2. Ontologia dell’immagine fotografica
Originariamente pubblicato nel 1945, questo importante articolo di Bazin si inserisce
in una linea discorsiva aperta da Canudo con la sua riflessione della posizione del
cinema nel «sistema delle arti». Come prima di lui non solo Canudo, ma anche
Benjamin e André Malraux, Bazin si interroga sulle trasformazione che l’avvento del
cinema produce nell’intero sistema delle arti, modificandone per sempre gli equilibri
interni.
Come Canudo, egli evidenzia come l’avvento del cinema comporti allo stesso tempo
una limitazione e l’apertura di nuove prospettive per quelle che definisce le «arti
plastiche» (ovvero, nel linguaggio di Canudo, le «arti dello spazio»).
Come già Benjamin e Malraux, anche Bazin inserisce il cinema nella lunga durata
della storia dell’arte, riflettendo sul significato dell’origine dell’arte nella sfera
religiosa e sulle conseguenze della riproducibilità dal punto di vista del rapporto del
pubblico con l’opera.
3. Benjamin, Malraux, Bazin
È possibile ipotizzare che Bazin, voracissimo lettore, conoscesse il saggio di Benjamin,
che, come sappiamo, era stato pubblicato in francese nel 1936. Un indizio in questo
senso è rappresentato dalla citazione, presente nell’articolo, di un precedente saggio
di André Malraux, «Esquisse d’une psychologie du cinéma», che a sua volta contiene
un riferimento al saggio di Benjamin.
La teoria del «realismo ontologico» elaborata da Bazin può in questo senso essere
considerata una risposta alla teoria benjaminiana della riproducibilità, o piuttosto un
suo sviluppo nella direzione di una verifica delle nuove condizioni per il
dispiegamento di un’esperienza d’aura nella sfera del cinema.
Questo breve testo è comunque attraversato da echi di numerosi altri autori: da
Canudo a Epstein, da Bergson a Sartre.
4. Il «complesso della mummia»
• All’origine delle «arti plastiche» si trova secondo Bazin «il
complesso della mummia», il quale risponde a «un bisogno
fondamentale della psicologia umana: la difesa contro il
tempo. La morte non è che la vittoria del tempo. Fissare
artificialmente le apparenze carnali dell’essere [come nella
pratica egizia dell’imbalsamazione] vuol dire strapparlo al
flusso della durata: ricondurlo alla vita».
• «Nelle origini religiose della statuaria si rivela la sua
funzione primordiale: salvare l’essere mediante l’apparenza»
.
• Nota bene: In Bonjour cinema, Epstein aveva definito il
cinema con l’espressione «imbalsamazione mobile».
5. L’arte ha dunque
inizialmente per Bazin una
funzione essenzialmente
magica e propriamente
simbolica, nella misura in
cui l’immagine «sta al
posto» dell’essere di cui
garantisce al tempo stesso
la sopravvivenza.
6. «L’evoluzione parallela dell’arte e della ci-
viltà ha liberato le arti plastiche da queste
funzioni magiche (Luigi XIV non si fa imbal-
samare: si contenta di un ritratto di Lebrun).
Non si crede più all’identità ontologica del
modello e del ritratto, ma si ammette che
questo ci aiuti a ricordarci di quello, e
dunque a salvarlo di una seconda morte
spirituale.
Se la storia delle arti plastiche non è
soltanto quella della loro estetica ma
innanzi tutto della loro psicologia, allora
essa è essenzial- mente quella della
rassomiglianza e, se si vuole, del realismo.»
7. Realismo e
prospettiva
• «Nel suo articolo su Verve, André
Malraux scriveva che ’il cinema non è
che l’aspetto più evoluto del realismo
plastico il cui principio è apparso
verso il Rinascimento, e ha trovato
l’espressione limite nella pittura
barocca.»
• «L’avvenimento decisivo fu senza
dubbio l’invenzione del primo
sistema scientifico e, in qualche
modo, già meccanico: la
prospettiva.»
8.
9. «La fotografia, portando a
compimento il barocco, ha liberato le
arti plastiche dalla loro ossessione
della rassomiglianza. La pittura infatti
si sforzava in fondo invano di illuderci
e questa illusione era sufficiente
all’arte, mentre la fotografia e il
cinema sono scoperte che soddisfano
definitivamente e nella sua stessa
essenza l’ossessione del realismo»
(corsivo mio).
10. La fotografia
non è la pittura
• La novità della fotografia rispetto alla pittura è «la
soddisfazione completa del nostro appetito d’illusione mediante
una riproduzione meccanica da cui l’uomo è escluso».
• Nel caso della pittura, per quanto rassomigliante al modello sia
il suo prodotto, «sussiste sempre un dubbio sull’immagine» a
causa della soggettività implicata nella manualità dell’operazione
di raffigurazione.
• Dal momento dell’avvento della fotografia la pittura viene
quindi «liberata» dall’esigenza di produrre immagini quanto più
somiglianti possibile alla realtà. In altri termini viene liberata da
quella che Canudo chiamava «la concorrenza rappresentativa»,
divenendo libera di esplorare altre dimensioni espressive, dal
surrealismo all’astrattismo.
• In pratica, con la fotografia si esce dalla sfera della
rappresentazione per entrare in quella della riproduzione.
11. «L’originalità della fotografia rispetto alla pittura risiede nella sua obiettività essenziale. […] per la prima
volta un’immagine del mondo esterno si forma automaticamente senza intervento creatore dell’uomo,
secondo un determinismo rigoroso. La personalità del fotografo non entra in gioco che per la scelta,
l’orientamento, la pedagogia del fenomeno; per quanto possa essere visibile nell’opera finita, essa non vi
figura allo stesso titolo di quella del pittore.»
Ciò ha importanti conseguenze a livello psicologico, sul piano del rapporto tra l’immagine e il suo
fruitore. Infatti «l’oggettività della fotografia le conferisce una credibilità assente da qualsiasi opera
pittorica», dal momento che ci obbliga «a credere all’esistenza dell’oggetto rappresentato,
effettivamente ri-presentato, cioè reso presente nel tempo e nello spazio. La fotografia beneficia di un
transfert di realtà dalla cosa alla sua riproduzione.»
«La fotografia non crea solo eternità, come l’arte, ma imbalsama il tempo, lo sottrae solamente alla sua
corruzione.»
«In questa prospettiva, il cinema appare come il compimento nel tempo dell’oggettività fotografica. . . .
Libera l’arte barocca dalla sua catalessi convulsiva. Per la prima volta, l’immagine delle cose è anche
quella della loro durata e quasi la mummia del cambiamento.»
La mummia del cambiamento
12. «Le virtualità estetiche della fotografia
risiedono nella rivelazione del reale. Un
riflesso sul marciapiede bagnato, il gesto di un
bambino, non dipende da me distinguerli nel
tessuto del mondo esterno; solo l’impassibilità
dell’obiettivo, spogliando l’oggetto dalle
abitudini e dai pregiudizi, da tutte le scorie
spirituali di cui l’avvolgeva la mia percezione,
poteva renderlo vergine alla mia attenzione e
pertanto al mio amore. Nella fotografia,
immagine naturale di un mondo che noi non
sapremmo o non potremmo vedere, la natura
in definitiva fa più che imitare l’arte: imita
l’artista.»
Fotografia, straniamento, fotogenia
13. Nella fotografia, la natura arriva fino a superare l’artista quanto a «potere creatore».
«L’universo estetico del pittore è eterogeneo all’universo che lo circonda. Il quadro racchiude un
micro-cosmo sostanzialmente ed essenzialmente differente. Al contrario, l’esistenza dell’oggetto
fotografato partecipa dell’esistenza dell’oggetto come un’impronta digitale. Con ciò, essa si
aggiunge realmente alla creazione naturale invece di sostituirgliene un’altra.»
Quest’ultima riflessione è alla base di tutti gli sviluppi successivi del realismo ontologico di Bazin.
Il fenomeno «naturale» dell’impressione fotochimica trattiene sulla pellicola la traccia luminosa
dell’oggetto, portandoci inevitabilmente a credere che l’oggetto sia effettivamente esistito di
fronte all’obiettivo nel momento dello scatto/ripresa, ovvero nell’hic et nunc della riproduzione.
La riproduzione cine-fotografica acquisisce quindi il valore di una certificazione di esistenza.
Viene in mente il commento di Benjamin sulle fotografie di Eugène Atget, definite niente meno
che come «documenti di prova del processo storico».
La fotografia è un’impronta
14. Le due direttrici della storia del cinema
• Bazin contesta che la storia del cinema sia divisa in due dall’avvento del sonoro.
Sostiene che il cinema fosse diviso tra due approcci sostanzialmente divergenti già
prima dell’avvento del sonoro.
• Da un lato ci sono i «registi che credono nell’immagine», che credono che il film tragga
il suo valore da tutto ciò che la rappresentazione aggiunge alla cosa rappresentata.
• Questa prima direttrice si biforca a sua volta in due:
• 1) i registi che privilegiano la dimensione della plasticità dell’immagine: scenografia,
trucco, illuminazione, angolature e inoltre, entro certi limiti, la recitazione; tra gli
esempi Bazin cita gli autori del cinema espressionista tedesco;
• 2) i registi che privilegiano il montaggio; tra gli esempi, oltre agli autori sovietici, Bazin
cita Griffith e Gance.
15. Le due direttrici della storia del cinema
• Dall’altro lato ci sono i «registi che credono nella realtà», che credono che il film valga
per quanto rivela della realtà
• Sono questi registi gli autori che possono trarre le maggiori conseguenze
dall’introduzione del sonoro, creando le condizioni per lo sviluppo del cinema
moderno
• Tra questi, ancora nel periodo muto, Bazin cita Murnau, Dreyer e Stroheim, che
vengono quindi presentati come altrettanti pionieri del cinema moderno
• Essi anticipano l’approccio «ontologicamente» realista di autori come Renoir, Welles e
Wyler
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19. La critica al découpage analitico
• Con l’espressione «découpage analitico», Bazin si
riferisce alla segmentazione della scena in vista del
montaggio, procedimento che caratterizza a suo avviso
in egual misura tanto il cinema dell’avanguardia sovietica
che il cinema classico hollywoodiano
• Nel caso del cinema narrativo classico, obiettivo del
découpage analitico è ottenere una perfetta chiarezza
narrativa, guidando lo sguardo del pubblico attraverso la
scena e concentrando la sua attenzione sugli elementi e
sui dettagli di volta in volta rilevanti dal punto di vista
della storia rappresentata
• L’esempio più emblematico di questo modo di procedere
è il campo-controcampo
20. La critica al découpage analitico
• Il problema del découpage analitico è che vincola il pubblico a seguire un percorso di
senso univoco, predeterminato dall’autore
• Bazin vuole al contrario promuovere uno stile di cinema che favorisca una percezione
attiva da parte del pubblico
• Egli vede nel piano-sequenza in profondità di campo il procedimento maggiormente in
grado di stimolare questo tipo di percezione attiva
• Il piano-sequenza in profondità di campo ha a suo avviso la capacità di restituire la
«ambiguità del reale», nella misura in cui permette allo spettatore 1) di scegliere su
quali elementi concentrare la propria attenzione, 2) di cogliere e valutare le relazioni
reciproche tra i vari elementi che partecipano all’azione
• In questo senso il piano-sequenza in profondità di campo riproduce le condizioni della
percezione naturale
21. Piano-sequenza e montaggio proibito
• Di qui la legge del «montaggio proibito», secondo cui occorre evitare il montaggio ogni
volta che il senso di un avvenimento dipende dalla presenza simultanea di due o più
fattori dell’azione
22. Piano-sequenza e montaggio proibito
• Il termine chiave qui è «avvenimento» (ovvero evenement, evento) che tradisce
l’ispirazione fenomenologica-esistenzialista di Bazin
• Il concetto di evento è cruciale nel pensiero dei filosofi esistenzialisti dell’epoca, da
Sartre a Merleau-Ponty, dove si presenta come esperienza immediata dell’accadere
del mondo
• Esso è intimamente legato all’idea di singolarità: ogni evento è singolare, unico e
irripetibile per definizione
• Deleuze definisce infatti l’evento come un «getto di singolarità»
• Il piano-sequenza ha lo scopo di offrire al pubblico l’esperienza di un evento in quanto
esperienza do una durata unica e irripetibile, un’esperienza, quindi, auratica
23. Piano-sequenza e montaggio proibito
• Ciò comporta un arretramento del cinema rispetto alla realtà. Nel suo discorso critico
la valorizzazione del film si fa a spese dell’immagine cinematografica stessa, che deve
tendere «trasparenza più neutra», per consentire un «guadagno di realtà».
• In altri termini, il valore del film tende al massimo quando la scrittura cinematografica
tende al suo grado zero, quando il cinema si nasconde e si ritrae per far posto a «una
valorizzazione più limpida dell’avvenimento col minimo indice di rifrangenza da parte
dello stile»
• Proprio in questo nascondersi e sottrarsi dello stile si affaccia la possibilità di una
nuova dialettica dell’aura, imperniata su una sorta di estetica rovesciata in cui la
valorizzazione del cinema è inversamente proporzionale alle sue tendenze estetizzanti.
• Solo a queste condizioni diventa possibile recepire il film secondo il suo valore di
testimonianza e accedere a un nuovo tipo di esperienza auratica.
• Non si tratta più dell’aura come valore dell’immagine, cioè di sostenere l’aura del
cinema, ma di affermare la capacità del film di farci accedere alla singolarità della vita
vivente.