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Intervista di Marzia Giua al dott Gabriele Carbone: Prevenzione primaria, secondaria e terziaria per la demenza da malattia di Alzheimer
1. Newsletter n. 1 2017
Intervista al Dott. Gabriele Carbone,
di Marzia Giua
Oggi abbiamo avuto il piacere e l’onore di avere qui con
noi il Dott. Gabriele Carbone, neurologo responsabile
del Centro Demenze-Unità Alzheimer della Italian
Hospital Group di Guidonia (Roma) che ci parlerà di
alcuni temi molto interessanti, alcuni molto sconosciuti
o misconosciuti riguardanti l'Alzheimer. Abbiamo
preparato alcune domande per dirimere meglio, a nostro
avviso, alcune contraddizioni: quando si parla di
prevenzione e Alzheimer, come luogo comune, non è
forse una malattia conosciuta come non prevenibile?
“La malattia di Alzheimer è una patologia cronico
degenerativa, multifattoriale e geneticamente
complessa.In questi ultimi anni sono stati fatti progressi
molto importanti nella sua conoscenza ed è ormai
acclarato in letteratura che nel momento in cui si
manifestano i primi sintomi clinici il processo
neurodegenerativo che la sottende è già iniziato da
molti anni.Alterazioni di alcuni biomarcatori, che sono
gli indicatori del processo neurodegenerativo che ne
causa l’insorgenza, sono infatti dimostrabili 10-20 anni
prima della comparsa dei primi sintomi clinici di
malattia.
Questo ci dà la possibilità di attuare una prevenzione
sia intesa come prevenzione primaria che secondaria e
anche poi, a malattia conclamata, una prevenzione
cosiddetta terziaria.
La prevenzione primaria si rivolge sostanzialmente alla
persona sana, si propone di mantenere le condizioni di
benessere e di evitare la comparsa di malattie con
attività, azioni ed interventi che potenziano fattori utili
alla salute e allontanano o correggono fattori causali
delle malattie. L’insieme di questi interventi è quindi
finalizzato a evitare o ridurre la probabilità che si
verifichi un evento non desiderato; quindi riduzione dei
fattori di rischio e/o aumento dei fattori protettivi.
Anche per la malattia di Alzheimer si sono identificati
fattori che ne aumentano il rischio di insorgenza e tra
questi l'ipertensione, il diabete, l'obesità, il fumo, la
depressione e ancora una ridotta attività fisica e un
basso livello di scolarità (complessivamente tutti questi
fattori aumento del 50,7% il rischio di sviluppare
demenza).
Agire per ridurre questi fattori di rischio già in età
giovanile ci dà la possibilità di intervenire su condizioni
che intervengono nella genesi di questa patologia e fare
così prevenzione primaria.
La prevenzione secondaria è un intervento di secondo
livello che mediante la diagnosi precoce di malattia,
ancora in fase paucisintomatica, mira ad ottenere la
guarigione o comunque limitarne la progressione.
Consente cioè l’identificazione di una malattia o di una
condizione di particolare rischio seguita da un
immediato intervento terapeutico efficace, atto a
interromperne o rallentarne il decorso. Quindi fare una
diagnosi tempestiva, una diagnosi precoce aiuta a
mettere in campo una serie di interventi riabilitativi o
terapeutici per contrastare l’insorgenza. Oggi è
possibile fare una diagnosi precoce di malattia di
Alzheimer se si valutano con attenzione quelli che sono
i primi segnali di sviluppo della malattia. Pertanto,
anche se il processo neuropatologico è già iniziato molti
anni prima, se si individuano tempestivamente i primi
segni clinici, che di norma sono disturbi di memoria, si
possono mettere in campo tutta una serie di interventi
farmacologici, riabilitativi cognitivi, funzionali,
ambientali per ritardare la progressione della malattia.
Gli stessi farmaci che abbiamo a disposizione che sono
farmaci sintomatici, e non agiscono quindi sulle cause
della malattia, se utilizzati nelle fasi iniziali hanno
maggiori possibilità di dare benefici. Ed infine la
prevenzione terziaria che consiste in azioni volte al
controllo e contenimento degli esiti più complessi di una
malattia. Consiste in buona sostanza nel controllo
clinico-terapeutico di malattie ad andamento cronico o
irreversibili, ed ha come obiettivo quello di evitare o
comunque limitare la comparsa sia di complicazioni
tardive che di esiti invalidanti. Si intende anche la
gestione di deficit e di disabilità funzionali e
comportamentali conseguenti allo stato disfunzionale.
Si realizza attraverso misure riabilitative e assistenziali,
volte al reinserimento familiare, sociale e lavorativo, e
al miglioramento della qualità della vita attraverso
terapie farmacologiche e non farmacologiche ad es.
interventi di riabilitazione cognitivo-comportamentale;
supporto psicologico; interventi protesici negli
ambienti; ecc. Si attua quando ormai la malattia è
conclamata con l’obiettivo di evitare l'insorgenza di una
serie di disfunzioni, disturbi psicologici e del
comportamento, che sono generalmente secondari al
disturbo cognitivo.
La compromissione cognitiva spesso genera
aggressività, agitazione psico-motoria, deliri,
allucinazioni; in questi casi, con interventi ambientali e
di sostegno al caregiver, si possono attenuare o
addirittura evitare l’insorgenza di questi disturbi; anche
per queste manifestazioni non sempre i farmaci che
abbiamo a disposizione sono sufficientemente efficaci.”
Grazie Dottore, ma a questo punto sorge spontanea
un’altra domanda: si parla e si è parlato di affiancare
alla malattia dell'Alzheimer la parola tsunami: molti
2. indicatori danno la malattia in crescita; è in crescita in
senso assoluto, in senso relativo perché l'età media sta
crescendo, come vede questo problema della crescita del
numero di malati, o è solo perché semplicemente ne
scopriamo di più?
“L'aumento delle demenze in generale e dell’Alzheimer
in particolare è un fatto reale, tanto è vero che a
Ginevra nell’ultima Assemblea mondiale della sanità
(AMS) dell’OMS del maggio 2016, nella tavola rotonda
dedicata alle demenze è stato ribadito che “è necessario
uno sforzo comune a livello mondiale al fine di trovare
i mezzi per affrontare le conseguenze di questa
malattia” già considerata una “priorità di sanità
pubblica” dalla stessa OMS nel 2012 e che il G8 in uno
storico vertice tenuto nel 2013 l’ha considerata una
“emergenza sanitaria mondiale” tracciando una road
map che pone come primo obbiettivo l’identificazione
entro il 2025 di una “cura o una terapia che modifichi
il decorso della malattia”. E’ quindi una emergenza
sanitaria importante per la numerosità dei malati, la
lunga durata di malattia e per i costi non solo economici
sui sistemi socio-sanitari ma anche, e direi soprattutto,
emotivi che comporta sulle famiglie tanto da essere
definita una “malattia familiare”; mi piace a questo
punto ricordare una considerazione del presidente
dell'ordine dei medici che in una conferenza definì la
malattia di Alzheimer come una malattia che dà una
pena certa per i parenti dei malati che dovranno
assistere i loro cari per almeno 10-15 anni, ed
aggiungo, con un impegno progressivamente crescente
nel tempo.
E’ una malattia in aumento, in aumento soprattutto nei
paesi a medio e basso reddito, mentre in alcuni paesi ad
alto reddito si sono cominciate a fare politiche di
prevenzione che sembrano avere ricadute positive;
interventi di prevenzione che nei paesi a medio e basso
reddito probabilmente sono ancora insufficienti perché
comunque impegnati ad affrontare altre e altrettanto
importanti emergenze socio-sanitarie. E’ comunque una
malattia in aumento perché aumenta la vita media e c’è
una maggiore attenzione nel diagnosticarla. Ma se è
vero che la maggior parte dei pazienti con demenza
sono ultra 65cinquenni, c’è una percentuale pari all’
1% di persone con meno di 65 anni che viene colpito da
demenza; tenuto conto che nel mondo oggi si stimano in
quasi 48.000.000 le persone con demenza appare non
del tutto trascurabile il numero di soggetti giovani che
ne sono colpiti. In base a queste stime in Italia i soli
malati di Alzheimer con età inferiore 65 sarebbero oltre
7.000. Credo sia assolutamente intuitivo pensare quali
ricadute comporta sulla famiglia se un membro,
soprattutto se giovane, viene colpito da demenza.
Nel rapporto mondiale sull’Alzheimer del 2015,
vengono stimate in 9.900.000 il numero di nuovi casi
ogni anno - un aumento del 30% per cento rispetto alle
stime fatte nel 2010. Si prevede infine che le persone con
demenza dovrebbero raddoppiare ogni 20 anni,
raggiungendo 74,7 milioni nel 2030 e oltre 135,46
milioni nel 2050.
Stando a queste stime, nel mondo verrebbe fatta
diagnosi di un nuovo caso di demenza circa ogni tre
secondi. In Italia sono stimati in oltre 1.200.000 i malati
di demenza di cui almeno 600.000 sono malati di
Alzheimer.
Sicuramente è uno tsunami, è un'emergenza socio-
sanitaria mondiale e OMS, la comunità europea, il G8
esortano, e sono impegnati in, attività di ricerca per
individuare una terapia che sconfigga l’Alzheimer, nella
prevenzione e diagnosi precoce o comunque nel trovare
strategie per organizzare e garantire una serie di servizi
che possano prendere in carico il malato demente e la
sua famiglia durante il lungo decorso della malattia.”
Abbiamo già toccato quindi, anche se solo brevemente,
al problema dei farmaci. Il 24 novembre, e non posso
dimenticare questa data perché si pensava che il
successo fosse a portata di mano, una delle grandi
industrie farmaceutiche ha annunciato di dover
sospendere il 3° trial di una sperimentazione, perché gli
esiti non avevano dato minimamente i risultati attesi.
Le multinazionali del farmaco certamente non hanno il
problema di investimenti, ma ancora non si riesce a
trovare qualcosa in risposta sulla ricerca farmacologica?
“Sebbene la ricerca abbia fatto grandi passi avanti ed
individuato alcuni possibili target come obiettivi per gli
interventi farmacologici, ad oggi si testano questi
farmaci sperimentali in persone che hanno già la
malattia anche se nella fase lieve.
Vorrei ora ricordare che anche per la Malattia di
Alzheimer, così come in altre patologie
neurodegenerative, i primi disturbi si manifestano
quando è distrutto circa il 70% della popolazione
neuronale responsabile dei sintomi che questa malattia
comporta; ritengo importante fare questa
considerazione perché potrebbe forse giustificare i
fallimenti di questi studi; perché sebbene questi farmaci
abbiano una azione sulle placche amiloidee, e in questo
senso sta puntando la maggior parte dei ricercatori,
ormai la maggior parte della popolazione neuronale è
andata distrutta, quindi si può forse rallentare la
malattia ma probabilmente non in modo clinicamente
significativo e questo porta le aziende farmaceutiche ad
interrompere le sperimentazioni; per questo stesso
motivo c’è un grosso impegno dei ricercatori a scoprire
marcatori strutturali, funzionali o biologici che possano
identificare la malattia prima della sua insorgenza,
nella cosiddetta fase preclinica, che è quella lunga fase,
che potrebbe durare fino a vent'anni, che precede
l'esordio della malattia stessa.
Trovando un marcatore affidabile predittore di malattia
si potranno utilizzare questi farmaci sperimentali
somministrandoli molto prima che la malattia si
manifesti clinicamente e quindi
3. Avendo una popolazione neuronale ancora
sufficientemente integra. Sorgono tuttavia una serie di
problematiche di non
Facile soluzione perché, individuato il o i marcatori
ancora non sappiamo con certezza se e in quanto tempo
si svilupperà la malattia, tempo che può variare da
individuo a individuo, e sappiamo che le
sperimentazioni cliniche hanno una certa durata che
non può essere lunghissima.
A livello mondiale si stanno affrontando questi problemi
con l’obiettivo di individuare marcatori robusti che
possano darci informazioni anche del tempo di
progressione del processo neuro degenerativo per poter
così identificare la popolazione di pazienti che più possa
beneficiare di un nuovo trattamento misurandone i
benefici nel tempo di una sperimentazione clinica.
Un altro aspetto che vorrei ricordare è che la malattia
di Alzheimer è una malattia multifattoriale e cioè sottesa
non solo dall’accumulo di amiloide ma anche da altre
modificazioni fisiopatologiche. Credo quindi che sarà
necessario intervenire con dei cocktail farmacologici,
come avviene in oncologia o in altri settori della
medicina, in modo da utilizzare farmaci che abbiano
target diversi e che possono agire sulle molte alterazioni
target della malattia. Ho appena accennato alla
amiloide, le placche o meglio la formazione di oligomeri
di amiloide che sono considerati uno dei responsabili
patogenetici e ad oggi i maggiori sforzi si concentrano
nel trovare farmaci che agiscano su questo target.
In realtà potrebbe essere necessario agire anche su altri
target patogenetici, sappiamo infatti che oltre alla
formazione di placche amiloidee, si verificano
alterazione di strutture proteiche che portano alla
formazione dei grovigli neuro fibrillari, si crea uno
stato infiammatorio, una resistenza dei neuroni
all’insulina, un aumento dei radicali liberi, una perdita
di contatti tra le sinapsi; tutta una serie di alterazioni
che andrebbero contrastate, ecco perché dico che
probabilmente si potrebbe arrivare anche per
l’Alzheimer all'utilizzo di cocktail farmacologici
piuttosto che puntare su un solo target.”
Grazie, ci sta aprendo degli scenari non previsti e non
prevedibili. Lei prima ha accennato ad un dato
drammatico, quando ci sono i primi sintomi, ormai il
patrimonio neuronale è compromesso almeno al 70%. A
questo punto l’ultima domanda e praticamente
spontanea, deriva dal questo ragionamento: ma allora
visto che dobbiamo fare prevenzione, come facciamo a
convincere la popolazione, il cittadino medio, che non
vede questi problemi, come può essere informato e che
leve attuare perché sia bendisposto verso la
prevenzione?
“Io penso che primi tra tutti il Ministero della salute e
l’Istituto Superiore di Sanità debbano svolgere questo
compito attraverso campagne informative e formative
che sensibilizzino la popolazione a mettere in atto
interventi di prevenzione primaria che, come per molte
altre malattie, si basano principalmente su un corretto
stile di vita che comporti una adeguata dieta e attività
fisica; il solo praticare attività fisica ridurrebbe del
12,7% il rischio di sviluppare demenza. Sempre
nell’ambito della prevenzione primaria si deve
ricordare l’importanza di controllare l'ipertensione, il
diabete, contrastare l'obesità; e ancora insistere con le
campagne sul divieto di fumare (il fumo aumenta del
13,9% il rischio di demenza) e stimolare la
scolarizzazione (un basso livello di scolarità aumenta
del 19,1% il rischio di demenza). Credo che se queste
misure di prevenzione primaria si mettessero in atto, si
potrebbe osservare una riduzione della comparsa di
nuovi casi di demenza.
Questo ritengo si stia verificando in alcuni paesi
occidentali ad alto reddito i cui dati di incidenza sulla
demenza vanno in controtendenza rispetto ai dati
mondiali, perché indicano una riduzione di nuovi casi di
demenza.
E’ inoltre importante che accanto alla prevenzione
primaria si debba aumentare la sensibilità degli
operatori sanitari del settore nel fare molta attenzione a
cogliere i primi sintomi di malattia e magari non
considerare un disturbo di memoria come un fatto solo
correlato all'età: molti sono gli esempi di
ultraottantenni e ultranovantenni che non hanno
disturbi di memoria. Questa potrebbe essere la norma;
non è infatti normale avere disturbi di memoria che
progrediscono e che portano alla demenza.
Infine non meno importante è informare che, a diagnosi
fatta, molti sono gli interventi da attuare per contrastare
l’evoluzione della malattia, controllare le disabilità ed i
disturbi del comportamento che possono insorgere nel
suo lungo decorso.
Molto si può e si deve fare in attesa di una terapia
farmacologica che sconfigga l’Alzheimer, non
dimenticando che ci sono altre forme di demenza per le
quali gli interventi di prevenzione primaria secondaria
e terziaria sono ugualmente efficaci.
Una importante campagna informativa formativa sui
media ed a 360° che parta dalle Istituzioni preposte è
quanto auspico possa al più presto realizzarsi”.
Dott. Gabriele Carbone Nel 1983,
Laurea in Medicina e Chirurgia con
110/110 e lode - Università
Cattolica S. Cuore, Roma. Nel
1987, Specializzazione in
Neurologia con 70/70 e lode -
Università Cattolica S. Cuore,
Roma. Nel 2014-2015 Master
Universitario di II livello in Neurologia d'Urgenza con
110/110 e Lode - Università degli studi di Roma - Tor
Vergata - Facoltà di Medicina e Chirurgia.
4. Dal 2002 contratto a tempo indeterminato come
Responsabile Medico del Centro Demenze e dell'Unità
Valutativa Alzheimer (U.V.A.) dell’Italian Hospital
Group-SpA Guidonia (Roma).
Intervistato da Dr.ssa Marzia Giua
Psicologa, e Psicoterapeuta, Laurea di Psicologia
Clinica e di Comunità. Dal 2004 ha
saputo raggiungere una serie di
traguardi e specializzazioni di rilievo
nei settori qui di seguito sintetizzati:
Psicoterapeuta Sistemico Familiare e
Relazionale, Master in Mediazione
familiare, Master in Psicodiagnostica
e Valutazione Psicologica, Consulente per la Procura di
Roma per la valutazione di idoneità generica e specifica
di persone minorenni, Consulente Tecnico Psicologa per
la Procura della Repubblica di Roma, per raccolta
sommarie informazioni in casi giudiziari con persone
minorenni, Perito del Tribunale Ordinario di Roma
sez. Penale di Roma, e membro del Comitato d’Area del
Gruppo di Lavoro “Violenza nelle Relazioni Intime”
(IPV) dell’Ordine degli Psicologi del Lazio. Nel 2016 si
specializza in terapie secondo il metodo clinico EMDR
(eye movement desen-sitization and reprocessing). Dal
2017 è membro della Rete di Orientamento al lavoro e
Sviluppo di carriera dell’Ordine Psicologi Lazio. E’
socia di APA (American Psychological Association).
Riferimenti:
Mobile Phone: +39 335 398188
E-Mail: giua.marzia@gmail.com