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CORSO DI LAUREA DESIGN DELLA COMUNICAZIONE

TESI

POLITECNICO
MILANO
ROVINEDI CONTEMPORANEE
FACOLTÀ DEL DESIGN

FOTOGRAFIA E CINEMA COME RAPPRESENTAZIONE
DELLE REALTÀ POSTINDUSTRIALI

CORSO DI LAUREA DESIGN DELLA COMUNICAZIONE

TESI

ROVINE CONTEMPORANEE
FOTOGRAFIA E CINEMA COME RAPPRESENTAZIONE
DELLE REALTÀ POSTINDUSTRIALI

STUDENTE

SERENA PREVITALI
MATRICOLA 207291
RELATORE
PROF. SALVATORE

ZINGALE

ANNO ACCADEMICO 2006/2007
Il progetto di tesi ha avuto oorigine da una serie fotografica che percorre le topografie alternative del territorio urbano e vuole indagarne il
senso.
La tesi si divide in due momenti: uno analitico e uno progettuale.
L’analisi mira a indagare, a partire dagli anni Ottanta fino ai giorni nostri, come a fronte di una mutazione radicale del territorio e della realtà
stessa nell’epoca post-industriale sia nata un’esigenza di interpretazione di questa nuova realtà, e come i linguaggi visivi, immagine fissa e in
movimento, abbiano negli anni tentato di dare una risposta a questa necessità. Ho portato come esempio artisti che hanno lavorato a lungo sui
luoghi e sul senso della loro rappresentazione, facendo di tale questione
il loro centro di indagine: primi fra tutti, Ghirri e Wenders.
La parte progettuale nasce dall’incontro con la società Leggeri SpA per
la progettazione dell’evento inaugurale di uno spazio per l’arte contemporanea nell’ex cementificio Italcementi di Alzano Lombardo, Bergamo.
Il progetto spazia dalla comunicazione del luogo (immagine coordinata
e sue applicazioni, fruizione dello spazio) alla vera e propria realizzazione di una serie fotografica e di un video da presentare come opere.
Il soggetto di tali opere, coerentemente all’analisi svolta, è uno sguardo
sulla condizione umana contemporanea colta attraverso lo sguardo fotografico sul territorio.
abstract
Serena Previtali
Rovine contemporanee
Fotografia e cinema come rappresentazione delle realtà postindustriali
Ghirri

Wenders

Rovine

Nel corso del tempo

67

rovine contemporanee: il senso

119

La riflessione metasemiotica 13

Paris, Texas

80

rovine contemporanee nell’arte

122

La serie e l’opera aperta

16

Il cielo sopra Berlino

100

rovine contemporanee come strumento

132

I luoghi come ritratti

22

Bibliografia Ghirri

216

Conclusioni

134

Viaggio e paesaggio

25

Bibliografia Rovine

217

Viaggio in Italia

30

Bibliografia Ghirri

216

e la nuova fotografia italiana

L’indagine fotografica



e il cinema esplorativo

11

contemporanee
Progetto
Moresco

Lo Spazio Moresco

161

Identità visiva

164

Evento inaugurale

172

indice
Ghirri

e la nuova fotografia italiana
Ghirri

L’INDAGINE FOTOGRAFICA
Affascinata dalla fotografia di paesaggio urbano, di archeologia industriale,
delle rovine, e in generale del territorio che caratterizza lo sguardo della
nostra era post moderna, ho voluto approfondire tale sguardo: indagarne l’essenza, capirne la provenienza.
La passione per la fotografia e l’addentrarsi nel territorio mi ha portato
negli anni a compiere esplorazioni urbane sempre più frequenti, effettuate senza cartina, dettate dal caso, lasciandomi guidare dalla contingenza del momento, privilegiando sempre i retrovia dei luoghi, delle vie
più affollate, immensi backstage dimenticati della nostra società. Mi affascinavano i colori e i disegni delle pareti sgretolate, l’interazione della
traccia umana con gli elementi fisici, il sovrapporsi di tracce di segni che
generano nuovi sensi, l’impossessarsi da parte della natura del rigido
elemento architettonico, il silenzio che accompagnava le scene, rotto dai
rumori della vita altrove. Percepivo un valore nel compiere quei percorsi, ma non riuscivo ad afferrarlo. Ne è prova il fatto che le fotografie che
scattavo durante le esplorazioni sono state perse per la mia incapacità di
inquadrarle in un percorso di senso, o addirittura da me eliminate perché lì per lì giudicate brutte, poco gradevoli. Mi rendevo conto di quanto
le mie immagini fossero distanti dall’ideale di fotografia che si identifica con la fotografia commerciale, ben composta, con luce ed elementi
studiati, e percepivo un disagio in questo scarto che esisteva, che non
sapevo e non volevo colmare: le mie immagini, se fossero state troppo
artificiose e studiate avrebbero perso il loro senso, che non stava tanto

11
nell’immagine in sé ma nell’atto che l’insieme di immagini sottendevano
e che era insito proprio nel loro essere imprecise e non programmate.
Ho iniziato perciò a raggrupparle e catalogarle, ad apprezzarle: messi in
serie, quegli scatti raccontavano, mi davano un’indicazione di senso.
L’avvicinamento alla storia della fotografia, e in particolare alla fotografia italiana dagli anni Settanta a oggi, mi ha portato a conoscere il
lavoro di Luigi Ghirri e del suo progetto Viaggio in italia. Conoscere e
approfondire il lavoro di quest’autore mi ha aiutato a inquadrare il mio
percorso, a metterne in luce aspetti fondamentali, a capire come il suo
fotografare fosse il risultato di una serie di processi più o meno inconsci,
tentativo di risposta al disagio dell’uomo post-moderno che si concretizza anche con una difficoltà a rapportarsi con il territorio.
Il lavoro di Ghirri è importante perché completo: egli infatti è uno dei
pochi fotografi che ha affiancato la sua produzione a una ricca riflessione
teorica sul mezzo fotografico. Ghirri è inoltre stato uno dei promotori di
quella che venne chiamata nuova fotografia italiana, determinando la
nascita di un nuovo modo di fotografare più concettuale, che punta alla
rappresentazione dell’uomo attraverso i luoghi, gli oggetti, il paesaggio,
e che ha influenzato l’attuale fotografia a tal punto che è stato coniato il
modo di dire “siamo tutti figli di Ghirri”.
Ma perché l’apporto di Ghirri è stato fondamentale per il mio progetto,
e in generale per la fotografia italiana ed europea?
Tento di rispondere sintetizzando l’immensa operazione di ricerca del-

12

l’autore in quattro punti, che argomenterò successivamente apportando
esempi, approfondimenti e citazioni:
1) la riflessione metasemiotica sulla fotografia;
2) il concetto di serie e di opera aperta;
3) i luoghi come ritratti;
4) la concezione del viaggio.
Ghirri

La riflessione metasemiotica
Grande apporto di Ghirri alla fotografia italiana è stato il suo approccio
metasemiotico alla fotografia. Metasemiotico come metalinguaggio, riflessione sopra (meta) il linguaggio, e identifica “ogni sistema linguistico
per mezzo del quale è possibile analizzare i simboli e le strutture del
linguaggio ordinario” (Zingarelli).
Quando si parla di metasemiotica o di metalinguistica ci si riferisce anche a una delle sei funzioni della comunicazione teorizzate da Jacobson
e assunte oggi come modello base della struttura di ogni atto comunicativo: come evidenziato in figura 1, l’atto del comunicare viene suddiviso
in sei fattori e sei funzioni, ognuna delle quali è svolta da un attore del
processo comunicativo (destinatore, mittente, destinatario, messaggio,
canale, contesto semantico o riferimento). Ogni fattore svolge una funzione e, come vediamo, la funzione associata al messaggio (all’artefatto
fotografico, nel nostro caso) è quella metalinguistica, vale a dire la riflessione sui modi dell’espressione (altrimenti, ma non del tutto propriamente, riassunti sotto il termine “codice”) che concorrono alla formazione del messaggio. Poichè il tipo di canale utilizzato influenza il tipo di
espressione da utilizzare, possiamo affermare che canale ed espressione,
e quindi funzione fàtica e funzione metasemiotica, sono strettamente
collegate. Ghirri perciò, riflettendo sui modi dell’espressione fotografica
sposta di riflesso anche la sua azione sul mezzo fotografico.
Nella nostra epoca in cui “la realtà è diventata uno strato opaco e denso
di immagini che si sovrappongono alla realtà e a se stesse” (Gravano,

in rete il 20/07/07) un’epoca in cui tutto è immagine e tutto è comunicazione, la riflessione sui modi dell’espressione e sul mezzo fotografico è quanto mai preziosa e utile per sviluppare una visione critica.
Soprattutto se si tiene in considerazione che i modi dell’espressione e
il canale, nello studio della comunicazione, sono sempre stati piuttosto trascurati, messi in secondo piano rispetto ad altri aspetti, quali ad
esempio la forma del messaggio. Ma la comunicazione è impensabile
al di fuori di un canale e di un mezzo. Si può infatti, paradossalmente,
avere un atto comunicativo solo perché un certo canale è stato attivato,
anche in assenza di un vero e proprio messaggio (si pensi a una email
vuota: comunica che c’è stata una volontà o un tentativo di comunicazione, pur non essendoci un messaggio veicolato). Viceversa, se c’è un
messaggio ma non un canale e una forma di espressione, e di una comunanza di linguaggio, non esiste comunicazione (posso avere molte cose
da dire a una persona lontana, ma se non ho un telefono e non parlo la
sua lingua non posso farlo).
Abbiamo perciò chiarito che la metasemiotica è una riflessione sui modi
d’espressione, sui codici e altre forme di intesa, strettamente collegati al
canale, e abbiamo compreso l’importanza di tali aspetti. Nel caso specifico ci riferiremo ai modi di espressione visuali (iconici e indicali) e al
mezzo fotografico.
Veniamo ora a Ghirri, cercando di capire perché e in che senso il suo
approccio metasemiotico alla fotografia è innovativo. Egli non è stato in

13
effetti né l’unico né il primo a soffermarsi su tali questioni: è stato anzi
scritto moltissimo dai più svariati autori delle più svariate discipline
su questo argomento, così complesso e controverso. La particolarità di
Ghirri è stata quella di suscitare riflessioni sul mezzo fotografico facendone uso: sono cioè le sue stesse serie fotografiche a muovere, suscitare,
attivare pensieri relativi alla fotografia e al fotografare.
Dicendolo con Peirce, le fotografie di Ghirri sono esempi eccellenti di
interpretanti che si ripropongono come oggetti dinamici, oggetti cioè
che producono qualcosa, che provocano un movimento nella mente dell’osservatore, che generano senso.
Ma per meglio comprendere l’operazione di Ghirri prendiamo in esame
la sua serie fotografica intitolata Still Life, in cui la riflessione metasemiotica è particolarmente evidente e significativa.
Il senso che egli vuole dare è provocazione e ribaltamento dell’area semantica indicata dal titolo. Lo still life è per definizione un genere di
fotografia in cui un oggetto è rappresentato fuori dal suo contesto, nella
maniera più didascalica, neutra e piacevole possibile, in cui perciò l’occhio del fotografo, il suo atto interpretativo tendono a scomparire. Ghirri
paragona implicitamente lo still life indicato nel titolo alle immagini che
lo circondano e che affollano i canali della comunicazione, immagini a
tutti i costi “belle”, costruite, forzate, false, ma che non attirano l’attenzione dell’occhio umano perché vuote, e vuole indicare la strada per una

14

possibile soluzione, un possibile opporsi a questo tipo di immagine.
Ma come opera un simile ribaltamento? Come costruisce la metafora?
Attraverso il mezzo fotografico stesso, e proprio qui sta la sua forza espressiva. Si osservino le immagini 1-7: gli oggetti, per la tecnica
con la quale sono ripresi (inquadrando sempre e solo l’oggetto senza
il suo contesto) e la didascalia che recano, sono formalmente degli still
life. Avvertiamo però che c’è sempre qualcosa, un elemento, che genera ambiguità, che ci fa improvvisamente percepire la distanza fra noi e
l’oggetto rappresentato: “in queste fotografie l’oggetto fotografato entra
direttamente in dialogo con il mondo fisico, mediante ombre, segni del
tempo, sovrapposizione di oggetti o eventi minimi che hanno bisogno di
una lunga lettura per essere scoperti” (Ghirri, 1997, p. 41).
Il soggetto della fotografia è il ritratto della donna come siamo stati abituati a pensare o è quel cappello appoggiatovi? E perché è stato messo
lì? Perché è stato fotografato?
Improvvisamente, di fronte a un’immagine iniziamo a porci delle domande anziché contemplarla o a prenderla come dato di fatto; e le domande riguardano l’atto del fotografare. Ecco in che senso l’operazione
di Ghirri è metasemiotica, perché usando il codice fotografico riesce a
far parlare di esso.
La costanza con cui questi elementi compaiono in tutte le fotografie
della serie indica che non si tratta né di un caso né di un errore, bensì
di un atto progettato. Tali elementi sono una sorta di interferenza che,
Ghirri

frapponendosi fra noi e l’oggetto rappresentato, ci spiazzano facendoci
avvertire la presenza del canale, del mezzo fotografico; è come quando
parlando al telefono sentiamo gracchiare la linea: solo allora prendiamo
coscienza che stiamo utilizzando un canale e ci interroghiamo sul suo
corretto funzionamento. Questo nostro interrogarci sul mezzo, suscitato
dalla visione in serie degli scatti, è per di più fomentato dal significato
del titolo: tutte le didascalie delle fotografie recano scritto Still life, e
nessuna di esse sembra esserlo. “Le immagini, contrariamente a quanto
suggerisce il titolo della serie, non rimangono inerti fondali, ma assumono senso ulteriore, significato secondo, con il diretto rapporto con il
reale. Il David trova nei mozziconi dei sigaretta del posacenere momento di attivazione, dichiara della propria storia e della sua presenza oggi.
Il paesaggio nel piatto dimentica il suo destino decorativo, e trova nel
cannocchiale sovrapposto il senso del gesto che vuole sottendere: il suo
offrirsi allo sguardo” (Ghirri 1997, p. 41).
Ecco dunque come Ghirri, intrecciando campo semantico e campo visivo riesce lentamente ma con forza ad attivare una riflessione sul fotografare, e a comunicare il suo senso del fotografare: “fotografare è sovrapporre un’immagine preesistente con il momento presente, un’immagine
ultima che diventa così immagine altra. [...] La fotografia non è pura
duplicazione o un cronometro dell’occhio che ferma il mondo fisico, ma
un linguaggio nel quale la differenza fra riproduzione e interpretazione,
per quanto sottile, esiste e dà luogo a un’infinità di mondi immaginari.

Anche gli oggetti che sembrano essere interamente descritti dalla vista
possono essere, nella loro rappresentazione, come le pagine bianche di
un libro non ancora scritto” (Ghirri, 1997, p. 47).
L’immagine altra di cui parla è perciò l’essenza della fotografia che individua non nella rappresentazione già data, né nella registrazione del
momento, ma dall’interazione e lo scarto di questi due elementi che “genera un’apertura a infinite possibilità percettive.”
Queste affermazioni non sono dichiarazioni perentorie ma tentativi di
indagine, per dare corpo a un “linguaggio”, fotografico e non, che parte
dalla presa di coscienza dei limiti della semiosi visuale attuale. È questo
che intende Ghirri quando parla di “una fotografia che abbia come presupposto uno stato di necessità”.
I limiti del linguaggio visivo contemporaneo che egli individua sono riconducibili a due aspetti:
­ la tendenza a creare immagini forzate, costruite, false, vuote, perfette,
che modificano, trasformano, occultano la realtà e cercano di attirare
l’attenzione creando choc visivio-emozionali;
- la parcellizzazione del vedere, generata dalla proliferazione di questo
tipo di immagini false, che porta a una stimolazione percettiva sempre
più veloce impedendo di vedere con chiarezza.
Il linguaggio attuale, in sostanza, ha come effetto una percezione distorta e troppo frammentata della realtà, e confonde stordendo, invece di
chiarire.

15
La serie e l’opera aperta
A una fotografia che trasforma, occulta emodifica la realtà Ghirri oppone
una fotografia per vedere: “ nessuna violenza o choc, nessuna forzatura,
ma il silenzio, la leggerezza, il rigore, per poter entrare in contatto con
le cose, gli oggetti, i luoghi” (Ghirri, 1997, p.78). Di fronte a stimolazioni
sempre più frequenti e parcellizzate egli vede nella fotografia un importante momento di pausa e riflessione.
Il nuovo tipo di fotografia che si impone come necessaria è allora un mezzo conoscitivo, mezzo discreto e silenzioso, che non inganna lo sguardo e
che anzi lo aiuta, riuscendo a fermare la realtà e riattivando così i nostri
circuiti dell’attenzione fatti saltare dalla velocità dell’esterno: “Bisogna
ricercare una fotografia che instauri nuovi rapporti dialettici tra autore
ed esterno, nuove strade, nuovi concetti, nuove idee, per entrare in rapporto con il mondo, cercarne modalità di rappresentazione adeguate,
per restituire immagini, figure, perché fotografare il mondo sia anche un
modo per comprenderlo” (Ghirri, 1997, p.79).

16

Nel paragrafo precedente abbiamo familiarizzato con il modo di operare
di Ghirri che ci ha portato a capirne il motore, ovvero la necessità di
cercare un nuovo linguaggio. La citazione che ora riporto è logica conseguenza di quanto fin ora affermato e ci introduce al concetto di opera
aperta, in realtà già affrontato senza averlo così definito.
“(…) La mia idea di opera fotografica nasce da tutte queste considerazioni, l’idea quindi di una opera aperta. Non perché, semplicemente, mancano alcune tessere per ultimare il puzzle, ma perché ogni singolo lavoro
si apre su di uno spazio elastico, non si esaurisce in un’entità misurabile,
ma sconfina, un continuo dialogo tra quello terminato e quello che sarà”
(Ghirri, 1997, p. 79). Parlando di opera aperta perciò Ghirri si riferisce
alla potenzialità conoscitiva, di portare “oltre” che il nuovo linguaggio
da lui sperimentato e teorizzato ha.
Le sue considerazioni, così acute e di largo respiro, hanno la loro eco: si
inizia a dibattere sul tema, e a porsi l’importantissima e tuttora trascurata questione di educare lo sguardo. Riporto a proposito un estratto del
programma del seminario tenutosi all’Università di Parma nel 1984, che
sembra proprio riferirsi all’apertura incitata da Ghirri:
“L’insegnamento della fotografia dovrebbe delineare, alternando aspetti
teorici e pratici, un approccio estremamente variegato e non codificato
con la fotografia, per ricercare nuove figure, modi e metodi di rappresentazione. Al di là di intenti descrittivi e illustrativi la fotografia si con-
Ghirri

figura così come metodo per guardare e raffigurare i luoghi, gli oggetti, i
volti del nostro tempo, non per catalogarli o definirli, ma per scoprire e
costruire immagini che siano anche nuove possibilità di percezione. In
definitiva, l’impegno è quello di cercare un’immagine in equilibrio fra la
rilevazione e la rivelazione (…). Per raggiungere questa finalità, le analisi
e le connessioni con altri linguaggi espressivi consentono la formazione
di un corretto e aggiornato sistema di approccio all’ immagine fotografia, non relegandone la conoscenza in un restrittivo specifico” (Ghirri,
1997, p. 63).
Ma veniamo ora al concreto. Abbiamo visto come l’ideale di opera aperta si possa definire come la ricerca di un linguaggio fotografico che sia
strumento di indagine e conoscenza di una realtà che è complessa, articolata e non riducibile; tale ideale si traduce in un metodo di lavoro:
l’operare per serie fotografiche e non per singoli scatti.
Mi appoggerò alle definizioni di serie date dal dizionario per mostrare in
che senso e perché il lavorare in serie di Ghirri è innovativo e costituisce
il modo più naturale e sensato – forse l’unico – di fotografare.
serie
• dal lat. serie (m) “fila”, da serere “concatenare” (Zingarelli).
L’etimologia della parola mette bene in rilievo il concetto di serie concepito da Ghirri: in quel “concatenare” individuo il progressivo e infinito
costruire, comporre, articolare. Ciò non vuol dire che prima di lui nessu-

no costruisse delle serie; la serie fotografica, dal momento in cui mettere
in fila delle fotografie è di per sé un mettere in serie, è sempre stata usata
dai fotografi, ma senza quell’accezione di apertura che più si avvicina
alle altre definizioni di serie date dal dizionario:
serie
• successione ordinata di cose, fatti, persone, connesse fra loro e disposte secondo un certo criterio di ordine; (Zingarelli);
• molteplicità di pezzi finiti, uguali tra loro e prodotti in un certo periodo
in modo unitario relativamente a mezzi produttivi e metodi di lavoro.
(Zingarelli).
La serie fotografica, per come era tradizionalmente concepita, consisteva infatti in un accorpare, mettere insieme più o meno forzatamente immagini che avessero in comune il tipo di soggetto ripreso (una serie di
ritratti ad esempio), un aspetto stilistico (fotografie in bianco e nero), la
tecnologia utilizzata (delle polaroid), il punto di vista (fotografia aerea),
e così via.
Ghirri vede in questo modo di concepire la serie fotografica un tentativo sterile e inconcludente di archiviazione e catalogazione, un modo di
mettere ordine, di concludere. Per lui la serie ha invece senso nel suo
dis-ordine (nel senso che l’ordine non è prestabilito ma si forma nella
mente dell’osservatore) e nella sua apertura (poiché mediante accosta-

17
menti successivi deve suggerire, indicare, interrogare più che affermare
perentoriamente). Tutto ciò indipendentemente dalla coerenza tecnica
o stilistica delle immagini.
Anche in questo caso la riflessione teorica viene applicata, dimostrata,
chiarificata dalla pratica del fotografare: il concetto di serie e tutte le sue
implicazioni che sono alla base di tutti i suoi lavori, è particolarmente
esplicito nei suoi lavori Catalogo e Infinito e Kodacrome che ne mostrano tre diversi aspetti, sfumature.
Nella prefazione al suo lavoro Catalogo, Ghirri spiega con molta chiarezza la sua posizione sulla fotografia che fa l’inventario del reale, e
quindi del paesaggio: “Le analogie rigorosamente geometriche di queste
fotografie combaciano con quelle architettoniche, con la mia formazione
culturale, non dimenticano tuttavia come sempre che all’interno dello
schema tracciato le combinazioni espressive delle tessere sono infinite.
(…) Non ho voluto attenermi rigorosamente a quanto potrebbe suggerire il titolo scelto, ma ho piuttosto cercato di suggerire che, al di là di
schematiche e facili accumulazioni, il significato è di depositare i dati
per operare distinzioni, collegamenti, sottolineare rapporti, smontare
meccanismi” (Ghirri, 1997, p.24).
Ghirri sceglie quindi provocatoriamente di intitolare questa serie, scattata tra il 1970 e il 1979, e dedicata alle superfici esterne della città, dai
murales alle saracinesche ai muri di periferia, Catalogo, proprio per

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poter criticare aspramente, sia fotografando sia scrivendo, questa vocazione classificatoria e d’archivio, che negli anni Ottanta e Novanta in
Italia avrà un seguito fin troppo scontato. Proprio per fugare ogni dubbio sulla posizione ghirriana in proposito, basta leggere la fine del testo
appena citato: “La proliferazione delle catalogazioni, nel senso letterale
del termine (tutti i camion, tutte le scritte, tutti i gadgets, ecc.) sembra
effettivamente ricordare che stiamo preparando i documenti da portare
sull’Arca di Noè; ma in questi depositi di oggetti, gesti, persone, non
ritengo stia una validità testimoniale più ampia, una accumulazione di
prove; ma pur nell’inevitabile limitazione, una totale accettazione del tic
che si vorrebbe negare: il collezionismo come anestesia dello sguardo”
(Ghirri, 1997, p.25).
Veniamo ora a Infinito: anche in questo caso, come per Still life e
Catalogo, egli gioca con il significato del titolo, estremizza il concetto
di serie e l’aspetto di compiutezza che tradizionalmente gli viene dato
per mostrarne le contraddizioni. La sua è un’efficace dimostrazione per
assurdo.
Egli vuole mostrare che la fotografia non può rappresentare la realtà
nella sua interezza e complessità, e si oppone al modo di fotografare il
“momento fermato viene letto come folgorazione e illuminazione di verità” (Ghirri, 1997, p. 36); vuole mostrare come ciò sia una presunzione,
una contraddizione con il linguaggio fotografico.
Ghirri

Per dimostrarlo fotografa per un anno intero, una volta al giorno, il cielo
ottenendo così 365 immagini del cielo, che poi devono essere assemblate
in modo da formare un unico grande pannello. In un suo testo di introduzione a questo lavoro, pubblicato nel 1979, Ghirri scrive: “In Infinito,
la sequenza temporale di un anno per un totale di 365 fotografie è così
anch’essa insufficiente per ridare un’immagine del cielo. Neanche un
linguaggio fotografico, iterazione, ripetizione progettata, sequenza temporale, è sufficiente a fissare l’immagine di un aspetto naturale. Infinito
diventa così un possibile atlante cromatico del cielo; 365 possibili cieli” (Ghirri, 1997, p. 29). Già in questa prima semplice descrizione della
procedura è chiaro come il termine principale sia “possibile”. Ghirri dichiara subito che la sua fotografia “non descrive in modo esaustivo, non
pretende di fissare, non prevede l’idea di una definizione inalterabile del
reale. La sua immagine, volutamente paradossalmente tassonomica e
scientifica del reale, serve una volta di più a dimostrare l’impossibilità
della rappresentazione ultima” (Ghirri, 1997, p. 36).
Così formulato, il lavoro può suggerire l’impossibilità, l’inutilità di fotografare, essendo la realtà esterna illimitata, ma “è invece in questa non
possibile delimitazione del mondo fisico, della natura, dell’uomo che la
fotografia trova validità e senso. In questo suo non essere linguaggio assoluto, e nel farci riconoscere la non delimitabilità del reale trova la sua
naturalità e la sua autonomia” (Ghirri, 1997). Infinito è dunque dimostrazione non che la fotografia è un linguaggio parziale e limitato perché

frammentario, ma che la fotografia è il linguaggio di rappresentazione
della realtà perché si presta a mostrare la frantumazione e atomizzazione che è insita nella realtà stessa, e l’unica metodologia di lavoro che si
presta a tale compito è il procedere per serie.
Tutto sta in questa dichiarazione dell’impossibilità della fotografia di essere “linguaggio assoluto” in favore della “non delimitabilità” del reale:
la natura, intesa come paesaggio, come tutto il reale, compreso quello
metropolitano, non può essere costretta per sempre, inderogabilmente
in nessuna definizione da dizionario. Ruolo del linguaggio visivo non
è quindi definire, ma semmai svelare l’indefinibilità: trovare i modi e i
tempi per raccontare la sua pluralità. È così che Ghirri non si incarica di
fotografare il cielo, ma 365 possibili cieli, e quella stessa mappa mobile
non restituisce un’immagine del cielo, ma forse, in parte, una minuscola
parte di opportunità di evocare il cielo. Con un procedimento mentale
quanto mai al limite, Ghirri porta poi l’operazione alle estreme conseguenze, e nel pannello finale di Infinito, ripete più volte la stessa foto,
la gira, la inverte, in modo da contraddire, ancora più sottilmente, questa idea ottusa della catalogazione giornaliera. Scrive chiaramente che
Infinito è una sorta di sublime esercizio per dimostrare la “impossibilità
di tradurre i segni-naturali” (Ghirri, 1997, p. 36). Quest’opera di Ghirri,
un po’ come tutto il suo lavoro, trova un’eco forte in certe affermazioni
che George Perec faceva sulla sua scrittura: “ [...] dalla successione dei
miei libri nasce in me la sensazione, a volte confortante, a volte sconfor-

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tante (perché sempre sospesa a un “libro a venire”, a un incompiuto che
rimanda a quell’indicibile verso cui tende disperatamente il desiderio di
scrivere), che essi percorrono un cammino, segnalino uno spazio, demarchino un itinerario incerto, descrivano punto per punto le tappe di
una ricerca di cui non saprei spiegare il “perché” ma soltanto il “come”:
confusamente, sento che i libri che ho scritto si inscrivono e trovano
un loro senso nell’immagine globale che mi faccio della letteratura; ma
mi sembra anche che non potrei mai cogliere con precisione questa immagine: essa è per me un al di là della scrittura, un “perché scrivo” al
quale non posso rispondere che scrivendo, rinviando continuamente il
momento in cui, cessando di scrivere, questa immagine diventerebbe
visibile, come un puzzle quando è definitivamente terminato” (Perec in
Gravano, in rete il 20/07/07).
E di puzzle come metafora Ghirri parla spesso proprio a indicare l’operazione del fotografare: “selezionare le tessere del puzzle che già esistono nella realtà per compiere un paziente lavoro di incastro, misurazione,
raffronto, memorizzazione della tessera scartata per poi riprenderla più
avanti” (Ghirri, 1997, p. 34). Grazie a questa operazione di districazione si ricompone con metodo, pezzo per pezzo, un’immagine leggibile.
Immagine che non è la sola, non è rappresentazione univoca e imprescindibile, ma che è una delle infinite possibili a partire dai frammenti
di cui il reale è composto. “L’immagine che si completa alla fine non
diventa soluzione dell’enigma perché lo stesso puzzle ricomposto viene

20

rimesso di nuovo nel flusso dell’esistenza, e diventa ulteriore tessera da
collocare. In questo senso l’operazione sembrerebbe inutile, ma all’interno della consapevolezza di questa reificazione rimane pur vero che
una tessera nei suoi componenti si è ricomposta” (Ghirri, 1997, p. 34).
In Kodacrome, serie realizzata tra il 1970 e 1978, Ghirri chiarifica e approfondisce il concetto appena introdotto con Infinito della frammentarietà
del reale e della fotografia come linguaggio, come mezzo d’indagine. Nella
prefazione alla serie stessa infatti egli ribadisce il concetto sottolineando
come il mezzo fotografico sia il mezzo di rappresentazione per eccellenza: definisce in modo chiaro cosa è per lui la fotografia affermando che
questa non concerne solo l’inquadratura, ma anche tutto quello che ne
resta fuori, indicando come procedimento essenziale sia il comprendere
una parte, sia il cancellare tutto il resto non inquadrato. “Questo duplice
aspetto di rappresentare e cancellare non tende soltanto a evocare l’assenza di limiti, escludendo ogni idea di completezza o di finito, ma ci indica
qualcosa che non può essere delimitato, cioè il reale” (Ghirri, 1997, p. 19).
Il reale, quindi tutto il visibile, non è delimitabile e quindi descrivibile
definitivamente. In questa dichiarazione si celano due interessanti e fondamentali prese di posizione rispetto al dibattito teorico sulla fotografia in quegli anni in Italia, ma anche in Europa. Da un lato l’avversione
esplicita verso le teorie bressoniane del fotogramma perfetto, inalterabile in stampa, dell’attimo unico e irripetibile, contro le quali Ghirri scrive
Ghirri

esplicitamente: “Per questo non mi interessano: le immagini e i momenti decisivi, lo studio e l’analisi del linguaggio fine a se stesso, l’estetica, il
concetto o l’idea totalizzante, l’emozione del poeta, la citazione colta, la
ricerca di un nuovo credo estetico, l’uso di uno stile” (Ghirri, 1997: 19).
Dietro queste affermazioni da manifesto, dal tono perentorio e dichiarativo, si intravede la sua volontà di non cadere nell’idea della fotografia
come teoria estetica fissa, di contemplazione passiva del “già bello di per
sé” del reale.
La serie dei Kodachrome, realizzata tra il 1970 e il 1978, sono un gruppo di immagini scattate per la strada, quindi nel paesaggio urbano, che
vedono strane sovrapposizioni, strane stratificazioni di visioni che fanno chiaramente pensare a delle elaborazioni del fotografo, a dei veri e
propri assemblage. Tutte le immagini sono invece trovate così come le si
vede nel reale: sono objets trouvés, riciclati dallo sguardo del fotografo.
“Molti (e non solo per questo lavoro) hanno visto o scambiato queste fotografie per fotomontaggi; questi che io invece chiamerei fotosmontaggi, vogliono anche testimoniare di un colossale fotomontaggio esistente
e cioè quello del mondo fisico. (…) La realtà in larga misura si va trasformando sempre più in una colossale fotografia e il fotomontaggio è
già avvenuto: è nel mondo reale” (Ghirri, 1997: 22). Ghirri trova ancora
molteplici piani di lettura del reale. Il mondo appare come un gioco infinito di contaminazioni, di giustapposizioni, di mescolanze che lo sguardo può cogliere a diversi livelli. Il fotografo non monta un nuovo visibile

ma decostruisce con lo sguardo l’esistente. L’atteggiamento di Ghirri
non è quello del passivo registratore, non è del semplice rilevatore, ma
piuttosto insegna a spostarsi di quel centimetro che permette di vedere,
che palesa un’ulteriore realtà poco riconoscibile dallo sguardo normale.
Ghirri dice più volte che la sua fotografia del banale non mostra ciò che
già si vede ma ciò che crediamo di vedere. “Il mio tentativo di vedere
ogni cosa che è già stata vista, e di osservarla come se la guardassi per
la prima volta, può apparire presuntuoso e utopistico. Ma attualmente è
questo che mi interessa maggiormente” (Ghirri, 1997, p. 47). Lo sguardo
allora diviene costruttore di una inedita tangibilità visiva che non è però
finzione, ma piuttosto è la visione disincantata, e svincolata da regole, di
chi si può permettere un vedere multiplo.
Kodacrome sottolinea dunque che la frammentarietà è nel reale e che
l’abilità del fotografo sta proprio nel saper cogliere, fermare, far significare tale complessità che è invece spesso responsabile di un calo di
attenzione di fronte al troppo pieno. Kodacrome è anche l’affermazione
dell’atteggiamento del fotografo come colui che “trova”, non certo di colui che costruisce: tutto quello che si rispecchia nelle fotografie di Ghirri
sono situazioni e oggetti “rinvenuti” come reperti di un’archeologia del
presente, del quotidiano, dell’usuale.
In effetti, è semplicemente il reale che ha tanti e tali livelli di complessità
che già comprende il tutto. In questo modo ha saputo, molto prima dialtri, guardare alla realtà metropolitana, urbana che, per sua manifesta

21
I luoghi come ritratti
dichiarazione, lo interessava più di ogni altra, in ogni suo aspetto, da
quello più pubblico ed evidente a quello più su scala privata.
Abbiamo perciò visto che il linguaggio ghirriano, che egli chiama opera
aperta, si concretizza nel suo modo di fotografare e nel suo modo di
lavorare per serie fotografiche. L’analisi di tre suoi lavori ci ha chiarito
cosa è per Ghirri la serie fotografica, e con essa indico più in generale il
nuovo linguaggio da lui auspicato, e da cosa nasce tale necessità:
– Catalogo è una provocazione contro la tradizionale concezione di serie
che viene appunto vista come necessità forzata di mettere assieme delle
fotografie;
– Infinito è la negazione di un linguaggio assoluto e affermazione di un
linguaggio che sia invece narrazione possibile;
– Kodacrome approfondisce il concetto di frammentarietà e complessità del reale che sta alla base della necessità di rinnovamento del
linguaggio.

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Con le serie fin ora esaminate ci siamo avvicinati alla filosofia di Ghirri
e ai suoi forti elementi di rinnovamento. Iniziamo ora a restringere il
campo osservando come il suo lavoro sia soprattutto incentrato su luoghi, ambienti, oggetti, a scapito, apparente, della figura umana.
Nelle sue fotografie, come anche abbiamo potuto constatare dalla pur
parziale visione dei suoi lavori, il soggetto rappresentato, ovvero l’elemento presente su cui si focalizza l’attenzione, non è quasi mai la figura
umana, volti, posture, azioni, comportamenti: sembra quasi che l’uomo
sparisca lasciando il ruolo di protagonista all’ambiente, agli oggetti che
lo circondano: le poche volte che compare, la sua presenza ha senso nell’interazione fisica o semantica con il luogo, le persone sono spesso rappresentate di spalle e in pose poco eclatanti o in dimensioni poco rilevanti rispetto a quelle dominanti dell’ambiente. Mai vedremo, per come
è tradizionalmente concepito, un ritratto di Ghiri, in cui il volto in primo
piano ci guarda, con lo sfondo neutro: egli non vede gli uomini nella loro
individualità poiché ciò ha a che fare con un’osservazione psicologica cui
non è interessato, perché non appartiene alla sua ricerca. Cito a riguardo un aneddoto calzante tratto da Viaggio in un paesaggio terrestre di
Giorgio Messori e Vittore Fossati i quali, parlando di Courbet raccontano: “Si dice che la sua amicizia con Baudelaire si sia incrinata perché
a Baudelaire non era piaciuto il ritratto che Courbet gli aveva fatto. E
Courbet si sarebbe giustificato con lui dicendo che è impossibile ritrarre
uno che cambia faccia tutti i giorni. Perché la mutevolezza di un volto
Ghirri

non appartiene allo stesso ordine delle forme che cambiano continuamente nello scenario della natura, anche perché nella natura il tempo ha
una durata, non è una successione di istanti, come può accadere per il
volto di una persona” (Messori, 2007). Similmente, seppur con le dovute differenze dovute alla mutazione del paesaggio naturale, Ghirri non
indaga l’essere umano nella sua individualità. Eppure abbiamo la sensazione che i luoghi di Ghirri raccontino dell’uomo, del suo vivere, del suo
essere, e lo facciano in maniera sicuramente più efficace rispetto a tutte
quelle immagini omologate, stereotipate della fotografia commerciale
che pur formalmente lo rappresentano e contro le quali egli si scaglia
prepotentemente.
Le sue serie Diaframma 11, 1/125 luce naturale, Identikit e Atelier
Morandi toccano espressamente questo filone di ricerca sull’ambiente antropico, sulla rappresentazione dell’uomo attraverso l’ambiente e
sulla sua identità, mettendone in rilievo diversi aspetti che ci aiutano a
capire il perché di una scelta così determinata, ma anche così coerente
con la fotografia e la filosofia di Ghirri.
Diaframma 11, 1/125 luce naturale, scattata da Ghirri tra il 1970 e il
1979, racconta la vita delle persone nel loro tempo libero, ambientate
però come se fossero in una messa in scena, davanti a una quinta teatrale. In questa serie compaiono spesso figure che, di spalle a noi, guardano
delle carte geografiche a muro. Ghirri ci mostra l’osservatore del mondo,

ci mostra se stesso e noi stessi. Nel suo testo di spiegazione del 1979,
proprio a proposito di queste figure scrive: “ho voluto dare alle persone
un infinito numero di possibili identità, dalla mia mentre fotografo, a
quella ultima: quella dell’osservatore” (Ghirri, 1997, p. 28). Le persone
girate, faccia alle mappe non sono anonimi ma sono plurimi, non sono
senza nome, ma sono tutti i possibili nomi. In questa serie si introduce il
tema dell’identità come strada di ricerca complessa e articolata che porta il fotografo a riprendere persone voltate o seminascoste da elementi
del paesaggio, non per pudore, ma solo per lasciare all’osservatore lo
spazio per immaginare tante possibili identità. “È piuttosto in me la convinzione che in questo teatro, tra fondali, quinte, attori, il mio ruolo di
fotografo non vuole essere né quello dell’autore, del cronista, dello spettatore, o del suggeritore, ma è anche, il mio, un ruolo identico a quello
dei fotografati” (Ghirri, 1997, p 29). E qui si potrebbe intravedere la passione di Ghirri per il fotografo americano Walker Evans che, “tra i primi
abbatte la barriera di rappresentazione tra fotografo e fotografato, tra
fotografo e ritratto, instaurando un rapporto di reciprocità che scavalca
d’un balzo tutta la concezione ottocentesca dell’antropologia visiva che
vedeva nel fotografo l’osservatore ben distinto dalla materia da osservare” (Gravano, in rete il 20/07/07). “Non mi piace essere lo scrutatore
occulto per carpire segni di vita, né tantomeno mi piace essere un implacabile e inflessibile occhio, che guarda direttamente in faccia, e che
inevitabilmente fotografando giudica”(Ghirri, 1997, p. 29).

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In Diaframma 11 perciò Ghirri dichiara di non essere interessato alla
penetrazione psicologica tipica del ritratto fotografico per come è tradizionalmente concepito: egli ci mostra l’uomo calato nel paesaggio, paesaggio che non è solo luogo da osservare ma anche luogo dove essere
osservati. Ghirri non trova dunque nel suo sguardo la verità di chi vede,
ma si sente al medesimo tempo fotografo e soggetto fotografato. Ancora
una volta compie un’operazione metasemiotica: lega in maniera inscindibile l’uomo all’atto del guardare, del percepire, dello scoprire.
Il lavoro sull’identità raggiunge con Identikit sfere più intime. Nella serie, scattata tra il 1976 e il 1979, Ghirri cerca non di “descriversi” ma di
“mostrarsi” attraverso immagini della sua casa, dei suoi libri, dei suoi
dischi, delle sue cose, come lui stesso scrive.
Egli si pone dunque l’obiettivo di mostrare se stesso: “È come gesto di
mostrarsi più che rappresentarsi che intendo queste fotografie” (Ghirri,
1997, p. 39). Già in questo suo specificare la scelta semantica di un termine e non di un altro, percepiamo la sua avversione al genere ritratto,
capiamo come la sua scelta parta della critica all’attuale modo di fotografare che ritiene inadeguata a rappresentare e indagare il mondo
contemporaneo. È lo stesso procedimento operato in Infinito in cui egli
critica quelle fotografie di paesaggio che con un solo scatto si arrogano
un diritto di verità. Il termine mostrarsi si contrappone al termine descriversi poiché Ghirri intende compiere un’operazione diversa da quel-

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la del ritratto che cattura l’emozione fulminea e passeggera di un istante
su un volto, diversa da quella dello sfogliare l’album di famiglia che sarebbe inevitabilmente un recupero forzato del passato: “ho cercato di
mostrarmi al presente attraverso segni che lo testimoniano” (Gravano,
in rete il 20/07/07).
In tale direzione il termine usato per il titolo, Identikit, è un’indicazione
di senso: “Il titolo usato è Identikit poiché analogamente identikit è la
descrizione al presente di un volto ottenuto attraverso segni diversi frutto di memoria, che attendono in un futuro un disvelamento più preciso
e dettagliato (…). Ho delegato, per questo autoritratto, gli oggetti (libri,
dischi, ecc.) che testimoniano di un rapporto di conoscenza, di cultura,
della mia fantasia, del passare il mio tempo: la lettura, l’ascolto della
musica, progettare viaggi. Identikit diventa così continuazione ideale
del mio lavoro eseguito e di quello che andrò a eseguire” (Ghirri, 1997,
p. 39). Vediamo dunque come, anche per l’identità dell’essere umano,
Ghirri ancora una volta esprima la volontà di non usare l’immagine per
risolvere il reale in un’unica soluzione di verità data, ma piuttosto un
palesare uno o più aspetti di questa. Ghirri fa una descrizione della sua
abitazione, dei suoi oggetti, come dei suoi luoghi, non diversa da una
mappatura che non restituisce però il “ciò che è”, ma piuttosto traccia
indizi, spesso sfocati, soggettivi, un po’ appunto come quando si cerca di
tracciare un identikit sui vaghi ricordi di qualcuno.
Un’altra serie in cui Ghirri disegna un identikit è l’Ateler Morandi in
Ghirri

Viaggio e paesaggio
cui egli fa una affettuoso e commuovente ritratto dell’amico scomparso
ritraendo il suo studio, la luce che entrava dalle finestre della sua stanza, gli oggetti che ritraeva. In Identikit e Atelier Morandi vediamo così
come i luoghi, gli oggetti, i paesaggi quotidiani abbiano un ricco potenziale espressivo, possano svelare l’identità di una persona, il suo vissuto,
il suo essere in potenza, tanto che possiamo parlare di “ritratti”.

Nel paragrafo precedente abbiamo constatato come l’insistenza di Ghirri
a ritrarre luoghi, oggetti e paesaggi non sia una scelta di esclusione che
allontana l’essere umano dal campo di indagine ma sia invece una scelta
consapevole e ragionata che mira, anzi, proprio a coniare un linguaggio
che parli all’uomo dell’uomo e delle sfide sempre nuove che la contemporaneità gli pone. Parlare dell’uomo attraverso il paesaggio non è poi
così inconcepibile, se ci si pone nell’ottica ghirriana per cui Paesaggio è
quella contaminazione dovuta alla presenza umana che, volenti o nolenti è tratto distintivo del territorio oggi.
Le serie fotografiche che ora esamineremo mostrano la critica di Ghirri
alla fotografia classica di paesaggio che tende a restituire un’immagine
falsa, illusoria, lontana anni luce dall’aspetto contemporaneo del territorio italiano e perciò incoerente con la peculiarità indagativa del suo
nuovo linguaggio. In Infinito e Colazione sull’erba egli critica il paesaggismo naturalistico che dipinge una natura incontaminata; in Italia ai
lati, Il paese dei balocchi e In scala critica il paesaggismo storico, ufficiale, stereotipato che lega il territorio a monumenti che, troppo carichi
di memoria, si svuotano di senso; in Atlante infine chiude, come suo
solito, portando al paradosso questo strutturale compenetrarsi di realtà
e rappresentazione.
Nel testo di presentazione a Infinito leggiamo: “Non ho mai amato le
fotografie della ‘natura’. Da quelle in cui la natura appare nei suoi aspet-

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ti misteriosi o metafisici, alle forzature astratte dei segni o campiture
di colore. Ho sempre trovato in queste immagini, e nel tentativo disperato di bloccare il ‘momento naturale’, una contraddizione insanabile
con il linguaggio fotografico. È già infatti la scoperta della visione rinascimentale, tramite la camera oscura, avvenuta non a caso in una sfera
intellettuale urbana, che esclude in larga misura una visione ‘naturale’”
(Ghirri,1997, p. 36). In questa breve trattazione si racchiude gran parte
del senso del lavoro sul paesaggismo di Ghirri. In primo luogo, come
abbiamo visto, il netto e chiaro rifiuto di una visione di contemplazione passiva della natura come “bellezza” intoccabile. Egli dice a chiare
lettere che non trova nessun senso nel tentativo di “bloccare” in giochi
estetici di diverso tipo una sorta di essenza naturale. Ma quello che appare ancora più interessante è l’importanza che dà alla natura urbana,
potremmo già dire metropolitana, del nuovo paesaggio. Troppo spesso
si è confuso il suo interesse fotografico per la Pianura Padana, o per la
campagna emiliana, come una sorta di nostalgica attenzione al mondo
della campagna, trasformando il suo paesaggismo assolutamente metropolitano – nello sguardo e nell’approccio – in una specie di ricerca
naturalistica, strettamente legata a un conservatorismo di valori legati
malinconicamente, e non costruttivamente, alla sola cultura contadina
e provinciale. Ghirri, prima di chiunque altro, ha compreso il concetto
di metropoli diffusa, ha capito che il suo sguardo poteva continuare a
soffermarsi per tutta la vita solo entro un raggio di venti chilometri dalla

26

sua casa emiliana, ma che quello che contava era l’atteggiamento intellettuale, concettuale, di una ricerca mutevole e mutante, che si poteva
avere su questi luoghi. Per primo ha compreso che non può esistere uno
sguardo locale e localizzato che racconta la provincia, o una provincia,
perché questa di per sé fa parte di un insieme globale, di una visione
mobile e diffusa, che non la rende più luogo fisso, ma spazio di attraversamento, prima di tutto dello sguardo.
Questi nuovi concetti di natura urbana e di metropoli diffusa, il continuo e reciproco contaminarsi fra naturale e artificiale che caratterizzano
il paesaggio contemporaneo, sono ben enunciati nella serie Colazione
sull’erba. In questo lavoro, realizzato tra il 1972 e il 1974, Ghirri fotografa tutto il verde pubblico giocando a confondere la natura-naturale
con la natura-artificiale. Nel testo del 1979, che presenta la serie, tiene
a specificare che non c’era nessuna volontà tassonomica di catalogare
il verde periferico, e poco oltre spiega ancora più chiaramente: “Questa
serie non vuole tanto sottolineare un rimosso esistenziale quotidiano o
segnalare una simbolica deprivazione della natura oggi, quanto far risaltare come anche questo sia un aspetto della realtà odierna in cui la
lettura non va mai effettuata in maniera univoca, ma sempre all’interno
di una costante ambiguità” (Ghirri, 1997, p. 23).
Nel paesaggio contemporaneo, la ricostruzione artificiale della natura
non è un elemento negativo demonizzabile, non è elemento da giudi-
Ghirri

care e condannare, magari utilizzando il ridicolo. Piuttosto, la continua
commistione tra natura e artificio viene riconosciuta da Ghirri come un
marchio del nostro tempo, ed è inutile e dannoso avere un atteggiamento malinconico che vede in queste nuove forme di estetica solo la perdita
della naturalità. Nella parte finale del suo testo Ghirri, come un chiaroveggente, dice che occorre rifiutare una lettura univoca a favore di una
complessità che lo interessa molto di più. Ecco di nuovo la sua straordinaria capacità di leggere la molteplicità dei segni del suo tempo che
alludono costantemente all’impossibilità di una visione unificata, pacificata del paesaggio, alla quale le sue immagini contrappongono invece
un conflitto costante, un’ambiguità che attiva lo sguardo e non lo lascia
in passiva contemplazione, o peggio in nostalgica ricerca, di un bello di
natura. Ogni fotografia della serie Colazione sull’erba gioca a confondere reciprocamente le carte tra natura-naturale, natura ordinata dall’uomo e artificialità totale. E di nuovo Ghirri non costruisce mai situazioni
ma piuttosto le trova, le vede. Dedica allora grande attenzione ai nuovi abitanti attoniti dei giardini delle nostre periferie: nani con o senza
Biancaneve. Oppure fissa un’immagine di un giardino con un fondale
verde dipinto del quale non si può più capire, nella bidimensionalità,
quale spazio è attraversabile e quale è piano. O ancora, realizza piccole
serie fotografiche di educate aiuole che sembrano finte e appaiono come
i piccoli giardini simulati nei plastici degli architetti e, solo a un secondo
sguardo, si rivelano invece quanto mai vere… o forse no.

Mentre nelle due serie appena citate Ghirri critica il paesaggismo naturale, in Italia ai lati, lavoro realizzato dal 1971 al 1979, denuncia il
peso eccessivo che troppa memoria esercita sulla rappresentazione di
quei posti che si vorrebbero vedere, per un’anacronistica nostalgia,
fermati in un eterno passato che non gli appartiene in toto, che non li
descrive se non in modo parziale a frettoloso. Nella serie Ghirri mette
a confronto le immagini stereotipate che si vedono negli scompartimenti dei treni con quelle che si vedono passare fuori dal finestrino,
vere e frammentate. Le immagini appese all’interno dei vagoni sono
ufficiali e statiche, mentre quelle che scorrono come in uno schermo
sul vetro gli appaiono veloci, forse sommarie, ma vive e contemporanee. “Se le merlature delle torri citano un glorioso passato, e le rondini volano ancora, pur tuttavia non possono celare le staccionate di
cemento sullo sfondo di un cielo azzurro” (Ghirri, 1997, p. 30).
L’occhio del fotografo ancora una volta lontano da qualsiasi moralismo o giudizio, guarda alla possibile compenetrazione tra queste due
realtà che dà come risultato la vera realtà paesaggistica sfaccettata:
“Rivedendo nel passato, nelle strutture delle città, nelle immagini che
abbiamo visto, nel nostro paesaggio, e relazionandoli con un presente possiamo distinguere: verificare, smascherare, per poi progettare
‘un paesaggio’” (Ghirri, 1997, p. 32). E ancora si noti come si nomini
“un paesaggio” e non “il paesaggio”, a indicare sempre solo una di
molte possibilità.

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Un ulteriore e radicale attraversamento tra paesaggio reale e finzione
viene compiuto da Ghirri in due serie di lavori Il paese dei balocchi e
In scala, dove scatta una serie di foto nelle “città della domenica”, cioè
nell’Italia in miniatura e in parchi tematici simili. Qui la variazione di
scala fa tutto il gioco. Lui stesso dice che in questi parchi è come trovarsi
in una fotografia tridimensionale dove la variazione di proporzioni crea
l’artificio illusorio tra reale e finzione, messa in scena e gioco. “Forse
questa non sarà l’avventura con la ‘A’ maiuscola, ma nei tempi in cui gli
gnomi abitano la cellulosa dei libri e non popolano più boschi di alberi
resinosi, e il paese di Lilliput per Gulliver è lo schermo televisivo o il panopticon tridimensionale dell’Italia in miniatura di Rimini, inaspettato
lo stupore è in queste piccole fratture e divergenze, volute o determinate
dagli eventi, volontà di caratterizzazione nello sterminato territorio dell’analogo” (Ghirri, 1997, p. 53).
In questo spazio dell’analogo si muove il paesaggio ghirriano che prende in considerazione tanto la Torre di Pisa quanto la sua miniatura nel
Parco Tematico, senza porre differenza di sguardo tra le due, e considerandole ambedue oggetti della visione del presente, arrivando a dire
che “è proprio in questo spazio di totale finzione che forse si cela il vero”
(Ghirri, 1997, p. 37). L’attraversamento fisico di questa sorta di simulacri storici mette l’uomo comune davanti alla sua relazione con l’identità
storica che, in una cultura come quella italiana, è insieme un fardello e
un tesoro: “La celebrazione dei miti, dei luoghi delegati a una ‘identità

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territoriale’, induce a una immediata ironia sulla follia di questo viaggio,
di questo vedere tutto contemporaneamente” (Ghirri, 1997, p. 37).
In Atlante, infine, le provocazioni di Colazione sull’erba, Italia ai lati, Il
paese dei balocchi e In scala mirate a sottolineare la profonda e strutturale compenetrazione fra naturale e artificiale, oggetto e rappresentazione
che caratterizzando il paesaggio contemporaneo, sono ancora una volta
estremizzate e portate al paradosso: Ghirri arriva ad affermare che, per
assurdo, viaggiare nella rappresentazione del mondo è come viaggiare
nel mondo, poiché esso è ormai in gran parte rappresentazione.
Atlante è una serie di immagini che altro non sono che foto di mappe
geografiche, di diverso periodo e natura, che riproducono simbolicamente luoghi vicini o lontani, esotici o nostrani. Le immagini sono scattate molto da vicino in modo da confondere il retino della stampa con
le piccole onde dell’oceano disegnate simbolicamente. Come minuscoli
omini ai quali improvvisamente è data la possibilità di attraversare il
mondo con un passo, tutti percorriamo l’intero globo in un solo sguardo. L’eterno sogno infantile del pianeta del Piccolo Principe di Saint
Exupéry ci si avvera sotto i polpastrelli. Atlante nasce per Ghirri non
solo come una serie di immagini, ma con l’idea progettuale di realizzare
un vero nuovo atlante, un libro che fosse in qualche modo l’atlante e
l’anti-atlante, un libro di mappe mobili, un libro con la sua geografia.
Walter Benjamin scrive come incipit al suo testo Il flanêur, ne I “passa-
Ghirri

ges” di Parigi, una frase di un malato di mente: “Et je voyage pour connaître ma géographie” (Benjamin, 1997, p. 465). In qualche modo Atlante
di Ghirri è la prova concreta che ogni paesaggio altro non è che una nostra geografia. L’atlante è lo spazio della rappresentazione dei luoghi per
eccellenza, è lo spazio visivo nel quale ciascuno di noi, come dice lui stesso, fin da piccoli ritroviamo il luogo dove siamo, sogniamo luoghi lontani,
o tracciamo percorsi che poi attraverseremo. “In questo lavoro ho voluto
compiere un viaggio nel luogo che invece cancella il viaggio stesso, proprio perché tutti i viaggi possibili sono già descritti e gli itinerari sono già
tracciati. Le isole felici care alla letteratura e alle nostre speranze, sono
ormai tutte descritte, e la sola scoperta o viaggio possibile, sembra quello
di scoprire l’avvenuta scoperta” (Ghirri, 1997, p. 30).
Viaggiare dentro l’immagine appare a Ghirri ancora l’unico viaggio possibile. Viaggiare nella rappresentazione del mondo è come viaggiare nel
mondo perché questo è ormai in gran parte la sua rappresentazione.
Nel paradosso ghirriano i viaggi negli atlanti sono i soli possibili, in una
società dell’immagine, che va considerata come tale, senza inutili moralismi, senza confini che ne respingano la verità: “Il viaggio è così dentro
all’immagine, dentro il libro” (Ghirri, 1997, p. 30).

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VIAGGIO IN ITALIA E LA NUOVA FOTOGRAFIA ITALIANA
Il lavoro di approfondimento sulla fotografia e la filosofia di Ghirri, che
ci ha portato ad esaminare molti dei suoi lavori, familiarizzare con il
suo modus operandi, entrare in sintonia con la sua visione sfaccettata
del reale, è stato un percorso obbligato, indispensabile per comprendere
il cuore del suo più ampio e ambizioso progetto Viaggio in Italia, per
coglierne la reale portata di innovazione per la fotografia contemporanea ma non solo: anche per il linguaggio visivo e la comunicazione in
generale.
Lo spessore e l’importanza del suo operare è dovuto infatti proprio alla
sua volontà, alla sua determinazione nel porsi come obiettivo una possibile soluzione al disagio comunicativo generazionale che egli avvertiva.
Ma in cosa consiste questo disagio comunicativo? È ciò che, con la potenza e la genialità del suo “scrivere per immagini” egli afferma nel suo
scritto Una luce sul muro: parlando degli scatti che si era trovato a fare
nell’atelier di Morandi, Ghirri racconta la disperazione e lo sconforto
del pittore quando, proprio di fronte alla finestra del suo studio, preziosissima fonte di luce, vide sorgere un enorme condominio dall’intonaco
giallognolo che alterava la qualità e la quantità della luce. Parte così da
questa forte immagine, da questo sconforto, da questo spaesamento per
parlare dello sconforto e dello spaesamento dell’uomo contemporaneo
di fronte a quella che chiama “perdita di paesaggio”.
“La sparizione del paesaggio che avviene, di norma, come mutazione

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dello spazio esistente, è accompagnata da quella altrettanto importante dell’ambiente in generale, sparizione che interessa anche il campo di
attenzione. E succede che tutte le discipline riguardanti la rappresentazione, come fotografia, cinema, letteratura ecc. è come se fossero colpite
da una forma di indicibilità se non da una vera e propria afasia, nel momento in cui si trovano a dover incontrare l’aperto del mondo esterno
(…) il luoghi sembrano aver perso ogni riconoscibilità, negandoci ogni
possibilità di lettura, quasi fossero stati toccati da una malefica magia
fantascientifica che li ha stravolti. (…) È probabile che questo dipenda
dal fatto che il territorio e il paesaggio sono diventati ormai luoghi anonimi, dove possiamo trovare tutto e di tutto, come in uno sterminato
emporio del moderno, pieno di segni, segnali, insegne, gente, automobili
e fabbricati e ancora squarci di paesaggio, torri, palazzi, cortili, giardini
e che quindi il nostro sguardo, al primo approccio, renda questi luoghi
come qualsiasi altra località occidentale” (Ghirri, 1997, p. 166). E ancora, Gianni Celati, attore di Viaggio in italia afferma : “Qualcosa è successo per cui questi aspetti della veduta classica diventano disconnessi,
non più saldati in un’unità. Il che da luogo a imprevedibili aperture nei
modi di pensare l’immagine, e un nuovo vedere, con nuove immagini”
(Valtorta, 2004, p 77).
Ghirri dunque percepisce il problema di linguaggio e di comunicazione
che colpisce l’uomo nel suo rapportarsi al mondo e cerca di prender-
Ghirri

ne coscienza dando spazio alle “imprevedibili aperture”, nel “nuovo
vedere” di cui Celati parla. Ed è in tal senso che Ghirri è stato anticipatore, poiché è stato capace di cogliere il disagio e fondare la sua
ricerca proprio su questa “afasia” dell’uomo contemporaneo causata
dalla “sparizione del paesaggio”, dalla mutazione del reale, sempre più
repentina e strutturale e perciò sfuggente, innominabile. Il suo percorso di ricerca di una nuova lingua non può che partire dall’analisi
critica dei linguaggi a lui contemporanei, dalle discipline riguardanti
la rappresentazione, e dallo sforzo di comprendere il perché questi non
siano adatti a mostrare il reale per quello che è, generando “l’afasia”, la
“malefica magia” di cui parla.
Approfondire i vari filoni di ricerca ghirriana a questo è servito: abbiamo
visto come le sue idee e la sua concezione di “opera aperta” non siano
considerazioni astratte ma partano dal coraggioso atto di mettere in discussione quelli che erano i cardini, la struttura portante dei linguaggi
di rappresentazione e in particolare della fotografia da cui egli stesso è
inevitabilmente partito e cui egli stesso ha fatto inevitabilmente riferimento per anni.
Ghirri infatti, nei lavori che abbiamo esaminato e discusso, prende in
esame uno per uno i generi fotografici mostrando come questi siano determinati da regole, da standard stereotipati e consolidati che tendono a
rendere falsa e sterile l’immagine.
Still life critica il genere di fotografia “natura morta”, che per le sue carat-

teristiche tende a mostrare la fotografia non come filtro, interpretazione,
ma come pura riproduzione, duplicazione; Catalogo critica la fotografia
che fa l’inventario del reale riducendolo a scompartimenti fissi; Infinito
critica il lavorare per singole fotografie come implicita dichiarazione
di verità assoluta e propone invece il lavorare in serie, come proposta di un possibile accostamento, possibile verità, possibile narrazione;
Colazione sull’erba critica la fotografia della natura come rappresentazione di un paesaggio forzatamente incontaminato, che esclude a priori l’artificiale schedandolo come elemento negativo e demonizzabile;
Italia ai lati critica il paesaggismo storico, ufficiale, stereotipato, da
cartolina che lega il territorio a monumenti che rischiano di occultare
il presente; Diaframma 11 critica il principio base della fotografia di ritratto che vede da una parte il soggetto e dall’altra l’occhio implacabile
del fotografo che giudica.
Ghirri parte perciò con una critica verso tutti i generi fotografici, i modi
di fotografare e di approciarsi alla fotografia a lui contemporanei senza
prediligerne alcuno: un tale atteggiamento, che può essere percepito
come presa di posizione dell’artista che giudica sprezzante dalla sua
torre in avorio, va visto nella giusta luce. La sua avversione innanzitutto non nasce da un capriccio, ma dalla fatica, dall’umiltà e soprattutto dalla necessità di mettersi in gioco in prima persona: i linguaggi
di rappresentazione che lui critica sono infatti gli stessi che lui stesso
ha utilizzato e dai quali lui stesso è partito; il suo criticare tutti i generi

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fotografici non è poi assolutismo ma è dettato dal fatto che egli ha individuato l’anello debole dei linguaggi visivi a lui contemporanei nel
concetto stesso di applicazione pedissequa di regole e stereotipi insita
in questa suddivisione in generi.
Da qui dunque la sua volontà urlata (si veda Kodacrome o Colazione
sull’erba) di vedere, di accettare la complessità del reale, e non nascondersi dietro schemi obsoleti che rendono ciechi; da qui l’urgenza, la necessità di abbattere le definizioni rigorose e schematiche, gli stereotipi
che dominano i linguaggi di rappresentazione visiva, di ibridare i generi
al fine di trovare la chiave di un linguaggio possibile, che ha nell’apertura e nell’elasticità i suoi tratti salienti.
“La mia idea di opera fotografica è quella di un’opera aperta. Non perché, semplicemente, mancano alcune tessere per ultimare il puzzle, ma
perché ogni singolo lavoro si apre su uno spazio elastico, non si esaurisce in un’entità misurabile ma sconfina, un continuo dialogo tra quello
terminato e quello che ci sarà. L’immagine assume così contorni meno
definiti, categorici e lapidari, per essere parte di un’organizzazione più
grande e in continuo movimento” (Ghirri, 1997, p. 79).
Il termine “opera aperta” spesso usato da Ghirri per parlare della sua fotografia non è casuale. La sua ricerca di un linguaggio che abbia le caratteristiche di flessibilità, apertura e mobilità proprie della realtà che vuole
mostrare trova supporto nel saggio di Umberto Eco L’opera aperta che,

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nel capitolo Apertura, informazione, comunicazione traccia una precisa
nuova tendenza dell’arte contemporanea, intendendo qui con arte qualsiasi
forma creativa: “Le poetiche contemporanee, nel proporre strutture artistiche che richiedono un particolare impegno autonomo del fruitore, spesso
una ricostruzione, sempre variabile, del materiale proposto, riflettono una
generale tendenza della nostra cultura verso quei processi in cui, invece di
una sequenza univoca e necessaria di eventi, si stabilisce come un campo di
probabilità, una “ambiguità” di situazione, tale da stimolare scelte operative
o interpretative volta a volta diverse” (Eco, 1962, p. 95).
Un simile modus operandi è stato adottato, proprio nei primi anni
Ottanta, anni in cui si sviluppa il progetto di Viaggio in Italia, a livello
più ampio e globale da scienziati, biologi, antropologi, pscicologi, filosofi, matematici le cui riflessioni sono state raccolte da Gianluca Bocchi
e Mario Ceruti nel libro La sfida della complessità in cui la complessità
del reale viene vista non come qualcosa da abbattere, ridurre, semplificare, ma come un dato di fatto da accettare, assimilare, comprendere.
Il libro, perfettamente in linea con la poetica ghirriana, seppur toccando ambiti molto differenti, “è un invito a una revisione degli strumenti
tradizionali di lettura e conoscenza del reale, fin’ora organizzati attorno
alle pratiche di un pensiero forte, all’interno del quale il sapere assume
la forma di una strategia globale della conoscenza e in cui il momento fenomenico viene assunto come un frammento da ricondurre ad un
universo più generale, governato da leggi universali.” (Bocchi e Ceruti
Ghirri

1985). Il filo conduttore di tutti i saggi raccolti è dunque un’indagine volta a verificare se questa pratica tradizionale di ricondurre il fenomenico,
l’evento particolare, a regole più generali funziona ancora. In realtà già
nell’introduzione vediamo come la risposta suggerita dal libro sia negativa, e come l’invito sia invece quello di compiere lo sforzo di slegarci
da schemi e stereotipi al fine di non ricondurre l’esperienza percettiva a
schemi generali ormai obsoleti e insufficienti, di avere uno sguardo più
elastico, che sia in grado di percepire la realtà attuale. È quanto viene
dichiarato nell’introduzione, in cui ci accorgiamo che la “perdita di paesaggio” ghirriana tocca in realtà tutto il sistema scientifico e cognitivo
umano: “La seconda metà del nostro secolo è caratterizzata dalla crisi
dei presupposti epistemologici delle filosofie classiche della storia e dal
fallimento di quelle idee di progetto, e di quei progetti, che hanno preso
corpo all’interno di quelle filosofie. È venuta meno l’idea che la conoscenza delle leggi che regolano l’universo – fisico, biologico, sociale – possa
garantire il controllo della storia e del futuro. Abbiamo bisogno di un
nuovo modo di pensare il futuro. Un nuovo modo di pensare il futuro che
riconosca il reale e il possibile non come dati immutabili ma come costruzioni mai definitive e dipendenti anche dalle nostre scelte, che tratti
l’incertezza non come il peggiore nemico ma come il migliore alleato, che
consideri la proliferazione di idee, di approcci e di azioni non un’inutile
dispersione di energie ma l’unica strada percorribile per costruire nuove
possibilità. La costruzione del futuro è una sfida ineludibile. Ed è indis-

sociabile dalla sfida della complessità” (Bocchi e Ceruti 1985).
L’opera di Bocchi e Ceruti è calzante per il nostro discorso, poiché compie un’operazione per molti versi simile a Viaggio in Italia, confermando l’apertura e l’attualità dell’indagine compiuta da Ghirri : l’obiettivo
degli autori de La sfida della complessità “non è quello di definire una
teoria fissa, ma piuttosto quello di abbozzare, grazie all’apporto di discipline diverse una teoria in divenire, divisa, più disposta a perdersi,
ridefinirsi nei problemi, nei dubbi e nei bisogni di ogni lettore che a difendersi come risposta, come filosofia sistemata” (Bocchi e Ceruti 1985).
Parimenti, Viaggio in Italia trova il suo senso non tanto nel risultato
quanto nel percorso che è stato fatto da fotografi con stili e personalità
molto differenti, e nel nuovo approccio al reale che questo percorso sottende. In entrambi i casi insomma si dà rilievo non tanto al risultato della ricerca quanto al processo, al discorso, al progetto, alla ricerca stessa.
Ciò è tanto più valido quante più personalità diverse hanno aderito al
progetto e al modus operandi che sottende. Sia Viaggio in Italia che La
sfida della complessità sono infatti nati solo grazie alla volontà di professionisti con formazione e ambiti di indagine molto diversi fra loro di
confrontarsi in una sfida impegnativa ma necessaria. Ecco dunque perché abbiamo accostato due opere che toccano ambiti così diversi, uno
artistico-fotografico, l’altro scientifico: a dimostrare la necessità a livello
globale di un mutamento di sguardo, di orizzonte, di metodo, di un’attualizzazione degli strumenti cognitivi che risponda al mutamento del

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reale in cui cambiamento, sovrapposizione e velocità non sono caratteristiche transitorie ma strutturali del nuovo paesaggio. E qui comprendiamo finalmente l’insistenza di Ghirri nel suo continuo sottolineare la necessità di accettare questo nuovo tipo di realtà che va via via delineando
con i suoi lavori e che nomina con i termini Metropoli diffusa o natura
urbana (dare un nome alle cose è il primo passo per comprenderle);
capiamo il suo opporsi ai rigidi stereotipi che stanno alla base dei linguaggi di rappresentazione e nello specifico dei generi fotografici, che ci
portano ad avere una percezione distorta della realtà, pericolosa perché
illusoria. Ricordo ad esempio la critica di Ghirri, sviluppata nella serie
Colazione sull’erba, alle fotografie paesaggistiche in cui compare una
natura idillica e incontaminata, che non corrisponde al vero.
Nell’introduzione a La sfida della complessità leggiamo: “La tesi stessa
affermata dal libro è coerente con tale approccio: non ci si può accostare
alla complessità attraverso una definizione preliminare, bisogna seguire
percorsi differenti. Non c’è una complessità ma delle complessità. La
complessità non è la risposta ad un problema quanto il “risveglio a un
problema”, a una presa di coscienza. Bisogna prendere coscienza del
fatto che non solo possono cambiare le domande e le risposte, ma che
possono anche cambiare anche i tipi di domande e di risposte attraverso
le quali si definisce l’indagine scientifica.” , e ancora sul manifesto di
Viaggio in Italia “Le opere degli autori spostano l’attenzione della fo-

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tografia alla cultura quotidiana dell’italia oggi e impongono il confronto
con il vuoto d’impegno conoscitivo che paralizza altre attività espressive
e altri sistemi di comunicazione. (…) L’intenzione è ricomporre l’immagine di un luogo, e antropologico e geografico, il viaggio è così ricerca e
possibilità di attivare una conoscenza che non è fredda categoria di una
scienza, ma avventura del pensiero e dello sguardo.”
Entrambe le opere perciò partono da una presa di coscienza del disagio contemporaneo, ne individuano la causa nella mutazione strutturale della realtà e nell’incapacità degli strumenti percettivi tradizionali di
indagarla, ed entrambe si pongono l’obiettivo di colmare questo scarto
fra reale e strumenti di indagine. La cosa interessante per cui ha veramente senso accostare i due libri è che, pur trattando argomenti diversi,
in entrambi i casi si arriva a capire che questa necessità di cambiare gli
strumenti di indagine per essere reale ed effettiva deve partire dalle basi,
deve rivoluzionare il sistema, il metodo di indagine stesso, e non solo il
tipo di strumento. Ecco perché non ha senso individuare la soluzione
nello strumento fotografico, piuttosto che pittorico o cinematografico,
ma in un certo tipo di fotografia, di pittura e di cinema, che implicano un
certo approccio al reale, un certo sguardo: è dunque un nuovo sguardo e
non nuovi occhi quello di cui si necessita.
È questo che Bocchi e Ceruti affermano dicendo che non solo possono
cambiare le domande e le risposte, ma che possono anche cambiare anche i tipi di domande e di risposte.
Ghirri

Ecco dunque il valore di Viaggio in Italia, motivo per cui ne ho fatto
uno dei pilastri portanti del mio percorso di ricerca: l’aver saputo “risvegliare un problema”, l’essere stato in grado non solo di porre delle
domande, ma cambiare i tipi di domande, suscitando di conseguenza
nuovi tipi di risposte.
Prima di entrare nello specifico è bene inquadrare storicamente l’esperimento di Ghirri, dare corpo e colore a questa mutazione del reale così
spesso citata in queste pagine attraverso le parole di Gabriele Basilico,
fotografo e architetto che ha collaborato a Viaggio in Italia: “Nel periodo storico che va dal dopoguerra agli anni settanta la fotografia, intesa
come pratica conoscitiva, si identificava con la classica fotografia di reportage, in cui la figura dell’uomo, la sua azione, la sua gestualità erano in primo piano, in cui “l’impegno dei reporter era dedicato ai grandi
temi sociali, alla violenza, alla guerra, all’ingiustizia e non poteva essere
diversamente, considerate le condizioni critiche in cui versava l’umanità” (Valtorta, 2004, p 139).
Alla fine degli anni settanta si ha uno spostamento di attenzione, un’inversione di tendenza dettata dai cambiamenti storici: quel paesaggio, da
sfondo scenografico, emerge sempre più come protagonista. “Si spegne
l’eco dei tumulti di piazza e si ridimensionano i sogni rivoluzionari, una
necessità di ripensamento e un periodo di tregua si impongono nella
società. Restano visibili le tracce di un paese che, sulla spinta della
ricostruzione materiale ed economica ha corso troppo in fretta verso

il consumo di se stesso. In poco più di trent’anni di ricostruzione, dalle
macerie della guerra si è compiuta la cementificazione dell’intero paese, dalle coste alle località montane, all’esplosione delle periferie urbane. E il paesaggio naturale, devastato da un’antropizzazione selvaggia
e da uno sviluppo incontrollabile, è rimasto percepibile solo come riserva protetta, luogo di fruizione turistica, simile a un parco tematico.
La strategia del turismo è diventata l’unico strumento progettuale utilizzato, economicamente più significativo, responsabile delle grandi e
piccole modificazioni territoriali che hanno alterato in modo definitivo
la forma dei luoghi e l’ambiente naturale” (Valtorta, 2004, p 139).
La coscienza di questo stato di crisi, e della sua irreversibilità, è alla
base di un dibattito politico e culturale che ha restituito centralità
al paesaggio e ha impegnato progressivamente sempre più soggetti.
Soprattutto il lavoro svolto dai movimenti ecologisti nei luoghi ad
altro rischio e, su un altro piano, anche dagli artisti impiegati nella
Land Art. Questo impegno, sempre più diffuso a livello internazionale, specialmente dove la società post-industriale ha lasciato i suoi
segni, ha coinvolto a pieno regime anche la fotografia.
Vediamo in cosa consiste concretamente Viaggio in Italia, e come riesce
a concretizzare e approfondire il grande lavoro di ricerca sul linguaggio
e gli strumenti cognitivi intrapreso da Ghirri.
Viaggio in italia è il titolo di un progetto del 1984 ideato da Luigi Ghiri,

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composto da una mostra di trecento fotografie, scattate lungo tutta la
penisola italiana, tenuta presso la Pinacoteca Provinciale di Bari e da un
libro pubblicato dalla casa editrice il Quadrante di Alessandri. Presero
parte al progetto venti fotografi, diciassette italiani, due americane e un
francese. Il ventunesimo viaggiatore era uno scrittore, Gianni Celati, che
scrisse per l’occasione il racconto Verso la foce, reportage per un amico
fotografo, che troviamo nel libro.
Sul risvolto della copertina troviamo il manifesto del progetto:
“Viaggio in Italia nasce dalla necessità di compiere un viaggio nel nuovo
della fotografia italiana, e in particolare , per veder come una generazione di fotografi, lasciato da parte il mito dei viaggi esotici, del reportage sensazionale, dell’analisi formalistica, e della creatività presunta e
forzata ha invece rivolto lo sguardo sulla realtà e sul paesaggio che ci
sta intorno. Le opere degli autori spostano l’attenzione della fotografia
alla cultura quotidiana dell’Italia oggi e impongono il confronto con il
vuoto d’impegno conoscitivo che paralizza altre attività espressive e altri
sistemi di comunicazione. La televisione, il cinema, le arti visive appaiono sempre più lontani dal voler conoscere o almeno osservare il volto
concreto dell’Italia. Eppure manca in queste fotografie quanto si trova
sulle pagine dei quotidiani e su quelle patinate dei rotocalchi, né cronaca
nera o rosa, né languide Venezie, né tristi bassi napoletani, e gli uomini
parlano meno con il loro volto e più con gli oggetti che li circondano, con
l’ambiente in cui vivono (…) L’intenzione è ricomporre l’immagine di un

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luogo, e antropologico e geografico, il viaggio è così ricerca e possibilità
di attivare una conoscenza che non è fredda categoria di una scienza, ma
avventura del pensiero e dello sguardo” (Ghirri e Velati, 1984).
Viaggio in Italia è la volontà di restituire un’immagine del territorio
italiano che corrispondesse al vero; in un mondo che è diventato immagine, come suggeriva Ghirri in Atlante, è una “ricerca dell’originale
perduto” (Valtorta, 2004, p 177).le trecento fotografie sono immagini
di un’altra Italia, Italia altra rispetto a quella stereotipata sedimentata nel nostro immaginario collettivo. Ancora una volta Ghirri provoca e
gioca con il contrasto titolo-contenuto: sfrutta lo spaesamento dell’osservatore per far sì che egli si ponga delle domande. Sfogliando per la
prima volta il libro si prova spaesamento, disorientamento: il titolo che
a grandi lettere porta quelle due parole “Viaggio” e “Italia” attiva subito
e inevitabilmente immagini mentali legate ai luoghi comuni dell’Italia
del turismo; l’Italia delle città storiche, del duomo di Milano, della torre
di Pisa, del Colosseo o di piazza San Marco, l’Italia delle belle vedute,
dei paesaggi alpini, della campagna toscana o dei trulli pugliesi, l’Italia
del divertimento, delle spiagge, degli ombrelloni e delle belle ragazze, o
ancora l’Italia delle tradizioni, dei vecchi che giocano a carte, del lavoro
nei campi, dell’artigiano. Non una delle trecento fotografie presentano
tali elementi, eppure sono state scattate proprio in quell’Italia, in quelle
città, ponendo per la prima volta l’attenzione sugli infiniti ritagli esisten-
Ghirri

ti fra una cartolina e l’altra i quali, non essendo stati mai rappresentati,
erano destinati a scomparire, e li fa esistere.
“I fotografi non sono necessariamente i prosecutori di modelli inventati
in epoche precedenti dalla pittura e dalla grafica, come nel caso delle
foto di veduta e dei monumenti scattate appena dopo la metà dell’Ottocento e per mezzo secolo almeno in Italia. Bisognava trovare una chiave
nuova, bisognava pensare a un diverso schema di racconto”. “Dal rifiuto
dei monumenti tradizionalmente visti secondo i modelli delle immagini stereotipate si passa alla decisione di fotografare la dimensione, lo
spazio dei luoghi esclusi, e dunque si propone un non-luogo, o meglio
un sistema di non luoghi. Viaggio in Italia sarà il racconto dei territori
negati” (Valtorta, 2004, p. 53).Una tale operazione ci apre gli occhi, ci
dimostra come il filtro della rappresentazione si frappone come modalità percettiva fra noi e la realtà esterna sostituendosi invece ai nostri
occhi, al nostro istinto, alla nostra testa.
Il progetto è perciò un invito ad abbandonare, a liberarsi di ogni tipo
di stereotipo e di usare invece i nostri occhi, il nostro istinto, la nostra
testa. È stato questo l’unico vincolo dei 21 artisti invitati a viaggiare.
Condizione preliminare per un’operazione del genere è non avere paura
della realtà esterna, avere il coraggio di dare la propria personale interpretazione sapendo che si tratta di una delle infinite possibili, che
una verità data che segue regole e princìpi fissi non esiste, ed è soltanto
l’estremo gesto di chi, non sapendo nuotare nel mare della complessità

contemporanea, si aggrappa con unghie e denti ai resti della nave naufragata. L’invito è quello di costruire dei percorsi dello sguardo, nell’esperienza del vivere quotidiano, che siano percorsi personali e non
prefissati; è un invito, come suggerito dalla serie Atlante, a disegnare
delle geografie personali.
La rappresentazione cartografica è sempre stato un concetto caro a
Ghirri, un mondo che ha su di lui un fascino infinito non per la sua definitiva esattezza ma anzi per la possibilità che rappresenta per ciascuno
di proiettarvi i propri itinerari di attraversamento, di perdersi e trovarsi, di costruirsi appunto una propria geografia che è poi l’unica reale.
“Questo lavoro sul paesaggio italiano vorrei che apparisse un po’ così
come questi disegni mutevoli, anche qui di una cartografia imprecisa,
senza punti cardinali, che riguarda più la percezione di un luogo che
non la sua catalogazione o descrizione, come una geografia sentimentale
dove gli itinerari non sono segnati e precisi ma ubbidiscono agli strani
grovigli del vedere” (Valtorta, 2004, p 161).
Mi viene da pensare alla mia esperienza di pendolare, per cui ho un’idea
della distanza molto personale, basata sulla mappa sintetica della rete
ferroviaria e metropolitana; ho introiettato una dimensione delle distanze radicalmente differente da chi si muove con mezzi e tempistiche
diverse nella città e nei suoi dintorni. Ma penso anche al telefono cellulare che permette la costruzione di un territorio individuale portatile che

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ci rende dislocati e deterritorializzati come individui singoli, in eterno
movimento.
I mezzi di trasporto sempre più veloci, le comunicazioni avanzate hanno radicalmente modificato l’idea di spazio: queste profonde mutazioni possono anche essere considerate devastanti ma vanno accettate e
non ignorate. La realtà è che si va sempre di più verso una visione
individuale, singola del mondo, e la necessità è perciò quella di uno
strumento cognitivo e percettivo che tenga in considerazione la liquidità, la mobilità e la relatività della realtà consentendo la costruzione
sempre più radicale di geografie personali.
Viaggio in Italia è percorso. È cioè il percorso fisico e mentale che gli
artisti hanno compiuto, e non i singoli scatti che hanno prodotto; percorso che si identifica un atteggiamento; quello “non di chi costruisce
ma vede, non di chi descrive ma mostra, non di chi definisce ma svela”
(Ghirri, 1997). Tale significato di percorso può essere chiarito ripercorrendo il pensiero di Michel de Certeau, sociologo contemporaneo,
nel suo delineare la distinzione fra mappa e percorso: “se si prende
la ‘mappa’ sotto la sua forma geografica attuale, si vede che nel corso del periodo segnato dalla nascita del discorso scientifico moderno
(XV-XVII secolo), essa si è lentamente distaccata dagli itinerari che
ne costituivano la condizione di possibilità. Le prime carte medievali
recavano solo tracciati rettilinei di percorsi (indicazioni performati-

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ve destinate del resto soprattutto ai pellegrini), con la menzione delle tappe effettuate (città da attraversare, o dove fermarsi, alloggiare,
pregare, eccetera) e di distanze calcolate in ore o in giorni, ovvero in
tempo cammino. (…) La mappa scena totalizzante in cui elementi di
origine disparata sono concentrati per formare il quadro di uno ‘stato’
del sapere geografico, respinge davanti a sé o alle sue spalle, come dietro le quinte, le operazioni di cui essa è l’effetto o la possibilità. Resta
sola a occupare la scena. I descrittori di percorso sono scomparsi” (De
Certeau, 2001, p. 179-181). De Certeau quindi definisce la mappa come
un luogo stabile, definito e disegnato secondo una prassi statica, mentre il percorso resta un territorio del possibile che indica ma non definisce, che invita all’attraversamento e rifiuta la contemplazione. Non
a caso, poco prima, nello stesso saggio scrive: “la descrizione oscilla
fra i termini di un’alternativa: o vedere (è la conoscenza dell’ordine
dei luoghi), o andare (sono azioni spazializzanti). O presenta un quadro (c’è...), o organizza dei movimenti (entri, attraversi, volti...)”(De
Certeau, 2001, p. 178).
Possiamo perciò affermare che il progetto di Ghirri è l’esaltazione del
percorso invece della mappa, del movimento invece della staticità,
dell’andare, inteso come atto che crea lo spazio - entità mobile edificata dallo stesso incessante movimento - invece del vedere inteso come
contemplazione, atto ordinante.
Ghirri

Viaggio in Italia è dichiarazione della volontà e necessità di recuperare la dimensione formativa del Viaggio che l’industria del turismo ha
completamente stravolto e cancellato. L’antropologo contemporaneo
Marc Augé ha splendidamente riassunto l’entità di tale perdita in una
frase: “il viaggiatore scrive la propria vita, il turista la consuma”. Augé,
per parlare di questo senso perduto del viaggiare, cita come esempio i
viaggi dei Grand Tours ottocenteschi: “Per i giovani artisti francesi, il
Grand Tour in Italia era una sorta di iniziazione, una costruzione del
proprio essere: il viaggio era un’esperienza di sé favorita da uno spaesamento, il cui risultato (romanzo, diario) era frutto di un duplice spostamento, spostamento nello spazio e spostamento nel proprio io. Sotto
questo aspetto l’opera e il viaggio erano identici: chi faceva il viaggio o
scriveva l’opera non era più, o non pensava di essere più la persona di
prima” (Augé, 2004, p. 60). L’antrropologo francese ci indica perciò
come l’essenza del viaggiare sia interna e non esterna all’individuo e
consista in un incontro con un’alterità fondamentale per la costruzione
e il rafforzamento dell’identità .
Ma ancora più interessante e illuminante è il passaggio successivo in
cui egli riflette sul turismo, e dunque inevitabilmente sulla velocità dei
mezzi di comunicazione e di trasporto che l’hanno generato: “Il livello
raggiunto dal progresso tecnologico fa sì che non siamo mai stati vicini
come oggi a una possibilità reale, tecnologica, di ubiquità; il corpo del
singolo individuo si correda a poco a poco di protesi tecnologiche che

gli permettono, dovunque esso si trovi, di comunicare, senza spostarsi,
con qualunque altro corpo del medesimo tipo. Una volta tanto potremo
gestire l’immobilità ma saremo ancora dei viaggiatori? Ovvero esisterà
ancora il viaggio come spostamento verso le alterità?” (Augé, 2004, p.
63). Augé sembra rispondere di no. Egli sostiene che la comunicazione
contemporanea, pur essendo così potenziata e capillare, anzi proprio a
causa di ciò, sia in realtà un’illusione. E questo perché il tipo di comunicazione di oggi presuppone ciò che il viaggio cerca di creare: dei soggetti
individuali ben costruiti. “L’Homo communicans trasmette o riceve informazioni e non dubita di quel che è; “il viaggiatore cerca di esistere, di
formarsi, e non saprà mai veramente chi egli è o ciò che egli è. In questo
senso la pratica attuale del turismo ha più a che fare con la comunicazione che con il viaggio. Il turismo culturale accresce il sapere, il turismo
sportivo mette in forma, ma senza che ad essi sia mai associata l’idea di
una trasformazione essenziale dell’essere. L’ideale della comunicazione e
del turismo che di essa è figlio è l’istantaneità, mentre il viaggiatore se la
prende comoda, coniuga i tempi, spera, si ricorda” (Augé, 2004, p. 63).
Le immagini di Viaggio in Italia cercano proprio di sfuggire questo
meccanismo dettato dalla velocità e dall’istantaneità, proponendo un
modo diverso di percepire il mondo esterno. “Un modo di vedere che
ha il carattere di un’osservazione rigorosa e al tempo stesso è uso dell’immaginazione come pratica interpretativa” (Valtorta, 2004, p 76).
“(…) i venti fotografi avevano imparato a sottrarsi alle tentazioni del

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sensazionale, agli effetti realistici della foto documentaria e, in generale,
si erano liberati dall’idea della foto come un bottino, bottino esotico o
estetico, o bottino dell’immediatezza percettiva” (Valtorta, 2004, p 75).
L’immediatezza lasciava posto a una visione che non crede più alla cattura in velocità delle cose, e cerca invece un modo di guardare-pensare-immaginare il mondo esterno. “Un lungomare deserto di Garzia, le
vuote periferie di Jodice e Tinelli, il distributore di benzina abbandonato
di Fossati, un giardino inabitato di Leone, un brumoso scorcio riminese
di Castella, una costruzione nel deserto lucano di Cresci, le solitudini di
case o casolari di Guidi e Battistella, le vedute metropolitane all’alba di
Basilico, le lontananze di Ghirri e Chiaramonte; tutti quei vuoti e quei
silenzi attivavano una percezione contemplativa, e davano luogo a una
visione più dilatata, più immaginativa, non strettamente riferita all’immediatezza fenomenica. Ed era anche un modo per trovare una calma
dello sguardo, con sospensione di ansie, smanie e fretta del vedere moderno. Quello che avviene in queste foto è un radicale abbassamento
della soglia di intensità, abbassamento del grado di eccitazione immediata offerto nell’inquadratura” (Valtorta, 2004, p 75).
Viaggio in Italia è, infine, progettualità. Il grande valore aggiunto di
questo lavoro rispetto agli altri di Ghirri, con quali è per altro coerente,
è dato dal coinvolgimento in un’opera unitaria di ventuno artisti con
approcci necessariamente molto differenti alla realtà e alla fotografia e

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dal maggiore grado di progettualità e comunicazione, definizione, discussione sul progetto stesso che questo implica. Infatti, mentre gli altri
lavori erano frutto sì di una profonda, acuta e avanguardistica ricerca,
ma potevano correre il rischio di rimanere fini a se stessi e ridotti a uno
“stile ghirriano”, Viaggio in Italia è la concretizzazione della volontà di
Ghirri non di fondare un nuovo stile fotografico, ma di agire su un raggio
di azione che toccasse i linguaggi cognitivi di interpretazione del reale, e
di conseguenza fosse metodologia socialmente dibattuta e condivisa.
Coordinare ventuno diverse personalità in un progetto che implica un
approccio così insolito e innovativo non è stato facile per Ghirri, tanto più che il progetto non aveva alcun tipo di finanziamento certo, e le
basi di questo “discorso fotografico”, di questo “nuovo sguardo” di cui
Viaggio in Italia è stato portatore e promotore andavano trovate, discusse, concordate insieme. Il valore di questo progetto sta, come già
più volte abbiamo sottolineato, non tanto nel singolo risultato quanto al
processo che l’ha creato. Ma se prima, parlando di processo, mi riferivo
al percorso fisico e mentale operato sul territorio dagli artisti, ora mi
riferisco al processo di stesura del progetto partito da una sceneggiatura
di massima proposta da Ghirri, e poi via via affinato grazie al prezioso
apporto dei ventun protagonisti; Ghirri nomina tale processo, che molti
oggi chiamerebbero story-board, con il termine sinopia: “La sinopia è il
paziente lavoro di trasferimento del disegno sulla parete intonacata per
poi iniziare l’affresco: si tracciano le linee principali per controllare il
Ghirri

rapporto dei pieni e dei vuoti, i rapporti spaziali, per studiare e meditare
sull’insieme, il preludio indispensabile a quello che si vedrà alla fine, a
lavoro ultimato” (Ghirri 1997, p. 149).
Il risultato finale per il fotografo, quindi, e in questo caso di ventun artisti, nemmeno tutti fotografi, è soprattutto il lavoro preliminare fatto
di discussioni, di limature e rivisitazioni, di pazienti attese, di piccole
aggiustature e messe a fuoco progressive. Una simile operazione di creazione lenta e progressiva, difficoltosa ma formativa, che smitizza l’atto
di creazione come lampo di genio, diventa assai più complessa e infinitamente più ricca quanto più gli apporti sono molteplici e vari; il fatto
che ci fossero molte ­­­­­­ personalità coinvolte ha necessariamente imposto
una costante operazione di confronto e comunicazione del progetto,
delle intenzioni, delle idee, utilizzando riferimenti culturali ed estetici
molto vasti ed eterogenei che hanno suscitato un’ampia riflessione sui
“linguaggi fotografici” e non fino ad allora utilizzati, ed ha messo alla
prova e perfezionato la validità di quella sceneggiatura di massima alla
base della sinopia che era l’idea di Ghirri.
È opportuno notare come il lavorare su un tema comune in via di definizione da parte di diverse personalità, e soprattutto la presenza fra di
esse anche di uno scrittore, qualcuno perciò che lavora agli stessi temi
usando forme espressive differenti, sia stata preziosa e fondamentale
per la coordinazione del progetto: il racconto di Gianni Celati infatti,
caratterizzato dalla sua scrittura visiva, ha rappresentato le linee guida,

il sentire, la bibbia per i fotografi, delineando lo scenario, il paradigma
esistenziale all’interno del quale addentrarsi. Il racconto di Celati è il suo
inoltrarsi nei luoghi dimenticati in una zona dell’Emilia che abbraccia la
foce del Po. Egli non segue passo passo i luoghi ripresi dai fotografi lungo l’intera penisola, ma in un certo senso lo fa: i luoghi e i sentimenti che
prendono forma nella sua scrittura indicano infatti non le peculiarità
specifiche di un determinato territorio, ma quelle del paesaggio contemporaneo. La foce del Po è elemento a forte valenza simbolica, “area dell’immaginario in cui si mescolano varie densità della liquidità e del suo
immaginario materiale”, rappresenta “la condizione del soggetto perso
in un paesaggio liquido e marcescente che sembra non avere più riferimenti e indicatori spaziali in un orizzonte in cui la piattezza dell’acqua e
quella del cielo si fondono” (Basilico in Valtorta, 2004, p 163).
A chiusura di questo capitolo, primo pilastro nella mia definizione di un
nuovo linguaggio interpretativo del reale, voglio sottolineare l’eco che
il progetto di Ghirri ha avuto e ha tuttora, seppur con forme e modalità
differenti, nel panorama italiano ma anche europeo. Roberta Valtorta,
nel suo libro Racconti dal paesaggio, a vent’anni di distanza sottolinea come Viaggio in Italia sia un punto di demarcazione nella storia
della fotografia e dei linguaggi di rappresentazione: “In italia, a fronte
dei cambiamenti descritti, negli anni Ottanta prende vita un progetto
fondamentale nella storia della fotografia che ha influenzato in maniera

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determinante la nostra attuale concezione di fotografia del paesaggio e
ha fondato quella che venne definita una nuova fotografia italiana”.
Sempre nello stesso volume troviamo le considerazioni di Basilico: “Tra
i grandi meriti di Ghiri, e di chi gli è stato vicino nell’impresa, c’è quello
di aver saputo cogliere un passaggio epocale nella società e nella cultura
italiane a cavallo degli anni Settanta e Ottanta, e di aver rilanciato il
dibattito e la riflessione sulla fotografia, mettendoli in rapporto sia con
l’esperienza letteraria che con i linguaggi dell’arte e facendo convivere linguaggio descrittivo, forma narrativa e valore simbolico. Altro suo
merito è stato quello di aver creduto in un progetto di gruppo e di aver
avuto la forza di immaginarlo su scala nazionale. Viaggio in Italia non
ha potuto essere una committenza istituzionale che ha distribuito incarichi ai fotografi: è stata una sensibile e ragionata ricerca sugli archivi
di immagini esistenti, di lavori conosciuti, una riflessione, una verifica”
(Basilico in Valtorta, 2004, p 141).
Dopo questa esperienza si può dire che si sia sviluppata una vera e
propria tendenza, tanto influente da cambiare il volto della fotografia.
Innumerevoli sono state le iniziative in diversi paesi europei che hanno
visto la fotografia diventare lo strumento privilegiato per cercare di restituire un senso al paesaggio contemporaneo.
La più corposa e significativa è rappresentata dalla Mission
Photographique della DATAR voluta dal governo francese per documentare la trasformazione del paesaggio nazionale contemporaneo, la

42

più grande committenza pubblica realizzata nella storia della fotografia.
La DATAR è un’istituzione del governo francese che si occupa di pianificazione in senso allargato: indaga i problemi connessi allo sviluppo del
territorio, delle risorse locali, dell’industria, dell’agricoltura, dei flussi
migratori, delle iniziative culturali, fornendo a chi deve amministrare gli
strumenti per un migliore coordinamento ed equilibrio. Tali iniziative,
figlie di Viaggio in Italia, ad esso riconducibili per la scelta del mezzo
fotografico e per i fini di indagine, ne sono tuttavia non scarna imitazione ma lo sviluppo e la conferma dell’entità: questi progetti sono stati
infatti commissionati da una committenza pubblica, da enti regionali e
nazionali. Un simile passaggio da committenza privata - finanziata dagli
sponsor che gli artisti riescono a convincere, nata da lunghe discussioni
ed enormi difficoltà organizzative ed economiche, portata avanti grazie
alla passione e alla convinzione dei partecipanti - ad una committenza
pubblica - ossia costituita da organi che decidono di investire tempo,
soldi, risorse nell’organizzazione e gestione di un progetto siffatto che
indaghi la realtà territoriale di una regione, di una nazione o di un continente - è fondamentale in quanto è riconoscimento ufficiale della valenza sociale e dello “stato di necessità” dell’operazione compiuta con
Viaggio in Italia.
Le due vicende fotografiche infatti, profondamente diverse per organizzazione, tempo impiegato, obiettivi preposti e ambito istituzionale,
affrontano temi simili e hanno come comune scopo immediato la neces-
Ghirri

sità di una rappresentazione critica dei luoghi e, più in generale, di una
rifondazione della cultura del paesaggio contemporaneo, la necessità di
cui parlava Ghirri e che Basilico, parlando della DATAR, cui egli stesso
ha partecipato, ha ben definito: “ Le grandi trasformazioni avvenute con
l’era post-industriale hanno coinciso con un momento particolare della
storia del territorio. Per la prima volta senza dubbio nella storia le modificazioni dello spazio non possono più iscriversi in una rappresentazione
del mondo coerente ed omogenea. Non è più possibile ridare al paesaggio la coesione che ha perduto senza una profonda azione culturale”
(Basilico in Valtorta, 2004, p. 142-143).

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  • 8. Ghirri e la nuova fotografia italiana
  • 9.
  • 10. Ghirri L’INDAGINE FOTOGRAFICA Affascinata dalla fotografia di paesaggio urbano, di archeologia industriale, delle rovine, e in generale del territorio che caratterizza lo sguardo della nostra era post moderna, ho voluto approfondire tale sguardo: indagarne l’essenza, capirne la provenienza. La passione per la fotografia e l’addentrarsi nel territorio mi ha portato negli anni a compiere esplorazioni urbane sempre più frequenti, effettuate senza cartina, dettate dal caso, lasciandomi guidare dalla contingenza del momento, privilegiando sempre i retrovia dei luoghi, delle vie più affollate, immensi backstage dimenticati della nostra società. Mi affascinavano i colori e i disegni delle pareti sgretolate, l’interazione della traccia umana con gli elementi fisici, il sovrapporsi di tracce di segni che generano nuovi sensi, l’impossessarsi da parte della natura del rigido elemento architettonico, il silenzio che accompagnava le scene, rotto dai rumori della vita altrove. Percepivo un valore nel compiere quei percorsi, ma non riuscivo ad afferrarlo. Ne è prova il fatto che le fotografie che scattavo durante le esplorazioni sono state perse per la mia incapacità di inquadrarle in un percorso di senso, o addirittura da me eliminate perché lì per lì giudicate brutte, poco gradevoli. Mi rendevo conto di quanto le mie immagini fossero distanti dall’ideale di fotografia che si identifica con la fotografia commerciale, ben composta, con luce ed elementi studiati, e percepivo un disagio in questo scarto che esisteva, che non sapevo e non volevo colmare: le mie immagini, se fossero state troppo artificiose e studiate avrebbero perso il loro senso, che non stava tanto 11
  • 11. nell’immagine in sé ma nell’atto che l’insieme di immagini sottendevano e che era insito proprio nel loro essere imprecise e non programmate. Ho iniziato perciò a raggrupparle e catalogarle, ad apprezzarle: messi in serie, quegli scatti raccontavano, mi davano un’indicazione di senso. L’avvicinamento alla storia della fotografia, e in particolare alla fotografia italiana dagli anni Settanta a oggi, mi ha portato a conoscere il lavoro di Luigi Ghirri e del suo progetto Viaggio in italia. Conoscere e approfondire il lavoro di quest’autore mi ha aiutato a inquadrare il mio percorso, a metterne in luce aspetti fondamentali, a capire come il suo fotografare fosse il risultato di una serie di processi più o meno inconsci, tentativo di risposta al disagio dell’uomo post-moderno che si concretizza anche con una difficoltà a rapportarsi con il territorio. Il lavoro di Ghirri è importante perché completo: egli infatti è uno dei pochi fotografi che ha affiancato la sua produzione a una ricca riflessione teorica sul mezzo fotografico. Ghirri è inoltre stato uno dei promotori di quella che venne chiamata nuova fotografia italiana, determinando la nascita di un nuovo modo di fotografare più concettuale, che punta alla rappresentazione dell’uomo attraverso i luoghi, gli oggetti, il paesaggio, e che ha influenzato l’attuale fotografia a tal punto che è stato coniato il modo di dire “siamo tutti figli di Ghirri”. Ma perché l’apporto di Ghirri è stato fondamentale per il mio progetto, e in generale per la fotografia italiana ed europea? Tento di rispondere sintetizzando l’immensa operazione di ricerca del- 12 l’autore in quattro punti, che argomenterò successivamente apportando esempi, approfondimenti e citazioni: 1) la riflessione metasemiotica sulla fotografia; 2) il concetto di serie e di opera aperta; 3) i luoghi come ritratti; 4) la concezione del viaggio.
  • 12. Ghirri La riflessione metasemiotica Grande apporto di Ghirri alla fotografia italiana è stato il suo approccio metasemiotico alla fotografia. Metasemiotico come metalinguaggio, riflessione sopra (meta) il linguaggio, e identifica “ogni sistema linguistico per mezzo del quale è possibile analizzare i simboli e le strutture del linguaggio ordinario” (Zingarelli). Quando si parla di metasemiotica o di metalinguistica ci si riferisce anche a una delle sei funzioni della comunicazione teorizzate da Jacobson e assunte oggi come modello base della struttura di ogni atto comunicativo: come evidenziato in figura 1, l’atto del comunicare viene suddiviso in sei fattori e sei funzioni, ognuna delle quali è svolta da un attore del processo comunicativo (destinatore, mittente, destinatario, messaggio, canale, contesto semantico o riferimento). Ogni fattore svolge una funzione e, come vediamo, la funzione associata al messaggio (all’artefatto fotografico, nel nostro caso) è quella metalinguistica, vale a dire la riflessione sui modi dell’espressione (altrimenti, ma non del tutto propriamente, riassunti sotto il termine “codice”) che concorrono alla formazione del messaggio. Poichè il tipo di canale utilizzato influenza il tipo di espressione da utilizzare, possiamo affermare che canale ed espressione, e quindi funzione fàtica e funzione metasemiotica, sono strettamente collegate. Ghirri perciò, riflettendo sui modi dell’espressione fotografica sposta di riflesso anche la sua azione sul mezzo fotografico. Nella nostra epoca in cui “la realtà è diventata uno strato opaco e denso di immagini che si sovrappongono alla realtà e a se stesse” (Gravano, in rete il 20/07/07) un’epoca in cui tutto è immagine e tutto è comunicazione, la riflessione sui modi dell’espressione e sul mezzo fotografico è quanto mai preziosa e utile per sviluppare una visione critica. Soprattutto se si tiene in considerazione che i modi dell’espressione e il canale, nello studio della comunicazione, sono sempre stati piuttosto trascurati, messi in secondo piano rispetto ad altri aspetti, quali ad esempio la forma del messaggio. Ma la comunicazione è impensabile al di fuori di un canale e di un mezzo. Si può infatti, paradossalmente, avere un atto comunicativo solo perché un certo canale è stato attivato, anche in assenza di un vero e proprio messaggio (si pensi a una email vuota: comunica che c’è stata una volontà o un tentativo di comunicazione, pur non essendoci un messaggio veicolato). Viceversa, se c’è un messaggio ma non un canale e una forma di espressione, e di una comunanza di linguaggio, non esiste comunicazione (posso avere molte cose da dire a una persona lontana, ma se non ho un telefono e non parlo la sua lingua non posso farlo). Abbiamo perciò chiarito che la metasemiotica è una riflessione sui modi d’espressione, sui codici e altre forme di intesa, strettamente collegati al canale, e abbiamo compreso l’importanza di tali aspetti. Nel caso specifico ci riferiremo ai modi di espressione visuali (iconici e indicali) e al mezzo fotografico. Veniamo ora a Ghirri, cercando di capire perché e in che senso il suo approccio metasemiotico alla fotografia è innovativo. Egli non è stato in 13
  • 13. effetti né l’unico né il primo a soffermarsi su tali questioni: è stato anzi scritto moltissimo dai più svariati autori delle più svariate discipline su questo argomento, così complesso e controverso. La particolarità di Ghirri è stata quella di suscitare riflessioni sul mezzo fotografico facendone uso: sono cioè le sue stesse serie fotografiche a muovere, suscitare, attivare pensieri relativi alla fotografia e al fotografare. Dicendolo con Peirce, le fotografie di Ghirri sono esempi eccellenti di interpretanti che si ripropongono come oggetti dinamici, oggetti cioè che producono qualcosa, che provocano un movimento nella mente dell’osservatore, che generano senso. Ma per meglio comprendere l’operazione di Ghirri prendiamo in esame la sua serie fotografica intitolata Still Life, in cui la riflessione metasemiotica è particolarmente evidente e significativa. Il senso che egli vuole dare è provocazione e ribaltamento dell’area semantica indicata dal titolo. Lo still life è per definizione un genere di fotografia in cui un oggetto è rappresentato fuori dal suo contesto, nella maniera più didascalica, neutra e piacevole possibile, in cui perciò l’occhio del fotografo, il suo atto interpretativo tendono a scomparire. Ghirri paragona implicitamente lo still life indicato nel titolo alle immagini che lo circondano e che affollano i canali della comunicazione, immagini a tutti i costi “belle”, costruite, forzate, false, ma che non attirano l’attenzione dell’occhio umano perché vuote, e vuole indicare la strada per una 14 possibile soluzione, un possibile opporsi a questo tipo di immagine. Ma come opera un simile ribaltamento? Come costruisce la metafora? Attraverso il mezzo fotografico stesso, e proprio qui sta la sua forza espressiva. Si osservino le immagini 1-7: gli oggetti, per la tecnica con la quale sono ripresi (inquadrando sempre e solo l’oggetto senza il suo contesto) e la didascalia che recano, sono formalmente degli still life. Avvertiamo però che c’è sempre qualcosa, un elemento, che genera ambiguità, che ci fa improvvisamente percepire la distanza fra noi e l’oggetto rappresentato: “in queste fotografie l’oggetto fotografato entra direttamente in dialogo con il mondo fisico, mediante ombre, segni del tempo, sovrapposizione di oggetti o eventi minimi che hanno bisogno di una lunga lettura per essere scoperti” (Ghirri, 1997, p. 41). Il soggetto della fotografia è il ritratto della donna come siamo stati abituati a pensare o è quel cappello appoggiatovi? E perché è stato messo lì? Perché è stato fotografato? Improvvisamente, di fronte a un’immagine iniziamo a porci delle domande anziché contemplarla o a prenderla come dato di fatto; e le domande riguardano l’atto del fotografare. Ecco in che senso l’operazione di Ghirri è metasemiotica, perché usando il codice fotografico riesce a far parlare di esso. La costanza con cui questi elementi compaiono in tutte le fotografie della serie indica che non si tratta né di un caso né di un errore, bensì di un atto progettato. Tali elementi sono una sorta di interferenza che,
  • 14. Ghirri frapponendosi fra noi e l’oggetto rappresentato, ci spiazzano facendoci avvertire la presenza del canale, del mezzo fotografico; è come quando parlando al telefono sentiamo gracchiare la linea: solo allora prendiamo coscienza che stiamo utilizzando un canale e ci interroghiamo sul suo corretto funzionamento. Questo nostro interrogarci sul mezzo, suscitato dalla visione in serie degli scatti, è per di più fomentato dal significato del titolo: tutte le didascalie delle fotografie recano scritto Still life, e nessuna di esse sembra esserlo. “Le immagini, contrariamente a quanto suggerisce il titolo della serie, non rimangono inerti fondali, ma assumono senso ulteriore, significato secondo, con il diretto rapporto con il reale. Il David trova nei mozziconi dei sigaretta del posacenere momento di attivazione, dichiara della propria storia e della sua presenza oggi. Il paesaggio nel piatto dimentica il suo destino decorativo, e trova nel cannocchiale sovrapposto il senso del gesto che vuole sottendere: il suo offrirsi allo sguardo” (Ghirri 1997, p. 41). Ecco dunque come Ghirri, intrecciando campo semantico e campo visivo riesce lentamente ma con forza ad attivare una riflessione sul fotografare, e a comunicare il suo senso del fotografare: “fotografare è sovrapporre un’immagine preesistente con il momento presente, un’immagine ultima che diventa così immagine altra. [...] La fotografia non è pura duplicazione o un cronometro dell’occhio che ferma il mondo fisico, ma un linguaggio nel quale la differenza fra riproduzione e interpretazione, per quanto sottile, esiste e dà luogo a un’infinità di mondi immaginari. Anche gli oggetti che sembrano essere interamente descritti dalla vista possono essere, nella loro rappresentazione, come le pagine bianche di un libro non ancora scritto” (Ghirri, 1997, p. 47). L’immagine altra di cui parla è perciò l’essenza della fotografia che individua non nella rappresentazione già data, né nella registrazione del momento, ma dall’interazione e lo scarto di questi due elementi che “genera un’apertura a infinite possibilità percettive.” Queste affermazioni non sono dichiarazioni perentorie ma tentativi di indagine, per dare corpo a un “linguaggio”, fotografico e non, che parte dalla presa di coscienza dei limiti della semiosi visuale attuale. È questo che intende Ghirri quando parla di “una fotografia che abbia come presupposto uno stato di necessità”. I limiti del linguaggio visivo contemporaneo che egli individua sono riconducibili a due aspetti: ­ la tendenza a creare immagini forzate, costruite, false, vuote, perfette, che modificano, trasformano, occultano la realtà e cercano di attirare l’attenzione creando choc visivio-emozionali; - la parcellizzazione del vedere, generata dalla proliferazione di questo tipo di immagini false, che porta a una stimolazione percettiva sempre più veloce impedendo di vedere con chiarezza. Il linguaggio attuale, in sostanza, ha come effetto una percezione distorta e troppo frammentata della realtà, e confonde stordendo, invece di chiarire. 15
  • 15. La serie e l’opera aperta A una fotografia che trasforma, occulta emodifica la realtà Ghirri oppone una fotografia per vedere: “ nessuna violenza o choc, nessuna forzatura, ma il silenzio, la leggerezza, il rigore, per poter entrare in contatto con le cose, gli oggetti, i luoghi” (Ghirri, 1997, p.78). Di fronte a stimolazioni sempre più frequenti e parcellizzate egli vede nella fotografia un importante momento di pausa e riflessione. Il nuovo tipo di fotografia che si impone come necessaria è allora un mezzo conoscitivo, mezzo discreto e silenzioso, che non inganna lo sguardo e che anzi lo aiuta, riuscendo a fermare la realtà e riattivando così i nostri circuiti dell’attenzione fatti saltare dalla velocità dell’esterno: “Bisogna ricercare una fotografia che instauri nuovi rapporti dialettici tra autore ed esterno, nuove strade, nuovi concetti, nuove idee, per entrare in rapporto con il mondo, cercarne modalità di rappresentazione adeguate, per restituire immagini, figure, perché fotografare il mondo sia anche un modo per comprenderlo” (Ghirri, 1997, p.79). 16 Nel paragrafo precedente abbiamo familiarizzato con il modo di operare di Ghirri che ci ha portato a capirne il motore, ovvero la necessità di cercare un nuovo linguaggio. La citazione che ora riporto è logica conseguenza di quanto fin ora affermato e ci introduce al concetto di opera aperta, in realtà già affrontato senza averlo così definito. “(…) La mia idea di opera fotografica nasce da tutte queste considerazioni, l’idea quindi di una opera aperta. Non perché, semplicemente, mancano alcune tessere per ultimare il puzzle, ma perché ogni singolo lavoro si apre su di uno spazio elastico, non si esaurisce in un’entità misurabile, ma sconfina, un continuo dialogo tra quello terminato e quello che sarà” (Ghirri, 1997, p. 79). Parlando di opera aperta perciò Ghirri si riferisce alla potenzialità conoscitiva, di portare “oltre” che il nuovo linguaggio da lui sperimentato e teorizzato ha. Le sue considerazioni, così acute e di largo respiro, hanno la loro eco: si inizia a dibattere sul tema, e a porsi l’importantissima e tuttora trascurata questione di educare lo sguardo. Riporto a proposito un estratto del programma del seminario tenutosi all’Università di Parma nel 1984, che sembra proprio riferirsi all’apertura incitata da Ghirri: “L’insegnamento della fotografia dovrebbe delineare, alternando aspetti teorici e pratici, un approccio estremamente variegato e non codificato con la fotografia, per ricercare nuove figure, modi e metodi di rappresentazione. Al di là di intenti descrittivi e illustrativi la fotografia si con-
  • 16. Ghirri figura così come metodo per guardare e raffigurare i luoghi, gli oggetti, i volti del nostro tempo, non per catalogarli o definirli, ma per scoprire e costruire immagini che siano anche nuove possibilità di percezione. In definitiva, l’impegno è quello di cercare un’immagine in equilibrio fra la rilevazione e la rivelazione (…). Per raggiungere questa finalità, le analisi e le connessioni con altri linguaggi espressivi consentono la formazione di un corretto e aggiornato sistema di approccio all’ immagine fotografia, non relegandone la conoscenza in un restrittivo specifico” (Ghirri, 1997, p. 63). Ma veniamo ora al concreto. Abbiamo visto come l’ideale di opera aperta si possa definire come la ricerca di un linguaggio fotografico che sia strumento di indagine e conoscenza di una realtà che è complessa, articolata e non riducibile; tale ideale si traduce in un metodo di lavoro: l’operare per serie fotografiche e non per singoli scatti. Mi appoggerò alle definizioni di serie date dal dizionario per mostrare in che senso e perché il lavorare in serie di Ghirri è innovativo e costituisce il modo più naturale e sensato – forse l’unico – di fotografare. serie • dal lat. serie (m) “fila”, da serere “concatenare” (Zingarelli). L’etimologia della parola mette bene in rilievo il concetto di serie concepito da Ghirri: in quel “concatenare” individuo il progressivo e infinito costruire, comporre, articolare. Ciò non vuol dire che prima di lui nessu- no costruisse delle serie; la serie fotografica, dal momento in cui mettere in fila delle fotografie è di per sé un mettere in serie, è sempre stata usata dai fotografi, ma senza quell’accezione di apertura che più si avvicina alle altre definizioni di serie date dal dizionario: serie • successione ordinata di cose, fatti, persone, connesse fra loro e disposte secondo un certo criterio di ordine; (Zingarelli); • molteplicità di pezzi finiti, uguali tra loro e prodotti in un certo periodo in modo unitario relativamente a mezzi produttivi e metodi di lavoro. (Zingarelli). La serie fotografica, per come era tradizionalmente concepita, consisteva infatti in un accorpare, mettere insieme più o meno forzatamente immagini che avessero in comune il tipo di soggetto ripreso (una serie di ritratti ad esempio), un aspetto stilistico (fotografie in bianco e nero), la tecnologia utilizzata (delle polaroid), il punto di vista (fotografia aerea), e così via. Ghirri vede in questo modo di concepire la serie fotografica un tentativo sterile e inconcludente di archiviazione e catalogazione, un modo di mettere ordine, di concludere. Per lui la serie ha invece senso nel suo dis-ordine (nel senso che l’ordine non è prestabilito ma si forma nella mente dell’osservatore) e nella sua apertura (poiché mediante accosta- 17
  • 17. menti successivi deve suggerire, indicare, interrogare più che affermare perentoriamente). Tutto ciò indipendentemente dalla coerenza tecnica o stilistica delle immagini. Anche in questo caso la riflessione teorica viene applicata, dimostrata, chiarificata dalla pratica del fotografare: il concetto di serie e tutte le sue implicazioni che sono alla base di tutti i suoi lavori, è particolarmente esplicito nei suoi lavori Catalogo e Infinito e Kodacrome che ne mostrano tre diversi aspetti, sfumature. Nella prefazione al suo lavoro Catalogo, Ghirri spiega con molta chiarezza la sua posizione sulla fotografia che fa l’inventario del reale, e quindi del paesaggio: “Le analogie rigorosamente geometriche di queste fotografie combaciano con quelle architettoniche, con la mia formazione culturale, non dimenticano tuttavia come sempre che all’interno dello schema tracciato le combinazioni espressive delle tessere sono infinite. (…) Non ho voluto attenermi rigorosamente a quanto potrebbe suggerire il titolo scelto, ma ho piuttosto cercato di suggerire che, al di là di schematiche e facili accumulazioni, il significato è di depositare i dati per operare distinzioni, collegamenti, sottolineare rapporti, smontare meccanismi” (Ghirri, 1997, p.24). Ghirri sceglie quindi provocatoriamente di intitolare questa serie, scattata tra il 1970 e il 1979, e dedicata alle superfici esterne della città, dai murales alle saracinesche ai muri di periferia, Catalogo, proprio per 18 poter criticare aspramente, sia fotografando sia scrivendo, questa vocazione classificatoria e d’archivio, che negli anni Ottanta e Novanta in Italia avrà un seguito fin troppo scontato. Proprio per fugare ogni dubbio sulla posizione ghirriana in proposito, basta leggere la fine del testo appena citato: “La proliferazione delle catalogazioni, nel senso letterale del termine (tutti i camion, tutte le scritte, tutti i gadgets, ecc.) sembra effettivamente ricordare che stiamo preparando i documenti da portare sull’Arca di Noè; ma in questi depositi di oggetti, gesti, persone, non ritengo stia una validità testimoniale più ampia, una accumulazione di prove; ma pur nell’inevitabile limitazione, una totale accettazione del tic che si vorrebbe negare: il collezionismo come anestesia dello sguardo” (Ghirri, 1997, p.25). Veniamo ora a Infinito: anche in questo caso, come per Still life e Catalogo, egli gioca con il significato del titolo, estremizza il concetto di serie e l’aspetto di compiutezza che tradizionalmente gli viene dato per mostrarne le contraddizioni. La sua è un’efficace dimostrazione per assurdo. Egli vuole mostrare che la fotografia non può rappresentare la realtà nella sua interezza e complessità, e si oppone al modo di fotografare il “momento fermato viene letto come folgorazione e illuminazione di verità” (Ghirri, 1997, p. 36); vuole mostrare come ciò sia una presunzione, una contraddizione con il linguaggio fotografico.
  • 18. Ghirri Per dimostrarlo fotografa per un anno intero, una volta al giorno, il cielo ottenendo così 365 immagini del cielo, che poi devono essere assemblate in modo da formare un unico grande pannello. In un suo testo di introduzione a questo lavoro, pubblicato nel 1979, Ghirri scrive: “In Infinito, la sequenza temporale di un anno per un totale di 365 fotografie è così anch’essa insufficiente per ridare un’immagine del cielo. Neanche un linguaggio fotografico, iterazione, ripetizione progettata, sequenza temporale, è sufficiente a fissare l’immagine di un aspetto naturale. Infinito diventa così un possibile atlante cromatico del cielo; 365 possibili cieli” (Ghirri, 1997, p. 29). Già in questa prima semplice descrizione della procedura è chiaro come il termine principale sia “possibile”. Ghirri dichiara subito che la sua fotografia “non descrive in modo esaustivo, non pretende di fissare, non prevede l’idea di una definizione inalterabile del reale. La sua immagine, volutamente paradossalmente tassonomica e scientifica del reale, serve una volta di più a dimostrare l’impossibilità della rappresentazione ultima” (Ghirri, 1997, p. 36). Così formulato, il lavoro può suggerire l’impossibilità, l’inutilità di fotografare, essendo la realtà esterna illimitata, ma “è invece in questa non possibile delimitazione del mondo fisico, della natura, dell’uomo che la fotografia trova validità e senso. In questo suo non essere linguaggio assoluto, e nel farci riconoscere la non delimitabilità del reale trova la sua naturalità e la sua autonomia” (Ghirri, 1997). Infinito è dunque dimostrazione non che la fotografia è un linguaggio parziale e limitato perché frammentario, ma che la fotografia è il linguaggio di rappresentazione della realtà perché si presta a mostrare la frantumazione e atomizzazione che è insita nella realtà stessa, e l’unica metodologia di lavoro che si presta a tale compito è il procedere per serie. Tutto sta in questa dichiarazione dell’impossibilità della fotografia di essere “linguaggio assoluto” in favore della “non delimitabilità” del reale: la natura, intesa come paesaggio, come tutto il reale, compreso quello metropolitano, non può essere costretta per sempre, inderogabilmente in nessuna definizione da dizionario. Ruolo del linguaggio visivo non è quindi definire, ma semmai svelare l’indefinibilità: trovare i modi e i tempi per raccontare la sua pluralità. È così che Ghirri non si incarica di fotografare il cielo, ma 365 possibili cieli, e quella stessa mappa mobile non restituisce un’immagine del cielo, ma forse, in parte, una minuscola parte di opportunità di evocare il cielo. Con un procedimento mentale quanto mai al limite, Ghirri porta poi l’operazione alle estreme conseguenze, e nel pannello finale di Infinito, ripete più volte la stessa foto, la gira, la inverte, in modo da contraddire, ancora più sottilmente, questa idea ottusa della catalogazione giornaliera. Scrive chiaramente che Infinito è una sorta di sublime esercizio per dimostrare la “impossibilità di tradurre i segni-naturali” (Ghirri, 1997, p. 36). Quest’opera di Ghirri, un po’ come tutto il suo lavoro, trova un’eco forte in certe affermazioni che George Perec faceva sulla sua scrittura: “ [...] dalla successione dei miei libri nasce in me la sensazione, a volte confortante, a volte sconfor- 19
  • 19. tante (perché sempre sospesa a un “libro a venire”, a un incompiuto che rimanda a quell’indicibile verso cui tende disperatamente il desiderio di scrivere), che essi percorrono un cammino, segnalino uno spazio, demarchino un itinerario incerto, descrivano punto per punto le tappe di una ricerca di cui non saprei spiegare il “perché” ma soltanto il “come”: confusamente, sento che i libri che ho scritto si inscrivono e trovano un loro senso nell’immagine globale che mi faccio della letteratura; ma mi sembra anche che non potrei mai cogliere con precisione questa immagine: essa è per me un al di là della scrittura, un “perché scrivo” al quale non posso rispondere che scrivendo, rinviando continuamente il momento in cui, cessando di scrivere, questa immagine diventerebbe visibile, come un puzzle quando è definitivamente terminato” (Perec in Gravano, in rete il 20/07/07). E di puzzle come metafora Ghirri parla spesso proprio a indicare l’operazione del fotografare: “selezionare le tessere del puzzle che già esistono nella realtà per compiere un paziente lavoro di incastro, misurazione, raffronto, memorizzazione della tessera scartata per poi riprenderla più avanti” (Ghirri, 1997, p. 34). Grazie a questa operazione di districazione si ricompone con metodo, pezzo per pezzo, un’immagine leggibile. Immagine che non è la sola, non è rappresentazione univoca e imprescindibile, ma che è una delle infinite possibili a partire dai frammenti di cui il reale è composto. “L’immagine che si completa alla fine non diventa soluzione dell’enigma perché lo stesso puzzle ricomposto viene 20 rimesso di nuovo nel flusso dell’esistenza, e diventa ulteriore tessera da collocare. In questo senso l’operazione sembrerebbe inutile, ma all’interno della consapevolezza di questa reificazione rimane pur vero che una tessera nei suoi componenti si è ricomposta” (Ghirri, 1997, p. 34). In Kodacrome, serie realizzata tra il 1970 e 1978, Ghirri chiarifica e approfondisce il concetto appena introdotto con Infinito della frammentarietà del reale e della fotografia come linguaggio, come mezzo d’indagine. Nella prefazione alla serie stessa infatti egli ribadisce il concetto sottolineando come il mezzo fotografico sia il mezzo di rappresentazione per eccellenza: definisce in modo chiaro cosa è per lui la fotografia affermando che questa non concerne solo l’inquadratura, ma anche tutto quello che ne resta fuori, indicando come procedimento essenziale sia il comprendere una parte, sia il cancellare tutto il resto non inquadrato. “Questo duplice aspetto di rappresentare e cancellare non tende soltanto a evocare l’assenza di limiti, escludendo ogni idea di completezza o di finito, ma ci indica qualcosa che non può essere delimitato, cioè il reale” (Ghirri, 1997, p. 19). Il reale, quindi tutto il visibile, non è delimitabile e quindi descrivibile definitivamente. In questa dichiarazione si celano due interessanti e fondamentali prese di posizione rispetto al dibattito teorico sulla fotografia in quegli anni in Italia, ma anche in Europa. Da un lato l’avversione esplicita verso le teorie bressoniane del fotogramma perfetto, inalterabile in stampa, dell’attimo unico e irripetibile, contro le quali Ghirri scrive
  • 20. Ghirri esplicitamente: “Per questo non mi interessano: le immagini e i momenti decisivi, lo studio e l’analisi del linguaggio fine a se stesso, l’estetica, il concetto o l’idea totalizzante, l’emozione del poeta, la citazione colta, la ricerca di un nuovo credo estetico, l’uso di uno stile” (Ghirri, 1997: 19). Dietro queste affermazioni da manifesto, dal tono perentorio e dichiarativo, si intravede la sua volontà di non cadere nell’idea della fotografia come teoria estetica fissa, di contemplazione passiva del “già bello di per sé” del reale. La serie dei Kodachrome, realizzata tra il 1970 e il 1978, sono un gruppo di immagini scattate per la strada, quindi nel paesaggio urbano, che vedono strane sovrapposizioni, strane stratificazioni di visioni che fanno chiaramente pensare a delle elaborazioni del fotografo, a dei veri e propri assemblage. Tutte le immagini sono invece trovate così come le si vede nel reale: sono objets trouvés, riciclati dallo sguardo del fotografo. “Molti (e non solo per questo lavoro) hanno visto o scambiato queste fotografie per fotomontaggi; questi che io invece chiamerei fotosmontaggi, vogliono anche testimoniare di un colossale fotomontaggio esistente e cioè quello del mondo fisico. (…) La realtà in larga misura si va trasformando sempre più in una colossale fotografia e il fotomontaggio è già avvenuto: è nel mondo reale” (Ghirri, 1997: 22). Ghirri trova ancora molteplici piani di lettura del reale. Il mondo appare come un gioco infinito di contaminazioni, di giustapposizioni, di mescolanze che lo sguardo può cogliere a diversi livelli. Il fotografo non monta un nuovo visibile ma decostruisce con lo sguardo l’esistente. L’atteggiamento di Ghirri non è quello del passivo registratore, non è del semplice rilevatore, ma piuttosto insegna a spostarsi di quel centimetro che permette di vedere, che palesa un’ulteriore realtà poco riconoscibile dallo sguardo normale. Ghirri dice più volte che la sua fotografia del banale non mostra ciò che già si vede ma ciò che crediamo di vedere. “Il mio tentativo di vedere ogni cosa che è già stata vista, e di osservarla come se la guardassi per la prima volta, può apparire presuntuoso e utopistico. Ma attualmente è questo che mi interessa maggiormente” (Ghirri, 1997, p. 47). Lo sguardo allora diviene costruttore di una inedita tangibilità visiva che non è però finzione, ma piuttosto è la visione disincantata, e svincolata da regole, di chi si può permettere un vedere multiplo. Kodacrome sottolinea dunque che la frammentarietà è nel reale e che l’abilità del fotografo sta proprio nel saper cogliere, fermare, far significare tale complessità che è invece spesso responsabile di un calo di attenzione di fronte al troppo pieno. Kodacrome è anche l’affermazione dell’atteggiamento del fotografo come colui che “trova”, non certo di colui che costruisce: tutto quello che si rispecchia nelle fotografie di Ghirri sono situazioni e oggetti “rinvenuti” come reperti di un’archeologia del presente, del quotidiano, dell’usuale. In effetti, è semplicemente il reale che ha tanti e tali livelli di complessità che già comprende il tutto. In questo modo ha saputo, molto prima dialtri, guardare alla realtà metropolitana, urbana che, per sua manifesta 21
  • 21. I luoghi come ritratti dichiarazione, lo interessava più di ogni altra, in ogni suo aspetto, da quello più pubblico ed evidente a quello più su scala privata. Abbiamo perciò visto che il linguaggio ghirriano, che egli chiama opera aperta, si concretizza nel suo modo di fotografare e nel suo modo di lavorare per serie fotografiche. L’analisi di tre suoi lavori ci ha chiarito cosa è per Ghirri la serie fotografica, e con essa indico più in generale il nuovo linguaggio da lui auspicato, e da cosa nasce tale necessità: – Catalogo è una provocazione contro la tradizionale concezione di serie che viene appunto vista come necessità forzata di mettere assieme delle fotografie; – Infinito è la negazione di un linguaggio assoluto e affermazione di un linguaggio che sia invece narrazione possibile; – Kodacrome approfondisce il concetto di frammentarietà e complessità del reale che sta alla base della necessità di rinnovamento del linguaggio. 22 Con le serie fin ora esaminate ci siamo avvicinati alla filosofia di Ghirri e ai suoi forti elementi di rinnovamento. Iniziamo ora a restringere il campo osservando come il suo lavoro sia soprattutto incentrato su luoghi, ambienti, oggetti, a scapito, apparente, della figura umana. Nelle sue fotografie, come anche abbiamo potuto constatare dalla pur parziale visione dei suoi lavori, il soggetto rappresentato, ovvero l’elemento presente su cui si focalizza l’attenzione, non è quasi mai la figura umana, volti, posture, azioni, comportamenti: sembra quasi che l’uomo sparisca lasciando il ruolo di protagonista all’ambiente, agli oggetti che lo circondano: le poche volte che compare, la sua presenza ha senso nell’interazione fisica o semantica con il luogo, le persone sono spesso rappresentate di spalle e in pose poco eclatanti o in dimensioni poco rilevanti rispetto a quelle dominanti dell’ambiente. Mai vedremo, per come è tradizionalmente concepito, un ritratto di Ghiri, in cui il volto in primo piano ci guarda, con lo sfondo neutro: egli non vede gli uomini nella loro individualità poiché ciò ha a che fare con un’osservazione psicologica cui non è interessato, perché non appartiene alla sua ricerca. Cito a riguardo un aneddoto calzante tratto da Viaggio in un paesaggio terrestre di Giorgio Messori e Vittore Fossati i quali, parlando di Courbet raccontano: “Si dice che la sua amicizia con Baudelaire si sia incrinata perché a Baudelaire non era piaciuto il ritratto che Courbet gli aveva fatto. E Courbet si sarebbe giustificato con lui dicendo che è impossibile ritrarre uno che cambia faccia tutti i giorni. Perché la mutevolezza di un volto
  • 22. Ghirri non appartiene allo stesso ordine delle forme che cambiano continuamente nello scenario della natura, anche perché nella natura il tempo ha una durata, non è una successione di istanti, come può accadere per il volto di una persona” (Messori, 2007). Similmente, seppur con le dovute differenze dovute alla mutazione del paesaggio naturale, Ghirri non indaga l’essere umano nella sua individualità. Eppure abbiamo la sensazione che i luoghi di Ghirri raccontino dell’uomo, del suo vivere, del suo essere, e lo facciano in maniera sicuramente più efficace rispetto a tutte quelle immagini omologate, stereotipate della fotografia commerciale che pur formalmente lo rappresentano e contro le quali egli si scaglia prepotentemente. Le sue serie Diaframma 11, 1/125 luce naturale, Identikit e Atelier Morandi toccano espressamente questo filone di ricerca sull’ambiente antropico, sulla rappresentazione dell’uomo attraverso l’ambiente e sulla sua identità, mettendone in rilievo diversi aspetti che ci aiutano a capire il perché di una scelta così determinata, ma anche così coerente con la fotografia e la filosofia di Ghirri. Diaframma 11, 1/125 luce naturale, scattata da Ghirri tra il 1970 e il 1979, racconta la vita delle persone nel loro tempo libero, ambientate però come se fossero in una messa in scena, davanti a una quinta teatrale. In questa serie compaiono spesso figure che, di spalle a noi, guardano delle carte geografiche a muro. Ghirri ci mostra l’osservatore del mondo, ci mostra se stesso e noi stessi. Nel suo testo di spiegazione del 1979, proprio a proposito di queste figure scrive: “ho voluto dare alle persone un infinito numero di possibili identità, dalla mia mentre fotografo, a quella ultima: quella dell’osservatore” (Ghirri, 1997, p. 28). Le persone girate, faccia alle mappe non sono anonimi ma sono plurimi, non sono senza nome, ma sono tutti i possibili nomi. In questa serie si introduce il tema dell’identità come strada di ricerca complessa e articolata che porta il fotografo a riprendere persone voltate o seminascoste da elementi del paesaggio, non per pudore, ma solo per lasciare all’osservatore lo spazio per immaginare tante possibili identità. “È piuttosto in me la convinzione che in questo teatro, tra fondali, quinte, attori, il mio ruolo di fotografo non vuole essere né quello dell’autore, del cronista, dello spettatore, o del suggeritore, ma è anche, il mio, un ruolo identico a quello dei fotografati” (Ghirri, 1997, p 29). E qui si potrebbe intravedere la passione di Ghirri per il fotografo americano Walker Evans che, “tra i primi abbatte la barriera di rappresentazione tra fotografo e fotografato, tra fotografo e ritratto, instaurando un rapporto di reciprocità che scavalca d’un balzo tutta la concezione ottocentesca dell’antropologia visiva che vedeva nel fotografo l’osservatore ben distinto dalla materia da osservare” (Gravano, in rete il 20/07/07). “Non mi piace essere lo scrutatore occulto per carpire segni di vita, né tantomeno mi piace essere un implacabile e inflessibile occhio, che guarda direttamente in faccia, e che inevitabilmente fotografando giudica”(Ghirri, 1997, p. 29). 23
  • 23. In Diaframma 11 perciò Ghirri dichiara di non essere interessato alla penetrazione psicologica tipica del ritratto fotografico per come è tradizionalmente concepito: egli ci mostra l’uomo calato nel paesaggio, paesaggio che non è solo luogo da osservare ma anche luogo dove essere osservati. Ghirri non trova dunque nel suo sguardo la verità di chi vede, ma si sente al medesimo tempo fotografo e soggetto fotografato. Ancora una volta compie un’operazione metasemiotica: lega in maniera inscindibile l’uomo all’atto del guardare, del percepire, dello scoprire. Il lavoro sull’identità raggiunge con Identikit sfere più intime. Nella serie, scattata tra il 1976 e il 1979, Ghirri cerca non di “descriversi” ma di “mostrarsi” attraverso immagini della sua casa, dei suoi libri, dei suoi dischi, delle sue cose, come lui stesso scrive. Egli si pone dunque l’obiettivo di mostrare se stesso: “È come gesto di mostrarsi più che rappresentarsi che intendo queste fotografie” (Ghirri, 1997, p. 39). Già in questo suo specificare la scelta semantica di un termine e non di un altro, percepiamo la sua avversione al genere ritratto, capiamo come la sua scelta parta della critica all’attuale modo di fotografare che ritiene inadeguata a rappresentare e indagare il mondo contemporaneo. È lo stesso procedimento operato in Infinito in cui egli critica quelle fotografie di paesaggio che con un solo scatto si arrogano un diritto di verità. Il termine mostrarsi si contrappone al termine descriversi poiché Ghirri intende compiere un’operazione diversa da quel- 24 la del ritratto che cattura l’emozione fulminea e passeggera di un istante su un volto, diversa da quella dello sfogliare l’album di famiglia che sarebbe inevitabilmente un recupero forzato del passato: “ho cercato di mostrarmi al presente attraverso segni che lo testimoniano” (Gravano, in rete il 20/07/07). In tale direzione il termine usato per il titolo, Identikit, è un’indicazione di senso: “Il titolo usato è Identikit poiché analogamente identikit è la descrizione al presente di un volto ottenuto attraverso segni diversi frutto di memoria, che attendono in un futuro un disvelamento più preciso e dettagliato (…). Ho delegato, per questo autoritratto, gli oggetti (libri, dischi, ecc.) che testimoniano di un rapporto di conoscenza, di cultura, della mia fantasia, del passare il mio tempo: la lettura, l’ascolto della musica, progettare viaggi. Identikit diventa così continuazione ideale del mio lavoro eseguito e di quello che andrò a eseguire” (Ghirri, 1997, p. 39). Vediamo dunque come, anche per l’identità dell’essere umano, Ghirri ancora una volta esprima la volontà di non usare l’immagine per risolvere il reale in un’unica soluzione di verità data, ma piuttosto un palesare uno o più aspetti di questa. Ghirri fa una descrizione della sua abitazione, dei suoi oggetti, come dei suoi luoghi, non diversa da una mappatura che non restituisce però il “ciò che è”, ma piuttosto traccia indizi, spesso sfocati, soggettivi, un po’ appunto come quando si cerca di tracciare un identikit sui vaghi ricordi di qualcuno. Un’altra serie in cui Ghirri disegna un identikit è l’Ateler Morandi in
  • 24. Ghirri Viaggio e paesaggio cui egli fa una affettuoso e commuovente ritratto dell’amico scomparso ritraendo il suo studio, la luce che entrava dalle finestre della sua stanza, gli oggetti che ritraeva. In Identikit e Atelier Morandi vediamo così come i luoghi, gli oggetti, i paesaggi quotidiani abbiano un ricco potenziale espressivo, possano svelare l’identità di una persona, il suo vissuto, il suo essere in potenza, tanto che possiamo parlare di “ritratti”. Nel paragrafo precedente abbiamo constatato come l’insistenza di Ghirri a ritrarre luoghi, oggetti e paesaggi non sia una scelta di esclusione che allontana l’essere umano dal campo di indagine ma sia invece una scelta consapevole e ragionata che mira, anzi, proprio a coniare un linguaggio che parli all’uomo dell’uomo e delle sfide sempre nuove che la contemporaneità gli pone. Parlare dell’uomo attraverso il paesaggio non è poi così inconcepibile, se ci si pone nell’ottica ghirriana per cui Paesaggio è quella contaminazione dovuta alla presenza umana che, volenti o nolenti è tratto distintivo del territorio oggi. Le serie fotografiche che ora esamineremo mostrano la critica di Ghirri alla fotografia classica di paesaggio che tende a restituire un’immagine falsa, illusoria, lontana anni luce dall’aspetto contemporaneo del territorio italiano e perciò incoerente con la peculiarità indagativa del suo nuovo linguaggio. In Infinito e Colazione sull’erba egli critica il paesaggismo naturalistico che dipinge una natura incontaminata; in Italia ai lati, Il paese dei balocchi e In scala critica il paesaggismo storico, ufficiale, stereotipato che lega il territorio a monumenti che, troppo carichi di memoria, si svuotano di senso; in Atlante infine chiude, come suo solito, portando al paradosso questo strutturale compenetrarsi di realtà e rappresentazione. Nel testo di presentazione a Infinito leggiamo: “Non ho mai amato le fotografie della ‘natura’. Da quelle in cui la natura appare nei suoi aspet- 25
  • 25. ti misteriosi o metafisici, alle forzature astratte dei segni o campiture di colore. Ho sempre trovato in queste immagini, e nel tentativo disperato di bloccare il ‘momento naturale’, una contraddizione insanabile con il linguaggio fotografico. È già infatti la scoperta della visione rinascimentale, tramite la camera oscura, avvenuta non a caso in una sfera intellettuale urbana, che esclude in larga misura una visione ‘naturale’” (Ghirri,1997, p. 36). In questa breve trattazione si racchiude gran parte del senso del lavoro sul paesaggismo di Ghirri. In primo luogo, come abbiamo visto, il netto e chiaro rifiuto di una visione di contemplazione passiva della natura come “bellezza” intoccabile. Egli dice a chiare lettere che non trova nessun senso nel tentativo di “bloccare” in giochi estetici di diverso tipo una sorta di essenza naturale. Ma quello che appare ancora più interessante è l’importanza che dà alla natura urbana, potremmo già dire metropolitana, del nuovo paesaggio. Troppo spesso si è confuso il suo interesse fotografico per la Pianura Padana, o per la campagna emiliana, come una sorta di nostalgica attenzione al mondo della campagna, trasformando il suo paesaggismo assolutamente metropolitano – nello sguardo e nell’approccio – in una specie di ricerca naturalistica, strettamente legata a un conservatorismo di valori legati malinconicamente, e non costruttivamente, alla sola cultura contadina e provinciale. Ghirri, prima di chiunque altro, ha compreso il concetto di metropoli diffusa, ha capito che il suo sguardo poteva continuare a soffermarsi per tutta la vita solo entro un raggio di venti chilometri dalla 26 sua casa emiliana, ma che quello che contava era l’atteggiamento intellettuale, concettuale, di una ricerca mutevole e mutante, che si poteva avere su questi luoghi. Per primo ha compreso che non può esistere uno sguardo locale e localizzato che racconta la provincia, o una provincia, perché questa di per sé fa parte di un insieme globale, di una visione mobile e diffusa, che non la rende più luogo fisso, ma spazio di attraversamento, prima di tutto dello sguardo. Questi nuovi concetti di natura urbana e di metropoli diffusa, il continuo e reciproco contaminarsi fra naturale e artificiale che caratterizzano il paesaggio contemporaneo, sono ben enunciati nella serie Colazione sull’erba. In questo lavoro, realizzato tra il 1972 e il 1974, Ghirri fotografa tutto il verde pubblico giocando a confondere la natura-naturale con la natura-artificiale. Nel testo del 1979, che presenta la serie, tiene a specificare che non c’era nessuna volontà tassonomica di catalogare il verde periferico, e poco oltre spiega ancora più chiaramente: “Questa serie non vuole tanto sottolineare un rimosso esistenziale quotidiano o segnalare una simbolica deprivazione della natura oggi, quanto far risaltare come anche questo sia un aspetto della realtà odierna in cui la lettura non va mai effettuata in maniera univoca, ma sempre all’interno di una costante ambiguità” (Ghirri, 1997, p. 23). Nel paesaggio contemporaneo, la ricostruzione artificiale della natura non è un elemento negativo demonizzabile, non è elemento da giudi-
  • 26. Ghirri care e condannare, magari utilizzando il ridicolo. Piuttosto, la continua commistione tra natura e artificio viene riconosciuta da Ghirri come un marchio del nostro tempo, ed è inutile e dannoso avere un atteggiamento malinconico che vede in queste nuove forme di estetica solo la perdita della naturalità. Nella parte finale del suo testo Ghirri, come un chiaroveggente, dice che occorre rifiutare una lettura univoca a favore di una complessità che lo interessa molto di più. Ecco di nuovo la sua straordinaria capacità di leggere la molteplicità dei segni del suo tempo che alludono costantemente all’impossibilità di una visione unificata, pacificata del paesaggio, alla quale le sue immagini contrappongono invece un conflitto costante, un’ambiguità che attiva lo sguardo e non lo lascia in passiva contemplazione, o peggio in nostalgica ricerca, di un bello di natura. Ogni fotografia della serie Colazione sull’erba gioca a confondere reciprocamente le carte tra natura-naturale, natura ordinata dall’uomo e artificialità totale. E di nuovo Ghirri non costruisce mai situazioni ma piuttosto le trova, le vede. Dedica allora grande attenzione ai nuovi abitanti attoniti dei giardini delle nostre periferie: nani con o senza Biancaneve. Oppure fissa un’immagine di un giardino con un fondale verde dipinto del quale non si può più capire, nella bidimensionalità, quale spazio è attraversabile e quale è piano. O ancora, realizza piccole serie fotografiche di educate aiuole che sembrano finte e appaiono come i piccoli giardini simulati nei plastici degli architetti e, solo a un secondo sguardo, si rivelano invece quanto mai vere… o forse no. Mentre nelle due serie appena citate Ghirri critica il paesaggismo naturale, in Italia ai lati, lavoro realizzato dal 1971 al 1979, denuncia il peso eccessivo che troppa memoria esercita sulla rappresentazione di quei posti che si vorrebbero vedere, per un’anacronistica nostalgia, fermati in un eterno passato che non gli appartiene in toto, che non li descrive se non in modo parziale a frettoloso. Nella serie Ghirri mette a confronto le immagini stereotipate che si vedono negli scompartimenti dei treni con quelle che si vedono passare fuori dal finestrino, vere e frammentate. Le immagini appese all’interno dei vagoni sono ufficiali e statiche, mentre quelle che scorrono come in uno schermo sul vetro gli appaiono veloci, forse sommarie, ma vive e contemporanee. “Se le merlature delle torri citano un glorioso passato, e le rondini volano ancora, pur tuttavia non possono celare le staccionate di cemento sullo sfondo di un cielo azzurro” (Ghirri, 1997, p. 30). L’occhio del fotografo ancora una volta lontano da qualsiasi moralismo o giudizio, guarda alla possibile compenetrazione tra queste due realtà che dà come risultato la vera realtà paesaggistica sfaccettata: “Rivedendo nel passato, nelle strutture delle città, nelle immagini che abbiamo visto, nel nostro paesaggio, e relazionandoli con un presente possiamo distinguere: verificare, smascherare, per poi progettare ‘un paesaggio’” (Ghirri, 1997, p. 32). E ancora si noti come si nomini “un paesaggio” e non “il paesaggio”, a indicare sempre solo una di molte possibilità. 27
  • 27. Un ulteriore e radicale attraversamento tra paesaggio reale e finzione viene compiuto da Ghirri in due serie di lavori Il paese dei balocchi e In scala, dove scatta una serie di foto nelle “città della domenica”, cioè nell’Italia in miniatura e in parchi tematici simili. Qui la variazione di scala fa tutto il gioco. Lui stesso dice che in questi parchi è come trovarsi in una fotografia tridimensionale dove la variazione di proporzioni crea l’artificio illusorio tra reale e finzione, messa in scena e gioco. “Forse questa non sarà l’avventura con la ‘A’ maiuscola, ma nei tempi in cui gli gnomi abitano la cellulosa dei libri e non popolano più boschi di alberi resinosi, e il paese di Lilliput per Gulliver è lo schermo televisivo o il panopticon tridimensionale dell’Italia in miniatura di Rimini, inaspettato lo stupore è in queste piccole fratture e divergenze, volute o determinate dagli eventi, volontà di caratterizzazione nello sterminato territorio dell’analogo” (Ghirri, 1997, p. 53). In questo spazio dell’analogo si muove il paesaggio ghirriano che prende in considerazione tanto la Torre di Pisa quanto la sua miniatura nel Parco Tematico, senza porre differenza di sguardo tra le due, e considerandole ambedue oggetti della visione del presente, arrivando a dire che “è proprio in questo spazio di totale finzione che forse si cela il vero” (Ghirri, 1997, p. 37). L’attraversamento fisico di questa sorta di simulacri storici mette l’uomo comune davanti alla sua relazione con l’identità storica che, in una cultura come quella italiana, è insieme un fardello e un tesoro: “La celebrazione dei miti, dei luoghi delegati a una ‘identità 28 territoriale’, induce a una immediata ironia sulla follia di questo viaggio, di questo vedere tutto contemporaneamente” (Ghirri, 1997, p. 37). In Atlante, infine, le provocazioni di Colazione sull’erba, Italia ai lati, Il paese dei balocchi e In scala mirate a sottolineare la profonda e strutturale compenetrazione fra naturale e artificiale, oggetto e rappresentazione che caratterizzando il paesaggio contemporaneo, sono ancora una volta estremizzate e portate al paradosso: Ghirri arriva ad affermare che, per assurdo, viaggiare nella rappresentazione del mondo è come viaggiare nel mondo, poiché esso è ormai in gran parte rappresentazione. Atlante è una serie di immagini che altro non sono che foto di mappe geografiche, di diverso periodo e natura, che riproducono simbolicamente luoghi vicini o lontani, esotici o nostrani. Le immagini sono scattate molto da vicino in modo da confondere il retino della stampa con le piccole onde dell’oceano disegnate simbolicamente. Come minuscoli omini ai quali improvvisamente è data la possibilità di attraversare il mondo con un passo, tutti percorriamo l’intero globo in un solo sguardo. L’eterno sogno infantile del pianeta del Piccolo Principe di Saint Exupéry ci si avvera sotto i polpastrelli. Atlante nasce per Ghirri non solo come una serie di immagini, ma con l’idea progettuale di realizzare un vero nuovo atlante, un libro che fosse in qualche modo l’atlante e l’anti-atlante, un libro di mappe mobili, un libro con la sua geografia. Walter Benjamin scrive come incipit al suo testo Il flanêur, ne I “passa-
  • 28. Ghirri ges” di Parigi, una frase di un malato di mente: “Et je voyage pour connaître ma géographie” (Benjamin, 1997, p. 465). In qualche modo Atlante di Ghirri è la prova concreta che ogni paesaggio altro non è che una nostra geografia. L’atlante è lo spazio della rappresentazione dei luoghi per eccellenza, è lo spazio visivo nel quale ciascuno di noi, come dice lui stesso, fin da piccoli ritroviamo il luogo dove siamo, sogniamo luoghi lontani, o tracciamo percorsi che poi attraverseremo. “In questo lavoro ho voluto compiere un viaggio nel luogo che invece cancella il viaggio stesso, proprio perché tutti i viaggi possibili sono già descritti e gli itinerari sono già tracciati. Le isole felici care alla letteratura e alle nostre speranze, sono ormai tutte descritte, e la sola scoperta o viaggio possibile, sembra quello di scoprire l’avvenuta scoperta” (Ghirri, 1997, p. 30). Viaggiare dentro l’immagine appare a Ghirri ancora l’unico viaggio possibile. Viaggiare nella rappresentazione del mondo è come viaggiare nel mondo perché questo è ormai in gran parte la sua rappresentazione. Nel paradosso ghirriano i viaggi negli atlanti sono i soli possibili, in una società dell’immagine, che va considerata come tale, senza inutili moralismi, senza confini che ne respingano la verità: “Il viaggio è così dentro all’immagine, dentro il libro” (Ghirri, 1997, p. 30). 29
  • 29. VIAGGIO IN ITALIA E LA NUOVA FOTOGRAFIA ITALIANA Il lavoro di approfondimento sulla fotografia e la filosofia di Ghirri, che ci ha portato ad esaminare molti dei suoi lavori, familiarizzare con il suo modus operandi, entrare in sintonia con la sua visione sfaccettata del reale, è stato un percorso obbligato, indispensabile per comprendere il cuore del suo più ampio e ambizioso progetto Viaggio in Italia, per coglierne la reale portata di innovazione per la fotografia contemporanea ma non solo: anche per il linguaggio visivo e la comunicazione in generale. Lo spessore e l’importanza del suo operare è dovuto infatti proprio alla sua volontà, alla sua determinazione nel porsi come obiettivo una possibile soluzione al disagio comunicativo generazionale che egli avvertiva. Ma in cosa consiste questo disagio comunicativo? È ciò che, con la potenza e la genialità del suo “scrivere per immagini” egli afferma nel suo scritto Una luce sul muro: parlando degli scatti che si era trovato a fare nell’atelier di Morandi, Ghirri racconta la disperazione e lo sconforto del pittore quando, proprio di fronte alla finestra del suo studio, preziosissima fonte di luce, vide sorgere un enorme condominio dall’intonaco giallognolo che alterava la qualità e la quantità della luce. Parte così da questa forte immagine, da questo sconforto, da questo spaesamento per parlare dello sconforto e dello spaesamento dell’uomo contemporaneo di fronte a quella che chiama “perdita di paesaggio”. “La sparizione del paesaggio che avviene, di norma, come mutazione 30 dello spazio esistente, è accompagnata da quella altrettanto importante dell’ambiente in generale, sparizione che interessa anche il campo di attenzione. E succede che tutte le discipline riguardanti la rappresentazione, come fotografia, cinema, letteratura ecc. è come se fossero colpite da una forma di indicibilità se non da una vera e propria afasia, nel momento in cui si trovano a dover incontrare l’aperto del mondo esterno (…) il luoghi sembrano aver perso ogni riconoscibilità, negandoci ogni possibilità di lettura, quasi fossero stati toccati da una malefica magia fantascientifica che li ha stravolti. (…) È probabile che questo dipenda dal fatto che il territorio e il paesaggio sono diventati ormai luoghi anonimi, dove possiamo trovare tutto e di tutto, come in uno sterminato emporio del moderno, pieno di segni, segnali, insegne, gente, automobili e fabbricati e ancora squarci di paesaggio, torri, palazzi, cortili, giardini e che quindi il nostro sguardo, al primo approccio, renda questi luoghi come qualsiasi altra località occidentale” (Ghirri, 1997, p. 166). E ancora, Gianni Celati, attore di Viaggio in italia afferma : “Qualcosa è successo per cui questi aspetti della veduta classica diventano disconnessi, non più saldati in un’unità. Il che da luogo a imprevedibili aperture nei modi di pensare l’immagine, e un nuovo vedere, con nuove immagini” (Valtorta, 2004, p 77). Ghirri dunque percepisce il problema di linguaggio e di comunicazione che colpisce l’uomo nel suo rapportarsi al mondo e cerca di prender-
  • 30. Ghirri ne coscienza dando spazio alle “imprevedibili aperture”, nel “nuovo vedere” di cui Celati parla. Ed è in tal senso che Ghirri è stato anticipatore, poiché è stato capace di cogliere il disagio e fondare la sua ricerca proprio su questa “afasia” dell’uomo contemporaneo causata dalla “sparizione del paesaggio”, dalla mutazione del reale, sempre più repentina e strutturale e perciò sfuggente, innominabile. Il suo percorso di ricerca di una nuova lingua non può che partire dall’analisi critica dei linguaggi a lui contemporanei, dalle discipline riguardanti la rappresentazione, e dallo sforzo di comprendere il perché questi non siano adatti a mostrare il reale per quello che è, generando “l’afasia”, la “malefica magia” di cui parla. Approfondire i vari filoni di ricerca ghirriana a questo è servito: abbiamo visto come le sue idee e la sua concezione di “opera aperta” non siano considerazioni astratte ma partano dal coraggioso atto di mettere in discussione quelli che erano i cardini, la struttura portante dei linguaggi di rappresentazione e in particolare della fotografia da cui egli stesso è inevitabilmente partito e cui egli stesso ha fatto inevitabilmente riferimento per anni. Ghirri infatti, nei lavori che abbiamo esaminato e discusso, prende in esame uno per uno i generi fotografici mostrando come questi siano determinati da regole, da standard stereotipati e consolidati che tendono a rendere falsa e sterile l’immagine. Still life critica il genere di fotografia “natura morta”, che per le sue carat- teristiche tende a mostrare la fotografia non come filtro, interpretazione, ma come pura riproduzione, duplicazione; Catalogo critica la fotografia che fa l’inventario del reale riducendolo a scompartimenti fissi; Infinito critica il lavorare per singole fotografie come implicita dichiarazione di verità assoluta e propone invece il lavorare in serie, come proposta di un possibile accostamento, possibile verità, possibile narrazione; Colazione sull’erba critica la fotografia della natura come rappresentazione di un paesaggio forzatamente incontaminato, che esclude a priori l’artificiale schedandolo come elemento negativo e demonizzabile; Italia ai lati critica il paesaggismo storico, ufficiale, stereotipato, da cartolina che lega il territorio a monumenti che rischiano di occultare il presente; Diaframma 11 critica il principio base della fotografia di ritratto che vede da una parte il soggetto e dall’altra l’occhio implacabile del fotografo che giudica. Ghirri parte perciò con una critica verso tutti i generi fotografici, i modi di fotografare e di approciarsi alla fotografia a lui contemporanei senza prediligerne alcuno: un tale atteggiamento, che può essere percepito come presa di posizione dell’artista che giudica sprezzante dalla sua torre in avorio, va visto nella giusta luce. La sua avversione innanzitutto non nasce da un capriccio, ma dalla fatica, dall’umiltà e soprattutto dalla necessità di mettersi in gioco in prima persona: i linguaggi di rappresentazione che lui critica sono infatti gli stessi che lui stesso ha utilizzato e dai quali lui stesso è partito; il suo criticare tutti i generi 31
  • 31. fotografici non è poi assolutismo ma è dettato dal fatto che egli ha individuato l’anello debole dei linguaggi visivi a lui contemporanei nel concetto stesso di applicazione pedissequa di regole e stereotipi insita in questa suddivisione in generi. Da qui dunque la sua volontà urlata (si veda Kodacrome o Colazione sull’erba) di vedere, di accettare la complessità del reale, e non nascondersi dietro schemi obsoleti che rendono ciechi; da qui l’urgenza, la necessità di abbattere le definizioni rigorose e schematiche, gli stereotipi che dominano i linguaggi di rappresentazione visiva, di ibridare i generi al fine di trovare la chiave di un linguaggio possibile, che ha nell’apertura e nell’elasticità i suoi tratti salienti. “La mia idea di opera fotografica è quella di un’opera aperta. Non perché, semplicemente, mancano alcune tessere per ultimare il puzzle, ma perché ogni singolo lavoro si apre su uno spazio elastico, non si esaurisce in un’entità misurabile ma sconfina, un continuo dialogo tra quello terminato e quello che ci sarà. L’immagine assume così contorni meno definiti, categorici e lapidari, per essere parte di un’organizzazione più grande e in continuo movimento” (Ghirri, 1997, p. 79). Il termine “opera aperta” spesso usato da Ghirri per parlare della sua fotografia non è casuale. La sua ricerca di un linguaggio che abbia le caratteristiche di flessibilità, apertura e mobilità proprie della realtà che vuole mostrare trova supporto nel saggio di Umberto Eco L’opera aperta che, 32 nel capitolo Apertura, informazione, comunicazione traccia una precisa nuova tendenza dell’arte contemporanea, intendendo qui con arte qualsiasi forma creativa: “Le poetiche contemporanee, nel proporre strutture artistiche che richiedono un particolare impegno autonomo del fruitore, spesso una ricostruzione, sempre variabile, del materiale proposto, riflettono una generale tendenza della nostra cultura verso quei processi in cui, invece di una sequenza univoca e necessaria di eventi, si stabilisce come un campo di probabilità, una “ambiguità” di situazione, tale da stimolare scelte operative o interpretative volta a volta diverse” (Eco, 1962, p. 95). Un simile modus operandi è stato adottato, proprio nei primi anni Ottanta, anni in cui si sviluppa il progetto di Viaggio in Italia, a livello più ampio e globale da scienziati, biologi, antropologi, pscicologi, filosofi, matematici le cui riflessioni sono state raccolte da Gianluca Bocchi e Mario Ceruti nel libro La sfida della complessità in cui la complessità del reale viene vista non come qualcosa da abbattere, ridurre, semplificare, ma come un dato di fatto da accettare, assimilare, comprendere. Il libro, perfettamente in linea con la poetica ghirriana, seppur toccando ambiti molto differenti, “è un invito a una revisione degli strumenti tradizionali di lettura e conoscenza del reale, fin’ora organizzati attorno alle pratiche di un pensiero forte, all’interno del quale il sapere assume la forma di una strategia globale della conoscenza e in cui il momento fenomenico viene assunto come un frammento da ricondurre ad un universo più generale, governato da leggi universali.” (Bocchi e Ceruti
  • 32. Ghirri 1985). Il filo conduttore di tutti i saggi raccolti è dunque un’indagine volta a verificare se questa pratica tradizionale di ricondurre il fenomenico, l’evento particolare, a regole più generali funziona ancora. In realtà già nell’introduzione vediamo come la risposta suggerita dal libro sia negativa, e come l’invito sia invece quello di compiere lo sforzo di slegarci da schemi e stereotipi al fine di non ricondurre l’esperienza percettiva a schemi generali ormai obsoleti e insufficienti, di avere uno sguardo più elastico, che sia in grado di percepire la realtà attuale. È quanto viene dichiarato nell’introduzione, in cui ci accorgiamo che la “perdita di paesaggio” ghirriana tocca in realtà tutto il sistema scientifico e cognitivo umano: “La seconda metà del nostro secolo è caratterizzata dalla crisi dei presupposti epistemologici delle filosofie classiche della storia e dal fallimento di quelle idee di progetto, e di quei progetti, che hanno preso corpo all’interno di quelle filosofie. È venuta meno l’idea che la conoscenza delle leggi che regolano l’universo – fisico, biologico, sociale – possa garantire il controllo della storia e del futuro. Abbiamo bisogno di un nuovo modo di pensare il futuro. Un nuovo modo di pensare il futuro che riconosca il reale e il possibile non come dati immutabili ma come costruzioni mai definitive e dipendenti anche dalle nostre scelte, che tratti l’incertezza non come il peggiore nemico ma come il migliore alleato, che consideri la proliferazione di idee, di approcci e di azioni non un’inutile dispersione di energie ma l’unica strada percorribile per costruire nuove possibilità. La costruzione del futuro è una sfida ineludibile. Ed è indis- sociabile dalla sfida della complessità” (Bocchi e Ceruti 1985). L’opera di Bocchi e Ceruti è calzante per il nostro discorso, poiché compie un’operazione per molti versi simile a Viaggio in Italia, confermando l’apertura e l’attualità dell’indagine compiuta da Ghirri : l’obiettivo degli autori de La sfida della complessità “non è quello di definire una teoria fissa, ma piuttosto quello di abbozzare, grazie all’apporto di discipline diverse una teoria in divenire, divisa, più disposta a perdersi, ridefinirsi nei problemi, nei dubbi e nei bisogni di ogni lettore che a difendersi come risposta, come filosofia sistemata” (Bocchi e Ceruti 1985). Parimenti, Viaggio in Italia trova il suo senso non tanto nel risultato quanto nel percorso che è stato fatto da fotografi con stili e personalità molto differenti, e nel nuovo approccio al reale che questo percorso sottende. In entrambi i casi insomma si dà rilievo non tanto al risultato della ricerca quanto al processo, al discorso, al progetto, alla ricerca stessa. Ciò è tanto più valido quante più personalità diverse hanno aderito al progetto e al modus operandi che sottende. Sia Viaggio in Italia che La sfida della complessità sono infatti nati solo grazie alla volontà di professionisti con formazione e ambiti di indagine molto diversi fra loro di confrontarsi in una sfida impegnativa ma necessaria. Ecco dunque perché abbiamo accostato due opere che toccano ambiti così diversi, uno artistico-fotografico, l’altro scientifico: a dimostrare la necessità a livello globale di un mutamento di sguardo, di orizzonte, di metodo, di un’attualizzazione degli strumenti cognitivi che risponda al mutamento del 33
  • 33. reale in cui cambiamento, sovrapposizione e velocità non sono caratteristiche transitorie ma strutturali del nuovo paesaggio. E qui comprendiamo finalmente l’insistenza di Ghirri nel suo continuo sottolineare la necessità di accettare questo nuovo tipo di realtà che va via via delineando con i suoi lavori e che nomina con i termini Metropoli diffusa o natura urbana (dare un nome alle cose è il primo passo per comprenderle); capiamo il suo opporsi ai rigidi stereotipi che stanno alla base dei linguaggi di rappresentazione e nello specifico dei generi fotografici, che ci portano ad avere una percezione distorta della realtà, pericolosa perché illusoria. Ricordo ad esempio la critica di Ghirri, sviluppata nella serie Colazione sull’erba, alle fotografie paesaggistiche in cui compare una natura idillica e incontaminata, che non corrisponde al vero. Nell’introduzione a La sfida della complessità leggiamo: “La tesi stessa affermata dal libro è coerente con tale approccio: non ci si può accostare alla complessità attraverso una definizione preliminare, bisogna seguire percorsi differenti. Non c’è una complessità ma delle complessità. La complessità non è la risposta ad un problema quanto il “risveglio a un problema”, a una presa di coscienza. Bisogna prendere coscienza del fatto che non solo possono cambiare le domande e le risposte, ma che possono anche cambiare anche i tipi di domande e di risposte attraverso le quali si definisce l’indagine scientifica.” , e ancora sul manifesto di Viaggio in Italia “Le opere degli autori spostano l’attenzione della fo- 34 tografia alla cultura quotidiana dell’italia oggi e impongono il confronto con il vuoto d’impegno conoscitivo che paralizza altre attività espressive e altri sistemi di comunicazione. (…) L’intenzione è ricomporre l’immagine di un luogo, e antropologico e geografico, il viaggio è così ricerca e possibilità di attivare una conoscenza che non è fredda categoria di una scienza, ma avventura del pensiero e dello sguardo.” Entrambe le opere perciò partono da una presa di coscienza del disagio contemporaneo, ne individuano la causa nella mutazione strutturale della realtà e nell’incapacità degli strumenti percettivi tradizionali di indagarla, ed entrambe si pongono l’obiettivo di colmare questo scarto fra reale e strumenti di indagine. La cosa interessante per cui ha veramente senso accostare i due libri è che, pur trattando argomenti diversi, in entrambi i casi si arriva a capire che questa necessità di cambiare gli strumenti di indagine per essere reale ed effettiva deve partire dalle basi, deve rivoluzionare il sistema, il metodo di indagine stesso, e non solo il tipo di strumento. Ecco perché non ha senso individuare la soluzione nello strumento fotografico, piuttosto che pittorico o cinematografico, ma in un certo tipo di fotografia, di pittura e di cinema, che implicano un certo approccio al reale, un certo sguardo: è dunque un nuovo sguardo e non nuovi occhi quello di cui si necessita. È questo che Bocchi e Ceruti affermano dicendo che non solo possono cambiare le domande e le risposte, ma che possono anche cambiare anche i tipi di domande e di risposte.
  • 34. Ghirri Ecco dunque il valore di Viaggio in Italia, motivo per cui ne ho fatto uno dei pilastri portanti del mio percorso di ricerca: l’aver saputo “risvegliare un problema”, l’essere stato in grado non solo di porre delle domande, ma cambiare i tipi di domande, suscitando di conseguenza nuovi tipi di risposte. Prima di entrare nello specifico è bene inquadrare storicamente l’esperimento di Ghirri, dare corpo e colore a questa mutazione del reale così spesso citata in queste pagine attraverso le parole di Gabriele Basilico, fotografo e architetto che ha collaborato a Viaggio in Italia: “Nel periodo storico che va dal dopoguerra agli anni settanta la fotografia, intesa come pratica conoscitiva, si identificava con la classica fotografia di reportage, in cui la figura dell’uomo, la sua azione, la sua gestualità erano in primo piano, in cui “l’impegno dei reporter era dedicato ai grandi temi sociali, alla violenza, alla guerra, all’ingiustizia e non poteva essere diversamente, considerate le condizioni critiche in cui versava l’umanità” (Valtorta, 2004, p 139). Alla fine degli anni settanta si ha uno spostamento di attenzione, un’inversione di tendenza dettata dai cambiamenti storici: quel paesaggio, da sfondo scenografico, emerge sempre più come protagonista. “Si spegne l’eco dei tumulti di piazza e si ridimensionano i sogni rivoluzionari, una necessità di ripensamento e un periodo di tregua si impongono nella società. Restano visibili le tracce di un paese che, sulla spinta della ricostruzione materiale ed economica ha corso troppo in fretta verso il consumo di se stesso. In poco più di trent’anni di ricostruzione, dalle macerie della guerra si è compiuta la cementificazione dell’intero paese, dalle coste alle località montane, all’esplosione delle periferie urbane. E il paesaggio naturale, devastato da un’antropizzazione selvaggia e da uno sviluppo incontrollabile, è rimasto percepibile solo come riserva protetta, luogo di fruizione turistica, simile a un parco tematico. La strategia del turismo è diventata l’unico strumento progettuale utilizzato, economicamente più significativo, responsabile delle grandi e piccole modificazioni territoriali che hanno alterato in modo definitivo la forma dei luoghi e l’ambiente naturale” (Valtorta, 2004, p 139). La coscienza di questo stato di crisi, e della sua irreversibilità, è alla base di un dibattito politico e culturale che ha restituito centralità al paesaggio e ha impegnato progressivamente sempre più soggetti. Soprattutto il lavoro svolto dai movimenti ecologisti nei luoghi ad altro rischio e, su un altro piano, anche dagli artisti impiegati nella Land Art. Questo impegno, sempre più diffuso a livello internazionale, specialmente dove la società post-industriale ha lasciato i suoi segni, ha coinvolto a pieno regime anche la fotografia. Vediamo in cosa consiste concretamente Viaggio in Italia, e come riesce a concretizzare e approfondire il grande lavoro di ricerca sul linguaggio e gli strumenti cognitivi intrapreso da Ghirri. Viaggio in italia è il titolo di un progetto del 1984 ideato da Luigi Ghiri, 35
  • 35. composto da una mostra di trecento fotografie, scattate lungo tutta la penisola italiana, tenuta presso la Pinacoteca Provinciale di Bari e da un libro pubblicato dalla casa editrice il Quadrante di Alessandri. Presero parte al progetto venti fotografi, diciassette italiani, due americane e un francese. Il ventunesimo viaggiatore era uno scrittore, Gianni Celati, che scrisse per l’occasione il racconto Verso la foce, reportage per un amico fotografo, che troviamo nel libro. Sul risvolto della copertina troviamo il manifesto del progetto: “Viaggio in Italia nasce dalla necessità di compiere un viaggio nel nuovo della fotografia italiana, e in particolare , per veder come una generazione di fotografi, lasciato da parte il mito dei viaggi esotici, del reportage sensazionale, dell’analisi formalistica, e della creatività presunta e forzata ha invece rivolto lo sguardo sulla realtà e sul paesaggio che ci sta intorno. Le opere degli autori spostano l’attenzione della fotografia alla cultura quotidiana dell’Italia oggi e impongono il confronto con il vuoto d’impegno conoscitivo che paralizza altre attività espressive e altri sistemi di comunicazione. La televisione, il cinema, le arti visive appaiono sempre più lontani dal voler conoscere o almeno osservare il volto concreto dell’Italia. Eppure manca in queste fotografie quanto si trova sulle pagine dei quotidiani e su quelle patinate dei rotocalchi, né cronaca nera o rosa, né languide Venezie, né tristi bassi napoletani, e gli uomini parlano meno con il loro volto e più con gli oggetti che li circondano, con l’ambiente in cui vivono (…) L’intenzione è ricomporre l’immagine di un 36 luogo, e antropologico e geografico, il viaggio è così ricerca e possibilità di attivare una conoscenza che non è fredda categoria di una scienza, ma avventura del pensiero e dello sguardo” (Ghirri e Velati, 1984). Viaggio in Italia è la volontà di restituire un’immagine del territorio italiano che corrispondesse al vero; in un mondo che è diventato immagine, come suggeriva Ghirri in Atlante, è una “ricerca dell’originale perduto” (Valtorta, 2004, p 177).le trecento fotografie sono immagini di un’altra Italia, Italia altra rispetto a quella stereotipata sedimentata nel nostro immaginario collettivo. Ancora una volta Ghirri provoca e gioca con il contrasto titolo-contenuto: sfrutta lo spaesamento dell’osservatore per far sì che egli si ponga delle domande. Sfogliando per la prima volta il libro si prova spaesamento, disorientamento: il titolo che a grandi lettere porta quelle due parole “Viaggio” e “Italia” attiva subito e inevitabilmente immagini mentali legate ai luoghi comuni dell’Italia del turismo; l’Italia delle città storiche, del duomo di Milano, della torre di Pisa, del Colosseo o di piazza San Marco, l’Italia delle belle vedute, dei paesaggi alpini, della campagna toscana o dei trulli pugliesi, l’Italia del divertimento, delle spiagge, degli ombrelloni e delle belle ragazze, o ancora l’Italia delle tradizioni, dei vecchi che giocano a carte, del lavoro nei campi, dell’artigiano. Non una delle trecento fotografie presentano tali elementi, eppure sono state scattate proprio in quell’Italia, in quelle città, ponendo per la prima volta l’attenzione sugli infiniti ritagli esisten-
  • 36. Ghirri ti fra una cartolina e l’altra i quali, non essendo stati mai rappresentati, erano destinati a scomparire, e li fa esistere. “I fotografi non sono necessariamente i prosecutori di modelli inventati in epoche precedenti dalla pittura e dalla grafica, come nel caso delle foto di veduta e dei monumenti scattate appena dopo la metà dell’Ottocento e per mezzo secolo almeno in Italia. Bisognava trovare una chiave nuova, bisognava pensare a un diverso schema di racconto”. “Dal rifiuto dei monumenti tradizionalmente visti secondo i modelli delle immagini stereotipate si passa alla decisione di fotografare la dimensione, lo spazio dei luoghi esclusi, e dunque si propone un non-luogo, o meglio un sistema di non luoghi. Viaggio in Italia sarà il racconto dei territori negati” (Valtorta, 2004, p. 53).Una tale operazione ci apre gli occhi, ci dimostra come il filtro della rappresentazione si frappone come modalità percettiva fra noi e la realtà esterna sostituendosi invece ai nostri occhi, al nostro istinto, alla nostra testa. Il progetto è perciò un invito ad abbandonare, a liberarsi di ogni tipo di stereotipo e di usare invece i nostri occhi, il nostro istinto, la nostra testa. È stato questo l’unico vincolo dei 21 artisti invitati a viaggiare. Condizione preliminare per un’operazione del genere è non avere paura della realtà esterna, avere il coraggio di dare la propria personale interpretazione sapendo che si tratta di una delle infinite possibili, che una verità data che segue regole e princìpi fissi non esiste, ed è soltanto l’estremo gesto di chi, non sapendo nuotare nel mare della complessità contemporanea, si aggrappa con unghie e denti ai resti della nave naufragata. L’invito è quello di costruire dei percorsi dello sguardo, nell’esperienza del vivere quotidiano, che siano percorsi personali e non prefissati; è un invito, come suggerito dalla serie Atlante, a disegnare delle geografie personali. La rappresentazione cartografica è sempre stato un concetto caro a Ghirri, un mondo che ha su di lui un fascino infinito non per la sua definitiva esattezza ma anzi per la possibilità che rappresenta per ciascuno di proiettarvi i propri itinerari di attraversamento, di perdersi e trovarsi, di costruirsi appunto una propria geografia che è poi l’unica reale. “Questo lavoro sul paesaggio italiano vorrei che apparisse un po’ così come questi disegni mutevoli, anche qui di una cartografia imprecisa, senza punti cardinali, che riguarda più la percezione di un luogo che non la sua catalogazione o descrizione, come una geografia sentimentale dove gli itinerari non sono segnati e precisi ma ubbidiscono agli strani grovigli del vedere” (Valtorta, 2004, p 161). Mi viene da pensare alla mia esperienza di pendolare, per cui ho un’idea della distanza molto personale, basata sulla mappa sintetica della rete ferroviaria e metropolitana; ho introiettato una dimensione delle distanze radicalmente differente da chi si muove con mezzi e tempistiche diverse nella città e nei suoi dintorni. Ma penso anche al telefono cellulare che permette la costruzione di un territorio individuale portatile che 37
  • 37. ci rende dislocati e deterritorializzati come individui singoli, in eterno movimento. I mezzi di trasporto sempre più veloci, le comunicazioni avanzate hanno radicalmente modificato l’idea di spazio: queste profonde mutazioni possono anche essere considerate devastanti ma vanno accettate e non ignorate. La realtà è che si va sempre di più verso una visione individuale, singola del mondo, e la necessità è perciò quella di uno strumento cognitivo e percettivo che tenga in considerazione la liquidità, la mobilità e la relatività della realtà consentendo la costruzione sempre più radicale di geografie personali. Viaggio in Italia è percorso. È cioè il percorso fisico e mentale che gli artisti hanno compiuto, e non i singoli scatti che hanno prodotto; percorso che si identifica un atteggiamento; quello “non di chi costruisce ma vede, non di chi descrive ma mostra, non di chi definisce ma svela” (Ghirri, 1997). Tale significato di percorso può essere chiarito ripercorrendo il pensiero di Michel de Certeau, sociologo contemporaneo, nel suo delineare la distinzione fra mappa e percorso: “se si prende la ‘mappa’ sotto la sua forma geografica attuale, si vede che nel corso del periodo segnato dalla nascita del discorso scientifico moderno (XV-XVII secolo), essa si è lentamente distaccata dagli itinerari che ne costituivano la condizione di possibilità. Le prime carte medievali recavano solo tracciati rettilinei di percorsi (indicazioni performati- 38 ve destinate del resto soprattutto ai pellegrini), con la menzione delle tappe effettuate (città da attraversare, o dove fermarsi, alloggiare, pregare, eccetera) e di distanze calcolate in ore o in giorni, ovvero in tempo cammino. (…) La mappa scena totalizzante in cui elementi di origine disparata sono concentrati per formare il quadro di uno ‘stato’ del sapere geografico, respinge davanti a sé o alle sue spalle, come dietro le quinte, le operazioni di cui essa è l’effetto o la possibilità. Resta sola a occupare la scena. I descrittori di percorso sono scomparsi” (De Certeau, 2001, p. 179-181). De Certeau quindi definisce la mappa come un luogo stabile, definito e disegnato secondo una prassi statica, mentre il percorso resta un territorio del possibile che indica ma non definisce, che invita all’attraversamento e rifiuta la contemplazione. Non a caso, poco prima, nello stesso saggio scrive: “la descrizione oscilla fra i termini di un’alternativa: o vedere (è la conoscenza dell’ordine dei luoghi), o andare (sono azioni spazializzanti). O presenta un quadro (c’è...), o organizza dei movimenti (entri, attraversi, volti...)”(De Certeau, 2001, p. 178). Possiamo perciò affermare che il progetto di Ghirri è l’esaltazione del percorso invece della mappa, del movimento invece della staticità, dell’andare, inteso come atto che crea lo spazio - entità mobile edificata dallo stesso incessante movimento - invece del vedere inteso come contemplazione, atto ordinante.
  • 38. Ghirri Viaggio in Italia è dichiarazione della volontà e necessità di recuperare la dimensione formativa del Viaggio che l’industria del turismo ha completamente stravolto e cancellato. L’antropologo contemporaneo Marc Augé ha splendidamente riassunto l’entità di tale perdita in una frase: “il viaggiatore scrive la propria vita, il turista la consuma”. Augé, per parlare di questo senso perduto del viaggiare, cita come esempio i viaggi dei Grand Tours ottocenteschi: “Per i giovani artisti francesi, il Grand Tour in Italia era una sorta di iniziazione, una costruzione del proprio essere: il viaggio era un’esperienza di sé favorita da uno spaesamento, il cui risultato (romanzo, diario) era frutto di un duplice spostamento, spostamento nello spazio e spostamento nel proprio io. Sotto questo aspetto l’opera e il viaggio erano identici: chi faceva il viaggio o scriveva l’opera non era più, o non pensava di essere più la persona di prima” (Augé, 2004, p. 60). L’antrropologo francese ci indica perciò come l’essenza del viaggiare sia interna e non esterna all’individuo e consista in un incontro con un’alterità fondamentale per la costruzione e il rafforzamento dell’identità . Ma ancora più interessante e illuminante è il passaggio successivo in cui egli riflette sul turismo, e dunque inevitabilmente sulla velocità dei mezzi di comunicazione e di trasporto che l’hanno generato: “Il livello raggiunto dal progresso tecnologico fa sì che non siamo mai stati vicini come oggi a una possibilità reale, tecnologica, di ubiquità; il corpo del singolo individuo si correda a poco a poco di protesi tecnologiche che gli permettono, dovunque esso si trovi, di comunicare, senza spostarsi, con qualunque altro corpo del medesimo tipo. Una volta tanto potremo gestire l’immobilità ma saremo ancora dei viaggiatori? Ovvero esisterà ancora il viaggio come spostamento verso le alterità?” (Augé, 2004, p. 63). Augé sembra rispondere di no. Egli sostiene che la comunicazione contemporanea, pur essendo così potenziata e capillare, anzi proprio a causa di ciò, sia in realtà un’illusione. E questo perché il tipo di comunicazione di oggi presuppone ciò che il viaggio cerca di creare: dei soggetti individuali ben costruiti. “L’Homo communicans trasmette o riceve informazioni e non dubita di quel che è; “il viaggiatore cerca di esistere, di formarsi, e non saprà mai veramente chi egli è o ciò che egli è. In questo senso la pratica attuale del turismo ha più a che fare con la comunicazione che con il viaggio. Il turismo culturale accresce il sapere, il turismo sportivo mette in forma, ma senza che ad essi sia mai associata l’idea di una trasformazione essenziale dell’essere. L’ideale della comunicazione e del turismo che di essa è figlio è l’istantaneità, mentre il viaggiatore se la prende comoda, coniuga i tempi, spera, si ricorda” (Augé, 2004, p. 63). Le immagini di Viaggio in Italia cercano proprio di sfuggire questo meccanismo dettato dalla velocità e dall’istantaneità, proponendo un modo diverso di percepire il mondo esterno. “Un modo di vedere che ha il carattere di un’osservazione rigorosa e al tempo stesso è uso dell’immaginazione come pratica interpretativa” (Valtorta, 2004, p 76). “(…) i venti fotografi avevano imparato a sottrarsi alle tentazioni del 39
  • 39. sensazionale, agli effetti realistici della foto documentaria e, in generale, si erano liberati dall’idea della foto come un bottino, bottino esotico o estetico, o bottino dell’immediatezza percettiva” (Valtorta, 2004, p 75). L’immediatezza lasciava posto a una visione che non crede più alla cattura in velocità delle cose, e cerca invece un modo di guardare-pensare-immaginare il mondo esterno. “Un lungomare deserto di Garzia, le vuote periferie di Jodice e Tinelli, il distributore di benzina abbandonato di Fossati, un giardino inabitato di Leone, un brumoso scorcio riminese di Castella, una costruzione nel deserto lucano di Cresci, le solitudini di case o casolari di Guidi e Battistella, le vedute metropolitane all’alba di Basilico, le lontananze di Ghirri e Chiaramonte; tutti quei vuoti e quei silenzi attivavano una percezione contemplativa, e davano luogo a una visione più dilatata, più immaginativa, non strettamente riferita all’immediatezza fenomenica. Ed era anche un modo per trovare una calma dello sguardo, con sospensione di ansie, smanie e fretta del vedere moderno. Quello che avviene in queste foto è un radicale abbassamento della soglia di intensità, abbassamento del grado di eccitazione immediata offerto nell’inquadratura” (Valtorta, 2004, p 75). Viaggio in Italia è, infine, progettualità. Il grande valore aggiunto di questo lavoro rispetto agli altri di Ghirri, con quali è per altro coerente, è dato dal coinvolgimento in un’opera unitaria di ventuno artisti con approcci necessariamente molto differenti alla realtà e alla fotografia e 40 dal maggiore grado di progettualità e comunicazione, definizione, discussione sul progetto stesso che questo implica. Infatti, mentre gli altri lavori erano frutto sì di una profonda, acuta e avanguardistica ricerca, ma potevano correre il rischio di rimanere fini a se stessi e ridotti a uno “stile ghirriano”, Viaggio in Italia è la concretizzazione della volontà di Ghirri non di fondare un nuovo stile fotografico, ma di agire su un raggio di azione che toccasse i linguaggi cognitivi di interpretazione del reale, e di conseguenza fosse metodologia socialmente dibattuta e condivisa. Coordinare ventuno diverse personalità in un progetto che implica un approccio così insolito e innovativo non è stato facile per Ghirri, tanto più che il progetto non aveva alcun tipo di finanziamento certo, e le basi di questo “discorso fotografico”, di questo “nuovo sguardo” di cui Viaggio in Italia è stato portatore e promotore andavano trovate, discusse, concordate insieme. Il valore di questo progetto sta, come già più volte abbiamo sottolineato, non tanto nel singolo risultato quanto al processo che l’ha creato. Ma se prima, parlando di processo, mi riferivo al percorso fisico e mentale operato sul territorio dagli artisti, ora mi riferisco al processo di stesura del progetto partito da una sceneggiatura di massima proposta da Ghirri, e poi via via affinato grazie al prezioso apporto dei ventun protagonisti; Ghirri nomina tale processo, che molti oggi chiamerebbero story-board, con il termine sinopia: “La sinopia è il paziente lavoro di trasferimento del disegno sulla parete intonacata per poi iniziare l’affresco: si tracciano le linee principali per controllare il
  • 40. Ghirri rapporto dei pieni e dei vuoti, i rapporti spaziali, per studiare e meditare sull’insieme, il preludio indispensabile a quello che si vedrà alla fine, a lavoro ultimato” (Ghirri 1997, p. 149). Il risultato finale per il fotografo, quindi, e in questo caso di ventun artisti, nemmeno tutti fotografi, è soprattutto il lavoro preliminare fatto di discussioni, di limature e rivisitazioni, di pazienti attese, di piccole aggiustature e messe a fuoco progressive. Una simile operazione di creazione lenta e progressiva, difficoltosa ma formativa, che smitizza l’atto di creazione come lampo di genio, diventa assai più complessa e infinitamente più ricca quanto più gli apporti sono molteplici e vari; il fatto che ci fossero molte ­­­­­­ personalità coinvolte ha necessariamente imposto una costante operazione di confronto e comunicazione del progetto, delle intenzioni, delle idee, utilizzando riferimenti culturali ed estetici molto vasti ed eterogenei che hanno suscitato un’ampia riflessione sui “linguaggi fotografici” e non fino ad allora utilizzati, ed ha messo alla prova e perfezionato la validità di quella sceneggiatura di massima alla base della sinopia che era l’idea di Ghirri. È opportuno notare come il lavorare su un tema comune in via di definizione da parte di diverse personalità, e soprattutto la presenza fra di esse anche di uno scrittore, qualcuno perciò che lavora agli stessi temi usando forme espressive differenti, sia stata preziosa e fondamentale per la coordinazione del progetto: il racconto di Gianni Celati infatti, caratterizzato dalla sua scrittura visiva, ha rappresentato le linee guida, il sentire, la bibbia per i fotografi, delineando lo scenario, il paradigma esistenziale all’interno del quale addentrarsi. Il racconto di Celati è il suo inoltrarsi nei luoghi dimenticati in una zona dell’Emilia che abbraccia la foce del Po. Egli non segue passo passo i luoghi ripresi dai fotografi lungo l’intera penisola, ma in un certo senso lo fa: i luoghi e i sentimenti che prendono forma nella sua scrittura indicano infatti non le peculiarità specifiche di un determinato territorio, ma quelle del paesaggio contemporaneo. La foce del Po è elemento a forte valenza simbolica, “area dell’immaginario in cui si mescolano varie densità della liquidità e del suo immaginario materiale”, rappresenta “la condizione del soggetto perso in un paesaggio liquido e marcescente che sembra non avere più riferimenti e indicatori spaziali in un orizzonte in cui la piattezza dell’acqua e quella del cielo si fondono” (Basilico in Valtorta, 2004, p 163). A chiusura di questo capitolo, primo pilastro nella mia definizione di un nuovo linguaggio interpretativo del reale, voglio sottolineare l’eco che il progetto di Ghirri ha avuto e ha tuttora, seppur con forme e modalità differenti, nel panorama italiano ma anche europeo. Roberta Valtorta, nel suo libro Racconti dal paesaggio, a vent’anni di distanza sottolinea come Viaggio in Italia sia un punto di demarcazione nella storia della fotografia e dei linguaggi di rappresentazione: “In italia, a fronte dei cambiamenti descritti, negli anni Ottanta prende vita un progetto fondamentale nella storia della fotografia che ha influenzato in maniera 41
  • 41. determinante la nostra attuale concezione di fotografia del paesaggio e ha fondato quella che venne definita una nuova fotografia italiana”. Sempre nello stesso volume troviamo le considerazioni di Basilico: “Tra i grandi meriti di Ghiri, e di chi gli è stato vicino nell’impresa, c’è quello di aver saputo cogliere un passaggio epocale nella società e nella cultura italiane a cavallo degli anni Settanta e Ottanta, e di aver rilanciato il dibattito e la riflessione sulla fotografia, mettendoli in rapporto sia con l’esperienza letteraria che con i linguaggi dell’arte e facendo convivere linguaggio descrittivo, forma narrativa e valore simbolico. Altro suo merito è stato quello di aver creduto in un progetto di gruppo e di aver avuto la forza di immaginarlo su scala nazionale. Viaggio in Italia non ha potuto essere una committenza istituzionale che ha distribuito incarichi ai fotografi: è stata una sensibile e ragionata ricerca sugli archivi di immagini esistenti, di lavori conosciuti, una riflessione, una verifica” (Basilico in Valtorta, 2004, p 141). Dopo questa esperienza si può dire che si sia sviluppata una vera e propria tendenza, tanto influente da cambiare il volto della fotografia. Innumerevoli sono state le iniziative in diversi paesi europei che hanno visto la fotografia diventare lo strumento privilegiato per cercare di restituire un senso al paesaggio contemporaneo. La più corposa e significativa è rappresentata dalla Mission Photographique della DATAR voluta dal governo francese per documentare la trasformazione del paesaggio nazionale contemporaneo, la 42 più grande committenza pubblica realizzata nella storia della fotografia. La DATAR è un’istituzione del governo francese che si occupa di pianificazione in senso allargato: indaga i problemi connessi allo sviluppo del territorio, delle risorse locali, dell’industria, dell’agricoltura, dei flussi migratori, delle iniziative culturali, fornendo a chi deve amministrare gli strumenti per un migliore coordinamento ed equilibrio. Tali iniziative, figlie di Viaggio in Italia, ad esso riconducibili per la scelta del mezzo fotografico e per i fini di indagine, ne sono tuttavia non scarna imitazione ma lo sviluppo e la conferma dell’entità: questi progetti sono stati infatti commissionati da una committenza pubblica, da enti regionali e nazionali. Un simile passaggio da committenza privata - finanziata dagli sponsor che gli artisti riescono a convincere, nata da lunghe discussioni ed enormi difficoltà organizzative ed economiche, portata avanti grazie alla passione e alla convinzione dei partecipanti - ad una committenza pubblica - ossia costituita da organi che decidono di investire tempo, soldi, risorse nell’organizzazione e gestione di un progetto siffatto che indaghi la realtà territoriale di una regione, di una nazione o di un continente - è fondamentale in quanto è riconoscimento ufficiale della valenza sociale e dello “stato di necessità” dell’operazione compiuta con Viaggio in Italia. Le due vicende fotografiche infatti, profondamente diverse per organizzazione, tempo impiegato, obiettivi preposti e ambito istituzionale, affrontano temi simili e hanno come comune scopo immediato la neces-
  • 42. Ghirri sità di una rappresentazione critica dei luoghi e, più in generale, di una rifondazione della cultura del paesaggio contemporaneo, la necessità di cui parlava Ghirri e che Basilico, parlando della DATAR, cui egli stesso ha partecipato, ha ben definito: “ Le grandi trasformazioni avvenute con l’era post-industriale hanno coinciso con un momento particolare della storia del territorio. Per la prima volta senza dubbio nella storia le modificazioni dello spazio non possono più iscriversi in una rappresentazione del mondo coerente ed omogenea. Non è più possibile ridare al paesaggio la coesione che ha perduto senza una profonda azione culturale” (Basilico in Valtorta, 2004, p. 142-143). 43