità cita an- che Andrea Granelli, e la valorizzazione del genius loci al di fuori dalle retori- che coloniali di stampo anglosassone, ci aiutano nel recuperare la ricchez- za non solo produttiva, ma di idee e contenuti che possediamo come un te- soro naturale. Ora che anche il marketing si è fatto umanistico (giocando con Kotler), possiamo finalmente concentrarci su alcune importanti caratteri- stiche dell’economia collaborativa nel nostro paese: 1) l’impresa sociale di tipo collaborativo non si lega al territorio, ma da essa- nasce e con esso si sviluppa grazie all’interesse manifesto dei suoi soci, che sono espressione stessa del territorio che abitano, vivono e sono in- teressati a migliorare. Il concetto di “locale” non è affatto una limitazione concettuale del valore di un’impresa, ma può diventare un’opportunità nel- la misura dell’azione condivisa con infrastrutture, stakeholders, associa- zioni e comunità con i quali coordinare un’azione di sistema. L’impresa sociale non si misurerà più solo sulla base di indicatori econometrici, ma sul reale capitale sociale, di conoscenze e competenze sviluppare sul ter- ritorio;
  • 7. 6 2) la costruzione di innovazione (che non si misura ex post, ma che ha un- suo senso più che manifesto nel compiersi del processo) e la nuova catena del valore fatta di progetti, piattaforme e spazi collaborativi, obbedi-sce alla volontà di riconfigurare il sistema sociale e culturale prima che all’obiettivo di realizzare un indotto milionario.  Mark Federman ha coniato il termine pu- blicy per definire la contaminazione tra la sfera pubblica e quella privata, propria di chi opera in rete (una condizione per dire che ormai la convergen- za delle due dimensioni ci costringe di fatto all’attenzione verso l’etica socia- le), Laura Boella, in Un Mondo Condiviso, scrive che il primo motore della collaborazione è l’empatia, una condizione naturale che avvicina le perso- ne nell’identificarsi l’uno nell’altro e nel condividere la rappresentazione di uno stresso destino. La spinta all’idealità dei gruppi collaborativi giustifica il passaggio dal capitalismo dell’iper-consumo alla partecipazione collettiva alla governance pubblica e alla gestione dei beni comuni. Obiettivo: trova- re soluzioni;  3) il superamento della logica della rottamazione e il riconoscimento del senso del cambiamento. Parlando di neocapitalismo digitale, ad esempio, è un fatto che siano stati intaccati gli interessi di corporazioni e associazioni di categoria che cercano in qualche modo di mantenere delle posizioni, pur disponibili ad aggiornarle tramite un confronto con i nuovi attori. Il punto è che la dialettica, più che interessare il rapporto tra ciò che è vecchio e ciò che è nuovo, dovrebbe essere vista come un complesso dialogo tra gruppi che difendono interessi di gruppo. Da un lato ci sono le associazioni di cate- goria che, per come vengono rappresentate, difendono i proprio interessi e sono reticenti al cambiamento; dall’altro ci sono i neo-operatori delle gran- di corporate che, per come vengono raccontati, difendono gli interessi della nuova imprenditoria digitale; poi, ci sono le community di innovatori che, pe- rò, nel costruire delle alternative rappresentano di fatto un altro gruppo, di- verso per obiettivi e modalità, ma chiuso nelle proprie posizioni. Costrui- re ponti, collegare identità e missioni diverse equivale a trovare il giusto equilibrio narrativo per comunicare che l’urgenza di cambiamento non vuol dire necessariamente destituzione forzosa di chi c’era prima; 4) la prossima civiltà sociale, la società partecipe, obbedisce a una finalità curativa. Tornando all’empatia, la malattia del millennio è nella rivelazione di tutto lo scibile senza più alcun contenimento. La storia si è sciolta e, nel flus- so che la vuole ormai come un eterno presente in movimento, ha svelato le sue fragilità, i suoi controsensi, obbligando ognuno di noi a subire un incipit narrativo come quello della Grande Crisi Globale, senza soluzioni né svilup- pi di sorta. In questo senso, la diffusione della necessità collaborativa, nel suo acquisire un rilievo collettivo, obbliga tutti a credere che un miglioramen- to sia possibile e ad agire perché accada. L’empatia è la cura. L’intenzionali- tà, la volontà di assecondare il cambiamento per mezzo di strategia positi- ve, sono gli strumenti. Nei giorni di Ferrara si è svolto un workshop sulla feli- cità in cui si è parlato di nuovi modelli. Dall’economia circolare («circolare,
  • 8. 7 circolare, non c’è nulla da vedere», come direbbe Bergonzoni) all’economia civile, dal mutualismo alla ricerca della felicità. 5) l’innovazione può fare molta paura. Non siamo in un racconto di Asimov o di Philip Dick. Non c’è quella barriera della finzione a rafforzare il patto tra l’autore e il lettore. È qualcosa che succede realmente e ha delle riper- cussioni importanti nella vita di tutti. Se l’idea che abbiamo anche discus- so in alcuni workshop è quella del agire per cambiare, anche se non si viene capiti, si ripete probabilmente l’annosa quaestio che è alla base del- l’alternanza storica delle generazioni. In questo senso, gli innovatori sa- rebbero le avanguardie, così come ci sono state nella prima metà del No- vecento, e la dinamica sarebbe quella del conflitto, della contrapposizio- ne, della rottura degli equilibri e dell’instaurazione di nuovi paradigmi so- ciali, culturali, ecc. Oggi, invece, possediamo strumenti più efficaci e pe- netranti per costruire una dialettica rassicurante sul futuro e sull’innova- zione. L’obiettivo dell’innovatore non consiste più nella ghettizzazione del suo ruolo, ma nello sforzo di rendere comprensibile quello che fa rispetto a ciò che è stato. 
  • 9. Fenomeno sharing riflessioni e appunti sul cambiamento 3,5 miliardi di euro per 100 mila posti di lavoro, il rapporto per l’economia italiana del 2015 presentato da Air BNB. Un dato di fondamentale importanza, considerato che la proposta di legge presentata in 12 articoli dall’Intergruppo Innovazione del Parlamento sembra considerare le grandi piattaforme digitali come una priorità. Ma cosa è la sharing economy, tolto il fenomeno del neo- capitalismo digitale?
  • 10. 9 La ricomposizione della frattura fra spazio e tempo - di Davide Bennato Le retoriche più diffuse alla base del contemporaneo cambiamento profes- sionale sono essenzialmente due: la novità dei processi lavorativi (come il lavoro a distanza) e l’ineluttabilità della componente tecnologica (la rete co- me unico spazio per gestire le attività professionali). In realtà entrambe le retoriche peccano di “presentismo”, ovvero di una esa- gerata quanto errata attenzione al presente. Prendiamo la prima retorica: la novità dei processi lavorativi. L’attuale componente professionale deve confrontarsi con due interessanti processi macro-sociali assolutamente interconnessi che sono la deterritoria- lizzazione e la desincronizzazione. La deterritorializzazione è il processo in base al quale il lavoratore professionista non condivide lo stesso spazio fisi- co della sua attività lavorativa: per esempio un professionista che lavora su mercati internazionali e pertanto lo spazio fisico del mercato in cui opera non è lo spazio fisico dove si trova il suo ufficio. Come conseguenza della deterritorializzazione abbiamo la desincronizzazione, ovvero il processo se- condo cui i ritmi di lavoro sono scollegati dallo spazio fisico in cui avviene effettivamente l’attività lavorativa: come il caso del professionista che lavo- rando su mercati internazionali deve relazionarsi con clienti che non si trova- no nel suo stesso fuso orario e quindi lavora in un tempo che non appartie- ne al suo ufficio ma al suo mercato. La deterritorializzazione non è un fenomeno nuovo: prende le mosse dalla rivoluzione industriale in cui lo spazio di lavoro (la fabbrica) non si trova più nello stesso posto dove vivevano gli operai (quartieri dormitorio o in tempi più recenti quartieri residenziali). Il tempo ancora non era un problema per- ché la distanza fra questi luoghi era relativamente breve, al netto di cambia- menti sociali come la nascita delle periferie e il progressivo allontanamento dal centro cittadino. Con la globalizzazione degli anni ’80 del XX secolo le cose cambiano radicalmente. Nascono le multinazionali, imprese che travalicano i confini dello stato-nazione allontanando sempre di più lo spazio dei processi lavo- rativi dallo spazio dei mer- cati. Il problema da fisico diventa temporale, ci si tro- va a lavorare con altri fusi orari, entrano in gioco tec- nologie per lo spostamento sempre più efficienti come i trasporti aerei. Finché pro- gressivamente invece di spostare merci e persone, si cominciano a sposta- re i processi. E qui entrano le dinamiche che ci aiutano a smontare la retorica del- l’ineluttabilità della tecnologia. Le tecnologie ICT in genere – e in tempi recenti quelle legate a internet – non sono ineluttabili, sono frutto semplicemente del processo di remotizza- zione, ovvero servono tecnologie che permettono di agire a distanza, in re- moto, che permettono cioè di ovviare all’inconveniente per cui il professioni- sta (ma anche il lavoratore in genere) si trova in uno spazio/tempo diverso dal suo cliente e dal suo mercato. L’attuale successo dei processi lavorativi gestiti soprattutto grazie alle tecnologie della rete internet, sono in realtà la radicalizzazione di processi che sono stati attivati da strumenti come l’aereo Docente di Sociologia dei media digitali, Università di Catania Davide Bennato
  • 11. 10 e il telefono e il fax, veri simboli dell’infrastruttura lavorativa delle multinazionali degli anni ’80. Quasi tutta la letteratura sociologica su lavoro e organizza- zioni ha tematizzato con forza questo aspetto. Studiosi come Manuel Castells (autore del concetto di spazio dei flussi), Anthony Giddens (la cui teoria di è concentrata sulle dinamiche di disintermediazione/reintermediazione) e John Urry (con i suoi illuminanti studi sulla sociologia della mobilità) hanno concen- trato la loro analisi sulla tripartizione tempo/spazio/tecnologia, ovvero la tecnologia è uno strumento che funge da collante per ricomporre la frattura socia- le fra tempo e spazio attivata dai processi lavorativi della fabbrica del XIX secolo. Cosa c’entra questo con la sharing economy? Se noi consideriamo la componente multinazionale della sharing economy – per esempio Uber – possiamo vedere come la tecnologia (l’algoritmo) serve per rendere accessibile e pertanto monetizzabile le strade della città (lo spazio), agendo sulla capacità di segmentare il tempo che si impiega per svolgere il servizio. Dinamiche simili se consideriamo la componente partecipativa della sharing economy ovvero economia della condivisione di merci/servizi basa- ta su una community di persone. In questo caso la tecnologia (la rete) è lo strumento di collante sociale che consente l’accesso a prodotti/servizi (il tem- po) cercando di ovviare alla scarsità di questi rispetto ad un preciso spazio fisico. La tecnologia non è causa di queste nuove dinamiche sociali, ma la sua importanza cresce in quanto risposta a processi di frammentazione sociale che la velocità dello sviluppo economico (ma non solo) hanno estremamente accelerato. Nell’Italia in metamorfosi c’è un tessuto di economia diffusa fatto di capitalisti molecolari attivi nella manifattura, nel commercio, nel turismo. Questi, nel bene e nel male, sono un’intelaiatura economica del paese proliferata nel primo postfordismo, fatto di distretti manifatturieri che hanno usato la rete per tenersi nelle filiere produttive e per la promozione di sé. Potevano fare riferimento al welfare e contare sulle istituzioni. I nuovi mercati rimandano al secondo postfordismo della conoscenza globale in rete, soprattutto a base urbana, che dà corpo alla sharing economy, che ridisegna smart city in un’economia circolare della città possibile dove acqua, energia, rifiuti, mobilità, logistica, spazi pubblici, sicurezza, sanità, sono big data di un consumo e di una governance di nuove forme di convivenza. La società circolare che viene avanti, con la digitalizzazione, si chie- de come cambiano l’amministrazione, la partecipazione, la conoscenza, la formazione continua, l’accoglienza e l’inclusione. Nei comportamenti sociali, come sempre, ci sono alleati con cui tessere la ragnatela del valore. di Aldo Bonomi, sociologo
  • 12.
  • 13. 12 Sharing economy: is the new black? - di Luigi Corvo Ma cosa è questa sharing economy di cui si sente così tanto parlare (ora persino in Parlamento)? Proviamo a mescolare 3 fattori: - il lavoro non riesce più ad essere il principale vettore per ridistribuire il valore fra coloro che hanno contribuito a generarlo; - abbiamo accumulato asset che nel corso degli anni abbiamo sotto-u- tilizzato, per via di costi di coordinamento che ne rendevano inefficien- te una gestione condivisa; - l’innovazione tecnologica ha ridotto quasi a zero i costi di coordina- mento e ha reso pop piattaforme di condivisione degli asset che fino ad oggi erano per lo più dormienti. Mescolando questi elementi, e inserendo alcuni ingredienti fondamen- tali quali la centralità delle relazioni e la possibilità di incrementare i li- velli di fiducia fra gli agenti in condizioni di disintermediazione, si ottie- ne quell’effetto che chiamiamo sharing economy. L’impatto è e sarà sempre più dirompente. Il messaggio forte è che qualunque asset, qualunque bene, materiale e immateriale, può avere una gestione condivisa, può generare valore con il contributo di più per- sone e a favore di più persone a patto che i costi di coordinamento sia- no quasi zero e che ci sia una governance inclusiva con una catena del valore circolare. Ma ci sono due elementi che emergono e che aprono degli spazi per costruire una nuova economia. Il primo riguarda l’approccio al rischio: se una piattaforma riesce a coordinare gli asset diffusi, riesce anche a sbriciolare il rischio che ciascun agente assume, e questo rende il mo- dello di business lean, scalabile e, soprattutto, antifragile. Pensiamo alla differenza fra le migliaia di stanze offerte da Airbnb e un hotel. Un host di Airbnb non ha costi fissi elevati, non necessita di ingenti investi- menti, non ha costi di personale e non ha strutture rigide cui far fronte. Il suo rischio è quasi zero, così come il costo di coordinamento, e que- sto funge da potente fattore abilitante, in grado di spiazzare il mercato degli hotel che, al contrario, hanno rigidità tali da necessitare di una do- manda quantomeno in grado di garantire il raggiungimento del punto di break even. Applicando tale cambiamento a diversi settori/bisogni si ottiene un effet- to di shift che fa impressione. E che richiede politiche nuove, dall’istru- zione alla tassazione passando per la revisione delle regolamentazioni (e non solo). Il secondo elemento attiene alla logica con cui l’economia ha trattato la questione delle inefficienze. Avere una parte di casa, quindi un asset, dormiente è una inefficienza, così come il fare un viaggio in automobile senza riuscire ad ottimizzare i posti di trasporto disponibili (e quindi i consumi). Le innovazioni che sono alla base della sharing economy rie- scono ad intercettare queste (e molte altre) inefficienze e trovano il modo per derivare valore da esse. Potrebbe sembrare un paradosso, ma per gli agenti dello sharing l’inefficienza è una bella notizia, perché in essa è insita l’opportunità di scovare l’innovazione che riuscirà a di- segnare una nuova catena del valore e a creare nuovi mercati e nuove prospettive. In sintesi, dunque, viviamo una fase di transizione in cui ciò che gene- rava valore risulta sempre più inadeguato a garantire la sostenibilità
  • 14. 13 sociale ed ambientale e avvertiamo l’urgenza di identificare nuove for- me di generazione e redistribuzione del valore. Non sarà immediato effettuare il cambio di paradigma, ma possiamo partire da un punto: lavorare sulle inefficienze come alleate del cam- biamento. Per farlo, e per fare in modo che i benefici non siano centralizzati nel- le mani di pochi, occorrerà lavorare mol- to sulla governance di questi processi e sulla misurazione e valutazione del loro impatto sociale ed ambientale. Luigi Corvo, Docente di Social Entrepreneurship and Innova- tion, Università di Roma Tor Vergata La campagna di CoRete, rete delle realtà collaborative romane
  • 15. L’impresa dei millenial piattaforme, servizi, idee e comportamenti della collaborazione La sharing economy ha cambiato l’idea del lavoro. L’incertezza di questi tempi, l’impossibilità di prevedere gli esiti della Crisi Globale non sono in realtà che alcune delle variabili. Alla base del nuovo mutualismo e della spinta alla collaborazione c’è anche l’identità di una generazione (definita dei millenials) che convive con la mobilità, con la condivisione e che ha fatto della propria volontà di cambiamento il motore per ripensare ogni aspetto della vita politica, economica, civile, culturale, professionale. L’identikit delle nuove imprese.
  • 16. 15 Essere collaborativi, anche all’interno - Emanuele Quintarelli Insieme ai file, abbiamo scoperto come in un ecosistema collaborativo possano circolare posti di lavoro, stanze, pasti, passaggi in auto, con risvolti in molti casi dirompenti su interi settori industriali. La Sharing Economy ha introdotto una lunga lista di questioni legate all'impatto della digitalizzazione sul rapporto azienda-dipendente, sulla poten- ziale messa in discussione di diritti acquisiti con grande fatica, sulla necessità di nuove regole per il riconoscimento ed inserimento di attori econo- mici difficilmente classificabili all'interno degli schemi di mercato che anno caratterizzato il secolo precedente. Per quanto simili domande siano ancora ben lungi dal trovare una risposta chiara e condivisa, esiste un'ulteriore dimensione dell'economia collaborativa che finora non ha addirittura trovato spazio all'interno della discussione pubblica. In un mondo dominato dalle piattaforme, in cui da fruitori gli utenti di- ventano partner, in cui il concetto stesso di lavoro si sfaccetta e fluidifica, dove il cliente è attratto da esperienze distintive, multicanale ed una relazione paritetica e trasparente con i provider, la prima a frantumarsi in mille pezzi è l'azienda tradizionale. Dalle ceneri dei silos dipartimentali, del micromanagement, delle strutture verticiste, rinasce un'organizzazione finalmente pensata non tanto per sopravvivere, quanto per trarre il massimo vantaggio dalle dinamiche partecipative peer-to-peer tipiche del nuovo corso. Aldilà di un buon marketing e di business model efficaci, è ormai evidente come l'era della condivisione imponga un vero e proprio cambio di DNA, in pri- ma istanza relativo al ruolo ed alle modalità di partecipazione di chi in azienda vive tutti i giorni. La trasformazione della fabbrica di Taylor nell'azienda collaborativa richiede pertanto tre passaggi: " •" Il superamento della gerarchica a favore di una struttura basata su team (pod) dotati di autonomia ed invitati a scambi paritetici " •" Il riconoscimento delle community di clienti quali attori che affiancano l'azienda nel fornire servizi, creare prodotti e raggiungere il mercato " •" L'inclusione degli stessi fornitori in qualità di co-creatori ed innovatori della proposta di valore di cui l'azienda si fa portatrice Ancora prima della costruzione di piattaforme per attirare milioni di persone, startup ed incumbent stanno finalmente comprendendo come volatilità e complessità dell'economia attuale richiedano un'agilità, adattabilità e capacità di ascolto dei bisogni del cliente possibili solamente lasciando che la rete entri in azienda e l'azienda diventi essa stessa rete.
  • 17. 16 Infografica della Social Enterprise - da Gist
  • 18. 17 Emanuele Quintarelli, Locial Enterprise Leader, EMEIA Center of Excellence – EY Per approfondire: Titolo: Enterprise 2.0 Autore: Andrew McAfee Editore: Harvard Business Press Data: 9 dicembre 2009 Costo: Kindle, € 16,74
  • 19.
  • 20. 19 Ho toccato con mano come non siano l’età o il settore economico a delineare i percorsi di sharing ma la capacità dei singoli (spesso in organizzazioni) di comprendere le potenzialità, anche di mercato, che un’economia basata sulla fiducia, l’uso intelligente delle risorse, obiet- tivi di medio-lungo termine a fare la differenza. Diverse aziende italiane cominciano a affrontare i loro progetti con logiche di crowdsourcing tra i dipendenti liberando idee e energie a lungo sopite, e mettendo talvolta in crisi rendite di posizione minacciate dagli ultimi arrivati magari più attenti o preparati. Gli stessi spazi di coworking stanno diventan- do veri servizi per l’impiego dove le persone vivono un inedito ‘apprendista- to alle professioni autonome’ In questo senso, gli ambiti di competenza richiesti dalla SE – spesso tra lo- ro correlati - sono: 1. La creazione, gestione, manutenzione di fiducia sia dei singoli e delle community 2. La capacità di strutturare processi di facilitazione e accelerazione nella creazione di relazioni volte a rendere lo ‘scambio’ facile, vantaggioso, attrattivo. Ripartire dalle competenze - di Andrea Pugliese II dibattito sulle prospettive e le opportunità legate alla Sharing Economy (SE) si focalizza da tempo sui temi dei modelli di business che la rendano sostenibile, della fiscalità che la deve accompagnare e delle piattafor- me necessarie a disintermediare le risorse che vengono condivise, siano esse tempo, talenti, auto, case o altro. Molta riflessione è poi per classifica- re i servizi: sono ‘buoni’ o ‘nocivi’ per l’economia? Creano o distruggono posti di lavoro? Uber è sharing o no? La nuova proposta di legge serve e ha senso? Nel frattempo le aziende profit e no profit si devono posizionare in un mercato poco regolato, dove muoversi per primi consente di intercet- tare bisogni più urgenti e creare community più ampie e motivate, e dove aleggia l’aforisma “E’ meglio chiedere scusa che chiedere permesso.” Ecco che operare nella SE diventa una scelta che presuppone com- petenze specifiche, spesso aggiuntive a quelle più tradizionali. Occupandomi di servizi per il lavoro ed essendo immerso ormai dal 2011 nelle spinte al cambiamento della Social Innovation, vorrei contribuire a orientare/riorientare le professionalità di chi vuole cogliere le opportunità della SE e per condividere qualche spunto anche con chi si occupa di pro- grammazione formativa e orientamento professionale. Come è già stato per la Green Economy, la SE determina almeno due am- biti di impatto nel sistema delle competenze: 1." La comparsa di nuove professionalità, sebbene piuttosto poche; 2. L’evoluzione dei set di competenze professionali già in possesso di molti che vanno a essere integrate o evolute da conoscenze e abilità specifiche.
  • 21.
  • 22. 21 3. Capacità di progettare esperienze (di incontro, di scambio, …) e conver- sazioni, on line e off line che siano funzionali ai servizi, 4. Capacità di portare i cittadini/clienti dall’inclusione all’azione di ‘scam- bio’ attraverso leve motivazionali coerenti con i valori che si vogliono esprimere, anche attraverso il gioco 5. Una concezione dei Beni Comuni abilitanti a processi di inclusione e sviluppo locale la cui cura e rigenerazione creino valore per il più alto numero di persone 6. Capacità di definire modelli di business in cui si trasmettano non solo i valori economici ma anche culturali, ambientali e sociali. 7. Capacità di business storytelling focalizzate sul ‘perché’ degli interventi/ servizi piuttosto che sul ‘cosa’ e sul ‘come’. 8. Capacità di interpretare ed evolvere l’impianto delle regole normative, procedurali, finanziarie e fiscali in una logica aperta alla collaborazione e alla fiducia. 9. Capacità di valutare gli impatti degli interventi sulle relazioni, le conver- sazioni, la creazione di valore Da questo elenco, di certo parziale, si evince subito come la dimensione umanistica, quella tecnologica, artistica, le scienze sociali, economia, legge declinate anche nel game design, il community management, la facilitazio- ne, debbano interagire spesso con le competenze tecnologiche. In conclusione, vedo nella SE un'occasione imperdibile per un mercato del lavoro di maggiore qualità, in cui trova spazio la costruzione di fiducia e rela- zioni, la narrazione, la multicompetenza. Tutto questo per generare maggio- re resilienza dei singoli, della imprese e delle comunità. Andrea Pugliese, consulente strategico in materia di programmazione di Fondi Europei, di politiche e servizi per lo sviluppo territoriale e occupazionale Per approfondire: Titolo: Mi fido di te Autore: Gea Scancarello Editore: Chiarelettere Data: 2015 Costo: € 13,90
  • 23.
  • 24. 23 Gli Italiani e la sharing economy - da Pubblicitaitalia - intervista a Federi- co Capeci “La crescita della sharing economy in Italia è una crescita con il freno a mano – ha dichiarato Federico Capeci -. Da un lato vi è un’alta propensio- ne del cittadino a provare e usare servizi in condivisione, dall’altro, sia dal fronte dell’offerta e sia da quello delle istituzioni, gli attori del sistema sono al palo. Il consumatore è ben più avanti delle imprese e delle istituzioni in quanto ci mostra un insieme di possibili utilizzi e di motivazioni della sha- ring economy molto vasti, solo in parte colte dagli attori attuali”. Uno dei motivi sottostanti a queste pratiche è il risparmio economico (lo studio effettuato da TNS segnala che il saving è una motivazione per il 41% degli utilizzatori), ma non è l’unico motivo per dare e chiedere servizi in sharing: ci sono utenti mossi da desiderio di condivisione, da motivi di solida- rietà; dalla volontà di fare un’esperienza di uso più ricca; dalla voglia di fare impresa; dalla voglia di sperimentare nuove pratiche e esse- re al centro delle novità sociali. In Italia, la sharing economy è cono- sciuta dal 70% della popolazione. Un Italiano su 4 la utilizza e la prospettiva è di ulteriore crescita: la mag- gior parte dei non utilizzatori sono propensi all’uso futuro (22%) o necessi- tano di maggiori informazioni (18%). Fra gli utilizzatori, un 10% di intervista- ti dichiara di usare alcuni dei servizi suggeriti, ma non li associa spontanea- mente al mondo ‘sharing’. Fra i servizi utilizzati, gli italiani fruiscono di Servizi di mobilità (26%), Servi- zi organizzati di scambio e baratto di oggetti di vario tipo (10%), Servizi di alloggio di una camera o casa private (9%), Servizi culturali (8%), Servizi di Social lending, prestiti fra privati (4%). Ma quali sono le barriere? La diffi- coltà a fidarsi e la mancanza di regole chiare e garanzie nell’utilizzo, pena- lizzano purtroppo ancora lo sviluppo. Quello che vediamo da un punto di vista delle tutele e degli inqua- dramenti fiscali, assicurativi e sociali – ha affermato Capeci – è che le istituzioni sono al palo di fronte a questa crescente complessità e come risultato, stanno frenando l’esplosione di quella che potrebbe essere una leva di crescita di assoluto rispetto per il nostro paese. “Dal lato dell’offerta – ha continuato Capeci – le proposte non sono in gra- do di seguire l’ampia gamma di opportunità, segmenti e servizi con chiari posizionamenti e benefit concreti per l’utente. La visione da parte dei Player dovrebbe mettere al centro l’utente, ‘ascoltarlo’ per valutarne aspettative ed esperienze concrete, in un continuo processo di finetu- ning ed ottimizzazione della proposta e della comunicazione. Gli uten- ti sono aperti all’utilizzo di nuovi modelli di business, come testimonia l’ele- vato livello di conoscenza dei servizi in condivisione e anche la propensio- ne all’uso in futuro, considerando che solo il 5% degli intervistati si dichia- ra non interessato a questa tipologia di servizi”. Federico Capeci, Chief Digital Officer – CEO di TNS Italia, leader mondiale nelle ricerche di mer- cato ad hoc e nella consulenza di marketing. Puoi scaricare la ricerca di TNS-Global Italia cliccando sulla copertina del- l’ebook alla pagina seguente!
  • 26. Homeaway è un sito che, sul modello di Air Bnb, propone soluzioni di local hosting. Il sito conta 1 milione di offerte per 160 paesi ed è parte del Gruppo Ho- meaway, i cui siti hanno registrato cir- ca 32 milioni di visitatori al mese. www.homeaway.it VizEat è un sito di social eating nato in Francia nel 2014. Il sito conta 20.000 eaters in 50 paesi ed è leader europeo. Riunisce viag- giatori e locali di tutto il mondo a tavo- la in incontri gradevoli da buongustai. https://it.vizeat.com GoGoBus nasce nel 2015, fondata da un gruppo di profes- sionisti di Torino. Si tratta di Social Bus Sharing, sia per singoli che per piccoli gruppi. Spe- cializzato in trasporti per eventi e con- certi conta già migliaia di utenti. www.gogobus.it ICarry è stata fondata nel 2015 con l’idea di rivoluzionare il delivery. Il sito, sul modello sha- ring economy, trasporta beni e merci facendo risparmiare agli utenti tempo e denaro. Oggi conta 8500 iscritti, tra utenti e corrieri. www.icarry.it Guide Me Right nasce nel 2014 e propone un nuovo tipo di turismo. Con GMR si possono sco- prire e prenotare esperienze locali in compagnia di un Local Friend. Il sito offre 1757 esperienze in 561 città e 727 Local Friend. www.guidemeright.com Cocontest è un sito fon- dato nel 2012 e ha un seguito su FB di 57mila utenti. Il sito permette a clienti da tutto il mondo di lanciare piccoli concorsi pri- vati di progettazione e arredo di inter- ni, aperti a tutti i professionisti. www.cocontest.com Imprese digitali da seguire
  • 27. Perché è difficile realizzare un’impresa digitale in Italia - di Ales- sandro Rossi Le startup italiane non crescono, tranne rarissime e per altro relative eccezioni, perché il sistema è pensato per non farle crescere, o alme- no è strutturato in modo tale che nessuna abbia veramente la possibili- tà di farlo. Mi spiego meglio: noi abbiamo moltissimi acceleratori, fac- ciamo un fiume di microseed da 30-50K che non servono a nulla (sen- za parlare della proliferazione di premi e premietti da 10K, che sono veramente utili solo ad illudere dei giovani ragazzi) perché poi sarà praticamente impossibile chiudere un Serie A. Non conosco i numeri precisi ma il meccanismo è chiaro ed è più o meno questo: su 100 startup che prendono un microseed, 30-40 riescono a prendere (il più delle volte a rate, non fatevi ammaliare dagli annunci di fundraising sui blog di settore) quello che in Italia definiamo un Seed, cioè dai 200 ai 600-700K. Di queste però solo 3-4 faranno un Serie A da 2-4 milioni e nessuna farà mai un Serie B da 20-30 milioni (almeno non in Italia e certamente non da fondi italiani). Ora, a meno che non si tratti di siti di e-commerce con orizzonti di scalata molto locali, per scalare veramen- te una startup innovativa deve arrivare a fare almeno un Serie B se non Round ancora più grandi. Dunque o fai il giochino in Italia, e poi vai all'estero a cercare i soldi veri, oppure ti tengono in vita con 50K all'anno, lavori gratis per far fare i belli ai vari acceleratori di turno, e poi fallisci avendo perso un mare di tempo e di energie. Il discorso è molto, molto serio e riguarda il futuro di migliaia di giovani italiani, for- se i migliori, sicuramente i meno omologati, i più creativi e coraggiosi. Eppure nessuno ne parla, magari lo scrupolo è far arrabbiare il mini investitore di turno. Detto che il vero problema è l'atavica mancanza di finanziamenti, in particolare dei tagli dal Serie A in su (se ci fossero i soldi noi avremmo diversi team in grado di portare la loro startup a diventare l'incumbent internazionale del proprio mercato), sicuramente il legislatore e in ge- nerale il pubblico sono i soggetti più distanti dalla cultura dell'innovazio- ne digitale a cui facevo riferimento nella precedente risposta. La ricetta è ghettizzare chiunque sostenga la malsana, e sem- pre di moda idea che si possa fare l'ecosistema innovativo all'ita- liana! Per queste persone qualsiasi cosa si fa, si fa all'italiana, che poi vuol dire farla malissimo o non farla proprio. Semplicemente, e con maggiore umiltà, si deve copiare da chi l'inno-
  • 28. 27 vazione digitale la fa serissimamente da decenni e continua a farla: cioè la Silicon Valley. Non inventare astruse ricette nostrane, sfornate da personaggi che non hanno mai fatto una startup in vita loro o peg- gio non ne hanno mai nemmeno utilizzata una, ma semplicemente concentrarsi a rendere il terreno il più fertile possibile per le nostre star- tup, per quelle italiane. Faccio giusto un esempio, ma ce ne sarebbero decine e decine: uno dei fattori che storicamente ha influenzato la crescita degli investimen- ti di Venture Capital in Usa è stata la possibilità data ai grandi fondi pensione di diversificare il portafoglio, investendo anche in società in- novative contro equity. Immagina se Inarcassa investisse milioni su progetti come CoContest, invece di denigralo pubblicamente sui vari blog del settore. Diversamente, vedo che anche il nuovo sindaco di Roma, che se non sbaglio ha solo 37 anni, dichiara (se pur in campa- gna elettorale) che è contro Uber e a favore dei tassisti Allora capisco che non c'è davvero futuro per un ecosistema innovativo in Italia. Sono proprio le startup (in questo caso le grandi aziende) disruptive come Uber che cambiano il mondo, il mercato del la- voro ed in generale la società, rendendo il tutto più dinamico, flessibile e meritocratico. Noi invece non solo abbiamo rinunciato in partenza a creare i nostri Uber (colpa degli investitori non dei politici in questo caso), ma addirit- tura vogliamo negare ai nostri cittadini (consumatori) i vantaggi con- nessi alle rivoluzioni che vengono create nel resto del mondo, pazze- sco. Credo sia cruciale la distinzione tra lavori a basso livello di specializza- zione (ad esempio il tassista, tutti alla fine sappiamo guidare una mac- china) e lavori ad alto livello di specializzazione (esempio l'architetto con CoContest). Infatti se l'innovazione web (vedi Uber) nel primo caso rivoluziona le dinamiche del lavoro in quei mercati, permettendo a tutti di sostituirsi ad esempio al tassista, nel secondo caso è solo un mezzo nuovo, più dinamico, ecologico, trasparente e moderno di far concorrere tra loro i professionisti del settore e dunque non permettono al cittadino qualsia- si di sostituirsi al professionista. Questa distinzione è importante, infat- ti sicuramente le startup della prima categoria sono ancora più pro- consumatore e rivoluzionarie di quelle della seconda, ma anche, pro- babilmente, più rischiose sotto il profilo della transizione per i vecchi professionisti del settore. La mia personale idea è questa: il legislatore dovrebbe essere concreto e cercare di limitare le startup solo quando ci siano ve- ri, e sottolineo veri, rischi per la sicurezza del consumatore. Come esempio faccio il mio cavallo di battaglia, tu dove abbiamo man- giato da piccoli la stragrande maggioranza delle volte? Immagino a ca- sa grazie alla cucina di mamma o di nonna. Ora se siamo ancora vivi, come lo siamo tutti noi che leggiamo quest'articolo, vuol dire che pur senza aver superato i controlli sanitari la cucina delle nostre madri era sicura. Ergo, non c'è alcun vero motivo di sicurezza per limitare l'home restaurant, se poi il motivo è la tutela degli investimenti sostenuti da chi fa un determinato mestiere in maniera tradizionale o di presunta
  • 29. 28 equità concorrenziale, allora dovremmo vietare per concetto qualsiasi tipo di innovazione vera nei modelli di business. Lo stesso ragiona- mento si può fare per Uber e i tassisti ad esempio. Poi noi, come amia- mo fare, andiamo oltre e vogliamo bloccare perfino quelle piattaforme come CoContest che non permettono alla collettività di sostituirsi ai professionisti del settore, in nome della dignità della professione o di qualche altra eresia anacronistica. Ci sono varie situazioni emblematiche, pensa al caso di Soundreef che dovrebbe essere un vanto made in Italy e invece ha subito resi- stenze da parte della politica per proteggere un monopolio vecchio e cattivo come quello della Siae. Alessandro Rossi, Architetto, Cofounder di Cocontest
  • 30. L’ideografica dell’impresa digitale all’epoca della sharing economy
  • 31. Paragrafi 1. Il turismo e la sharing economy 2. Il punto di vista 3. L’importanza di un governo digitale 4. Food Revolution 5. Last Minute sotto casa 6. Workshop il turismo e sharing economy 30 Speciale imprese e sharing economy Digital Economy Piattaforme e nuove intermediazioni Il turismo e la sharing economy - di Maurizio Davolio Il processo innescato dalla sharing economy nel settore del turismo è desti- nato non solo a continuare ma anche a svilupparsi ulteriormente, con ritmi crescenti. E’ emerso con chiarezza un aspetto finora poco considerato: tra l’economia convenzionale e quella condivisa e collaborativa sono in atto fenomeni di contaminazione e di avvicinamento. Ci sono guide turistiche, con regolare patentino, che collaborano su piatta- forme come Guide me right o come greeters; stanno cioè attuando un ripo- sizionamento professionale che tiene conto dei cambiamenti in atto e sono consapevoli dell’interesse che almeno una parte della domanda turistica rivolge alla cultura tangibile e intangibile dei luoghi e delle popolazioni (non solo monumenti, musei e siti archeologici, ma anche botteghe artigia- ne, incontri con artisti, scoperta del patrimonio gastronomico ecc.). Ci sono cuochi professionali che nei giorni liberi dal lavoro ospitano turisti e clienti nelle loro case all’interno delle piattaforme VizEat o Gnammo. Per le case e appartamenti per vacanza posizionati su piattaforme con Airbnb o HomeAway, sono in offerta sistemi di revenue management co- me per gli alberghi, ovvero sistemi di check in collettivi. D’altra parte anche parecchi albergatori si stanno strutturando per competere con le altre forme emergenti di ospitalità, puntando su personale in grado di offrire storytelling o indicazioni per il turismo esperienziale. Rispetto al disegno di legge presentato dall’On. Veronica Tentori, la mag-
  • 32. 31 gior parte degli operatori concorda sull’esigenza di una legge che faccia chiarezza e che consenta di operare nella tranquillità e nella legalità. A tutti pare ormai chiaro che i fenomeni della sharing economy vada- no regolamentati ma non imbrigliati; va favorita la concorrenza in un quadro di correttezza e di parità; vanno garantite adeguate tutele ai consumatori e fruitori; il regime fiscale non dovrà essere oppressivo, trattandosi per lo più di attività non professionali e puramente inte- grative. In occasioni future sarà interessante studiare gli sviluppi dei vari fenomeni anche alla luce dell’eventuale entrata in vigore e applicazione della legge. Maurizio Davolio, Presidente AITR – Associazione Italiana Turismo Responsabile. Il punto di vista - Zeno Govoni Perché un bel problema? ✓ Un aspetto per nulla trascurabile nella sharing economy nel turismo è lo spostamento del rischio. Non è di certo la piattaforma ma sono i singoli host, autisti, ecc a caricare sulle proprie spalle lo shock della domanda, gli investimenti sul capitale produttivo, i problemi sulle tran- sazioni, i danni causati da catastrofi non prevedibili. Questa platform economy crea un’appropriazione dei profitti ed una esternalizzazione dei rischi. ✓ Nella sharing economy il nuovo competitor non è più un’impresa/a- zienda ma è il privato. ✓Con la sharing economy l’offerta è diventata estremamente elastica e questo è diventato un problema per i revenue manager. Prima l’offerta su una location era pressoché statica, ora invece non solo è dinamica ma imprevedibile. Arriva sul mercato per motivi diversi: per un evento, una festività nazio- nale, un concerto oppure anche solamente dalla voglia di andare in vacanza e, quindi, dalla possibilità di recuperare del budget attraverso l’affitto dell’appartamento. Perché un’ottima opportunità? ✓ Perché ci pone davanti a un ragionamento, a una riflessione da fare
  • 33. 32 ✓ Per la voglia di condivisione e d’incontrare i residenti, che porta a ridisegnare le parti comuni degli hotel come GENERATOR HOSTELS, THE STUDENT HOTEL. ✓ Perché la possibilità di spacchettizzare i classici servizi degli hotel porta a destrutturare gli hotel come OASIS COLLECTION [parallelo con quello che è successo nel mondo della musica online e cioè la possibilità di acquistare una sola canzona, quella che ti piace, e non tutto l’album]. ✓ Perché la voglia di local porta a ripensare alle colazioni degli hotel CANOPY by HILTON Perché la voglia di scoprire il quartiere, la zona, e di conoscere le chicche del posto, consente di riscoprire l’importanza dello staff e del concierge, da veder sempre più come uno storytel- ler. ✓ Perché l’hotel dovrà cambiare pelle, e questa è una bella opportuni- tà per mettere sul mercato qualcosa di nuovo. Uno degli aspetti per cui si sceglie AIRBNB è anche per il prezzo. Una realtà come GENE- RATOR ha pensato di togliere tutto quello che è superfluo nella came- ra, che spesso non si tocca né si usa mai, ma che porta a costi, ripara- zioni, manutenzione. ✓ Per rivedere i siti degli hotel, renderli più friendly e far capire che die- tro ci sono delle persone. Un sito classico di un hotel molto spesso vende solo se stesso, ora occorre vendere anche il quartiere, l’atmo- sfera local come avviene su Airbnb. nell’individuare i perché del successo di AIRBNB e della sharing eco- nomy nel nostro settore. E una volta individuati i punti di forza e le novi- tà, occorre fare un’analisi per capire se e come introdurli negli hotel o come rivisitarli. Una bella sfida e un stimolo per non adagiarsi e quindi essere proattivi. ✓ Per la voglia di deregolamentazione per andare incontro al mercato e interpretare le nuove esigenze/richieste del viaggiatore. ✓ Perché riporta al centro il rapporto tra le persone. Il modello di AIRBNB si basa molto sulla costruzione della fiducia e in questo noi albergatori dobbiamo imparare. Certo in AIRBNB la differenza sostanziale con noi è che la fiducia è costruita in modo bidirezionale invece da noi in modo unidirezionale.
  • 34.
  • 35. 34 ✓ Perché il modello iniziale di Airbnb ora sta lasciando il posto a un modello che vuole avvicinarsi a quello dell’hotel. Già i Superhosts so- no una selezione di host che forniscono un servizio di qualità rispetto agli altri, ora la selezione SONOMA, con servizi tipo alberghiero, poi le City Guide. Inoltre sta introducendo una serie di servizi per gli host che pro- vengono dal mondo dell’hotellerie come ad esempio un softwa- re per fare revenue, un cruscotto per le aziende e per i soggior- ni del canale business. Zeno Govoni, Manager Director di Hotel Annun- ziata di Ferrara. L’importanza di un governo digitale - di Luca Sini Quando abbiamo iniziato Guide Me Right eravamo sicuri del nostro ap- proccio (Andrea, uno dei miei soci co-fondatori, un po’ meno). L’idea era quella di facilitare al massimo l’incontro tra un viaggiatore e un esperto lo- cale permettendo loro di definire l’esperienza insieme e con la massima flessibilità. Il Guest poteva unire più attività per comporre la sua esperien- za. Poteva definire lui la durata dell’esperienza e scegliere quali attività, in quell’arco di tempo, fossero attività “for sure” (si sarebbero dovute fare, si o si) e attività “maybe” (da fare in alternativa o se fosse avanzato del tem- po). Un casino, vero. Dopo qualche mese di lavoro e un po’ di esperienza maturata ho ricono- sciuto il nostro errore: era stato un viaggio pindarico, con delle intenzioni sane ma troppo decontestualizzato e autoreferenziale. Questo è anche quello che mi è venuto in mente ultimamente leggendo, ascoltando e dibatten- do della proposta di legge sulla Sharing Economy. La legge si pone come obiettivo quello di regolamentare un fenomeno in forte crescita. Lo fa intervenendo su diversi fronti: dalla definizione di Sha- ring a quella dei soggetti che la compongono, dal nuovo regime fiscale per gli utenti operatori (10% di tassazione fino ai 10.000€ di guadagni occasio- nali) al ruolo di sostituto d’imposta per gli utenti abilitatori, dalla previsione del rispetto di condizioni minime per i portali della Sharing (assicurazione, pagamenti online, condivisione dei dati di utilizzo ecc) all’identificazione di un ente centrale incaricato di identificare chi è Sharing e chi non lo è. Da una prima lettura, molte di queste iniziative possono sembrare sensa-
  • 36. 35 te, ma più si entra nel dettaglio e più emergono dubbi e difficoltà nel regola- re e comprendere tutte le casistiche che possono venire a crearsi. Mi sorge un domanda: siamo sicuri che la lezione che dobbiamo portar- ci a casa dall’enorme crescita di questo movimento della Sharing Economy sia che serve un regolamento per farla crescere all’interno del nostro sistema?  E se fosse esattamente il contrario: se invece la vera lezione fosse quella che dobbiamo adattare il sistema attuale a quello che la Sha- ring Economy sta facendo emergere? Il vero problema che la Sharing Economy ha fatto emergere, agli occhi di chi scrive, è l’eccesso di burocrazia che si é generato nel tentativo di rego- lamentare ogni singolo servizio e i relativi requisiti necessari per operare sul mercato. Se questo è vero, allora l’approccio non dovrebbe essere quello “permis- sion first” adottato dalla proposta di legge, che cerca di delimitare dei confi- ni chiari a qualcosa in costante evoluzione attribuendo ancora una volta a un organo centrale l’assegnazione del permesso a operare o meno sul mercato, in questo caso quello della Sharing Economy. Questo è lo stesso errore che abbiamo fatto con Guide Me Right: aveva- mo sviluppato un’esperienza utente pensando che avrebbe facilitato enor- memente i nostri utenti ma che poi, alla luce dei fatti, si è rivelata un qual- cosa che gli utenti non solo non capivano ma che proprio non cercavano.
 Fare questi errori è normale e comprensibile. In una startup digitale è faci- le porre rimedio. Ma in un governo, anche se digitale, lo è meno. Nel frattempo, piuttosto che affermarci come primo paese in Europa in grado di prevedere una legge sulla Sharing Economy, rischiamo di diventare gli unici a porre dei freni a questa evoluzione sociale ed economica. Quindi? Bisogna cambiare approccio muovendosi per davvero come un governo digitale, con un approccio rivolto a snellire e non ad appesantire ulteriormente tutto. Due sono le azioni che andrebbero intraprese: 
 1. Prevedere 2/3 requisiti minimi comuni a tutte le iniziative di Sharing e che dovrebbero essere rispettati a tutela di tutti, concentrandosi piuttosto sul renderli possibili. Ad esempio facilitando l’offerta di una copertura assi- curativa per questo tipo di iniziative, primo limite per chi vuole fare Sharing in Italia. Non è necessario entrare nel merito di cosa è Sharing e di cosa non lo è, sarà il tempo a dirlo accompagnato da un’attività di studio e moni- toraggio volta a capire nel dettaglio questo percorso evolutivo prima di re-
  • 37. 36 2. Snellire la burocrazia attuale per permettere agli operatori attuali di adat- tarsi e rimanere competitivi affinché gli stessi possano finalmente avere un ruolo attivo, e non ostruttivo, nella crescita di questo nuovo ecosistema competitivo. Questo è quello che ci ha insegnato la Sharing: viviamo in un mondo aperto, dinamico e globale dove le risposte non vanno trovate ma vanno cercate, dove la validazione non è cen- tralizzata a livello pubblico ma viene esternalizzata alla community, dove il lavoro non è fisso e garantito ma è flessibile e meritato. An- che, e soprattutto, in questo mondo chi ha qualità e disponibilità da offrire troverà il suo posto. Questo è uno dei motivi per cui certi pro- fessionisti non dovrebbero sentirsi minacciati dalla Sharing Eco- nomy ma piuttosto dovrebbero cominciare a prenderne parte attiva- mente per essere certi che questa si evolva anche in base a quelle che sono le loro esigenze e conoscenze. Allora non mettiamo i paletti a questa evoluzione, che tocca e andrà a toc- care tutti i settori produttivi vecchi, attuali e futuri. Rendiamola possibile creando un ecosistema favorevole, dinamico e flessibile come il mondo in cui viviamo. Forse è quello che serve a questo paese per rilanciarsi. Luca Sini, Founder Guide Me Right.
  • 38. Guarda l’infografica su Booking BlogInfografica sulle piattaforme del turismo sharing
  • 39. 38 Food Revolution - di Eugenio Sapora - coordinatore Italia Alveare che dice sì Un nuovo modo per vendere e comprare i prodotti locali utilizzando inter- net e la sharing economy: questa l’idea alla base de L'Alveare che dice Sì!, progetto nato in Francia nel 2011 che arriva ora anche nelle diverse città d'Italia. Unendo agricoltori, cittadini consapevoli e innovazione digitale, L'Alveare che dice Sì! è una piattaforma online che permette una distribuzione più efficiente dei prodotti locali, per dar vita ad un modello replicabile di impre- sa sociale: la piattaforma di vendita favorisce gli scambi diretti fra agricolto- ri locali e comunità di consumatori, che si ritrovano una volta alla settimana creando piccoli mercati temporanei a Km 0, conosciuti come Alveari. Ad oggi sono più di 750 gli Alveari presenti in Francia, e oltre 70 quelli nati da inizio anno in Italia.  Come funziona L’Alveare che dice sì! I produttori locali presenti nel raggio di 250 km si iscrivono al portale www.alvearechedicesi.it e si uniscono in un “Alveare”, mettendo in vendita online i loro prodotti: frutta, verdura, latticini, formaggi. I consumatori che si registrano sul sito posso acquistare ciò che desiderano presso l’Alveare più vicino casa, scegliendo direttamente sulla piattaforma. Il ritiro dei prodotti avviene settimanalmente nel giorno della distribuzione organizzata dal gestore dell’Alveare, cioè colui che ha preso l’impegno di tenere il contatto con gli agricoltori e che si occupa di pianificare eventi, aperitivi e visite guidate nelle aziende dei produttori per creare un vero net- work di relazione e conoscenza diretta. L’incontro tra agricoltori e consumatori può avvenire in luoghi diversi, dal bar al ristorante, alla sala dell’associazione che mette a disposizione i pro- pri spazi. Lo spirito però è sempre lo stesso: permettere ai produttori di vende- re direttamente e in modo facile e dare ai consumatori accesso ad alimenti freschi, locali e di qualità, rivalutando il cibo e il suo ruolo nella  promozione di uno stile di vita sano. In questo meccanismo, che mette al centro la comunità e la genuinità dei prodotti, è fondamentale il ruolo della tecnologia: la piattaforma è stata svi- luppata lavorando a stretto contatto con gli utilizzatori, per modernizzare ed accelerare la filiera corta e promuovere un modello di commercio più equo.
  • 40.
  • 41. 40 Cosa è il Food sharing - di Francesco Ardito, cofounder LMSC LMSC, nata all’interno dell’Incubatore I3P del Politecnico di Torino, da piat- taforma desktop è diventata un’apprezzata App che propone una formula originale di marketing di prossimità. Gli esercenti con prodotti alimentari in eccedenza informano con immediatezza e semplicità i consumatori che si trovano nelle vicinanze, i quali possono approfittare della promozione “last minute” in corso. La App (e il portale) danno la possibilità ai consumer di indicare a che di- stanza vogliono ricevere le proposte in tempo reale e da quali tipologie di negozio, ricevendo così solo offerte specifiche “sotto-casa”. E’ questa la filosofia vincente di Last Minute Sotto casa: concreti van- taggi commerciali ai negozianti, ai quali si aprono nuove prospettive economiche grazie all’accesso di nuovi clienti e risparmio quotidiano per questi ultimi, che possono acquistare prodotti sempre freschi ne- gli esercizi vicino casa. Gli effetti positivi non sono solo economici, ma dai risvolti etici ed ecososte- nibili. Già oggi, ogni mese, due tonnellate e mezzo di prodotti alimentari non vengono gettati nella spazzatura grazie a LMSC! Il progetto, la cui ori- ginalità è stata sottolineata dal riconoscimento di numerosi premi nazionali ed internazionali, è l’unico italiano arrivato alla finale della European Social Innovation Competition 2015, fra più di 1.000 progetti sottoposti alla valutazione della EU ed è il vincitore del premio Edison Pulse 2015. Durante il percorso di sviluppo del portale si sono potute osservare le po- tenzialità di questo strumento che tutela non soltanto il commerciante, il consumatore e il pianeta ma permette alla categoria dei piccoli esercizi commerciali di ridurre il digital divide rispetto ad altri soggetti più organizza- ti. ”Il progetto è nato un quartiere della città di Torino – sottolinea Francesco Ardito, co-fondatore LMSC con Massimo Ivul – “con l’idea che si potesse recuperare il pane invenduto a fine giornata, poi si sono aggiunti altri quar- tieri della città e altre tipologie di attività commerciali come pescherie, ga- stronomie, macellerie e ultimamente i mini-market di prossimità, tutti con il problema comune del prodotto fresco che a fine giornata, se non venduto, deve essere buttato. Abbiamo fatto un conto di massima sul risparmio che ogni mese grazie all’utilizzo del portale abbiamo garantito ad una città co- me quella di Torino; ebbene il risultato è sorprendente, più di una tonnella- ta di cibo, 1.000 chilogrammi! A un anno e mezzo dal lancio ufficiale del progetto, abbiamo raggiunto quasi 50.000 utenti registrati e stiamo arrivan- do sempre più capillarmente nelle principali città italiane. Grazie alla part- nership con il Gruppo UP e al sostegno che una importante e autorevole organizzazione come LifeGate ci potrà offrire, stiamo preparando un piano di sbarco al di fuori dei confini nazionali”.
  • 42. Il workshop il turismo e la sharing economy I nuovi modelli di turismo. Coordinatore Maurizio Davolio - di Redazione Elisabetta Luise: HomeAway è il leader mondiale nel mercato online degli affitti di case vacanza e ingloba ad oggi oltre 1 Milione e 200 mila annunci in circa 190 paesi nel mondo. Online su HomeAway, proprietari privati e professionisti immobiliari offrono un’amplia selezione di case vacanze offrendo ai viaggiatori di tutto il mondo la possibilità di sperimentare esperienze memorabili assieme ad altri numerosi benefit, come più stanze a disposizio- ne dove rilassarsi godendo di maggior privacy a fronte di un minor costo rispetto alle sistemazioni più tradizionali come gli hotel. La società è infatti un punto di riferimento sia per i proprietari privati di case vacanze che per i pro- fessionisti immobiliari che desiderano pubblicizzare le loro proprietà e gestirne le prenotazioni online. Il portfolio di HomeAway include 50 siti leader di mercato che attraggono ogni mese più di 44 milioni di viaggiatori e sono declinati in 13 lingue diverse. HomeAway è oggi parte della famiglia Expedia Inc. “E’ la tua vacanza perché condividerla?” campagna di brand HomeAway 2016 https://www.youtube.com/watch?v=Cio5fClAtDA HomeAway lancia un messaggio provocatorio e nel contempo ridisegna il concetto della Sharing Economy così come intesa in relazione ai viaggi e al turismo. E’ davvero un bene condividere tutto con tutti?  HomeA- way chiarisce così il proprio posizionamento a livello globale per l’affitto breve di case vacanza per intero, da condividere sì, ma con i propri cari e la famiglia, non con gli estranei e gioca ironicamente con alcuni aspetti che i viaggiatori non gradiscono dei altre tipologie di sistemazioni: buffet affollati, piscina condivisa con ospiti rumorosi, stanze e appartamenti condivisi con estranei etc. La diversità e la complessità dell’offerta turistica online, che troviamo oggi declinata in un proliferare di siti web, OTA, agenzie etc.. deve necessariamente presupporre una conoscenza approfondita della sharing economy e dei suoi modelli da parte del legislatore che si approccia a regolamentare il settore. Giusto semplificare ma senza penalizzare e imbrigliare un settore  che al suo interno raccoglie una grande complessità e che sta dando grandi
  • 43. opportunità al mercato. Luca Sini: Guide Me Right è un community marketplace dove scoprire e prenotare esperienze local autentiche in tutta Italia: il progetto nasce dalla volontà di rinnovare e rilanciare un'industria turistica che ha la responsabilità di essere uno degli asset della ripartenza del sistema Italia. Per dare risalto alle bellezze italiane (non solo nelle grandi città ma anche nei piccoli paesi) abbiamo adottato un approccio "dal basso". GMR cerca di coinvolgere atti- vamente i cittadini nella promozione attiva del territorio a vantag- gio dei cittadini stessi (opportunità di guadagno), dei viaggiatori (nuove esperienze) e dei territori stessi (soddisfazione del viag- giatore e distribuzione della ricchezza)l.  GMR è attivo in più di 550 città Italiane grazie a più di 700 esperti locali (Local Friend) che offrono più di 1700 esperienze: creare un marketplace liquido di esperienze gioverebbe a tutti. Infatti, piuttosto che a una potenziale riduzione dei guadagni per chi offre il servizio (da dimostrare nel lun- go periodo), i marketplace della sharing economy che riescono a funzionare non fanno altro cha favorire l'efficienza riducendo i tempi morti e permettendo di sfruttare al massimo le proprie risorse (stanze, posti auto, tempo libero) grazie alla tecnologia. I professionisti pre-sharing economy dovrebbero prendere parte a questo movimento, che alla fine va a premiare comunque chi (A) ha un'offerta di qualità da offrire e (B) ha la disponibilità per garantire l'offerta. La pubblica amministrazione dovrebbe invece cambiare approccio legislativo nei confronti della Sharing, impo- stando dei requisiti minimi a tutela di tutti (assicurazioni, professionale vs occasionale ecc) e parallelamente dere- golamentando in maniera da semplificare la macchina burocratica/legislativa.  Presidente AITR Maurizio Davolio
  • 44. Paragrafi 1. Dalla coop alla platform cooperative 2. Cosa è il business inclusivo 3. Il diritto dell’eccezione, non della regola 4. Tempi ibridi 5. Open Innovation 6. Workshop le nuove professioni 43 Dalla coop alla platform cooperative - di Andrea Rapisardi Quando con alcuni colleghi cooperatori si è cominciato a riflettere sul tema dell’economia collaborativa alcune delle reazioni alla vicenda Uber-taxisti che andavano per la maggiore erano le seguenti: “La cooperazione esiste da quasi 2 secoli! I soci cooperatori si sono sem- pre uniti per raggiungere uno stesso fine sulla base dei principi di collabo- razione e solidarietà. Cosa c’è di innovativo nell’economia collaborativa? Come mai da un lato la collaborazione va tanto di moda sembra essere la cosa più “cool” del momento e invece la “cooperazione” ha raggiunto uno dei momenti più bassi di reputazione (almeno in Italia)? Fra l’altro Uber sot- topaga i conducenti!”. Bene, sembrerebbero chiacchiere da bar ma in realtà niente è più attuale di queste affermazioni! Proverò a fare alcuni esempi per farvi capire cosa c’è di differente fra Eco- nomia Collaborativa e Cooperazione e quali invece sono le opportunità che la cooperazione potrebbe cogliere per giocare un ruolo attivo all’inter- no di questo variegato fenomeno. Prima degli esempi però possiamo già fare una prima grande distinzione. L’economia collaborativa è innanzitutto un fenomeno estremamente varie- gato, è come parlare di Green Economy o New Economy e si riferisce quin- di a settori diversi, organizzazioni societarie diverse, ecc… La cooperazione rappresenta un movimento altrettanto variegato che si basa sulla promozione di una specifica forma di impresa, la cooperativa, che ha una sua architettura chiara e normata dalla legge. Vediamo alcuni casi di studio. Speciale imprese e sharing economy Social Enterprise Imprese, cooperazione, comunità
  • 45. 44 ES.1: MOBILIFICIO A) Pensate ad una classica fabbrica di mobili degli anni cinquanta. Nel- la maggior parte dei casi si trattava di un’impresa di capitale in cui la- voravano i componenti della famiglia proprietaria. Per svolgere la sua funzione produttiva, l’azienda aveva bisogno di una fornitura di mate- rie prime conveniente, di un luogo di produzione, macchinari, dipen- denti. Creava una linea di prodotti ed organizzava la vendita o diretta- mente o con accordi di distribuzione sui mercati di riferimento o con accordi di produzione per terzi. B) La cooperativa rappresenta un’innovazione economica e sociale di grandissima rilevanza che passa dal cambio di modello societario. Il funzionamento aziendale poteva essere esattamente lo stesso, la diffe- renza stava nel fatto che la proprietà era dei lavoratori, che questa ri- specchiava l’equilibrio di governance rappresentativa 1 testa 1 voto, che il patrimonio prodotto era intergenerazionale e che l’unione dei la- voratori era finalizzata al raggiungimento di un obiettivo comune: la ga- ranzia di condizioni di lavoro migliori!  - INNOVAZIONE NELL’ORGANIZZAZIONE SOCIETARIA C) L’azienda che mette in pratica il modello piattaforma è portatrice di un’innovazione altrettanto rilevante che passa invece dal cambio di modello di business. La compagine societaria potrebbe essere esatta- mente la stessa. Cosa realmente si innova è il modello di relazione fra i diversi attori della filiera produttiva. L’azienda crea una piattaforma digitale di scambio che abilita uno scambio fra Designer (che vendono i loro progetti), Makers (che vendono l’utilizzo dei macchinari o diretta- mente la loro capacità produttiva), Clienti finali (che acquistano il pro- prio mobile riadattato secondo le proprie necessità). La piattaforma guadagna da percentuali sulle transazioni ma lascia che i pari si auto- selezionino in tutto il mondo secondo un sistema reputazionale, non assumono dipendenti per la parte creativa o per la parte produttiva (bensì solo quelli che servono per sviluppare e promuovere la piattafor- ma), non stabiliscono i prezzi se non le percentuali di commissione su- gli scambi (le regole del gioco per l’utilizzo della piattaforma). Perché è più “cool”? Perché in termini capitalistici è molto scalabile. In 2 soli anni di attività si rivolge a milioni di utenti, in tutto il mondo, non ha costi fissi enormi, non ha costi logistici, ecc… E’ sicuramente un buon soggetto nel quale investire! - INNOVAZIONE NEL MODELLO DI BUSINESS
  • 46. 45 ES.2: MACCHINA CON CONDUCENTE A) Probabilmente un tempo (ed esistono ancora) le agenzie di noleg- gio erano delle società di capitale, che erano proprietarie di una flotta di macchine, avevano fra i dipendenti i conducenti, avevano alleanze commerciali e strategie di comunicazione specifiche (es.: convenzio- ne con gli alberghi e con i musei). B) La cooperativa di conducenti funziona nello stesso modo in termini organizzativi, i soci spesso non sono proprietari della macchina, sono legati alla cooperativa perché ne sono soci e perché hanno un contrat- to di lavoro. - INNOVAZIONE NELL’ORGANIZZAZIONE SOCIETARIA C) Uber detiene la piattaforma, si basa sul lavoro on demand, non de- tiene la flotta di macchine, i conducenti non sono dipendenti, apre con facilità in tutto il mondo (a meno di problemi di regolamentazione). È più “cool” perché in pochissimi anni ha raggiunto un valore di circa 60 Miliardi di dollari, ha solo 400 dipendenti, ha raccolto più di 2 Miliardi di investimenti. - INNOVAZIONE NEL MODELLO DI BUSINESS Alla luce di questi due esempi il confine sembrerebbe netto. Il punto è che la cooperazione può sicuramente cogliere degli spunti dal mondo delle im- prese (e delle altre organizzazioni) tipiche del fenomeno dell’Economia Collaborativa. Il vero confine è quello dell’innovazione e di un’innovazione che sia fedele e che anzi metta in risalto i valori e le caratteristiche distintive della cooperazione. L’obiettivo è quello di rilanciare le cooperative esistenti e di crearne di nuove rendendole al passo con i tempi! Allo stesso tempo l’economia collaborativa nelle sue forme di collaborazio- ne competitiva e non solo ha molto da imparare dalla cooperazione per- ché come abbiamo visto in alcuni casi (soprattutto riferendoci ai casi più famosi) gli impatti possono essere quantomeno discutibili in termini di so- stenibilità economica, sociale e ambientale. La vera domanda a cui ci interessa allora rispondere è: quali sono le frontiere di innovazione che possono far SVILUPPARE e RIGE- NERARE la cooperazione in futuro? Proverò ad elencarvi alcuni spunti che ritengo estremamente interessanti: 1. la cooperazione non ha ancora sfruttato a pieno la tecnologia digitale a disposizione che invece potrebbe portare grandi vantaggi sia in ambito pro- duttivo, che in ambito comunicativo, di governance, commerciale, di gestio- ne dei dati, di R&D. Come costruire una identità digitale cooperativa? 2. come ripensare e innovare i modi e i concetti della mutualità riportando al centro la relazione e lo scambio tra soci? 3. come ripensare i modelli e gli strumenti per cooperare in ottica multista-
  • 47. 46 keholder (mutualità plurima) tra soggetti attivi nella produzione e fruizione dei servizi? 4. come sfruttare il potenziale dell’open manifacturing e l’open innovation anche attraverso la nascita di luoghi come coworking e fablabs? 5. come coinvolgere comunità e reti su ampia scala facendo collaborare tra loro anche persone molto distanti e creando nuove forme di relazione (sia interne che esterne alla cooperativa)? 6. come favorire un maggiore scambio e collaborazione intra e inter-setto- riale, anche tra cooperative di professionisti, imprese e imprenditori? 7. come sviluppare nuove risposte ai bisogni favorendo l’accesso alla pro- prietà, mettendo in rete le persone e le risorse e incorporando/applicando l’economia collaborativa nei processi di produzione del valore? 8. come utilizzare gli strumenti digitali per favorire la valutazione e il feed- back sui servizi da parte degli utenti, che possono essere coinvolti anche nella co-costruzione dal basso dei servizi ? 9. come rinnovare le forme di comunicazione e di engagement coinvolgen- do le nuove generazioni? 10. come valorizzare gli strumenti in rete per sviluppare nuove forme e so- luzioni che rispondano alle sfide? 11. come giocare un ruolo di primo piano nell’ambito della gestione di beni collettivi e della rigenerazione di asset comunitari dormienti? Andrea Rapisardi, Economista dello sviluppo, Pre- sidente e socio fondatore di LAMA.
  • 48. 47 Che cosa è il business inclusivo - di Lucia Dal Negro Il punto di contatto tra la Sharing Economy e il Business Inclusivo è nel- l’uso di metodi partecipativi per ideare soluzioni di mercato che risolvano i bisogni delle persone che vivono in stato di povertà (i) e nel condividere processi di NDP (new product development) tra attori di natura diversa (aziende, persone svantaggiate, istituzioni pubbliche, attori intermedi). La parola-‐chiave quindi è inclusione, dacché e per includere bisogna con- dividere. La prospettiva del business inclusivo, quindi, muove dall’inte- resse di attori profit a condividere con altri soggetti i processi di R&D che caratterizzano l’innovazione di prodotto e di processo. La scommessa è quella di riuscire a produrre modelli di busi- ness più responsabili, proprio perché partecipati e condivisi con per- sone che solitamente non hanno la possibilità di poter contribuire con idee, esperienze e know-‐how all’interno delle operation azien- dali. Chiaramente questo processo che arricchisce le aziende del valore ag- giunto innovativo di persone che co-‐creeranno con esse le soluzioni alle sfide del futuro (cioè prodotti che contribuiranno al raggiungimento dei SDGs, per esempio) va gestito in maniera responsabile per evitare due rischi: 1) che si confonda la natura profit dell’attore aziendale che resta ta- le, pur aprendosi allo scambio e alla condivisione con attori diversi; 2) che si generino soluzioni solo apparentemente partecipate e non real- mente portatrici di un cambio culturale nel modo contemporaneo di opera- re sul mercato. Per chi fosse interessato a capire meglio quale tipo di contributo possa da- re una persona svantaggiata a un’azienda in espansione sui mercati in via di sviluppo, vale la pena citare il caso di un progetto seguito personal- mente dalla Dott.ssa Del Negro, localizzato in Senegal, in cui la partner- ship tra azienda e comunità a basso reddito (seguita e studiata da De-‐ LAB) ha portato alla costituzione di un modello commerciale originale per l’uso e la manutenzione di pannelli fotovoltaici manutenuti e distri- buiti con modalità studiate dall’azienda e dagli stessi beneficiari, con im- patti sociali di empowerment della comunità e rafforzamento delle relazioni commerciali. Lucia Dal Negro, fondatrice di De-LAB, il primo focal point italiano di progettazione sociale per imprese. Per approfondire: Titolo: Base of Pyramid Autore: Stuart L. Hart Editore: Greenleaf Publishing Data: 15 aprile 2015 Costo: Kindle, € 27,66
  • 49. 48 Il diritto dell’eccezione, non la regola - di Enrico Parisio Sharing economy, social innovation, open governament, commons, open data… sono azioni o politiche che avranno la forza di traghettare il grande passaggio dall’economia manifatturiera a quella digitale? Siamo solo all’ini- zio, e sicuramente i dati non sono incoraggianti: dai bilanci delle start up innovative al polarizzarsi della ricchezza, fino all’impoverimento del ceto medio e ai flussi migratori, sembra proprio che il futuro sharing stenti ad accontentare i più. Ma tralasciamo i dati per ora, e cerchiamo di capire il vero motore dell’innovazione, cioè la semantica dell’uomo digi- tale, il dispositivo retorico che definisce e orienta tutti noi. Superata la dialettica capitale/lavoro, il lavoratore è l’impresa, e l’impresa è il lavoratore. Più che guardare al numero degli independent contractors statuni- tensi, o al lavoro autonomo e la microimpresa italiana, agli knowled- ge workers europei, guardiamo alla rappresentazione di questi lavo- ratori: i valori dell’impresa (economicità, efficacia, just in time, 24 hours, aggiornamento, competizione, innovazione…), albergano nel- la coscienza infelice dei soggetti infelici della nuova classe aspiran- te lavoratrice; o essi trasformano i propri corpi in nodi della rete, in hubs che veicolano e diffondono i flussi, o non esistono. Il modello di business sharing si basa sulla creazione di valore attraverso le interazioni peer to peer tra gli aderenti alle communities. Le piattaforme possono essere “di proprietà” degli users (o abbandonare addirittura il mo- dello “gerarchico validante” attraverso il blockchain, e quindi di owners- hip), e in questo caso il valore generato appartiene alla comunità, oppure tale valore può essere “estratto” (modello dominante delle grandi piattafor- me di sharing). Il valore estratto, oltre ad essere immediatamente economico (la fee sulla transazione, ad esempio), è soprattutto costituito dal- l’immagazzinamento delle nostre abitudini e dei no- stri gusti in forma di open data. Quest’ultimo è tutto lavoro gratuito, non mal pagato, sfruttato, precariz- zato, semplicemente non è lavoro. Attraverso la co- struzione di un ambiente accessibile, in grado di accogliere il mio desiderio (di far due chiacchiere, di una casa al mare, di un passaggio in auto…), trovo un luogo in cui il mio narcisismo e il mio bisogno è rappresentato. Anche la prospettiva di un gua- dagno passa per questa rappresentazione (essere aggiornato, smart, creati- vo, poliglotta, friendly…). Uno su mille arriva a un reddito (e qui ritornano i dati di cui sopra), ma il resto è comunque al lavoro, inconsapevolmente, o meglio, senza altra alternativa che l’accesso. Ma poi ci sono i corpi, che vivono in luoghi, ci sono bisogni. Luoghi abbandonati, corpi da nutrire, e nessuno a cui chiedere, per- ché una volta estratto tutto il valore possibile, si perde l’accesso. Il sistema di welfare dovrebbe pensare loro, ma anche da questo dispo- sitivo è stato estratto tutto il valore, e gli abbandonati sono i più, non i meno. Presidente dell’associazione di promozio- ne sociale e coworking “Millepiani” Enrico Parisio
  • 50. 49 E il “public sector”, da questa posizione di debolezza, deve fare una scelta, se vuole essere “public”: abilitare, sostenere, investire in tutte quelle piatta- forme che trattengono valore nei luoghi, occuparsi di costruire comunità au- togovernate, accompagnare nella creazione di diritto locale, di lavorare sul- l’eccezione, non sulla regola. Se il tema è il superamento della proprietà a favore dell’accesso e dell’uso, deve essere il primo a cedere proprietà e so- vranità a favore delle comunità decentrate. La ricchezza che poi sono in grado di esprimente le comunità abbandonate sono sotto gli occhi di tutti: esperienze partecipate, ricche di competenza, mutualismo, vera creatività. Ma serve una mano, questa volta non invisibile. Infografica del 16 marzo 2016, dal sito memefactory.
  • 51.
  • 52. 51 Non bastano  i manuali di diritto societario per fare nuove imprese ibride. Non solo perché si tratta di organizzazioni che sfidano le suddivisioni clas- siche – tra pubblico e privato, tra lucrativo e non lucrativo, tra individuale e collettivo – intorno alle quali sono stati costruiti assetti di governance e mo- delli di gestione che riempiono i toolkit manageriali. Ma soprattutto perché occorre comprendere la direzione e la portata di quelli che  leggiamo co- me vettori di cambiamento profondo a livello economico e sociale e che si apprestano a definire la nuova architettura della nostra società. Driver che diventano pilastri: come le persone escluse dal mercato del lavoro e dal welfare che nel giro di pochi anni definiscono, loro malgrado, una compo- nente strutturale e in alcuni contesti maggioritaria della società. Oppure come il crescente numero di immobili abbandonati e sottoutilizzati che trat- teggiano lo skyline dei paesaggi urbani e delle aree interne, antenne non solo del degrado ma del fallimento di modelli di sviluppo, sia pubblici che privati. E ancora come un tessuto imprenditoriale che da una parte perde preziosi asset in settori chiave e si ripropone in altri ambiti come i servizi di terziario sociale, facendo però ancora fatica a generare risultati  in termini di innovazione, di produzione di ricchezza e, non da ultimo, di mobilità so- ciale. Sono queste alcune delle sfide sociali che richiedono di elaborare nuove risposte nell’alveo dell’innovazione sociale. Risposte che scaturiscono non solo da strategie e azioni di change making nell’ambito delle istituzioni, ma piuttosto dal consolidamento e dalla diffusione di nuovi modelli ibridi d’impresa. A prima vista si tratta di un manipolo di organizzazioni, in buona parte in fase di avvio e quindi non ancora in grado di generare impatti rilevanti. In realtà, esperienze come le startup a vocazione sociale, le imprese sociali di capitali, le cooperative di comunità e le più recenti imprese benefit pog- giano su più consistenti “popolazioni organizzative” che operano da tempo con l’intento di definire nuove catene di produzione del valore dove sociale ed economico sono reciprocamente condizione necessaria di efficacia. Ecco quindi imprese ibride che nascono grazie ad amministrazioni locali che si pongono il problema di come riconoscere e rigenerare i propri “beni comuni”; che si sviluppano come articolazioni di filiere di Pmi che lavorano su economie coesive legate ad asset espressio- ne del made in Italy; che si moltiplicano tra organizzazioni nonprofit che individuano nello scambio di mercato una modalità non residua- le per perseguire la loro missione public benefit. Il fare, l’associarsi, il partecipare, il condividere, il proteggere si esercitano in modo sempre più diffuso attraverso matrici nuove che ridefiniscono mez- zi e fini dell’azione in senso più cooperativo. In questa prospettiva i nuovi attori ibridi rispondono allestendo community hub, dove si processano in senso imprenditoriale le sfide che la società del rischio propone. Il welfare per una società degli esclusi si realizza incrociando le piattaforme di sha- ring economy non solo per essere più sostenibile, ma soprattutto per favo- rire l’empowerment dei beneficiari. L’accompagnamento all’imprenditoria avviene non solo attraverso l’erogazione di “servizi reali” ma gestendo in senso mutualistico gli spazi di coworking; la rigenerazione dell’abbandono costituisce ormai una nuova asset class di infrastrutture sociali per la coe- sione, l’accoglienza, l’educazione. L’ampiezza dei mutamenti in atto e i divari rilevati nella capacità di risposta lasciano intravedere una soluzione che non si limita a riposizionare il pen- dolo tra Stato e mercato o a rinforzare l’effetto cuscinetto esercitato dalla “società civile organizzata”. Le imprese ibride si sviluppano nei “sotterra- nei” delle istituzioni tradizionali, ma assumono un peso sempre più rilevan- Tempi ibridi - di Paolo Venturi
  • 53. 52 te perché possono contare su ecosistemi vocati all’innovazione sempre meglio distribuiti lungo i principali divide della nostra epoca: tra nord e sud del Paese, tra innovazioni tecnologiche e sociali, tra risorse donative e fi- nanziarie, tra nuova domanda sociale e riconversione produttiva, ecc. Quel che conta è favorire al massimo le occasioni di fertilizzazione incro- ciata che non significa replicazione nuda e cruda, ma piuttosto apprendi- mento e capacità adattativa. Per questo è necessario aggiornare il quadro normativo rendendolo più rispondente alle trasformazioni. La scelta di ma- cro politica prevedeva due opzioni: dar vita a un nuovo aggregato istituzio- nale dove raccogliere i diversi rivoli di  ibridazione, oppure consolidare i principali contesti generativi senza intaccare gli aggregati tradizionali. La Riforma del Terzo Settore che, salvo inconvenienti dell’ultima ora, si ap- presta a essere varata dal Parlamento va in questa ultima direzione. Ha il merito di incorporare alcuni marcatori dell’ibridazione (la parziale remune- razione degli utili, l’apertura dei settori e della governance) e di consolida- re un importante bacino di imprenditoria sociale – il non profit – ma forse ha meno appeal su altre fenomenologie che però potranno trovare forme di regolazione nel quadro delle startup e Pmi innovative o delle già citate società benefit. È in ogni caso un avanzamento  pensato per innescare quell’impreditorialità orientata all’impatto sociale che sta emergendo nella terra di mezzo fra profit e non profit.  Paolo Venturi, Direttore di AICCON Per approfondire: Titolo: Imprese Ibride, modelli d’inno- vazione sociale per rigenerare valore Autori: Paolo Venturi, Flaviano Zando- nai Editore: Egea Data: Maggio 2016 Costo: € 15,00
  • 54. 53 Open Innovation - di Carlo Boccazzi Varotto Nel nostro paese, come corollario del dibattito sulla Social Innovation, stimolato dalla programmazione europea H2020, si sta fortemente ra- dicando la consapevolezza di come la tecnologia nei prossimi anni po- trebbe cambiare molti aspetti nell’elargizione dei servi di welfare. Cre- scente disintermediazione, sharing economy, produzione/erogazione on-demand, propensione alla customizzazione ecc. sono solo alcuni dei fattori che si potrebbero integrare nelle nuove progettazioni di wel- fare. Eppure, in Italia il modello organizzativo e finanziario del terzo settore fa fatica ad investire in ricerca e sviluppo, soprattutto, tecnologico, pro- ponendo schemi poco adatti a incorporare le competenze economiche e culturali che questo comporterebbe. Il risultato e' oggi una dispersio- ne di energie e risorse attorno ad esperienze “finaziate a bando” che, spesso, si esauriscano limitatamente alle conseguenze istituzionali o, nell'ipotesi più alta, negli ambienti di prossimità e che, raramente, si consolidano trasformando le soluzioni tecnologiche innovative in vero valore economico. Sara' necessario, nei prossimi mesi, costruire strumenti collaborativi non solo rivolti alla produzione ed elargizione dei servizi ma anche con l'obiettivo di fare interagire in modo efficace e conveniente i diver- si attori che avrebbero vantaggio nel collaborare: ad esempio, il terzo settore e le startup tecnologiche che operano nella conciliazione; nella distribuzione alimentare; nell'assistenza ecc., che, distanti dall'impresa sociale tradizionale, affidano il proprio successo (e spesso insucces- so) alla costruzione di community on line. Il punto di incontro potrebbe essere, ad esempio, in una logica di open innovation, dare evidenza ad alcuni asset del terzo settore: la possibilità di verificare e sperimen- talmente aspetti della business idea; la possibilità di abilitare servizi gia' esistenti; la possibilità di interagire con community gia' strutturate ecc. e trasformali in capitale d'investimento da investire nelle startup. Attivista nel coinvolgimento delle comunità creati- ve e tecnologiche nello sviluppo delle imprese e dei contesti locali.
  • 55.
  • 56. Le nuove professioni - di Chiara Bertelli Come l'innovazione tecnologica e la sharing economy stanno modificando il mondo del lavoro nell'ambito delle professioni intellettuali. Quali nuovi bisogni esprimono i professionisti e quali sono le possibili risposte. Ne abbiamo parlato con Chiara Bertelli, Coordinatrice territoriale per Ferrara di Legacoop Estense, Diego Farina, Presidente della Cooperativa Città della Cultura Cultura della Città, Demetrio Chiappa, Presidente della Coopera- tiva Doc Servizi, Dario Carrera, Co-founder di Impact Hub Roma e Mico Rao, Co-founder di Lab21 e con i parteci- panti al world cafè. Gli interventi introduttivi dei discussant hanno dipinto uno scenario caratterizzato da: 1) trasformazione dei ruoli e delle competenze dei professionisti (dagli architetti ai grafici, dagli artisti ai consulen- ti, passando per gli archeologi e gli infermieri) che operano in contesti sempre meno codificati e codificabili; 2) flessibilità del lavoro; dalla commessa al progetto, dalle competenze alle esperienze; 3) sempre maggiore complessità ed eterogeneità dei team di lavoro per raggiungere un obiettivo che in preceden- za poteva essere raggiunto grazie all'apporto di un singolo professionista; 4) condivisione delle esperienze e delle expertise che diventa necessaria e allo stesso tempo rischiosa. La condi- visione deve produrre valore per più persone, non creare precariato intellettuale; 5) scarsa rappresentazione pubblica dei bisogni dei lavoratori precari e intellettuali. Le istituzioni e le organizzazio- ni sindacali continuano a privilegiare, nell'elaborazione delle politiche del lavoro, la visione del lavoro salariato, faticando a trovare soluzioni normative alle problematiche dei professionisti; Il workshop nuove professioni
  • 57. 6) attualizzazione dei luoghi della collaborazione (contesti associativi, case del popolo, spazi autogestiti...) come luoghi fisici e virtuali in cui stabilire connessioni, favorire lo scambio di idee e la ricerca di soluzioni condivise (coworking, fab lab, laboratori urbani...); 7) nascita di cooperative tra professionisti, come forma strutturata di collaborazione tra professionalità diverse. Ai partecipanti è stato chiesto di dividersi in maniera casuale in 5 tavoli. Ogni tavolo era coordinato da un discus- sant. Ogni tavolo aveva il compito di rispondere a 3 domande: DOMANDA 1: LO SCENARIO In che modo l’innovazione sta cambiando il mondo dei lavori creativi e intellettuali? Nuove competenze, nuovi profili, nuovi bisogni: quali sono le professioni del futuro? DOMANDA 2: COSA MANCA Cosa rende difficile regolamentare e tutelare le nuove professioni? Quali bisogni sono senza risposta? DOMANDA 3: COME RISPONDIAMO Quali strutture organizzative e quali strumenti si possono creare e adottare per dare risposte ai nuovi bisogni del- le nuove professioni? Restituzione del lavoro svolto nei gruppi:
  • 58. Domanda n.1 Non cambiano le professioni, cambiano le competenze. I “nuovi professionisti” devono possedere competenze trasversali, soft skills, saper interagire con il contesto e creare connessioni con altri professionisti. Per fare questo attualmente manca una formazione che sia orientata alle professioni e ai bisogni del futuro (ma anche a quelli at- tuali). I nuovi professionisti vengono definiti “empatizzatori”, “service designers”, “facilitatori di comunità”. A questi viene richiesto sempre più di creare valore, non solo economico. Il lavoro di architetti, sociologi, progettisti etc... deve avere una ricaduta positiva sulla società, sulle comunità in cui operano. Domanda n. 2 a) non riconoscibilità del valore economico delle professionalità e delle prestazioni; b) difficile operare un controllo della qualità dell'operato dei nuovi professionisti, se non attraverso la misurazione dell'impatto sociale che essi generano; c) difficoltà del legislatore ad adeguarsi ai cambiamenti; d) regolamentare le nuove professioni è una necessità, ma anche un rischio (rigidità come disvalore); e) mancanza di una rappresentanza del mondo dei nuovi professionisti; f) mancanza di tutele e di welfare; g) scarsa consapevolezza “di classe” dei nuovi professionisti (chi siamo, quanti siamo, che bisogni condividiamo); h) bisogno di autoformazione dei nuovi professionisti;
  • 59. i) problemi con gli ordini professionali, spesso guidati da logiche superate, e con le casse previdenziali. Domanda n. 3 k) sviluppo di luoghi della collaborazione (Fab Lab dei servizi, ma- ker space, coworking, piattaforme) in cui fare rete, aggregarsi, trovare una risposta collettiva ai bisogni; l) cooperative di professionisti; m)dare voce ai professionisti intellettuali, ai precari, anche attra- verso lo sviluppo di attività formative, la creazione di luoghi del- la partecipazione; n) la riscoperta del valore della cooperazione, non solo come mo- dello imprenditoriale per stare sul mercato, ma anche come elemento che favorisce la consapevolezza della propria condi- zione professionale e aumenta le possibilità di successo nel “fare lobby”. Coordinatrice territoriale di Legacoop Estense per la provincia di Ferrara Chiara Bertelli
  • 60. Paragrafi 1. Le esperienze di community e il valore condiviso 2. Vivere il co-housing 3. Workshop: gli spazi della collaborazione 59 Speciale imprese e change making Community Le comunità di cambiamento e gli spazi di collaborazione Le esperienze di community e il valore condiviso - di Silvia Candida Se c’è un aspetto fondamentale alla base della sharing economy senza il quale essa non sarebbe ciò che è, è l’aspetto relazionale, quello cioè che punta alla generazione di legami di comunità come valore in sé, a prescin- dere dal suo tradursi o meno in attività d’impresa vera e propria o comun- que generatrice di valore monetario. È questo tornare a centro scena della relazione – che presuppone contatto e scambio tra le persone - rispetto a un’economia tradizionale fatta di transazioni sempre più astratte e imperso- nali, che rappresenta il primo ‘moto’ da cui prende vita ciò che oggi è un fenomeno da analizzare anche sub specie economica. Il tema del community building è ormai centrale. Non si tratta di atti- vità economiche strettamente intese, quanto di un substrato sociale e culturale che rappresenta a sua volta - a volte anche in tensione con l’idea di una sua possibile valenza ‘commerciale’ -  un processo di (ri)costruzione di valore dopo la grande crisi del 2008. Esperienze come quella di via Fondazza a Bologna, la prima social street: un esempio chiaro del fatto che il concetto di ‘condivisione’ non rimanda primariamente a una strategia di mercato bensì ad un comportamento so- ciale. Tra gli elementi che definiscono la comunità  bolognese - e tante al- tre che si sono formate in Italia e nel mondo sulla sua scia - c’è, non a ca- so, la gratuità dello scambio e del mutuo aiuto tra i membri, insieme a un’inclusività trasversale a qualsiasi categorizzazione etnica, anagrafica, culturale, socio-economica... e alla ricerca di uno spazio di socialità reale, da vivere nel quotidiano. Si crea così un percorso “dal virtuale al reale al virtuoso” che può anche produrre economia nel senso di risparmio e mi- glior uso delle risorse, ma prima di tutto una qualità della vita più appagan- te.