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       La coltivazione di sé

         Gian Piero Quaglino




Pubblicato in “FOR”, N. 88, 2011, pp. 16-20
La coltivazione di sé
Di Gian Piero Quaglino




    Da sé e di sé

     Autoformazione. Cioè formazione da sé? Certamente. Assegniamo
all’autoformazione l’idea e il proposito di rappresentare quello che si è da sempre
indicato nel cammino dell’autodidatta. Di chi sa fare tesoro della sua esperienza,
che anzi se la impone, la rincorre, la sfida, per costruire da sé il sapere che lo rende
“preparato” al compito che si è scelto. Di chi si è costruito da sé lo stesso saper fare
tesoro dell’esperienza, come modo singolare, in certi casi del tutto originale, di
realizzare l’apprendere. In definitiva, di chi ha proceduto senza guide e maestri:
senza insegnamenti e istruzioni, senza aiuti e conforti, che provenissero da altri se
non da se stesso. Dunque, in un certo senso, “da solo”, essendosi fatto docente e
allievo allo stesso tempo, per necessità o forse anche per ambizione, e, come bene
ha detto Duccio Demetrio, “soltanto fidando nella propria volontà, nella caparbia
convinzione […] di essere capaci (o di esserlo stati) di mettersi al mondo”1.
     Autoformazione, tuttavia, anche come formazione di sé: di se stessi, come
individuo, come “soggetto al singolare”, al di là di qualunque determinazione
ancorata a un qualsiasi compito, al di là di qualunque appartenenza vincolata a un
qualsiasi contesto. Autoformazione, cioè, come cammino di interrogazione e
ascolto personale, rivolto a un sapere altro: meglio, a un sapere che non è
nient’altro che il sapere proprio. Anzi, il più “proprio” che possa essere pensato. Il
sapere che più ci appartiene e che, in un certo senso, più ci riguarda. Il sapere di ciò
che è interiore, più profondamente e più autenticamente: non quello della nostra
presunta identità, ma piuttosto quello della nostra esclusiva individualità. Il
sapere, in definitiva, comprensibilmente difficile da afferrare dei pensieri e dei
sentimenti che, dal di dentro, segnano la nostra vita, ma anche
incomprensibilmente facile da lasciarselo sfuggire ogni volta, tanto da valere una
vita intera.
     In queste pagine, guardo all’autoformazione soprattutto da questo secondo
punto di vista. Che possa essere anche formazione da sé è altra questione. Almeno
all’inizio, il compito è arduo: occorre una guida per muovere il passo. Occorre una
guida che sia un aiuto nel momento in cui, scelto il cammino, ci si debba far
coraggio nell’avanzare. Se è la conoscenza di sé che si ricerca, non si possono
escludere inevitabili, comprensibili, “umane” resistenze. Anzi, su queste occorre far
leva. Esse ci danno la prima misura di noi stessi. Offrono il primo sguardo sul
limitare del mondo interiore. Esse ci dicono che non ci sarà esito per il nostro
cammino senza esitazione. Esse ci invitano a diffidare dei facili entusiasmi. Se
vogliamo andare a fondo, occorrerà considerare anzitutto ciò che ci ritrae, anziché
ciò che ci attrae: il passo “dentro” non è pensabile senza mettere in conto il passo
“indietro”. Come ha ricordato Carl Gustav Jung, si tratta semplicemente di reculer
pour meiux sauter (“semplicemente”, beninteso, in senso eufemistico)2.



                                           2
Nel volgersi a sé, la resistenza appare d’altro canto ben giustificata:
ammettiamo facilmente che ciò che conosciamo di noi è sempre ben poco rispetto
alla conoscenza che possediamo di un qualunque argomento che possa essere
oggetto del nostro interesse. Ma anche quando il ben poco diventasse un po’ di più,
esso resterebbe comunque meno di ciò che potremmo conoscere: anche questo
riusciamo ad ammettere con altrettanta facilità. Pur essendo consapevoli di questo
nodo inestricabile, di questa sorta di empasse, non siamo tuttavia completamente
al riparo dalla possibilità di nutrire illusioni e speranze. L’illusione e la speranza
sono, per l’appunto, la migliore delle resistenze. La questione
dell’accompagnamento e del sostegno, o forse anche solo dell’incoraggiamento e
della “sorveglianza”, si pone dunque inevitabilmente. E siccome in queste pagine
non si riuscirà a parlarne, è bene in ogni caso tenerla presente.


    Coltivarsi

     Se è di formazione di sé che si sta parlando, ma si potrebbe dire ugualmente se
è di “educazione di sé”, le espressioni che valgono, e che sono ormai ben conosciute
nelle formule della ricerca, della conoscenza, della cura o della edificazione di sé,
vanno tutte benissimo. Ovviamente, tra l’una e l’altra di queste espressioni si
possono pure cogliere intonazioni differenti: la ricerca di sé intende anzitutto la
direzione di un cammino volto ad afferrare le ragioni più profonde che ci abitano,
mentre la conoscenza di sé vorrebbe sottolineare il valore e il limite al tempo stesso
che è rappresentato dal sapere interiore; d’altro canto, la cura di sé esalta più che
altro l’attenzione e la custodia, la partecipazione e la sollecitudine, la cautela e
l’“assistenza” che una simile destinazione richiede; mentre l’edificazione di sé si
propone di evidenziare, in particolare, l’etica del compito sotteso, la tensione
virtuosa, l’ancoraggio ai valori.
     A tutte queste espressioni, che pure apprezzo e faccio mie, preferisco tuttavia
l’idea contenuta nella formula di una coltivazione di sé. Mi pare che in questa
formula siano adeguatamente riassunte e soddisfacentemente riassumibili
l’orientamento della ricerca, il traguardo della conoscenza, il modo della cura e
l’ideale dell’edificazione. Senza altre perifrasi, evitando pure di forzare antitesi, per
differenza o per contrasto, il senso del coltivarsi si impone alle altre espressioni a
partire dalla considerazione che il nostro mondo interiore è pensabile e
rappresentabile negli stessi termini di quello che riconosciamo come il mondo della
natura. Non solo perché così è in quanto dimensione sostanziale ed essenziale della
“nostra natura”, ma perché, di fatto, esso resta comunque, per sua stessa natura,
sempre opponibile al mondo esteriore dell’artificio e del marchingegno,
dell’ingegneria e della tecnica, ma anche dell’utile e del profittevole, dell’efficiente
e dell’organizzato.
     Si tratta in altre parole di guardare a questo nostro mondo interiore, al di là di
ogni forzatura o pretesa, come al “terreno” della nostra soggettività, cioè al luogo
in cui sono insediati, e germogliano, maturano, appassiscono, e anche ramificano,
fecondano, fruttificano, e ancora si radicano, si diffondono, si propagano, i nostri
pensieri e sentimenti, così come i significati e i simboli, le immagini e i sogni, le
storie e i racconti che “verdeggiano” i noi. Il nostro mondo interiore è il loro
paesaggio. E formare sé è, per l’appunto, immergersi in questo paesaggio, come


                                           3
nella osservazione e nell’ascolto di ogni altro luogo di natura, e d’altra parte
disporsi ad assecondarne movimenti, a provocarne mutamenti, senza tuttavia
alcuna intenzione di addomesticamento, alcun interesse di coltivazione intensiva.
Un formare sé che è un coltivarsi con ostinata pazienza o paziente ostinazione,
senza volontà di sottomissione ad alcuno dei principi che viceversa regolano il
“dare forma” del mondo esteriore.
     Nella formazione di sé, ciò che è ricerca e conoscenza, cura ed edificazione,
interroga il prendere forma, non il dare forma. È esattamente come Gilles Clément
descrive nel suo richiamo al Terzo paesaggio: a quel luogo dell’incolto sottratto a
qualunque valore di funzione, a qualunque vantaggio di rendita, e piuttosto
saldamente ancorato al principio del rifugio per la diversità. Perché formare sé è
anzitutto questo: l’attenzione e l’interrogazione del prendere forma del nostro
paesaggio interiore, per ciò che può essere naturalmente singolare e unico, prima
che non per ciò che deve essere “artificialmente” condiviso e partecipato,
approvato e concordato. Uniformato a sé, dunque, e non già a una qualche attesa o
pretesa, richiesta o ingiunzione, obbligo o ordine che provenga da altri. Come dire,
proprio, un movimento lasciato a ciascuno di noi, a seconda dell’“incitamento del
mondo”, in assenza di ogni decisione di altri: un territorio indeciso per vocazione,
indocile per carattere e indeterminato per necessità.
     La coltivazione di sé che vuole essere la formazione di sé richiede così di
misurarci (di misurare il nostro apprendere, dovremmo finalmente dire) con tutto
ciò che di accidentale e di accidentato rappresenta la natura del paesaggio
interiore. Con ogni accidentale che è avvenimento della nostra vita e del nostro
“caso”, così come con ogni accidentato che è difficoltà del nostro cammino e della
nostra storia. Sono l’accidentale e l’accidentato la misura della nostra profondità,
ed è la nostra profondità a essere misura del nostro paesaggio interiore: del suo
mutare che è la nostra trasformazione. Nessuna organizzazione imposta
all’apprendere che interessa al mondo esteriore, nessun programma, nessun
obiettivo, nessun metodo, nessun risultato, possono essere modello di formazione,
se è di sé che ci si occupa. Il paesaggio del mondo interiore è e resta
permanentemente chiaroscurale. La coltivazione di sé non si conforma ad alcun
principio di organizzazione: essa si consegna e si affida al principio di sorpresa.


    Un pensiero senza indirizzo

     Se la formazione di sé assume il carattere di questa coltivazione improvvisata,
il modo che le sarà proprio non è da chiedere al governo del pensiero indirizzato,
del pensiero dell’io che si pone al centro della scena e della le sue condizioni. Quelle
solite, quelle che conosciamo sin troppo bene e che resistiamo ogni volta ad
abbandonare, salvo poi ritrovarci scoraggiati dagli esiti. Il pensiero dell’io è il
pensiero che l’io coltiva, ma non coltiva noi. È il pensiero sin troppo preoccupato
di eseguire la “dirittura” di un qualche ragionamento, anziché di inseguire
l’“inclinazione” di una qualche passione: sin troppo preoccupato di abitare il
territorio delle affermazioni, delle deduzioni e delle dimostrazioni che parlano
(parlerebbero) da sé per accorgersi, così facendo, di non riuscire più a parlare di
noi. Certo, il pensiero indirizzato ha sempre i suoi successi: è il pensiero che



                                           4
convince. Ma la formazione di sé cerca il pensiero che avvince, non quello che
convince.
     Ciò che ci avvince, ciò che ci afferra – essendo che, come ha scritto Jung,
“‘afferra’ solo colui che viene ‘afferrato’”3 –, non è quasi mai la prodezza del
pensiero indirizzato. Non è la vittoria della mente limpida, che parla per concetti,
per modelli, per teorie. Su questo equivoco la formazione dovrebbe esercitarsi, e
molto, quando vuole essere realmente formazione di sé. Perché, in questo caso, la
chiarezza della mente non è che l’abbaglio del pensiero: come ancora Jung ha
affermato: “La mia mente è un tormento, distrugge il mio sguardo interiore,
vorrebbe sezionare e disfare ogni cosa. Sono ancora vittima del mio pensare”4. Ciò
che ci avvince e ci prende, consentendoci di giungere così in prossimità di ciò che è
autenticamente “all’interno”, non scaturisce affatto dalle regole di un procedere
ben governato, ma comunque assoggettato alle condizioni di un principio che si
impone dall’esterno. Il pensiero illuminato non fa luce dentro di noi.
     Se si vuole percorrere la strada che conduce dentro di noi, occorre affidarsi
dunque a un differente pensiero: a un pensiero, per così dire, “senza indirizzo”. A
un pensiero che, rinunciando a invocare la sua stessa necessità come unico modo
possibile per risolvere casi, assumere decisioni, formulare leggi, enunciare verità
(tutto ciò che non ha fondamento nel profondo del mondo interiore, tutto ciò che
nel mondo interiore suona “infondato”), si disponga piuttosto a una paziente
esplorazione, senza traguardo e senza mèta. Si disponga, cioè, a un girovagare da
Terzo paesaggio (per dirla ancora con Gilles Clément), tra ciò che il pensiero
ordinato disdegna come “scarti”, consegnandoli alla rimozione: l’irrilevante ad
esempio, l’incerto, l’indefinito, l’irregolare, l’incidentale e, in primo luogo,
l’inconsapevole. Sono proprio questi, invece, gli scarti che fanno il paesaggio della
nostra vita interiore: sono proprio queste le pietre di scarto che fanno l’architrave.
     Tra gli scarti che costituiscono quel residuo e quel rifugio di “comprensione”
che è ciò che la formazione di sé deve coltivare, il pensiero senza indirizzo si muove
erratico, nomade e vagabondo. Non sarà la sua capacità di astrazione a darci
sicurezza, ma la sua capacità di estrazione: la sua capacità cioè di penetrare il
vissuto in cui quegli scarti si sono “interrati”, hanno messo radice e germogliano,
senza alcuna forzatura, senza alcuna prepotenza che li recida e li metta “in
cornice”: li circoscriva, li delimiti, li confini in una qualche “bella forma”. Il
pensiero senza indirizzo che cerca l’apprendere che ci forma è il pensare e il
ripensare che ci fa assorbiti e assorti in ciò che ci ri-guarda. In ciò che ci osserva e ci
interroga da un differente punto di vista, da un differente angolo di riflessione
rispetto a ciò che deve essere pensato nel nome di un qualche sapere istituito: il
sapere preordinato è sempre in qualche misura sovraordinato a noi stessi.
     Il pensiero senza indirizzo esige così che l’io taccia. Che l’io sia accantonato,
sospeso, confinato al “sussidiario”. Per la formazione di sé, l’io resta un
insuperabile manipolatore, di cui è bene non fidarsi: un manipolatore che ogni
volta che parla del “sé”, in realtà, non intende altro che il “me stesso”. Per
l’autentica formazione di sé, l’io, che pretende sempre di sapere sin troppo bene ciò
che cerca e vuole è da abbandonare: perché ciò che cerca e vuole è sempre solo ciò
che conferma e afferma, e ciò che conferma e afferma non è mai la misura di ciò che
“comprende”. Per l’autentica formazione di sé, nessun sapere è cercato per far sì
che l’io perori all’infinito la sua causa: è cercato piuttosto il pensiero di ciò che,
essendo “scarto”, consenta per vie traverse, per deviazioni e diversioni e curvature,


                                            5
di giungere altrove. Non là dove l’“affermazione” dell’io è la parola della
formazione, ma dove la formazione è il silenzio dell’affermazione dell’io.


    La scuola della vita

     La formazione di sé, che è la coltivazione di sé, è la scuola della vita. È lo spazio
in cui gli eventi e i casi della vita rappresentano il filo sottile che traccia il nostro
cammino di formazione. Nient’altro che questo. Tuttavia, non la scuola dei saperi
applicati alla vita, ma la scuola dei pensieri a cui la vita si applica: la vita di
ciascuno e di tutti, in tutte le “forme” in cui si dà (in cui “può darsi”): avventure e
disavventure, accidenti e incidenti, circostanze e contingenze, coincidenze e
combinazioni, peripezie e traversie, congiunture e fatalità5. Non la scuola in cui si
pretende di istruire la vita, ma la scuola in cui la vita prova a “istruire” se stessa.
In tutto ciò che cerca e vuole, attende e pretende, interroga e sfida, fatica e
conquista: per tutto ciò che accetta e rifiuta, sottrae e restituisce, contrasta e
sostiene, ferisce e lenisce, soccorre e abbandona6. In definitiva, non il luogo di ciò
che è bene sapere, ma prima ancora il luogo di ciò che è bello pensare7.
     Guardiamo dunque alla scuola della vita anzitutto come alla scuola
dell’esperienza non del mondo esteriore, ma del mondo interiore. Non del mondo
esteriore comprovato dai fatti e dalle loro ragioni, ma piuttosto del mondo
interiore messo alla prova dagli eventi e dai nostri sentimenti. Per la scuola della
vita, l’esperienza non si ritrova in ciò che è stato progettato di fare accadere e così
sperimentato, ma in ciò che è accaduto da sé e così “ci sperimenta”, ci “saggia”.
Per la scuola della vita, l’esperienza sempre si dà come aperta condizione di
accadimenti e casi, per i quali il pericolo può condurre alla perizia (essendo
entrambi, per nodo di etimologia, allacciati e intrecciati all’esperienza stessa), ma
la perizia non può precludere il pericolo. Qui, la formazione di sé non fa tesoro
dell’esperienza come rendiconto di ciò che è stato attraversato, ma piuttosto come
messa in conto di ciò che siamo disposti ad attraversare.
     Per la scuola della vita, la formazione di sé è così un cammino che si avvia
dall’accidentale del mondo esteriore e si inoltra nell’accidentato del mondo
interiore. Ha una direzione questo cammino? Se non una direzione, almeno un
itinerario: un primo passo nel territorio della riflessione, come luogo di
ripiegamento su di sé, come luogo in cui ciò che è accaduto sollecita il pensiero di
noi; un secondo passo nel territorio dell’interpretazione, come terreno di sfida di
ogni certezza nella molteplicità dei significati, e di riappropriazione di ciò che, per
il tramite dell’accaduto, può essere il significato di noi; un terzo passo nel territorio
dell’immaginazione, come spazio di attesa di ciò che si riesce appena a
intravvedere, sino a prendere forma nel prefigurare un contorno, almeno, o un
profilo di immagine di noi; un ultimo passo nel territorio della narrazione, come
atto finale di travestimento di ciò che è stato appreso in pensiero, significato e
immagine ad opera di una storia, di un racconto di noi.
     La scuola della vita non è, in definitiva, l’edificio in cui si dà la formazione di
sé. Semplicemente, è la strada che vi conduce. Semplicemente, è la strada per
arrivarci. Perché il principio di sorpresa, che guida la formazione di sé, è bandito
dall’edificio (così, del resto, da ogni altro edificio che sia una “scuola”) e abita la
strada. La scuola della vita non è, dunque, per coloro che sono alla ricerca di


                                            6
conoscenze e di contenuti già “confezionati e perfezionati”, e di metodi e tecniche
“efficienti ed efficaci”: non è per coloro che sono alla ricerca di un apprendere
“utile”, nemmeno quando esso si offra “dilettevole”, né per coloro che sono lì per
avere risposte da destinare agli altri, oltre che a sé. La scuola della vita è,
piuttosto, per coloro che cercano le domande da rivolgere a sé, prima che non agli
altri: che prediligono l’esplorazione e l’avventura del pensare, che ne cercano il
“riflesso” dentro di sé, che non hanno timore di avanzare nel labirinto dei
significati, che accolgono le immagini come un dono e che custodiscono, del
narrare, il segreto trasformativo. La scuola della vita è per tutti coloro che sanno
che, come ha scritto Ernst Jünger, “il bello della scuola [è], più di tutto, la strada
per arrivarci”8.




                                          7
1
  D. Demetrio, “Autoformazione: le cifre, le pratiche”, in: “FOR”, N. 53, 2002, p. 18.
2
  C.G. Jung, Ricordi, sogni, riflessioni (1961), BUR, Milano 1992, p. 377.
3
  C.G. Jung, Un mito moderno: le cose che si vedono in cielo (1958), in Opere, Vol. 10-2, Bollati Boringhieri, Torino 1986,
p. 202.
4
  C.G. Jung, Il Libro Rosso (1914-1930), Bollati Boringhieri, Torino 2009, p. 238.
5
  G.P. Quaglino, La scuola della vita. Manifesto della terza formazione, Raffaello Cortina, Milano 2010, p. 15.
6
  Ivi, p. 14.
7
  Ivi, p. 144.
8
  E. Jünger, Tre strade per la scuola (1991), Guanda, Milano 2007, p. 7.

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  • 1. VIVENZIA La coltivazione di sé Gian Piero Quaglino Pubblicato in “FOR”, N. 88, 2011, pp. 16-20
  • 2. La coltivazione di sé Di Gian Piero Quaglino Da sé e di sé Autoformazione. Cioè formazione da sé? Certamente. Assegniamo all’autoformazione l’idea e il proposito di rappresentare quello che si è da sempre indicato nel cammino dell’autodidatta. Di chi sa fare tesoro della sua esperienza, che anzi se la impone, la rincorre, la sfida, per costruire da sé il sapere che lo rende “preparato” al compito che si è scelto. Di chi si è costruito da sé lo stesso saper fare tesoro dell’esperienza, come modo singolare, in certi casi del tutto originale, di realizzare l’apprendere. In definitiva, di chi ha proceduto senza guide e maestri: senza insegnamenti e istruzioni, senza aiuti e conforti, che provenissero da altri se non da se stesso. Dunque, in un certo senso, “da solo”, essendosi fatto docente e allievo allo stesso tempo, per necessità o forse anche per ambizione, e, come bene ha detto Duccio Demetrio, “soltanto fidando nella propria volontà, nella caparbia convinzione […] di essere capaci (o di esserlo stati) di mettersi al mondo”1. Autoformazione, tuttavia, anche come formazione di sé: di se stessi, come individuo, come “soggetto al singolare”, al di là di qualunque determinazione ancorata a un qualsiasi compito, al di là di qualunque appartenenza vincolata a un qualsiasi contesto. Autoformazione, cioè, come cammino di interrogazione e ascolto personale, rivolto a un sapere altro: meglio, a un sapere che non è nient’altro che il sapere proprio. Anzi, il più “proprio” che possa essere pensato. Il sapere che più ci appartiene e che, in un certo senso, più ci riguarda. Il sapere di ciò che è interiore, più profondamente e più autenticamente: non quello della nostra presunta identità, ma piuttosto quello della nostra esclusiva individualità. Il sapere, in definitiva, comprensibilmente difficile da afferrare dei pensieri e dei sentimenti che, dal di dentro, segnano la nostra vita, ma anche incomprensibilmente facile da lasciarselo sfuggire ogni volta, tanto da valere una vita intera. In queste pagine, guardo all’autoformazione soprattutto da questo secondo punto di vista. Che possa essere anche formazione da sé è altra questione. Almeno all’inizio, il compito è arduo: occorre una guida per muovere il passo. Occorre una guida che sia un aiuto nel momento in cui, scelto il cammino, ci si debba far coraggio nell’avanzare. Se è la conoscenza di sé che si ricerca, non si possono escludere inevitabili, comprensibili, “umane” resistenze. Anzi, su queste occorre far leva. Esse ci danno la prima misura di noi stessi. Offrono il primo sguardo sul limitare del mondo interiore. Esse ci dicono che non ci sarà esito per il nostro cammino senza esitazione. Esse ci invitano a diffidare dei facili entusiasmi. Se vogliamo andare a fondo, occorrerà considerare anzitutto ciò che ci ritrae, anziché ciò che ci attrae: il passo “dentro” non è pensabile senza mettere in conto il passo “indietro”. Come ha ricordato Carl Gustav Jung, si tratta semplicemente di reculer pour meiux sauter (“semplicemente”, beninteso, in senso eufemistico)2. 2
  • 3. Nel volgersi a sé, la resistenza appare d’altro canto ben giustificata: ammettiamo facilmente che ciò che conosciamo di noi è sempre ben poco rispetto alla conoscenza che possediamo di un qualunque argomento che possa essere oggetto del nostro interesse. Ma anche quando il ben poco diventasse un po’ di più, esso resterebbe comunque meno di ciò che potremmo conoscere: anche questo riusciamo ad ammettere con altrettanta facilità. Pur essendo consapevoli di questo nodo inestricabile, di questa sorta di empasse, non siamo tuttavia completamente al riparo dalla possibilità di nutrire illusioni e speranze. L’illusione e la speranza sono, per l’appunto, la migliore delle resistenze. La questione dell’accompagnamento e del sostegno, o forse anche solo dell’incoraggiamento e della “sorveglianza”, si pone dunque inevitabilmente. E siccome in queste pagine non si riuscirà a parlarne, è bene in ogni caso tenerla presente. Coltivarsi Se è di formazione di sé che si sta parlando, ma si potrebbe dire ugualmente se è di “educazione di sé”, le espressioni che valgono, e che sono ormai ben conosciute nelle formule della ricerca, della conoscenza, della cura o della edificazione di sé, vanno tutte benissimo. Ovviamente, tra l’una e l’altra di queste espressioni si possono pure cogliere intonazioni differenti: la ricerca di sé intende anzitutto la direzione di un cammino volto ad afferrare le ragioni più profonde che ci abitano, mentre la conoscenza di sé vorrebbe sottolineare il valore e il limite al tempo stesso che è rappresentato dal sapere interiore; d’altro canto, la cura di sé esalta più che altro l’attenzione e la custodia, la partecipazione e la sollecitudine, la cautela e l’“assistenza” che una simile destinazione richiede; mentre l’edificazione di sé si propone di evidenziare, in particolare, l’etica del compito sotteso, la tensione virtuosa, l’ancoraggio ai valori. A tutte queste espressioni, che pure apprezzo e faccio mie, preferisco tuttavia l’idea contenuta nella formula di una coltivazione di sé. Mi pare che in questa formula siano adeguatamente riassunte e soddisfacentemente riassumibili l’orientamento della ricerca, il traguardo della conoscenza, il modo della cura e l’ideale dell’edificazione. Senza altre perifrasi, evitando pure di forzare antitesi, per differenza o per contrasto, il senso del coltivarsi si impone alle altre espressioni a partire dalla considerazione che il nostro mondo interiore è pensabile e rappresentabile negli stessi termini di quello che riconosciamo come il mondo della natura. Non solo perché così è in quanto dimensione sostanziale ed essenziale della “nostra natura”, ma perché, di fatto, esso resta comunque, per sua stessa natura, sempre opponibile al mondo esteriore dell’artificio e del marchingegno, dell’ingegneria e della tecnica, ma anche dell’utile e del profittevole, dell’efficiente e dell’organizzato. Si tratta in altre parole di guardare a questo nostro mondo interiore, al di là di ogni forzatura o pretesa, come al “terreno” della nostra soggettività, cioè al luogo in cui sono insediati, e germogliano, maturano, appassiscono, e anche ramificano, fecondano, fruttificano, e ancora si radicano, si diffondono, si propagano, i nostri pensieri e sentimenti, così come i significati e i simboli, le immagini e i sogni, le storie e i racconti che “verdeggiano” i noi. Il nostro mondo interiore è il loro paesaggio. E formare sé è, per l’appunto, immergersi in questo paesaggio, come 3
  • 4. nella osservazione e nell’ascolto di ogni altro luogo di natura, e d’altra parte disporsi ad assecondarne movimenti, a provocarne mutamenti, senza tuttavia alcuna intenzione di addomesticamento, alcun interesse di coltivazione intensiva. Un formare sé che è un coltivarsi con ostinata pazienza o paziente ostinazione, senza volontà di sottomissione ad alcuno dei principi che viceversa regolano il “dare forma” del mondo esteriore. Nella formazione di sé, ciò che è ricerca e conoscenza, cura ed edificazione, interroga il prendere forma, non il dare forma. È esattamente come Gilles Clément descrive nel suo richiamo al Terzo paesaggio: a quel luogo dell’incolto sottratto a qualunque valore di funzione, a qualunque vantaggio di rendita, e piuttosto saldamente ancorato al principio del rifugio per la diversità. Perché formare sé è anzitutto questo: l’attenzione e l’interrogazione del prendere forma del nostro paesaggio interiore, per ciò che può essere naturalmente singolare e unico, prima che non per ciò che deve essere “artificialmente” condiviso e partecipato, approvato e concordato. Uniformato a sé, dunque, e non già a una qualche attesa o pretesa, richiesta o ingiunzione, obbligo o ordine che provenga da altri. Come dire, proprio, un movimento lasciato a ciascuno di noi, a seconda dell’“incitamento del mondo”, in assenza di ogni decisione di altri: un territorio indeciso per vocazione, indocile per carattere e indeterminato per necessità. La coltivazione di sé che vuole essere la formazione di sé richiede così di misurarci (di misurare il nostro apprendere, dovremmo finalmente dire) con tutto ciò che di accidentale e di accidentato rappresenta la natura del paesaggio interiore. Con ogni accidentale che è avvenimento della nostra vita e del nostro “caso”, così come con ogni accidentato che è difficoltà del nostro cammino e della nostra storia. Sono l’accidentale e l’accidentato la misura della nostra profondità, ed è la nostra profondità a essere misura del nostro paesaggio interiore: del suo mutare che è la nostra trasformazione. Nessuna organizzazione imposta all’apprendere che interessa al mondo esteriore, nessun programma, nessun obiettivo, nessun metodo, nessun risultato, possono essere modello di formazione, se è di sé che ci si occupa. Il paesaggio del mondo interiore è e resta permanentemente chiaroscurale. La coltivazione di sé non si conforma ad alcun principio di organizzazione: essa si consegna e si affida al principio di sorpresa. Un pensiero senza indirizzo Se la formazione di sé assume il carattere di questa coltivazione improvvisata, il modo che le sarà proprio non è da chiedere al governo del pensiero indirizzato, del pensiero dell’io che si pone al centro della scena e della le sue condizioni. Quelle solite, quelle che conosciamo sin troppo bene e che resistiamo ogni volta ad abbandonare, salvo poi ritrovarci scoraggiati dagli esiti. Il pensiero dell’io è il pensiero che l’io coltiva, ma non coltiva noi. È il pensiero sin troppo preoccupato di eseguire la “dirittura” di un qualche ragionamento, anziché di inseguire l’“inclinazione” di una qualche passione: sin troppo preoccupato di abitare il territorio delle affermazioni, delle deduzioni e delle dimostrazioni che parlano (parlerebbero) da sé per accorgersi, così facendo, di non riuscire più a parlare di noi. Certo, il pensiero indirizzato ha sempre i suoi successi: è il pensiero che 4
  • 5. convince. Ma la formazione di sé cerca il pensiero che avvince, non quello che convince. Ciò che ci avvince, ciò che ci afferra – essendo che, come ha scritto Jung, “‘afferra’ solo colui che viene ‘afferrato’”3 –, non è quasi mai la prodezza del pensiero indirizzato. Non è la vittoria della mente limpida, che parla per concetti, per modelli, per teorie. Su questo equivoco la formazione dovrebbe esercitarsi, e molto, quando vuole essere realmente formazione di sé. Perché, in questo caso, la chiarezza della mente non è che l’abbaglio del pensiero: come ancora Jung ha affermato: “La mia mente è un tormento, distrugge il mio sguardo interiore, vorrebbe sezionare e disfare ogni cosa. Sono ancora vittima del mio pensare”4. Ciò che ci avvince e ci prende, consentendoci di giungere così in prossimità di ciò che è autenticamente “all’interno”, non scaturisce affatto dalle regole di un procedere ben governato, ma comunque assoggettato alle condizioni di un principio che si impone dall’esterno. Il pensiero illuminato non fa luce dentro di noi. Se si vuole percorrere la strada che conduce dentro di noi, occorre affidarsi dunque a un differente pensiero: a un pensiero, per così dire, “senza indirizzo”. A un pensiero che, rinunciando a invocare la sua stessa necessità come unico modo possibile per risolvere casi, assumere decisioni, formulare leggi, enunciare verità (tutto ciò che non ha fondamento nel profondo del mondo interiore, tutto ciò che nel mondo interiore suona “infondato”), si disponga piuttosto a una paziente esplorazione, senza traguardo e senza mèta. Si disponga, cioè, a un girovagare da Terzo paesaggio (per dirla ancora con Gilles Clément), tra ciò che il pensiero ordinato disdegna come “scarti”, consegnandoli alla rimozione: l’irrilevante ad esempio, l’incerto, l’indefinito, l’irregolare, l’incidentale e, in primo luogo, l’inconsapevole. Sono proprio questi, invece, gli scarti che fanno il paesaggio della nostra vita interiore: sono proprio queste le pietre di scarto che fanno l’architrave. Tra gli scarti che costituiscono quel residuo e quel rifugio di “comprensione” che è ciò che la formazione di sé deve coltivare, il pensiero senza indirizzo si muove erratico, nomade e vagabondo. Non sarà la sua capacità di astrazione a darci sicurezza, ma la sua capacità di estrazione: la sua capacità cioè di penetrare il vissuto in cui quegli scarti si sono “interrati”, hanno messo radice e germogliano, senza alcuna forzatura, senza alcuna prepotenza che li recida e li metta “in cornice”: li circoscriva, li delimiti, li confini in una qualche “bella forma”. Il pensiero senza indirizzo che cerca l’apprendere che ci forma è il pensare e il ripensare che ci fa assorbiti e assorti in ciò che ci ri-guarda. In ciò che ci osserva e ci interroga da un differente punto di vista, da un differente angolo di riflessione rispetto a ciò che deve essere pensato nel nome di un qualche sapere istituito: il sapere preordinato è sempre in qualche misura sovraordinato a noi stessi. Il pensiero senza indirizzo esige così che l’io taccia. Che l’io sia accantonato, sospeso, confinato al “sussidiario”. Per la formazione di sé, l’io resta un insuperabile manipolatore, di cui è bene non fidarsi: un manipolatore che ogni volta che parla del “sé”, in realtà, non intende altro che il “me stesso”. Per l’autentica formazione di sé, l’io, che pretende sempre di sapere sin troppo bene ciò che cerca e vuole è da abbandonare: perché ciò che cerca e vuole è sempre solo ciò che conferma e afferma, e ciò che conferma e afferma non è mai la misura di ciò che “comprende”. Per l’autentica formazione di sé, nessun sapere è cercato per far sì che l’io perori all’infinito la sua causa: è cercato piuttosto il pensiero di ciò che, essendo “scarto”, consenta per vie traverse, per deviazioni e diversioni e curvature, 5
  • 6. di giungere altrove. Non là dove l’“affermazione” dell’io è la parola della formazione, ma dove la formazione è il silenzio dell’affermazione dell’io. La scuola della vita La formazione di sé, che è la coltivazione di sé, è la scuola della vita. È lo spazio in cui gli eventi e i casi della vita rappresentano il filo sottile che traccia il nostro cammino di formazione. Nient’altro che questo. Tuttavia, non la scuola dei saperi applicati alla vita, ma la scuola dei pensieri a cui la vita si applica: la vita di ciascuno e di tutti, in tutte le “forme” in cui si dà (in cui “può darsi”): avventure e disavventure, accidenti e incidenti, circostanze e contingenze, coincidenze e combinazioni, peripezie e traversie, congiunture e fatalità5. Non la scuola in cui si pretende di istruire la vita, ma la scuola in cui la vita prova a “istruire” se stessa. In tutto ciò che cerca e vuole, attende e pretende, interroga e sfida, fatica e conquista: per tutto ciò che accetta e rifiuta, sottrae e restituisce, contrasta e sostiene, ferisce e lenisce, soccorre e abbandona6. In definitiva, non il luogo di ciò che è bene sapere, ma prima ancora il luogo di ciò che è bello pensare7. Guardiamo dunque alla scuola della vita anzitutto come alla scuola dell’esperienza non del mondo esteriore, ma del mondo interiore. Non del mondo esteriore comprovato dai fatti e dalle loro ragioni, ma piuttosto del mondo interiore messo alla prova dagli eventi e dai nostri sentimenti. Per la scuola della vita, l’esperienza non si ritrova in ciò che è stato progettato di fare accadere e così sperimentato, ma in ciò che è accaduto da sé e così “ci sperimenta”, ci “saggia”. Per la scuola della vita, l’esperienza sempre si dà come aperta condizione di accadimenti e casi, per i quali il pericolo può condurre alla perizia (essendo entrambi, per nodo di etimologia, allacciati e intrecciati all’esperienza stessa), ma la perizia non può precludere il pericolo. Qui, la formazione di sé non fa tesoro dell’esperienza come rendiconto di ciò che è stato attraversato, ma piuttosto come messa in conto di ciò che siamo disposti ad attraversare. Per la scuola della vita, la formazione di sé è così un cammino che si avvia dall’accidentale del mondo esteriore e si inoltra nell’accidentato del mondo interiore. Ha una direzione questo cammino? Se non una direzione, almeno un itinerario: un primo passo nel territorio della riflessione, come luogo di ripiegamento su di sé, come luogo in cui ciò che è accaduto sollecita il pensiero di noi; un secondo passo nel territorio dell’interpretazione, come terreno di sfida di ogni certezza nella molteplicità dei significati, e di riappropriazione di ciò che, per il tramite dell’accaduto, può essere il significato di noi; un terzo passo nel territorio dell’immaginazione, come spazio di attesa di ciò che si riesce appena a intravvedere, sino a prendere forma nel prefigurare un contorno, almeno, o un profilo di immagine di noi; un ultimo passo nel territorio della narrazione, come atto finale di travestimento di ciò che è stato appreso in pensiero, significato e immagine ad opera di una storia, di un racconto di noi. La scuola della vita non è, in definitiva, l’edificio in cui si dà la formazione di sé. Semplicemente, è la strada che vi conduce. Semplicemente, è la strada per arrivarci. Perché il principio di sorpresa, che guida la formazione di sé, è bandito dall’edificio (così, del resto, da ogni altro edificio che sia una “scuola”) e abita la strada. La scuola della vita non è, dunque, per coloro che sono alla ricerca di 6
  • 7. conoscenze e di contenuti già “confezionati e perfezionati”, e di metodi e tecniche “efficienti ed efficaci”: non è per coloro che sono alla ricerca di un apprendere “utile”, nemmeno quando esso si offra “dilettevole”, né per coloro che sono lì per avere risposte da destinare agli altri, oltre che a sé. La scuola della vita è, piuttosto, per coloro che cercano le domande da rivolgere a sé, prima che non agli altri: che prediligono l’esplorazione e l’avventura del pensare, che ne cercano il “riflesso” dentro di sé, che non hanno timore di avanzare nel labirinto dei significati, che accolgono le immagini come un dono e che custodiscono, del narrare, il segreto trasformativo. La scuola della vita è per tutti coloro che sanno che, come ha scritto Ernst Jünger, “il bello della scuola [è], più di tutto, la strada per arrivarci”8. 7
  • 8. 1 D. Demetrio, “Autoformazione: le cifre, le pratiche”, in: “FOR”, N. 53, 2002, p. 18. 2 C.G. Jung, Ricordi, sogni, riflessioni (1961), BUR, Milano 1992, p. 377. 3 C.G. Jung, Un mito moderno: le cose che si vedono in cielo (1958), in Opere, Vol. 10-2, Bollati Boringhieri, Torino 1986, p. 202. 4 C.G. Jung, Il Libro Rosso (1914-1930), Bollati Boringhieri, Torino 2009, p. 238. 5 G.P. Quaglino, La scuola della vita. Manifesto della terza formazione, Raffaello Cortina, Milano 2010, p. 15. 6 Ivi, p. 14. 7 Ivi, p. 144. 8 E. Jünger, Tre strade per la scuola (1991), Guanda, Milano 2007, p. 7.