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Project work “KiA – Knowledge in Action”
Human Factor: Istruzioni per l’uso
Master in Risorse Umane e Organizzazione 2017-2018
A cura di:
Chiara De Rosa
Sara Sorrentino
Andrea Turi
Michela Verdini
Human Factor: Istruzioni per l’uso
Master in Risorse Umane e Organizzazione 2017-2018
1
HUMAN FACTOR: ISTRUZIONE PER L’USO
Sommario
Introduzione.......................................................................................................................................... 2
1. Human Factor..................................................................................................................................... 2
2. Errore Amico Mio ............................................................................................................................... 4
3. Il quadro normativo............................................................................................................................ 5
4. Lo stress e la sicurezza........................................................................................................................ 9
4.1 Il quadro generale.....................................................................................................................................9
4.2 Il mondo aereonautico...........................................................................................................................11
5. L’ergonomia e l’interazione uomo-macchina..................................................................................... 14
6. Appendice: Case Studies................................................................................................................... 16
6.1 Il caso della Costa Concordia........................................................................................................... 17
6.1.1. L’evento ............................................................................................................................................17
6.1.2. L’indagine sulle cause ........................................................................................................................18
6.1.3. L’Analisi Human Factor ......................................................................................................................19
6.2 Il caso del Volo Air France 447......................................................................................................... 20
6.2.1. L’evento ............................................................................................................................................20
6.2.2. L’indagine sulle cause .......................................................................................................................21
6.2.3. L’Analisi Human Factor ......................................................................................................................22
Bibliografia .......................................................................................................................................... 25
Interviste............................................................................................................................................. 26
Human Factor: Istruzioni per l’uso
Master in Risorse Umane e Organizzazione 2017-2018
2
INTRODUZIONE
Questo lavoro non ha la pretesa di essere una trattazione didascalica sul tema dello human factor,
ma un progetto di studio applicato ad un concetto in evoluzione. Ad orientare il nostro lavoro è
stata la definizione stessa di human factor che oggi resta, ai più, ancora ignota. Nonostante si
analizzino i rischi sulla sicurezza del lavoro sin dalla fine dell’800, l’elemento umano non è stato
fin’ora considerato come uno dei fattori determinanti. Lo studio si è inoltrato nell’analisi dell’impatto
reale dei fattori umani nei vari contesti lavorativi. Nel primo capitolo sono state analizzate le varie
declinazioni che possiede lo Human Factor. Tutte le definizioni riscontrate sottolineano
l’importanza dello studio delle varie forme di relazione psicologiche, sociali, mediche con le quali
l’uomo si rapporta nell’ambiente di lavoro. Il concetto di Human Factor nasce nel mondo
dell’aviazione, un contesto ad alto rischio in cui anche un solo errore può divenire fatale. Mentre in
passato i problemi relativi alla sicurezza erano causati da problemi di tipo ingegneristico-
tecnologico, oggi, con l’avanzare dell’automazione, si è riscontrato che la principale fonte di
incidenti è rinvenibile nell’errore umano.
Partendo dall’analisi del quadro psicologico dell’uomo, abbiamo preso in considerazione tutti gli
elementi del fattore umano, dal clima organizzativo all’errore, dal lavoro di gruppo fino al rapporto
uomo-macchina. La normativa internazionale, europea e nazionale riguardante la sicurezza sui
luoghi di lavoro è dettagliata e complessa, ma la problematica riguardante lo Human Factor non
trova ancora un’ampia trattazione. Attraverso i vari fattori che caratterizzano l’essere umano, è
possibile analizzare lo Human Factor dal punto di vista della consapevolezza dei limiti e degli errori
che si è portati a commettere, inconsapevolmente, in situazioni di rischio. Inizialmente è stato
preso in analisi lo stress e le sue molteplici conseguenze. Tale problematica può ricadere sulla
motivazione e sulla prontezza del lavoratore nell’affrontare situazioni, spesso, eccezionali, come
possono esserlo situazioni di emergenza. Attraverso l’analisi di questi processi, e tramite esempi
realistici, è possibile constatare i limiti della mente umana, e quanto questi influiscono sul nostro
processo decisionale. Successivamente viene preso in analisi il concetto di ergonomia, ovvero
l’interazione uomo-macchina, come e quanto questa può influire sul processo di gestione della
sicurezza. Entrambe “le macchine” sono soggette a fallacie, ma in misura diversa; si cerca dunque
di comprendere come effettivamente poter enfatizzare gli aspetti positivi di entrambe e unirle,
affinchè si possa ricavare una funzione efficace ed efficiente. In conclusione, sono stati presi in
analisi due casi pratici, che hanno permesso di evidenziare come può impattare, in concreto, lo
Human Factor nell’ambito della sicurezza sul lavoro: il naufragio della Costa Concordia e il disastro
del volo Air France 447.
1. HUMAN FACTOR
Parlare di “Fattore Umano” significa parlare di Sicurezza dell’Uomo senza però eliminare
completamente la possibilità del verificarsi dell’errore sul luogo di lavoro.
Pensare alla sicurezza sul lavoro in maniera deterministica e quindi tendere alla eliminazione
totale dell’errore è infatti – oltre che impossibile – anche sconveniente: «considerare la variabile
umana alla stregua di quella meccanica elimina ogni possibilità di analizzare in maniera efficace un
contesto lavorativo in funzione dei rischi ivi presenti»1
.
1
SPADONI D, 2017. Human Factor and non-technicalskills: come costruire una cultura del comportamento sicuro,
Repertorio Salute
Human Factor: Istruzioni per l’uso
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3
Per arrivare a prevenire il più possibile l’errore o l’evento infortunistico bisogna quindi lavorare con
un «approcciomultifocale di tipo tecnico-ingegneristico, ergonomico, medico e socio-
psicologico»2
allo scopo di rimettere al centro la persona come soggetto della sicurezza sul
lavoro.
Alcuni altri autori parlano al plurale di Human Factors a causa della sua multidisciplinarietà. Anche
l’ICAO (International CivilAviation Organization)3
nella sua circolare 227 propende per l’accezione
al plurale: «i fattori umani hanno come oggetto di studio le persone, mentre espletano le loro
mansioni, il loro inserimento nell’ambiente di lavoro inteso in senso fisico ed interpersonale, il loro
rapportarsi agli strumenti di lavoro ed alle procedure cui attenersi. L’obiettivo di tale ricerca è il
perseguire sicurezza ed efficienza»4
. In entrambe le definizioni lo Human Factor ha come fine
quello di aumentare la sicurezza sul lavoro e lo fa focalizzando l’attenzione sull’uomo prima che
sulle procedure.
Non si può parlare di Human Factor senza legarlo al mondo dell’aviazione, e ciò deriva da una
semplice constatazione: «nella storia dell’aviazione, gli investigatori hanno individuato
nell’elemento umano la principale fonte di errori che ha poi causato la maggior parte degli
incidenti»5
. Tuttavia, anche grazie ai risultati ottenuti nel mondo dell’aeronautica, gli studi sul
fattore umano hanno trovato posto anche in settori ad alta complessità come «il settore
dell’energia, la medicina (ed in particolare la gestione ospedaliera delle procedure in sala
operatoria e delle somministrazioni terapeutiche) e da ultimo il mondo della finanza»6
.
Gli studi sullo Human Factorhanno la loro genesi nel settore dell’aviazione militare e civile. Nei primi anni del ‘900 Padre
Agostino Gemelli è stato fra i primi a studiare «sia gli aspetti fisiologici legati al volo sia quelli
psicologici/comportamentali, ponendo le basi della moderna medicina aeronautica e dei fattori umani»7
. Fino agli anni
’40 c’era, anche nel settore del trasporto aereo, la convinzione che per eseguire delle funzioni e svolgere dei compiti
fosse necessario solamente un requisito: l’abilità. E’ l’approccio detto “right stuff” , secondo il quale il pilota era il solo
responsabile del velivolo e doveva possedere la “giusta stoffa” per solcare i cieli. L’addestramento era basato quasi
esclusivamente sulle cosiddette “stick-and-ruddercompetencies”, alla lettera “competenze cloche e pedaliera”, ovvero
quelle competenze di base, molto fisiche, che formavano i piloti per saper fare manovre brusche e improvvise; il pane
quotidiano in quegli anni, visto che i sistemi automatici erano in fase di sviluppo.
Dunque non è difficile pensare come le cause degli incidenti venivano, all’epoca, attribuite quasi esclusivamente a fattori
umani legati al volo quali la stanchezza, lo stress e la fatica dei piloti. Si pensò, allora, di affrontare l’aumento del rateo
degli incidenti (eventi per milioni di voli), ricorrendo all’ingegneria, ossia con degli investimenti tecnologici: «furono
2
Ibidem
3
L’ICAO è l’organizzazione internazionale dell’aviazione civile. E’ un agenzia autonoma delle Nazioni Uniti che si
occupa di dettare principi e linee guida per la navigazione aerea e internazionale. Cfr.
https://www.enac.gov.it/L%27Enac/Rapporti_con_Istituzioni_e_Associazioni/Organismi_internazionali/Extra_UE/ICA
O/index.html
4
Ibidem
5
Ibidem
6
CLERICI P, 2017. Fattore umano e comportamento, INAIL, pp. 1
7
MAGGIORE P., GAJETTI M., BONIFACINO A, 2017, Dal fattore umano alla safety in aviazione, Società Editrice
Esculapio, pp. 64
DEFINIZIONE: lo HUMAN FACTOR «è la disciplina che si occupa del fattore umano con
lo scopo di studiare le modalità con le quali l’uomo agisce nel suo ambiente lavorativo, al fine
di aumentare i livelli di sicurezza delle operazioni»1
.
Human Factor: Istruzioni per l’uso
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4
introdotti degli ausili alla navigazione che aiutavano il pilota a sopperire le proprie mancanze psico-fisiche quando il
compito era troppo arduo»8
. Evidenze scientifiche del dopoguerra dimostrarono però come il 65% degli incidenti aerei
non era legato alla mancanza di abilità o di addestramento del pilota, ma a fattori quali «la comunicazione tra membri
dell’equipaggio, la ripartizione di ruoli e leadership, il coordinamento, la capacità di prendere decisioni in tempo reale»9
.
Si passa dunque da un approccio “right stuff” ad uno “human factor”, che predilige le cosiddette “Non-Technical skills”,
che più tardi, nel 1998, Avermaete, definì come quelle «abilità cognitive, comportamentali e interpersonali,
complementari alle competenze tecnico- professionali, importanti ai fini della riuscita delle pratiche operative nel
massimo della sicurezza»10
. Sempre secondo Avermaete, le NTS o NOTECHS sono 7 e si dividono in due categorie,
individuali e di gruppo. Quelle individuali sono la consapevolezza situazionale, il decision-making, la gestione dello
stress e la capacità di fronteggiare la fatica. Quelle di gruppo sono la comunicazione, il team work e la leadership.
2. ERRORE AMICO MIO
La tematica dell’errore è essenziale quando si parla di Human Factor, tanto che quest’ultimo «può
essere definito come la disciplina orientata a capire la causa e la natura degli errori, tentando di
mitigare gli effetti»11
. Minimizzare e neutralizzare gli errori è dunque un obiettivo della disciplina
dello Human Factor, e ciò al servizio della sicurezza sul lavoro.
Che cos’è l’errore? Secondo James Reason, esperto britannico di Human Factor, l’errore è il
«fallimento nella pianificazione e/o nell’esecuzione di una sequenza di azioni che determina il
mancato raggiungimento, non attribuibile al caso, dell’obiettivo desiderato»12
. L’errore si distingue
dalla “violazione” per il fatto che quest’ultima è una deviazione intenzionale, un’azione che
deliberatamente provoca un danno. Tracciare una linea di demarcazione tra errore e violazione
serve inoltre ad aumentare la possibilità di scambio di informazioni: «questo scambio diventa una
fonte importante di conoscenza, ma nelle organizzazioni caratterizzate da una cultura di tipo
patologico o burocratico viene regolarmente inibito»13
.
Analizzare gli errori e imparare da essi è molto importante. Nel caso specifico dell’aviazione,
l’errore, per la sua tragicità, potrebbe comportare una fatalità tale che la sua analisi non sia più
utile per coloro ai quali servirebbe, ovvero i piloti.
Legato alla questione dell’errore possiamo sottolineare come negli Stati Uniti col termine Human
Factor si indica la disciplina che nel resto del mondo è conosciuta come Ergonomia. Secondo la
definizione della International ErgonomicsAssociation, «l’ergonomia (o scienza del Fattore Umano)
è la disciplina scientifica che studia le interazioni tra l’essere umano e gli altri elementi di un
sistema, applicando teorie, principi, dati e metodi per progettare, allo scopo di migliorare il
benessere umano e le prestazioni del sistema»14
.
8
CHIALASTRI A, Ivi, pp. 19
9
CLERICI P, 2017. Ivi, pp. 1
10
SPADONI D, Ivi
11
CHIALASTRI A, Ivi, pp. 161
12
DEGANI L., RINALDI O., MONTURANO M., LOPEZ A., UBEZIO M, Principi di riskmanagment nei servizi sanitari e socio-
sanitari, Maggioli Editori, pp. 102
13
CHIALASTRI A, Ivi, pp. 162
14
CLERICI P, Ivi, pp. 2
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5
3. IL QUADRO NORMATIVO
La tematica del fattore umano nel quadro normativo europeo ed italiano sul Lavoro rappresenta
oggi per il legislatore una delle nuove frontiere legate alla prevenzione e sicurezza: il suo
approfondimento porterebbe infatti a un beneficio non solo in termini di benessere dei lavoratori
(“welfare”) ma anche in chiave di “cost-saving” sistemico.
La legislazione italiana riguardante la salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro è il risultato di un
percorso intrapreso 50 anni fa, sviluppatosi in sinergia con la normativa comunitaria di riferimento.
Le fonti di regolamentazione della salute e della sicurezza sul lavoro sono molteplici ed eterogenee
e talune di esse, ancora vigenti, sono particolarmente risalenti nel tempo, a testimonianza del fatto
che la necessità – di evidente impatto sociale – di tutelare la salute dei lavoratori e quella di
garantire risarcimenti ai familiari o dei lavoratori per infortuni o malattie è sempre stata colta dal
nostro Paese.15
Si possono individuare tre momenti storici riguardanti il quadro normativo sulla sicurezza sui
luoghi di lavoro:
- il Codice Civile del 1865
- le norme emanate dagli anni ‘50 agli ‘80
15
FANTINI L., GIULIANI A., Salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. Le norme interpretazione e prassi, Milano, Giuffrè
editore, 2011
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6
- a partire dagli anni ’90, la disciplina di recepimento delle direttive comunitarie a cui si è aggiunta
la tematica del coinvolgimento dei lavoratori nella gestione della sicurezza aziendale.
La tutela della persona fisica e della personalità morale del lavoratore trova fondamento normativo,
innanzitutto, nel dettato costituzionale degli articoli 2, 32, 35, 41 oltre che nella legislazione
ordinaria e speciale. In particolare, l' articolo 32 riconosce il diritto alla salute quale interesse
fondamentale della collettività, e l' art. 41 prevede che l' iniziativa economica “non può svolgersi in
contrasto con l' utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità
umana”.
Da tali principi si desume, pertanto, il diritto del lavoratore a svolgere la propria prestazione di
lavoro in condizioni di salubrità ambientale e la sua prevalenza rispetto al diritto dell'imprenditore di
organizzare liberamente la propria attività economica.16
Nel codice civile viene invece evidenziato all'articolo 2087 il principio che attribuisce al datore di
lavoro un generale obbligo di adozione delle misure che secondo la particolarità del lavoro,
l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e morale dei lavoratori.
L' articolo 2087 trova fondamento normativo a partire dall' art 41 della Costituzione, considerando
la salute come diritto primario del lavoratore e della collettività in generale.
In attuazione del Trattato di Roma del 25 marzo 1957, con la direttiva 89/391/CEE del Consiglio
dei Ministri del 12 giugno 1989 fu introdotto poi in Italia ilD.Lgs 626 del 1994: in esso si venne ad
instaurare un sistema garantista che poneva per la prima volta l'uomo come fulcro della sicurezza
in azienda e non più la macchina, formalizzando da un lato la necessità della formazione e della
partecipazione dei lavoratori alla sicurezza sul lavoro e dall'altro codificando i doveri giuridici
d'informazione.
Anche se con non poche forzature, è possibile vedere un primo accenno del legislatore italiano alla
presa di coscienza della rilevanza del fattore umano in termini di miglioramento delle dinamiche
riguardanti la sicurezza nei luoghi di lavoro.
Inoltre, tramite il D.Lgs 626 del 1994 si adottò una nuova politica per la prevenzione per cui
l'imprenditore era tenuto per la prima volta ad inserire delle figure stabili di riferimento per la
consulenza, quali il medico competente e il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza per
garantire l'osservanza delle norme.
Successivamente ad una sentenza della Corte di Giustizia Europea del 15 novembre 2001, con
legge del 1 marzo 2002, numero 39, il legislatore italiano intervenne modificando il Dlgs 626/94
introducendo l'obbligo di valutare i rischi per la sicurezza e per la salute dei lavoratori, tra cui i
rischi psicosociali quali lo stress, il burn-out e la violenza sul posto di lavoro, tra cui il mobbing.
Il Testo Unico del 9 aprile 2008 numero 81 sul miglioramento della tutela della salute dei
lavoratori, corretto ed integrato dal D.Lgs. 106 del 2009, emanato dall'Esecutivo su delega del
Parlamento, ha abrogato parte della legislazione previgente cioè il Dlgs. 626 del 1994.
Formazione ai lavoratori e lotta alle violazioni di legge rappresentano – in sintesi - le prime linee
guida su cui si basa il decreto legislativo, che tra l’altro coglie l'occasione - da un lato - per
estendere l'ambito di applicazione delle norme sulla sicurezza a tutti i settori di attività ed a tutte le
16
FERRARI G., Il rapporto di lavoro, Torino, Giappichelli editore, 2010.
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7
tipologie di lavoro e - dall'altro - per realizzare una semplificazione e razionalizzazione delle vigenti
disposizioni.17
Il D.Lgs 81 del 2008 all'articolo 28 affronta il tema della valutazione del rischi ed una corretta
metodologia nel processo di valutazione del rischio tramite tecniche per l’analisi dell’affidabilità
umana (HRA). Tecniche, queste ultime, che sono state sviluppate per fornire valori probabilistici
agli errori umani connessi ai compiti degli operatori allo scopo di inserirli nel più ampio contesto di
valutazione di rischio.18
Molte delle ricerche più avanzate delle scienze del comportamento, in particolare la
“behaviourbasedsafety” (BBS), riguardano proprio la possibilità di prevedere le reazioni degli
individui sottoposti a determinati stimoli e/o operanti in contesti a rischio.
Obiettivo di tale metodologia scientifica è quello di promuovere nell’ambito dell’organizzazione
aziendale una cultura della sicurezza che non mira tanto a castigare i comportamenti sbagliati
quanto a premiare e dunque nel tempo a rinforzare - talvolta con riconoscimenti verbali, talvolta
con gratificazioni tangibili - tutti i comportamenti che concorrono a limitare i rischi.19
L' obbligo di valutazione dei rischi fu introdotto per la prima volta nel panorama europeo nel
1989 con la direttiva quadro sulla SSL20
, 3/931 a cui sono state aggiunte successivamente delle
direttive in particolare possiamo ricordarne due, la 90/269/EC e la 90/270/EC, rispettivamente
riguardanti l' esposizione da rischio Videoterminali e Movimentazione manuale dei carichi, con
attenzione agli aspetti riguardanti l’ergonomia, la distribuzione dei carichi di lavoro e lo Stress da
Lavoro Correlato.
La valutazione dei rischi sul lavoro trova la sua realizzazione pratica nel cd documento di
valutazione dei rischi (DVR) che, da un lato, rappresenta uno scenario completo dei rischi in cui
può incorrere sia l' azienda che il lavoratore e che, dall’altro, deve contenere una relazione sulla
valutazione dei rischi, l' indicazione delle misure di prevenzione e protezione, il programma delle
misure future che si attueranno per risolvere delle criticità e infine l' indicazione delle mansioni che
possono porre il lavoratore in uno stato di pericolo.
La Normativa Europea in materia di salute e sicurezza sul lavoro riconosce l’importanza dello
Human Factor e sottolinea la necessità di creare modelli organizzativi che ne tengano conto,
includendo la formazione e l’informazione del lavoratore e la programmazione di attività che
coinvolgano tutti i lavoratori (azioni di prevenzione).Tali principi vengono riportati dalla norma BS
OHSAS (OccupationalHealth and SafetyAssessment Series)18001 del 2007 e dalle Linee Guida
UNI-INAIL21
per i Sistemi di Gestione di Salute e Sicurezza sul Lavoro. Le norme BS OHSAS
17
PELLICCIA L., Prontuario di sicurezza sul lavoro. Violazioni e sanzioni, Rimini, Maggioli Editore, 2008, pp. 9
18
MADONNA M., MARTELLA, G., MONICA L., PICHINI MAINI E., TOMASSINI L., Il fattore umano nella valutazione dei
rischi: Confronto metodologico tra le tecniche per l' analisi dell' affidabilità umana, Prevenzione Oggi Vol. 5, n. 1/2, ,
2009, pp. 67-83
19
TOSOLIN F, GATTI M, ALGAROTTI E. BehaviorBasedSafety: costruire comportamenti per ottenere risultati, Ambiente e
Sicurezza - Il Sole 24 Ore 5 febbraio 2008
20
Sicurezza e Salute sul Lavoro
21
“Le linee guida Uni-Inail sono un documento di indirizzo alla progettazione, implementazione e attuazione di sistemi
di gestione della salute e della sicurezza sul lavoro, rivolto soprattutto alle Pmi che caratterizzano il sistema produttivo
italiano. Nello spirito della volontarietà della adozione di Sgsl, vogliono essere un valido aiuto nei confronti delle
aziende e dei consulenti aziendali. Queste linee guida, pubblicate da Inail in accordo con le Parti sociali e l’Uni,
hanno validità generale e la loro applicazione va modulata sulle caratteristiche complessive dell’impresa che intende
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18001:2007 esprimono un sistema di gestione della sicurezza sui luoghi di lavoro con il quale si
vogliono mettere in luce le caratteristiche di un sistema definito efficiente, che tenga conto
costantemente di un monitoraggio da effettuare a scadenze regolari, che non trascuri la situazione
interna rispetto ai mutamenti politici di mercato e legislativi.
Resta tuttavia il fatto che nella maggior parte dei casi i Sistemi di gestione di salute e sicurezza sul
lavoro (SGSL) più diffusi trattano la sicurezza come un problema legato a macchine, ambienti e
sostanze, con ciò mettendo in secondo piano il fattore umano. La prevenzione dei rischi nei luoghi
di lavoro deve invece considerare il sistema lavorativo nel suo insieme, quindi prendere in
considerazione tutte le condizioni che potrebbero portare ad un infortunio.22
Il fattore umano diviene determinante nel momento in cui, in particolare, il lavoratore è sottoposto
ad elevati carichi di stress.
A partire dal 2011 è divenuto obbligatorio, per le aziende italiane, effettuare la valutazione dello
stress da lavoro, mentre già nel 2004 con l'Accordo Europeo sullo stress nei luoghi di lavoro
sottoscritto a Bruxelles si era formalizzata tale necessità da parte delle quattro più grandi
organizzazioni europee del lavoro (CEEP, UEAPME, UNICE ora BusinessEurope ed ETUC).
La tematica del fattore umano, in relazione alla problematica della prevenzione e della sicurezza
nei luoghi di lavoro, diversamente che nella legislazione generale, trova un'ampia trattazione
nell'ambito della normativa riguardante la sicurezza nel mondo dell'aviazione, da cui si sta
prendendo sempre più spesso spunto per affrontare dibattiti in merito e per la stesura di normative
riguardanti settori specifici.
L'ICAO (International CivilAviation Organization) a partire dal 1989 rese obbligatorio lo studio del
Fattore Umano tramite l'emendamento N.159 annesso alla prima Convenzione di Chicago23
.
La legislazione in tale settore è proseguita fino ad oggi arricchendosi e divenendo sempre più
particolareggiata in virtù dell'avanzamento tecnologico che si è verificato negli anni.
In uno scenario normativo che va sempre più spesso in direzione di una stratificazione normativa,
la percezione di un irrigidimento per le procedure che conducono ad un ambiente lavorativo sicuro
può immediatamente risaltare all'attenzione.
Il legislatore italiano è intervenuto, anche se timidamente, in tal senso negli ultimi anni: basti
ricordare il “Jobs Act”10, con cui si è cercato d'operare una semplificazione del D.Lgs.81/08.
Emergerebbe però la necessità di una riforma che mostri un carattere maggiormente dinamico e
che tenga conto delle peculiarità delle organizzazioni di lavoro, mediante il recepimento -da
meritevoli esperienze di diversi Stati europei- di un approccio improntato alla praticità invece che al
formalismo.
adottarle; non sono destinate alla certificazione (né all'uso ai fini della vigilanza da parte degli organi istituzionali) e
quindi, qualora un azienda voglia certificare l’adozione del proprio sistema di gestione, il riferimento corretto
diventa la norma BsOhsas 18001:07.” https://www.inail.it/cs/internet/attivita/prevenzione-e-sicurezza/promozione-
e-cultura-della-prevenzione/sgsl/uniinail.html
22
BILLA C., MAROTTA N., MORI A , ZIRILLI O., Il fattore umano:Analisi, cause e tecniche di valutazione, Roma, 2016, pp.
7
23
La Convenzione di Chicago è un trattato siglato nel 1944 con cui furono fissati i principi dell'aviazione civile e del
trasporto su scala mondiale. http://www.esteri.it/mae/it/politica_estera/economia/cooperaz_econom/icao.html
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4. LO STRESS E LA SICUREZZA
4.1. IL QUADRO GENERALE
Nella medicina del lavoro lo “stress lavoro correlato” può essere definito come la percezione di
squilibrio avvertita dal lavoratore quando le richieste dell'ambiente lavorativo eccedono le
capacità individuali per fronteggiare tali richieste, portando inevitabilmente nel medio-lungo termine
ad un vasto spettro di sintomi o disturbi che vanno dal mal di testa, ai disturbi gastrointestinali e/o
patologie del sistema nervoso come disturbi del sonno, nevrastenia, sindrome da fatica cronica
fino a casi di burn-out o collasso nervoso
ATTENZIONE: gli elementi che causano stress (cd stressors) non sono solo quelli legati al carico
di lavoro, ma anche fattori come problemi personali, la famiglia, amici o problemi finanziari!
In ambito lavorativo lo stress viene quindi concepito come una difficoltà di adattamento reciproco
tra l’individuo e l’organizzazione quando le richieste poste dal lavoro non sono commisurate alle
capacità e/o risorse del lavoratore (Minchie, 2002)24
.
In tal caso viene a crearsi uno squilibrio che porta a delle conseguenze, le quali pesano in primo
luogo sull’individuo stesso ma poi anche sull’organizzazione lavorativa.
Per quanto concerne il livello personale, le conseguenze possono essere di tipo psicosomatico:
ad esempio digestione difficile, gastrite, dolori muscolari. Inoltre può emergere una
compromissione delle funzioni emotive che comprendono reazioni d’ansia, attacchi di panico,
depressione.
Alle conseguenze sul funzionamento emotivo, si affiancano anche quelle sul funzionamento
cognitivo, ossia la difficoltà di concentrazione, di memoria, le quali tendono a perdurare anche al
di fuori dell’ambiente lavorativo, il cosiddetto sovraccarico cognitivo.
Queste conseguenze possono, in alcuni casi, portare anche ad un uso/abuso di sostanze
stupefacenti, come droghe e/o alcol, e tale utilizzo influenza inevitabilmente la perfetta esecuzione
della propria mansione, andando ad inibire il controllo comportamentale (Richardson, Rothstein,
2008)25
.
Queste considerazioni introducono il tema del burnout. È questo un termine inglese la cui
traduzione letterale è “bruciato” e sta ad evidenziare una “sindrome derivante da un processo
24MINCHIE S. 2002. Causesand management of stress at work. Occupational &Environmenal Medicine, N
59, pp. 67-72.
25Richardson K. M., Rothstein H. R. (2008). Effect of Occupational Stress Managements Intervention
Programs: a meta-analysis. Journal of Occupational HealtPsicology, Vol. 13, N. 1, pp 69 – 93.
DEFINIZIONE: dal lato psicologico lo Stress sul lavoro può essere definito “come una
reazione interna a stimoli interni ed esterni che producono un’attivazione fisiologica e uno
sforzo emotivo che, a loro volta, mettono in moto risposte cognitive o
comportamentali”(Westen,2002).1
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10
stressogeno che colpisce le persone in ambito lavorativo e porta con sé una perdita della
motivazione, ossia un disamoramento verso il proprio lavoro, con conseguente impedimento di
vedere il reale obiettivo delle proprie mansioni” (Lloyd e all, 2002)26
.
Una definizione condivisa di “burnout” è la seguente: “Sindrome complessa, a componente
prevalentemente psichica, che si instaura come risposta a una condizione di stress lavorativo
prolungato” (Tomei, Tomao, Sancini, 2003)27
Edelwich e Brodsky (cit. in Anchisi, Gambotto, 2009) hanno messo a punto quattro stati progressivi
che caratterizzano l’evolversi della sindrome del burnout:
1. Stadio dell’entusiasmo: gli operatori sono motivati dal proprio lavoro e ne percepiscono di
esso soprattutto i lati positivi.
2. Stadio della stagnazione: inizia a sentirsi il peso dell’impegno lavorativo, vi è un calo
dell’entusiasmo con conseguenti sentimenti di noia e preoccupazione. Il proprio lavoro
viene percepito come banale, non più entusiasmante.
3. Stadio della frustrazione: quando vi è eccessiva discrepanza tra le aspettative del
lavoratore e la realtà. Vi è una percezione di inutilità e di impotenza.
4. Stadio dell’apatia: disimpegno affettivo verso la propria situazione lavorativa. Il desiderio
di aiutare l’altro scompare. Si diventa apatici. Tutto ciò porterebbe il lavoratore a
comportarsi in maniera meccanica, senza il giusto entusiasmo. I compiti vengono visti
come un obbligo e portati avanti per necessità.
Le varie ricerche che hanno investigato le cause che conducono un soggetto verso la sindrome
del “burnout” hanno messo in luce numerose variabili (Maslach, Schaufeli, Leiter, 2009)28
raggruppabili nei tre seguenti insiemi:
Variabili organizzative: ossia ambienti di lavoro poco confortevoli, orari inadeguati, retribuzione
non soddisfacente, prospettive di lavoro limitate, rapporti poco costruttivi con i colleghi, prestazioni
lavorative troppo routinarie.
Variabili socio – culturali: ossia tutti i fattori relativi all’organizzazione sociale collettiva, alla storia
politica e culturale, all’evoluzione dei costumi che risultano essere dannose per i lavoratori.
Soprattutto negli ultimi anni si è assistito ad una riduzione delle spese per sanità, assistenza e
sicurezza. Senza dimenticare che, conseguentemente a ciò, molti utenti hanno scarsa fiducia in
tali servizi, e ciò pesa gravemente sull’autostima dei lavoratori coinvolti.
Variabili individuali: anche fattori quali età, sesso, titolo di studio, motivazione lavorativa,
soddisfazione extra-lavorativa hanno rilievo sul possibile rischio burnout. Inoltre, problemi emotivi
non risolti, seppur non legati all’ ambito lavorativo, possono interagire con esso in modo non
costruttivo.
26Lloyd C., King R., Lesley C. (2002), “Social Work, Stress and Burnout: a Review”, Journal of Mental Healt,
Vol. 22, N. 3, pp. 255 – 265.
27Tomei C., Tomao G., Sancini A. (2003), “Burn – Out”, Giornate Romane di Medicina del Lavoro “Antonello
Spinazzola” Sezione regionale Laziale – Abruzzese della S.I.M.L.I.I. – Scuola di Specializzazione in
Medicina del Lavoro – Università degli Studi di Roma “La Sapienza”.
28Maslach C., Schaufeli W. B., Leuter M. P. (2009), “Burnout: 35 years of research and practice”, Career
Development International, Vol. 14, No. 3, pp 204 – 220.
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A tal proposito è utile prendere in analisi il concetto di decisionmaking: prendere una decisione
non è mai semplice, soprattutto in casi di emergenza; se poi ci si trova in una condizione di stress
elevato, è alta la probabilità di poter commettere degli errori.
A tal proposito Friedman (2017), insieme ad un’equipe di neuro scienziati del MIT, ha dimostrato
che quando si è chiamati a prendere decisioni in situazioni in cui è necessario bilanciare e valutare
i costi e i benefici, lo stress cronico ha un ruolo cruciale nel determinare le scelte.
La capacità di valutare i costi e i benefici di un’opzione è essenziale nel momento in cui gli individui
si trovano a prendere una decisione che si riveli poi soddisfacente e “razionale”; tuttavia tale
capacità risulta compromessa in alcuni disturbi tra i quali la “depressione”, l’ “ansia persistente e
invasiva” (Friedman et al., 2017)29
. I ricercatori hanno messo in atto un esperimento tramite
l’esposizione di topi a periodi brevi di stress ma prolungati nel tempo, per circa due settimane.
Si è osservato che i topi esposti a episodi di stress cronico si comportavano alla stessa maniera dei topi manipolati
tramite tecniche di optogenetica, cioè tendevano a raggiungere sempre la ricompensa più alta muovendosi in un
percorso pericoloso all’interno del labirinto, al contrario dei topi non sottoposti a stress che si “accontentavano” dalla
ricompensa meno vantaggiosa ma facilmente raggiungibile.
In sostanza l’animale sceglieva il cibo preferito senza valutare l’alto costo della decisione, in quanto, per ottenerlo,
doveva percorrere un percorso pericoloso. Pertanto i ricercatori hanno concluso che i circuiti presi in esame fossero
cruciali per integrare le informazioni circa i costi e i benefici di un’opzione di scelta al fine di implementare i comandi della
corteccia prefrontale, responsabile dell’implementazione dell’azione goal-directed tramite l’attivazione di specifici
interneuroni e l’inibizione degli striosomi (Friedman et al., 2017).
Quando l’animale è sottoposto a stress cronico, i circuiti si attivano in modo anomalo e impediscono alla corteccia
prefrontale di inibire gli striosomi che si iperattivano.
4.2. IL MONDO AERONAUTICO
Può dunque esservi una difficoltà di decisionmaking in situazioni di elevato stress e pericolo.
Questo può accadere in diversi contesti, ad esempio in ambito lavorativo spesso possono esserci
delle fallacie di ragionamento in situazioni di emergenza, che vanno ad eludere
inconsapevolmente il sistema di sicurezza.
Ad esempio, in ambito aeronautico sono diversi i fattori che portano ad una inconsapevolezza
della situazione di rischio. A tal proposito è possibile prendere in analisi l’essere umano come
sistema multidimensionale, poiché non può essere colto da un singolo approccio.
In Italia Antonio Chialastri, pilota comandante in Alitalia, nel suo libro Human Factor prende in
analisi quello che definisce il circolo della conoscenza30
: ovvero l’essere umano, come scritto
poc’anzi, è strutturato da diverse dimensioni come: percezione, attenzione, emozione, linguaggio,
Questi elementi del cerchio camminano sempre insieme e i difetti di ragionamento possono essere
dovuti ad alterazioni degli elementi in questione. Ad esempio, le nostre capacità di ragionamento
possono alterarsi a causa di una percezione distorta, oppure di fallacie indotte da anomalie
presenti negli elementi del cerchio che portano ad un abbassamento della soglia di attenzione.
Tutti gli esseri umani sono soggetti a “bias cognitivi” intesi come costrutti fondati al di fuori del
giudizio critico, su percezioni errate o deformate, su pregiudizi e ideologie e utilizzati spesso per
prendere decisioni in fretta e senza fatica.
29
Friedman, A., Homma, D., Bloem, B., Leif, G., et al. (2017).Chronic stress alters Striosome-circuitdynamics,
leading to aberrant decision making.Cell, 171(5), 1191-1205.
30
CHIALASTRI A, 2012. Human Factor, Prestazioni & Limitazioni Umane. IBN. Pp.201
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Si tratta, il più delle volte, di errori cognitivi che impattano nella vita di tutti i giorni, non solo su
decisioni e comportamenti ma anche sui processi di pensiero. Questi possono essere considerati
come delle euristiche, ovvero dei procedimenti mentali intuitivi e sbrigativi: ad esempio i piloti di
fronte ad una comunicazione ambigua tendono a colmare la lacuna attribuendo un significato che
completi il quadro mentale in base alle proprie aspettative implicite ed inconsapevoli.31
Ma il cervello umano non è idoneo per il multitasking: anche se continuamente tentiamo di
sfidare noi stessi mettendoci alla prova, non sempre i risultati sono soddisfacenti ed inoltre
determinati task hanno la priorità su altri, come ad esempio quelli il cui buon esito ci garantisce la
sopravvivenza e la salute.
Naturalmente vi sono determinati contesti in cui è richiesta una maggior capacità di attenzione
divisa: ad esempio, i piloti sono soggetti continuamente a diversi stimoli. Nel momento in cui
rientrano nella sequenza di routine, tali stimoli non apportano problematiche ma - ove mai ci fosse
una rottura della routine come ad esempio in una situazione di emergenza – tenderebbero a far
focalizzare inconsapevolmente l’attenzione del pilota sugli stimoli iniziali, trascurando elementi
fondamentali per la risoluzione dell’eventuale problematica.
In questi casi la mente comincia a bloccare i segnali in entrata, lasciando passare solo quelli che
servono a mantenere la motivazione presente nel momento dell’inizio attivo della situazione: cosa
che porta a prendere decisioni errate.
L’attenzione difatti è monocanale: ovvero il cervello può concentrarsi bene solo su una cosa ma
nel momento in cui emerge un imprevisto, e quindi l’attenzione richiesta è superiore a quella che
occorre nella routine, avviene un rallentamento delle operazioni.
Un’ ulteriore funzione rilevante è quella della memoria: per memorizzare dei dati, tutti utilizziamo
delle strategie. Nl caso specifico dei piloti, che come scritto poc’anzi devono necessariamente
attivare diverse strutture cognitive contemporaneamente, ci si affida all’ottimizzazione del processo
mnemonico per far si che le azioni messe in atto possano, con la continua ripetizione, divenire
abitudine.
Tutto ciò fa riferimento al concetto di automatismo che, a lungo andare, può portare ad un
processo di disumanizzazione e quindi a far mettere in atto all’uomo procedure in maniera
sequenziale, come se fosse egli stesso una macchina.
Un ulteriore elemento che Chialastri (2012) prende in analisi è quello delle emozioni.
Oltre a manifestazioni esteriori, anche queste apportano delle influenze e quindi delle modifiche
alle strategie cognitive necessarie per far fronte allo stimolo che ha innescato l’emozione specifica.
In una situazione di pericolo, le emozioni possono andare a sopraffare le capacità di ragionamento
facendo si che l’istinto di sopravvivenza abbia la meglio, mobilitando alcune aree del cervello,
alcune consce e altre automatiche. Questo porta a dire che il processo decisionale non può
basarsi solo su fattori cognitivi.
Inoltre, Chialastri (2012) prende in analisi le parole di Antonio Damasio per individuare il delicato
rapporto tra la gestione corretta delle emozioni e le situazioni che possono capitare in volo: “ il
pilota di un aereo di linea che sta per atterrare in un aeroporto in un momento di traffico aereo
molto intenso e in cattive condizioni metereologiche, non deve consentire che i sentimenti
disturbino la sua attenzione dai particolari dai quali dipende la sua decisione; tuttavia, egli deve
connettere i sentimenti con il senso di responsabilità; un eccesso di sentimento o un difetto di
sentimento possono avere conseguenze disastrose” (Damasio,1995)32
.
31
CHIALASTRI, 2012. Ivi Human Factor, Prestazioni & Limitazioni Umane. IBN. Pp.203
32 DAMASIO A.R. 1995. DAMASIO A.R. 1995. L’errore di Cartesio. Adelphi, Milano.
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È necessario dunque essere consapevoli delle reazioni del proprio organismo: quello che deve
essere controllato è il livello di allerta o “arousal” necessario a rispondere alle sfide dell’ambiente
poiché una risposta poco efficiente potrebbe non essere efficace nel fronteggiare una situazione
critica, mentre una risposta troppo emotiva potrebbe inibire il processo decisionale (Chialastri,
2012).
Ciò che può incidere sulle emozioni è, come scritto in precedenza, il livello di stress: ad esempio i
piloti sono costantemente soggetti, visto il carico di responsabilità ma anche per lo stile di vita che
conducono, a frequenti variazioni di jet lag che portano ad un disturbo del ritmo circadiano e
momenti di solitudine lontani dalla famiglia.
Un aspetto cruciale per la sicurezza è da ricondurre ai test psicofisici sui piloti e sul personale di
bordo: difatti la vita dei piloti può essere molto stressante a causa delle condizioni stesse di lavoro,
spiega Riccardo Canestrari, coordinatore nazionale Anpac (Associazione professionale dei piloti e
degli assistenti di volo) e comandante di A320. Inoltre vi è il fattore solitudine legato ai turni di
lavoro: ad esempio capita ogni giorno di lavorare con persone diverse e quando si affronta un
momento di difficoltà, il più delle volte ci si ritrova ad affrontarlo da soli.
Questi fattori non sono da sottovalutare poiché possono incidere sui diversi livelli del cerchio di
conoscenza (Chialastri, 2012), e ciò può provocare reazioni psicofisiche dannose, come ad
esempio uno stato di depressione o la stessa sindrome di burnout.
Un esempio eclatante è sicuramente il caso di Lubritz, copilota della compagnia aerea
Germanwings che il 24 Marzo 2015, a causa del suo folle gesto suicidario, uccise 150 persone.
È emerso dalle indagini che Lubritz soffrisse di depressione, ma questo non era mai emerso prima
della tragedia. Qui dunque si evidenzia una pecca nel sistema di sicurezza rispetto all’essere
umano e non alla macchina. In ambito lavorativo si parla poco di queste cose: in genere le
dinamiche relazionali extraprofessionali sono improntate ad un approccio superficiale e leggero.
Uno dei punti fondamentali per quanto concerne il processo della sicurezza, soprattutto nel caso
specifico dell’ambito aeronautico, è invece quello di innalzare il livello di consapevolezza rispetto ai
limiti umani: se un pilota risulta sotto stress o “non idoneo” nel corso degli accertamenti o dei
controlli periodici da parte delle compagnie aeree, rischia di vedersi bloccata la licenza di volo fino
ad un successivo controllo. Come accorgersi dunque che un pilota è entrato in fase di rischio?
Per facilitare la comunicazione su questioni più intime e personali, da circa 20 anni negli USA e più
recentemente in Spagna, Francia ed Olanda, sono stati istituiti dei gruppi di ascolto e supporto
(PAG). L’organizzzazione internazionale dei piloti, IFALPA, che raggruppa circa 100mila piloti nel
mondo e di cui Anpac fa parte, sta stimolando l’istituzione di gruppi di ascolto in altri Paesi del
mondo. Si tratta di strutture, le cui procedure sono coordinate dalle associazioni professionali dei
naviganti con il supporto di aziende ed istituzioni, a cui un pilota o un assistente di volo possono
liberamente rivolgersi, in ambiente protetto e riservato, per qualsiasi problematica legata al proprio
stato psicofisico.
Il pilota per anni è stato addestrato ad immaginarsi sempre più vicino ad una macchina, ignaro
delle emozioni e sensazioni che ne avrebbero inquinato il processo decisionale. 33
33
SPERANDIO S, 2015. Anpac:”Piloti sotto stress, i controlli non bastano, servono gruppi di ascolto per chi
va in crisi”. Sole 24 ore.
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5. L’ERGONOMIA E L’ INTERAZIONE UOMO-MACCHINA
L’ergonomia è la scienza volta alla comprensione delle interazioni tra i soggetti umani e le altre
componenti di un sistema ed è la professione che applica teorie, principi, dati e metodi per
progettare con la finalità di accrescere il benessere dei soggetti umani e le prestazioni complessive
del sistema.
Gli ergonomi contribuiscono alla progettazione e alla valutazione di compiti, funzioni, prodotti,
ambienti e sistemi in modo da renderli compatibili alle esigenze, alle capacità e ai limiti delle
persone” (International ErgonomicsAssociation).
Dal punto di vista dello Human Factor, l’ergonomia è di fondamentale importanza dato che spesso
una pecca nell’interazione uomo-macchina può portare a disastri dal punto di vista della sicurezza.
L’attenzione alle condizioni di lavoro fa parte delle caratteristiche storiche di diverse aziende, tra
cui ad esempio Olivetti, che ha sempre chiesto agli architetti che progettavano i suoi uffici di
pensare ad ambienti gradevoli in cui trascorrere le giornate lavorative.
Nel corso del tempo l’ergonomia ha subito un’evoluzione: prima i riflettori erano concentrati più su
un’ergonomia fisica, ovvero si dava molta più importanza alla macchina, anche perché prima
l’attività consisteva nel fare materialmente qualcosa e agli inizi del ‘900 si era più improntati su una
visione come “la scienza scopre, la tecnologia applica, l’uomo si adegua”. L’elemento umano era
quindi concepito in interazione passiva con la macchina.
Solo verso gli anni ’70 si comincia a pensare di poter adeguare la macchina all’uomo: si
progettano i sistemi affinchè questi possano essere rispondenti il più possibile alle caratteristiche di
chi deve utilizzarlo.
A tal proposito iniziarono ad essere presi in analisi i processi mentali implicati come percezione e
attenzione.
Vi è un’ulteriore fase intorno agli anni ’80, in cui si inizia a parlare di “ergonomia di prevenzione”,
che non riguarda più le singole macchine, ma i sistemi. In questa fase si vanno ad analizzare quelli
che sono i processi cognitivi, analizzando i modelli mentali degli utilizzatori delle macchine.
Normann, psicologo cognitivista, fu uno dei primi che investì parte dei suoi studi sulle modalità di
interazione uomo-macchina:“ Le persone propongono cosa, la scienza studia come, la
tecnologia si adegua” (Chialastri 2015).
In aviazione, l’evoluzione ha compiuto passi da gigante, e sempre più l’evoluzione dell’ergonomia
si è fusa con quella dell’automazione, poiché l’utilizzo di tecnologie che supportano o sostituiscono
l’uomo è diventato talmente pervasivo che oramai non ci rendiamo nemmeno più conto di utilizzare
delle macchine. Le tecnologie “embedded” sono talmente comuni e familiari che ci sembrano
naturali: difatti il livello di maturità della tecnologia è al suo massimo livello proprio quando non è
concepita più come tale.
Eppure, l’aviazione, nonostante sia un settore ad alta tecnologia, non ha ancora raggiunto un
livello di maturità tale da rendere istintivo il comprendere i comandi e le procedure di un aereo con
il minimo sforzo. Quello che difatti oggi ci si chiede è come, data la complessità dei sistemi, si
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possa tenere l’operatore al centro decisionale di comando e controllo e farlo comunicare
adeguatamente con la macchina.
Prima dell’introduzione degli aerei di nuova generazione, il pilota doveva conoscere bene gli
impianti e gli strumenti, poiché in caso di malfunzionamento poteva capire cosa fosse successo ed
intervenire per colmare il gap.
Con gli aerei di nuova generazione sono state introdotte novità rispetto al modello mentale
dell’utilizzatore: ad esempio vi è stata un’integrazione degli strumenti in un’area ridotta come può
essere, ad esempio, un singolo display.
Questo adattamento da un lato può essere visto come un vantaggio, per quanto concerne
l’ottimizzazione degli spazi, ma dall’altro può essere uno svantaggio, difatti se prendiamo in
considerazione l’aspetto della gestione del controllo, è possibile notare che il computer riesce a
verificare le possibili inesattezze del pilota, ma non è possibile affermare il contrario. Si innesca
così il fenomeno della “complacency”, alimentata dalla diminuzione di addestramento alle manovre
basiche.
Infatti, con le nuove tecnologie, pare che il pilota medio sembra aver perso la capacità di avere
un frame cognitivo per poter comprendere, nel migliore dei modi, il senso delle indicazioni
ricevute dagli strumenti.
Una studiosa come Susanne Bainbridge, aveva, trent’anni fa, evidenziato quelle che vengono
definite “le ironie dell’automazione” (Bainbridge, 1983)34
. Man mano che i sistemi diventano
sempre più complessi e sempre più i livelli di automazione vengono introdotti con l’intenzione di
rimpiazzare il lavoro umano, assistiamo alla trasformazione dell’uomo quale elemento sempre più
necessario all’interno di queste “complessità tecnologiche”, al fine di raggiungere l’obiettivo là dove
le macchine, per limiti di progettazione, non possono arrivare.
All’inizio degli anni ’80, con l’introduzione e l’intensificazione di queste tecnologie, si è assistito ad
un aumento delle minacce per la sicurezza, dovute soprattutto all’incomprensione, a livello
cognitivo, del funzionamento delle macchine di nuova generazione. Il principio che enfatizza l’uso
dell’automazione, parte dalla concezione che l’uomo sia l’anello debole, come essere fallace. In
realtà, ciò che è emerso negli ultimi anni, è che la componente umana è sempre necessaria, ma
ha cambiato ruolo, da attore a controllore, tanto da dover entrare in scena proprio quando
l’automazione fallisce. (Chialastri, 2015).
La mentalità di base di questa rivoluzione tecnologica, si può sintetizzare in “Quando le cose
vanno bene, il computer si occupa di tutto, quando succede qualcosa di anormale, proprio perché
non prevedibile, interviene l’operatore per ristabilire le condizioni di sicurezza” (Chialastri, 2015).
Quindi l’essere umano è relegato al compito di supervisore, ma questa visione cozza con il punto
di vista del pilota che ragiona in altri termini, ovvero “Quando tutto va bene io sono ai comandi.
Quando le cose si mettono male, vorrei che l’automazione mi aiutasse” (Chialastri, 2015).
Quello che succede è che quando le cose vanno bene, il carico di lavoro è così basso che il pilota
rischia la “complacency”, mentre quando le cose vanno male ha molta difficoltà a prendere il
34
BAINBRIDGE S, (1983). “Ironies of automation” , in Automatica, vol.19, n.6 pp. 775-779, BAKAN J, (2004), The
corporation, Fandago, Roma.
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controllo per via della perdita di abilità. È necessario chiedersi quale potrebbe essere il livello
ottimale di automazione. Innanzitutto sarebbe opportuno decidere cosa affidare all’uomo e quali
compiti far svolgere alla macchina. Da un lato sarebbe vantaggioso attribuire all’uomo i compiti che
riesce a svolgere meglio e alle macchine quello che possono fare in modo più affidabile. Ma
dall’altro lato è improbabile che esistano dei sistemi che definiscano volta per volta quale livello è
più giusto per particolari situazioni in volo. Per quanto riguarda invece la funzione dell’uomo,
bisognerebbe mantenere l’operatore umano sempre dentro il circuito di decisione e controllo,
affinchè possa aumentare la motivazione, la competenza e la consapevolezza.
Una delle sensazioni che maggiormente emerge è quella dell’ “Out of the loopsyndrome” ovvero,
“Sono io che porto lui o è lui che porta me?”
In tal caso la percezione, la comprensione e l’anticipazione degli eventi sono affetti dalla
mancanza di motivazione indotta dal carico di lavoro mentale molto basso, dovuta all’eccessiva
fiducia sull’affidabilità delle macchine che portano il pilota ad abbandonare il senso critico. E nel
momento in cui emerge una fallacia nell’automazione, ha difficoltà a prendere in mano la
situazione e/o a mantenere un livello di comprensione tale da affrontare in maniera efficiente
l’emergenza35
. (A tal proposito, Billings ritiene che un livello di consapevolezza basso da parte
dell’essere umano, in questo caso del pilota, è un fattore fondamentale poiché porta ad
un’incapacità di prendere decisioni, soprattutto nell’immediato, come in particolari situazioni di
rischio, e questo, a sua volta, porta ad un fallimento del sistema di sicurezza).
6. APPENDICE: CASE STUDIES
In questo capitolo verranno presi in esame due casi pratici per poter analizzare in concreto il ruolo
dello Human Factor nell’ambito della sicurezza sul lavoro.
Il primo caso studiato è rappresentato da uno dei più gravi incidenti marittimi della marineria
italiana, ovvero quello avvenuto a gennaio del 2012 alla nave da crociera Costa Concordia.
Il secondo invece è quello del volo Air France 447, precipitato a giugno del 2009.
Nell’analisi di quanto accaduto partiremo dal rispondere alle seguenti domande: Cosa è successo?
Come? Perché?
E per fare questo ci serviremo di alcuni dei modelli investigativi aeronautici più utilizzati,
riconosciuti dall’ICAO e dalla comunità internazionale, oltre a prendere in considerazione tutti gli
elementi studiati sul fattore umano, dal clima organizzativo all’errore, dalle condizioni psico-fisiche
al lavoro di gruppo fino al rapporto uomo-macchina.
35
Cfr. CHIALASTRI A, (2015). Human Factor, il rapporto Uomo-Macchina. IBN.
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6.1 IL CASO DELLA COSTA CONCORDIA
Il primo caso esaminato è quello del naufragio della nave da crociera Costa Concordia, avvenuto il
13 gennaio del 2012 al largo dell’Isola del Giglio. L’incidente, costato la vita a trentadue persone
tra equipaggio e passeggeri, è stato uno degli incidenti navali più gravi della storia della marineria
italiana ed ha scosso profondamente l’opinione pubblica. Il capitano Francesco Schettino è stato
condannato a sedici anni di reclusione per aver ritardato l’evacuazione e abbandonato la nave.
6.1.1. L’EVENTO
La nave da crociera Costa Concordia, appartenente all’armatore italiano Costa Crociere S.p.A,
mollò gli ormeggi nel porto di Civitavecchia alle ore 18.57 del 13 gennaio 2012 diretta a Savona
per l'ultima tappa della crociera «Profumo d'agrumi» nel Mar Mediterraneo36
. Uscita dal porto, la
nave assunse la rotta usualmente percorsa dalle navi della compagnia nel tratto tra Civitavecchia e
36
La cronistoria del disastro si basa sulla ricostruzione fatta dalla Rai nel documentario pubblicato sul sito
www.rainews.it una volta completati i lavori di smaltimento del relitto a gennaio del 2017. All’interno dello
stesso sono presenti foto riginali, video e audio della notte del naufragio.
I MODELLI DI INDAGINE
1) Il modello SwissCheese di Reason
Il modello di Reason1, chiamato anche SwissCheese, immagina le varie barriere politiche, tecnologiche, legislative
ed organizzative all’errore come una serie di pezzi di groviera. Quando i buchi di questi pezzi di formaggio si
allineano, si sovrappongono, si crea una falla nel sistema e l’errore, non trovando nessuna barriera ad ostacolarlo, si
compie. Questo modello dunque prende in considerazione i fattori latenti e le cause scatenanti di un incidente. É
fondamentale per capire come migliorare la struttura delle barriere protettive.
2) Il modello SHELL
L'abbreviazione SHELL sta per Software, Hardware, Environment, Liveware, (Central) Liveware1.
Questo paradigma è stato definito da Reinhart come "la relazione dei fattori umani con l'ambiente dell'aviazione".
Questo tipo di modello quindi affronta l’analisi del sistema come interazione tra norme, macchine, contesto
ambientale e persone. Ognuno di questi elementi costituisce un tassello di un puzzle al cui centro vi è l’uomo.
Secondo il modello SHELL, queste tessere sono in interazione costante tra di loro ma non si intersecano mai
perfettamente, perché vi sono degli attriti ineliminabili che derivano proprio dall’interazione stessa.
3) Il modello S-R-K di JanRasmussen
In ultima analisi troviamo il modello di Rasmussen1. Questo studiopermette di distinguere l’errore dalla violazione in
base a tre tipologie di comportamento: Skill-basedbehaviour, Rule-basedbehaviour e Knowledge-basedbehaviour.Il
primo è ilcomportamento di routine basato su abilità apprese per le quali l’impegno cognitivo è bassissimo ed il
ragionamento è inconsapevole, automatico. Il secondo è il comportamento guidato da regole di cui la persona
dispone per eseguire compiti noti. Infine, il terzo è il comportamento da attuare quando ci si trova in presenza di
situazioni nuove o impreviste; è il ragionamento complesso che cerca la soluzione laddove non è stata data. Sulla
base di questa distinzione si individuano tre principali categorie di errore e di violazione:
- Skill: L’errore in questo caso è chiamato lapse ed è un errore di esecuzione provocato da una dimenticanza, da un
vuoto di memoria. Si può avere violazione nel caso in cui, nel portare a termine dei compiti routinari si cerca di
ottimizzarne i movimenti, l’energia impiegata e la velocità di esecuzione attraverso scorciatoie, escamotage o
trucchetti del mestiere.
- Rule: In questo livello l’errore, anche detto slip, è unerrore di esecuzione che si verifica a livello di abilità. Può
essere una dimenticanza o uno sbaglio involontario.Si ha violazione laddove si applica in maniera scorretta una
regola valida o laddove quest’ultima non venga applicata intenzionalmente.
- Knowedge: In ultima analisi si può avere l’errore definito mistake. Si tratta di un errore di pianificazione commesso
involontariamente prima dell’esecuzione pratica del piano d’azione.Quest’ultimo può trasformarsi in violazione
laddove si verifichi una mancata osservanza volontaria dei precetti professionali, ovvero dei principi che stanno alla
base di tutte le norme professionali. Capire in quale livello si colloca l’errore o la violazione è molto importante in
quanto permette di capire le cause della situazione che si è verificata e di prevenirne di simili in futuro, garantendo
standard di sicurezza sempre più elevati.
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Savona. Alle 21:04 la nave lasciò la rotta usuale per la manovra di passaggio ravvicinato sotto
l'isola del Giglio. Secondo quanto riportato successivamente dalle indagini, l’avvicinamento faceva
parte di un rito chiamato “inchino”, già praticato in precedenza anche da altre navi e noto alla
compagnia di navigazione. Giunta nei pressi dell'isola del Giglio, la nave,infatti non si diresse verso
nord per riprendere la normale navigazione parallela alla costa, ma continuò ad avvicinarsi
all’isola. Sia il primo ufficiale di coperta Ambrosio che il capitano Schettino ordinarono di
proseguire con la manovra. La nave giunse così a quattrocentocinquanta metri dagli scogli delle
Scole e poi ancora più vicino, a novantasei metri dalla riva, dove urtò il più piccolo degli scogli.
L’impatto aprì una falla di circa settanta metri sul lato sinistro della nave, provocando la brusca
interruzione della navigazione, un forte sbandamento e il conseguente incaglio sul basso fondale.
L’allagamento coinvolse numerosi compartimenti della nave e portò infine alla sua parziale
sommersione. Non fu mai lanciato nessun Mayday. I soccorsi giunsero in ritardo contribuendo a
causare la morte di trentadue persone.
6.1.2. L’INDAGINE SULLE CAUSE
Secondo il modello di Reason, prima che l’errore si compia esistono varie tipologie di barriere che
vengono messe in atto per impedirlo. Nel caso della Costa Concordia, in primo luogo, risulta
evidente la falla nel sistema organizzativo, nel management. La manovra che ha causato
l’incidente infatti faceva parte di un rito che facevano tutti e che, per questo motivo, si riteneva
erroneamente molto meno pericolosa di quanto non fosse realmente. L’organizzazione era a
conoscenza di questa violazione rutinaria e non ha mai preso provvedimenti.
Accanto a questa lacuna così eclatante, gli atti del processo ne hanno messe in risalto altre
chiaramente meno evidenti ma altrettanto importanti. Numerosi passeggeri infatti, in seguito
all’incidente hanno lamentato carenze nelle procedure di emergenza e mancato rispetto delle
normative di sicurezza, permettendo di aprire un dibattito anche sulla preparazione professionale
del personale di bordo.
Alla falla all’interno dell’organizzazione si è sovrapposta quella all’interno dell’impianto normativo.
La legge del mare infatti non sembra essere riuscita a predisporre una giusta barriera all’evento.
Le domande che sorgono spontanee quindi sono molteplici: Il sistema è realmente adatto al livello
di sicurezza che richiedono oggi le attuali navi in circolazione? La legislazione marittima si è
adeguata alle nuove tecnologie introdotte nella navigazione? Esiste un controllo sulla terraferma
per prevenire fenomeni come il rito di far inchinare le navi? Le compagnie monitorano il rispetto
delle procedure?
Volendo scendere ad un livello di indagine ancora più dettagliata, secondo il modello Shell, che
prende in esame le relazioni tra l’uomo e il sistema circostante, i rapporti che vengono in evidenza
nel caso di specie sono quello tra l’uomo ed il suo gruppo di lavoro e quello tra l’uomo ed il
contesto sociale in cui opera.
Per quanto riguarda il primo, si sono verificate due problematiche a bordo della Costa Concordia:
l’assenza di comunicazione e quella di pensiero critico. Il capitano infatti, al momento
dell’emergenza, non ha saputo effettuare l’assegnazione immediata dei compiti né coordinare le
procedure, con il risultato che è mancato completamente il lavoro di gruppo. D’altro canto, però,
anche il gruppo non si è reso responsabile, non ha manifestato alcun pensiero critico nei confronti
della decisione del capitano di effettuare la manovra pericolosa, ma ha accettato pedissequamente
l’idea di avanzare verso la costa. L’inganno del pensiero di gruppo può nascondersi dietro ogni
organizzazione umana, poiché ciascuna è costituita da gruppi e sottogruppi. Lo stesso problema si
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è presentato, infatti, a livello politico-istituzionale ed ha inciso sul rapporto tra l’uomo ed il contesto
sociale in cui vive. A testimoniarlo vi è una lettera dello stesso sindaco dell’Isola del Giglio, Sergio
Ortelli, che pochi giorni prima del disastro ringraziò il capitano della Costa Concordia Massimo
Garbarino per l’omaggio ricevuto e l’incredibile spettacolo offerto dal passaggio ravvicinato al
Giglio, dimenticando completamente di considerarne la pericolosità.
In ultima analisi, grazie al modello di Rasmussen, è possibile individuare e classificare gli errori e
le violazioni fatte prima dell’impatto e durante la manovra di emergenza.
Skill: Non sono stati rilevati errori dovuti a dimenticanze o vuoti di memoria ma solo violazioni
dovute all’applicazione di euristiche errate. L’abbandono della nave da parte del capitano rientra
tra queste ultime. Il comportamento di Schettino infatti va considerato come una violazione
volontaria delle responsabilità del capitano, anche se influenzata dalla paura e dall’incapacità di
muoversi verso il pericolo.
Rule: Nell’ambito di questo livello si possono inserire sia gli errori che le violazioni riguardanti le
procedure. Può essere classificato come errore quello di Jacob Rusli Bin, il timoniere che più volte
non capì gli ordini di Schettino manovrando in modo sbagliato e contribuendo allo scontro con le
rocce. Va classificata come violazione, invece, la decisione di Schettino di modificare la rotta per
effettuare l’”Inchino”.
Knowledge: Gli errori di pianificazione sono stati alla base dell’evento incidentale. Né il capitano né
alcun ufficiale all’interno della plancia hanno desiderato in alcun momento l’evento tragico del
naufragio, ma nessuno di essi si è mai comunque reso conto della pericolosità delle distanze e
della velocità dell’avvicinamento. Il fatto che quella fosse un’operazione rutinaria e che non ci
fossero mai stati incidenti al riguardo ha probabilmente contribuito ad abbassare il livello di
sensibilità nei confronti del rischio e condotto alla deriva. Gli errori in questo livello quindi non sono
stati commessi per inesperienza o incapacità ma, al contrario, per un’eccessiva fiducia nelle
proprie capacità.
6.1.3. L’ANALISI HUMAN FACTOR
Per concludere lo studio del caso del naufragio della Costa Concordia, va esaminato il peso dello
Human Factor sull’evento complessivo. L’ICAO ha predisposto una sorta di check list per
analizzare quelli che sono gli elementi caratterizzanti lo Human Factor, ovvero gli aspetti
organizzativi, le performance umane, il lavoro di gruppo e l’interazione tra l’uomo e la macchina.
Vediamo come questi fattori hanno inciso sulla sicurezza e cosa possiamo fare per evitare che si
ripresentino casi analoghi in futuro.
a) Limiti umani e presupposti organizzativi
Come è stato dimostrato, l’uomo possiede una grande varietà di limiti connaturati con la sua natura
di essere umano. Eliminarli è impossibile, ma riconoscerli e prevenirli può ridurre l’esposizione
all’errore. Nella situazione studiata, la decisione di Schettino di ritardare la chiamata ai soccorsi in
violazione delle procedure previste può essere sintomatica in primo luogo di un momento di forte
stress psicologico. L’evento di collisione infatti può aver generato un’iniziale situazione di shock,
essendo la prima volta che una nave Costa Crociere effettuava quella manovra urtando gli scogli,
e ciò potrebbe aver contribuito a rallentare il processo di decision making. In secondo luogo, non è
da escludere nemmeno che sulla decisione abbia pesato una certa pressione da parte
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dell’organizzazione nel cercare di limitare i danni, vista la lunga chiamata di Schettino al suo
armatore. Infine, durante la fase di gestione dell’emergenza, è subentrato anche il limite umano
della paura, che ha portato Schettino ad abbandonare la nave.
b) L’uomo e il lavoro di gruppo
É chiaro che le problematiche intercorse nell’incidente sono state molteplici e varie e le cause non
sono solamente da ricercare nel comportamento del capitano ma anche in quello del suo
equipaggio, che non è mai intervenuto per cercare di prevenire il disastro pur essendo a
conoscenza della pericolosità della manovra. Quello che è mancato è sostanzialmente il gruppo, la
comunicazione, il team work ed è evidente come anche questo fatto abbia pesato sul risultato
finale. Per evitare che in futuro possano ripresentarsi situazioni analoghe è necessario ripartire
proprio da qui, ovvero dall’uomo e dalla sua centralità. Un gruppo coordinato che condivide le
proprie esperienze, crea sinergia, costruisce senso critico nei confronti dei comportamenti errati
innalza il livello di sicurezza comune!
6.2 IL CASO DEL VOLO AIR FRANCE 447
L’incidente aereo del volo Air France 447 rappresenta un evento paradigmatico in quanto ha
concentrato in sé ogni sorta di problematica del fattore umano. Il caso ha evidenziato soprattutto i
limiti della concezione dell’uomo come minaccia che può essere neutralizzata con l’intervento della
tecnologia, costituendo per l’ergonomia ed il rapporto uomo-macchina ciò che l’attentato dell’11
settembre ha rappresentato per la security.
6.2.1. L’EVENTO
Il volo Air France 447 decollò dall’aeroporto “Galeao” di Rio de Janeiro il 31 maggio 2009, diretto
all’aeroporto “Charles de Gaulle” di Parigi. A bordo del velivolo, oltre all’equipaggio composto da
un comandante, due primi ufficiali e nove persone tra hostess e steward, erano presenti 212
passeggeri. A metà strada tra la costa Nord-orientale brasiliana ed il Senegal, il velivolo entrò nella
zona di convergenza intertropicale sotto il controllo dell’autopilota. Alle ore 2.02 il Comandante
decise di lasciare il cockpit per andare a riposare avvisando i piloti di non effettuare deviazioni
eccessive sulla rotta che avrebbero reso necessario uno scalo tecnico per il carburante.
I due piloti rimasti in cabina si trovarono di fronte al problema di dover evitare la vasta area
temporalesca presente sulla rotta e decisero di effettuare una piccola deviazione verso nord. Alle
2.10 il pilota automatico si disinserì automaticamente a causa della formazione di ghiaccio sui tubi
di Pitot, che misurano la velocità del motore, ed il co-pilota più giovane e con meno esperienza di
volo assunse i comandi manuali.
Sebbene la situazione non presentasse nulla di eccezionale e la procedura più sicura da seguire
prevedesse di non intervenire sull'assetto dell’aereo, il co-pilota ai comandi tirò a sé la cloche,
mettendo l'assetto in cabrata. Grazie alle registrazioni della cabina di guida è stato possibile
ricostruire questi minuti di grande confusione37
. Il co-pilota più anziano infatti invitò più volte il suo
compagno a fornire un input di discesa ma senza mai essere ascoltato. Nel perdere le indicazioni
37
Nel 2016 il canale televisivo National Geographic ha trasmesso un documentario dal titolo “Air France 447
Crash” in cui sono stati ricostruiti gli ultimi minuti di volo prima dell’impatto. Il video è successivo al
ritrovamento delle scatole nere e grazie a queste è stato possibile ascoltare anche tutti i dialoghi intercorsi
tra i piloti.
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di velocità del velivolo, infatti, il primo aveva capito che era necessario scendere in picchiata per
recuperare velocità e tenere in volo l’aereo, mentre il secondo, che continuava a mantenere il
comando, credeva alla “perdita apparente” di altitudine provocata dal congelamentodei tubi di Pivot
e premeva per tenere l’aereo in cabrata per recuperare quota. Il co-pilota più esperto decise allora
di prendere i comandi ma senza alcuna chiamata standard per avvisare il collega che, dal canto
suo, continuò a pilotare. La conseguenza fu un doppio input per il mezzo che entrò
irrimediabilmente in stallo. L’allarme di stallo si inserì e suonò per ben settantaquattro volte prima
dello schianto. Quando giunse il Comandante in cabina la situazione era ormai irrimediabilmente
compromessa. Nessuno dei due piloti fu in grado di spiegare cosa stesse succedendo al velivolo e
il comandante non riuscì a riprendere in mano i comandi dell’aereo che, alle ore 2.14, dopo soli
quattro minuti dalla disattivazione del pilota automatico, si schiantò nell’oceano, scomparendo
senza lasciare traccia. Non fu mai dato nessun messaggio di allarme, né fu mai lanciato alcun
Mayday.
6.2.2. L’INDAGINE SULLE CAUSE
La prima falla nel caso del volo Air France 447 è situata all’interno della barriera normativa per cui
non tutti i piloti erano a conoscenza della procedura da seguire nel caso di disattivazione del pilota
automatico.
Gli stessi investigatori della BEA38
hanno evidenziato la presenza di deficienze organizzative ed
operative dovute al fatto che le ispezioni erano poche e preannunciate39
. Anche a livello di
presupposti organizzativi e professionali, è risultato lacunoso l’addestramento dei piloti in caso di
stallo ad alta quota e ciò ha costituito una grave mancanza del sistema di gestione dell'emergenza.
Alla falla della barriera normativa ed organizzativa, inoltre, si è sovrapposta anche quella
tecnologica. Il problema principale riscontrato in cabina è stato infatti il disorientamento indotto
dall’automazione. Gli allarmi ci sono stati ma sono stati travolti da numerosi altri avvisi acustici che
hanno confuso i due piloti senza apportare alcun contributo informativo predominante. Grazie al
modello LUC40, che costituisce un’estensione del modello di Reason, possiamo vedere come le
condizioni nascoste, che si sono palesate poi tutte insieme nel disastro aereo, si annidavano nel
management. Come spesso succede infatti in alcuni processi aziendali, è difficile capire dove
siano le responsabilità quando viene messo in atto un vero e proprio processo di “normalizzazione
della devianza”41
. Come accorgersi che i piloti avevano uno scarso addestramento? Come
verificare il rispetto delle procedure di emergenza al di fuori delle visite d’ispezione?
Passando dall’analisi del modello di Reason a quella del modello Shell, i rapporti che vengono in
evidenza nel disastro aereo del volo Air France 447 sono quello tra l’uomo e la macchina e quello
tra piloti. Ad aver inciso in negativo sul primo è stato il guasto dei tubi di pivot, che ha generato
38
BEA letteralmente significa Bureau d'Enquêtes et d'Analyses pour la Sécurité de l'Aviation civile est
l'autoritéresponsabledesenquêtes de sécuritédans l'aviation civile.
39
CHIALASTRI A., 2015. Human Factor Volume 4, IBN editore, pp.353
40
Il modello LUC (LatentUnsafeCondition) costituisce una sorta di estensione di quello di Reason e mette in
evidenza le condizioni nascoste che si sono palesate tutte insieme nell’incidente. Il modello specifica in
quale aree si annidano i fattori latenti.
41
BONAZZI G., 2007. Dire, fare, pensare, Decisioni e creazione di senso nelle organizzazioni, Franco
Angeli, pp.218 e ss. Per normalizzazione della devianza si intende quel processo che porta ad avere
dimistichezza con qualcosa di imponderabile e la convinzione che il rischio non è eliminabile anzi, va dato
per scontato e affrontato con routine non codificate.
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disorientamento in cabina e mostrato chiaramente cosa può succedere quando l’uomo si affida
ciecamente all’automazione.
Per quanto riguarda il secondo rapporto invece, ciò che è mancata sostanzialmente è stata la
comunicazione. Il passaggio di consegne da un pilota all’altro non è mai avvenuto secondo lo
standard di compagnia e l’assenza di coordinazione dell’equipaggio è stato uno degli elementi
determinanti dell’incidente.
Infine, in ultima analisi, il modello S-R-K permette di studiare la natura degli errori e delle violazioni
e di comprenderne le dinamiche. Nel caso di specie, è possibile affermare che nessuno
dell’equipaggio ha commesso delle violazioni intenzionali, ma gli errori sono stati molteplici e
provenienti da tutti i livelli studiati da Rasmussen.
Skill: Il co-pilota più giovane ed inesperto ha utilizzato l’euristica per rispondere all’avviso dei
sistemi tecnologici che comunicavano un irreale abbassamento di altitudine, manovrando il velivolo
in modo esattamente opposto a come avrebbe dovuto. In questo errore hanno giocato un ruolo
fondamentale sia l’inesperienza che le condizioni ambientali.
Rule: In questo livello si inserisce l’errore riguardante la mancata applicazione delle procedure.
Non c’è mai stato un passaggio di consegne tra piloti, nessuno ha mai comunicato all’altro ciò che
stava facendo per rimediare alla situazione di emergenza e molto probabilmente ciò è stato dovuto
allo shock subito.
Knowledge: L’errore knowledge è un errore di pianificazione. Nel caso in esame è mancata una
definizione della traiettoria da seguire in previsione dell’impatto con la turbolenza. Il ragionamento
tipico di questo livello è il ragionamento complesso, e nel volo in questione è possibile affermare
che il processo di decision making è stato chiaramente danneggiato dalla saturazione sensoriale
cui sono stati sottoposti i piloti.
6.2.3. L’ANALISI HUMAN FACTOR
L’episodio occorso al volo Air France 447 costituisce un evento paradigmatico per lo studio dello
Human Factor. Nell’incidente si sono verificati simultaneamente, infatti, tutti gli elementi costitutivi
di quest’ultimo.
a) L’uomo ed i suoi limiti
I limiti umani che si sono presentati all’interno della cabina di pilotaggio sono stati determinati da
tre fattori: dal sonno, dal jet lag e dalla stanchezza. Un equipaggio che vola tutta la notte, a causa
della variazione dei ritmi del suo orologio biologico, può essere soggetto ad una diminuzione della
concentrazione, della memoria a breve termine e della capacità di prendere decisioni immediate.
Nel volo in questione, come emerge dalle registrazioni, sia il co-pilota più esperto che il
comandante hanno manifestato la necessità di riposare. Al momento di gestire l’emergenza quindi,
è facile dedurre come siano state rallentate le capacità cognitive di entrambi. Il fattore che ha
giocato però il ruolo più rilevante nel decision making è stato lo stress dovuto alla
“fundamentalsurprise”42
. A differenza di un normale evento stressante, che genera
un’ottimizzazione delle risorse disponibili ed un miglioramento delle performance, la
42
WEARS R. L., KENDALL WEBB L., 2011. Fundamental On Situational Surprise: A Case Study With Implications For
Resilience, Presses des Mines, pp270-276
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“fundamentalsurprise” è una situazione di sorpresa improvvisa inspiegabile ed ingestibile che crea
l’effetto inverso, di incapacità di gestione, di paralisi, di shock.
b) L’uomo e le condizioni ambientali e organizzative
Quando si parla di presupposti organizzativi, in primo luogo si parla di clima organizzativo, di
rapporto tra management e dipendenti, ma anche di influenze esterne provenienti ad esempio
dalle condizioni ambientali o dalla politica, dalle istituzioni. Si parla quindi di tutto quello che può
incidere sul coinvolgimento della persona, rendendola più o meno motivata. La tempesta in cui si
sono imbattuti i piloti, la scelta del Comandante sull’imbarco del carburante è un chiaro esempio di
come il clima incida sui singoli. Allo stesso modo però, anche il comportamento diffuso dei singoli
può creare un effetto sul clima organizzativo generale. Il fatto che quello non fosse stato il primo
volo a riscontrare problemi con il congelamento dei tubi di pivot nella traiettoria seguita avrebbe
dovuto allertare i piloti, i quali, al contrario, di fronte all’elevato rischio, hanno dimostrato un
consistente abbassamento di sensibilità. Questo ha influito notevolmente nel condurre tutta
l’organizzazione alla deriva.
c) L’uomo ed il lavoro di gruppo
All’interno di questo ambito vanno ricollegate sia le problematiche inerenti la consapevolezza delle
dinamiche ambientali che interpersonali. In primo luogo infatti è evidente quanto poco i due piloti
alla guida avessero condiviso della situazione in corso. Al momento dell’avaria si era generata una
confusione tale da far presumere ragionevolmente che i due non avessero una shared situation
awareness. In secondo luogo, non va dimenticato che nel lavoro di gruppo rientrano anche le
dinamiche interpersonali. Quando si lavora in team infatti è importante capire gli stati d’animo di chi
lavora con noi poiché potrebbero interferire con l’obiettivo finale. Nel caso di specie è possibile che
non tutti gli stati d’animo dei piloti siano stati compresi fino in fondo, come ad esempio quello del
pilota più giovane che più volte fece domande sulla turbolenza in corso, chiedendo di poterla
evitare.
d) L’uomo e la macchina
Da ultimo, ma non meno importante, va esaminato il rapporto uomo-macchina. Il fatto di non aver
compreso quello che stava succedendo in gran parte è dipeso in questo caso da fattori
ergonomici. Il problema che si è presentato con il congelamento dei tubi di Pivot è rappresentato
dal fatto che questi ultimi hanno iniziato a inviare segnali non corretti e l’aereo non era predisposto
a riconoscerli come inattendibili. I piloti quindi si sono trovati di fronte alla situazione di dover capire
da soli, senza l’aiuto della tecnologia, se i dati fossero corretti, se lo fossero solo in parte o se non
lo fossero affatto.
L’incidente ha aperto un vero e proprio dibattito sull’automazione e sul rapporto tra l’uomo e la
macchina. Se per gli altri ambiti dello Human Factor infatti è stato pensato nel tempo uno specifico
intervento della norma o della psicologia, in questo caso le domande sono ancora in attesa di una
risposta. Il progresso tecnologico ha condotto infatti a progettare e costruire macchine sempre più
all’avanguardia, in grado di spostare l’intervento umano da un diretto impegno manuale al
semplice controllo dei propri processi automatici. É possibile che tali macchine siano realmente in
grado di soddisfare i requisiti di sicurezza e prevenzione richiesti dal proprio utilizzatore se non
sono in grado di leggerne i bisogni? E’ l’uomo che deve adeguarsi alla macchina oppure è la
macchina che deve adeguarsi all’uomo?
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CONCLUSIONI
Dall’ analisi delle modalità di accadimento di incidenti del lavoro, si evince che il rischio maggiore è
connesso non all’utilizzo di macchine e procedure, ma al fattore umano. Ad ogni livello di
responsabilità e potere, infatti, l’uomo riflette i limiti connaturati alla sua condizione sui rapporti
interpersonali nel contesto lavorativo e di conseguenza sull’uomo stesso. Risulta quindi
fondamentale agire direttamente sull’ambiente di lavoro intervenendo per diminuire il verificarsi di
comportamenti errati e allo stesso tempo favorendo giuste pratiche. In caso di errore, infatti, risulta
essere di maggior aiuto individuare il come piuttosto che il chi, e fare in modo così che
un’organizzazione sia orientata al fattore umano per innalzare il livello della sicurezza. (Human
factor oriented). Tutti i contesti lavorativi dovrebbero porre attenzione ai principi etici e alla
valorizzazione del fattore umano, l’azienda deve dunque dare importanza al lavoratore come
uomo. Porre nuovamente l’uomo al centro del mondo lavorativo inteso come ciclo produttivo
significa considerare le criticità date dall’interazione con la macchina, la quale è da considerare
come strumento a servizio dell’uomo e non come sostituto. In virtù di questa consapevolezza si
avverte la necessità di un utilizzo strategico e funzionale delle macchine, in cui la capacità
decisionale dell’uomo non venga mai messa da parte e il livello di attenzione e formazione dei
lavoratori mantenga un livello costantemente aggiornato. Affinchè si possa realizzare un sistema
produttivo, efficiente ed efficace, nei vari luoghi di lavoro, la disciplina dello Human Factor deve
essere affidata ad una gestione capillare delle risorse umane in concomitanza con una
semplificazione delle procedure e con un aumento dei controlli del rispetto delle normative vigenti.
Un ambiente lavorativo ergonomico a 360° modellato a seconda delle diverse necessità del
lavoratore favorisce lo sviluppo delle capacità del singolo in termini di pensiero critico e di
motivazione, ma anche quelle del gruppo per team working e per l’integrazione. Sulla base di
questa convinzione è possibile lavorare in maniera più consapevole su errori e pratiche scorrette,
in modo da ridurre l’impatto negativo del fattore umano sulla sicurezza. Quest’ultima non và
identificata con il mezzo bensì con il fine, la sicurezza non è la procedura ma la salvezza
dell’uomo.
Non si può applicare solo il modello dei costi e dei ricavi al tema della sicurezza in quanto non è
possibile quantificare le conseguenze dell’assenza di sicurezza. L’investimento in sicurezza,
quindi, non può essere visto come perdita bensì come un valore aggiunto, perchè non è
quantificabile il danno che si verrebbe a creare nel caso in cui si verifichi una falla nel sistema di
sicurezza.
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INTERVISTA AD ANTONIO CHIALASTRI, Comandante di Alitalia-Società Aerea
Italiana S.p.A.
La prima causa di incidenti nei settori ad alto rischio è da addebitare all’errore umano. È stato
stimato che la percentuale degli incidenti causati dal fattore umano è pari al 73%43
. Ma che cosa si
intende quindi per Human Factor? Come incide sulla sicurezza? Cosa si può fare per migliorare la
situazione? Lo abbiamo chiesto ad Antonio Chialastri, Comandante su Airbus A-320 per Alitalia-
Società Aerea Italiana S.p.A.. Laureato in filosofia, Chialastri ha collaborato in qualità di esperto di
human factor ad alcuni progetti della Comunità Europea come Flysafe, Odicis o Cleansky, per lo
sviluppo di nuove tecnologie ed è stato membro della Resilience Engineering Association.
Attualmente fa parte del comitato scientifico del centro studi S.T.A.S.A e collabora come docente
di human factor nel master in aviazione civile all’Università degli Studi di Roma ‘La Sapienza’.
Professor Chialastri che cosa si intende per Human Factor? Può essere considerata una
disciplina?
Oggi lo Human Factor non è una disciplina accademica, nonostante potrebbe avere tutte le
caratteristiche di una laurea, non esiste un’università in Italia per analizzare lo human factor. In
America questo concetto esiste come sinonimo di ergonomia e si studia sotto il punto di vista del
rapporto uomo-macchina al fine di renderlo più sicuro ed efficiente, senza prendere in
considerazione il lavoro di gruppo per esempio. Nel nostro caso possiamo definire lo human factor
come un approccio interdisciplinare e multidisciplinare allo studio dell’elemento umano.
Multidisciplinare in quanto tocca vari settori, a partire da quello dell’aviazione fino a quello medico
o chimico, interdisciplinare in quanto si alimenta di diverse discipline come la psicologia, la
sociologia, l’ingegneria e ogni altra materia dove c’è l’elemento umano. Perché si è incominciato a
studiare lo human factor? Perché la prima causa degli incidenti in questi settori ad alto rischio è
l’errore umano! Nel corso del tempo questo si è declinato in varie forme, la sua natura è cambiata,
ma alla base c’è sempre l’uomo.
Quando si è iniziato a studiare il fattore umano? E come si è declinato questo studio nel
tempo?
Negli anni ’60 c’è stato il problema delle performance, all’uomo è stato richiesto nel tempo di fare
cose sempre più complesse e veloci per cui l’uomo antropologicamente non è adatto. Quindi c’è
stato bisogno all’inizio di studiare un essere terrestre si comporta in volo. Non è possibile recepire
nello stesso momento troppi input, il nostro apparato cognitivo non ce lo permette, non è
strutturato come una macchina. Dopo il terzo input acustico, gli altri vengono tagliati.
Negli anni ’70 gli incidenti avvenivano per mancanza di un adeguato teamwork. La gerarchia
esasperata era un problema, perché il flusso comunicativo si arrestava per timore dell’autorità, o
perché il suggerimento di un subordinato non veniva adeguatamente considerato.
In alcuni Paesi dell’estremo oriente ancora oggi il comandante è considerato ancora oggi
l’imperatore del volo e non è possibile parlargli o contraddirlo.
Nel primo caso, riguardante le prestazioni umane, abbiamo usato la tecnologia, nel secondo caso,
cioè il teamwork carente, la sociologia.
43 I dati provengono da uno studio fatto nel 2016 presso l’Istituto aeronautico Lindbergh di Firenze dal
professor Carlo Enrico Paciaroni dal titolo “Human factor – il fattore umano”.
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Successivamente, negli anni ’80, l’errore umano è stato indotto principalmente da decisioni
discutibili, causata dalle crescenti pressioni organizzative. Profitto e sicurezza spingono in direzioni
opposte. Quando negli anni ’80 arrivarono i manager alla NASA coniarono lo slogan: Cheaper,
Faster and Better, ovvero le cose le faremo in maniera più economica, più veloce e meglio di
prima, sintesi di una nuova mentalità che nel lungo tempo però presenterà il conto alla NASA
stessa. Infatti dal 1986 al 2002 la NASA ha avuto ben due incidenti gravi su venti lanci. L’errore
umano quindi, in questo caso, è stato indotto dall’organizzazione. Ci sono numerose barriere che
possono intercettare l’errore, da quella politica (che impone per esempio di non volare più di un tot
di ore consecutive) a quella addestrativa, fino a quella tecnologica. Quando tutti i buchi di queste
barriere si allineano, arriva l’incidente. Negli anni ’90 cambia ancora il motivo degli errori, questa
volta la causa degli incidenti non è il fatto che i piloti non sono supportati dalle giuste tecnologie ma
al contrario, ce ne sono troppe! A volte i piloti non conoscono la logica di funzionamento
dell’automazione, il significato di tutte le spie che possono apparire e talvolta non capiscono che
succede. Il caso più eclatante è stato quello del volo dell’Air France 747, caduto nel 2009 in mezzo
all’oceano atlantico, dove si è verificata la cosiddetta fondamental surprise, ovvero una situazione
così sorprendente che è fuori dal normale paradigma di comprensione di una persona.
Infine dal 2012 al 2015 ci sono stati 5 casi di interferenze dovute ad azioni volontarie di piloti
intenzionati a creare un danno. Il caso Germanwings è il più noto ma non è l’unico, poiché ci sono
stati cinque casi in cinque anni. La domanda è: come mai?
Se negli anni ’60 abbiamo risposto agli incidenti con la tecnologia, negli anni ’70 con la psicologia,
negli anni ’80 con la normativa e quindi con norme più severe, negli anni ’90 con l’ergonomia,
come rispondiamo oggi? La mia opinione è ci sia bisogno di coltivare le risorse umane. Ogni
essere umano ha un suo punto di rottura e se consideriamo quanti elementi destabilizzanti ci sono
a livello esistenziale per chi viaggia continuamente, perdendo gli abituali riferimenti familiari,
sociali, culturali, non dovrebbero meravigliare fenomeni di sofferenza anche grave come il burn-
out. Un pilota, che ha una formazione principalmente tecnica, è un decisionista, e potrebbe non
essere in grado di riconoscere il proprio malessere. Se lo riconosce potrebbe avere difficoltà a
parlarne e se ne parla difficilmente lo farà con uno psicologo. La risposta secondo me sta proprio
nello studio dell’human factor a 360 gradi, inteso come studio di tutti gli aspetti della vita e non
soltanto del periodo in cui si trova ai comandi di un jet.
Come si vede, nel tempo cambiano la natura degli incidenti e le cause. Quindi devono cambiare
anche le soluzioni. A volte, le soluzioni diventano un problema, come si è visto a proposito di
automazione, di CRM e di porta blindata (Introdotta nel 2001 a seguito degli eventi dell’11
settembre).
Quindi secondo lei l’uomo è la causa ma anche la soluzione al problema?
Secondo me il problema principale sta nel processo di disumanizzazione del lavoro, quindi la
soluzione sta proprio nel tornare a vedere l’uomo come una risorsa piuttosto che come un
problema. Gli incidenti sono solo la punta di un iceberg, la parte che si manifesta all’esterno di un
fenomeno in realtà molto più ampio.
In volo spesso, anzi praticamente sempre, si fanno errori.
L’addestramento, la disciplina operativa e la cultura aeronautica servono ad evitare di farli,
riconoscerli quando li stai facendo e mitigarli una volta fatti. C’è tutta una serie di procedure e
protocolli per evitare che l’errore arrivi a destinazione. Basti pensare alla check list. Questa è nata
nel 1935 quando la Boeing presenta il modello 299 agli ufficiali americani. Si trattava di un buon
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Human Factor: Istruzioni per l’uso - Project Work Master in Risorse Umane

  • 1. Project work “KiA – Knowledge in Action” Human Factor: Istruzioni per l’uso Master in Risorse Umane e Organizzazione 2017-2018 A cura di: Chiara De Rosa Sara Sorrentino Andrea Turi Michela Verdini
  • 2. Human Factor: Istruzioni per l’uso Master in Risorse Umane e Organizzazione 2017-2018 1 HUMAN FACTOR: ISTRUZIONE PER L’USO Sommario Introduzione.......................................................................................................................................... 2 1. Human Factor..................................................................................................................................... 2 2. Errore Amico Mio ............................................................................................................................... 4 3. Il quadro normativo............................................................................................................................ 5 4. Lo stress e la sicurezza........................................................................................................................ 9 4.1 Il quadro generale.....................................................................................................................................9 4.2 Il mondo aereonautico...........................................................................................................................11 5. L’ergonomia e l’interazione uomo-macchina..................................................................................... 14 6. Appendice: Case Studies................................................................................................................... 16 6.1 Il caso della Costa Concordia........................................................................................................... 17 6.1.1. L’evento ............................................................................................................................................17 6.1.2. L’indagine sulle cause ........................................................................................................................18 6.1.3. L’Analisi Human Factor ......................................................................................................................19 6.2 Il caso del Volo Air France 447......................................................................................................... 20 6.2.1. L’evento ............................................................................................................................................20 6.2.2. L’indagine sulle cause .......................................................................................................................21 6.2.3. L’Analisi Human Factor ......................................................................................................................22 Bibliografia .......................................................................................................................................... 25 Interviste............................................................................................................................................. 26
  • 3. Human Factor: Istruzioni per l’uso Master in Risorse Umane e Organizzazione 2017-2018 2 INTRODUZIONE Questo lavoro non ha la pretesa di essere una trattazione didascalica sul tema dello human factor, ma un progetto di studio applicato ad un concetto in evoluzione. Ad orientare il nostro lavoro è stata la definizione stessa di human factor che oggi resta, ai più, ancora ignota. Nonostante si analizzino i rischi sulla sicurezza del lavoro sin dalla fine dell’800, l’elemento umano non è stato fin’ora considerato come uno dei fattori determinanti. Lo studio si è inoltrato nell’analisi dell’impatto reale dei fattori umani nei vari contesti lavorativi. Nel primo capitolo sono state analizzate le varie declinazioni che possiede lo Human Factor. Tutte le definizioni riscontrate sottolineano l’importanza dello studio delle varie forme di relazione psicologiche, sociali, mediche con le quali l’uomo si rapporta nell’ambiente di lavoro. Il concetto di Human Factor nasce nel mondo dell’aviazione, un contesto ad alto rischio in cui anche un solo errore può divenire fatale. Mentre in passato i problemi relativi alla sicurezza erano causati da problemi di tipo ingegneristico- tecnologico, oggi, con l’avanzare dell’automazione, si è riscontrato che la principale fonte di incidenti è rinvenibile nell’errore umano. Partendo dall’analisi del quadro psicologico dell’uomo, abbiamo preso in considerazione tutti gli elementi del fattore umano, dal clima organizzativo all’errore, dal lavoro di gruppo fino al rapporto uomo-macchina. La normativa internazionale, europea e nazionale riguardante la sicurezza sui luoghi di lavoro è dettagliata e complessa, ma la problematica riguardante lo Human Factor non trova ancora un’ampia trattazione. Attraverso i vari fattori che caratterizzano l’essere umano, è possibile analizzare lo Human Factor dal punto di vista della consapevolezza dei limiti e degli errori che si è portati a commettere, inconsapevolmente, in situazioni di rischio. Inizialmente è stato preso in analisi lo stress e le sue molteplici conseguenze. Tale problematica può ricadere sulla motivazione e sulla prontezza del lavoratore nell’affrontare situazioni, spesso, eccezionali, come possono esserlo situazioni di emergenza. Attraverso l’analisi di questi processi, e tramite esempi realistici, è possibile constatare i limiti della mente umana, e quanto questi influiscono sul nostro processo decisionale. Successivamente viene preso in analisi il concetto di ergonomia, ovvero l’interazione uomo-macchina, come e quanto questa può influire sul processo di gestione della sicurezza. Entrambe “le macchine” sono soggette a fallacie, ma in misura diversa; si cerca dunque di comprendere come effettivamente poter enfatizzare gli aspetti positivi di entrambe e unirle, affinchè si possa ricavare una funzione efficace ed efficiente. In conclusione, sono stati presi in analisi due casi pratici, che hanno permesso di evidenziare come può impattare, in concreto, lo Human Factor nell’ambito della sicurezza sul lavoro: il naufragio della Costa Concordia e il disastro del volo Air France 447. 1. HUMAN FACTOR Parlare di “Fattore Umano” significa parlare di Sicurezza dell’Uomo senza però eliminare completamente la possibilità del verificarsi dell’errore sul luogo di lavoro. Pensare alla sicurezza sul lavoro in maniera deterministica e quindi tendere alla eliminazione totale dell’errore è infatti – oltre che impossibile – anche sconveniente: «considerare la variabile umana alla stregua di quella meccanica elimina ogni possibilità di analizzare in maniera efficace un contesto lavorativo in funzione dei rischi ivi presenti»1 . 1 SPADONI D, 2017. Human Factor and non-technicalskills: come costruire una cultura del comportamento sicuro, Repertorio Salute
  • 4. Human Factor: Istruzioni per l’uso Master in Risorse Umane e Organizzazione 2017-2018 3 Per arrivare a prevenire il più possibile l’errore o l’evento infortunistico bisogna quindi lavorare con un «approcciomultifocale di tipo tecnico-ingegneristico, ergonomico, medico e socio- psicologico»2 allo scopo di rimettere al centro la persona come soggetto della sicurezza sul lavoro. Alcuni altri autori parlano al plurale di Human Factors a causa della sua multidisciplinarietà. Anche l’ICAO (International CivilAviation Organization)3 nella sua circolare 227 propende per l’accezione al plurale: «i fattori umani hanno come oggetto di studio le persone, mentre espletano le loro mansioni, il loro inserimento nell’ambiente di lavoro inteso in senso fisico ed interpersonale, il loro rapportarsi agli strumenti di lavoro ed alle procedure cui attenersi. L’obiettivo di tale ricerca è il perseguire sicurezza ed efficienza»4 . In entrambe le definizioni lo Human Factor ha come fine quello di aumentare la sicurezza sul lavoro e lo fa focalizzando l’attenzione sull’uomo prima che sulle procedure. Non si può parlare di Human Factor senza legarlo al mondo dell’aviazione, e ciò deriva da una semplice constatazione: «nella storia dell’aviazione, gli investigatori hanno individuato nell’elemento umano la principale fonte di errori che ha poi causato la maggior parte degli incidenti»5 . Tuttavia, anche grazie ai risultati ottenuti nel mondo dell’aeronautica, gli studi sul fattore umano hanno trovato posto anche in settori ad alta complessità come «il settore dell’energia, la medicina (ed in particolare la gestione ospedaliera delle procedure in sala operatoria e delle somministrazioni terapeutiche) e da ultimo il mondo della finanza»6 . Gli studi sullo Human Factorhanno la loro genesi nel settore dell’aviazione militare e civile. Nei primi anni del ‘900 Padre Agostino Gemelli è stato fra i primi a studiare «sia gli aspetti fisiologici legati al volo sia quelli psicologici/comportamentali, ponendo le basi della moderna medicina aeronautica e dei fattori umani»7 . Fino agli anni ’40 c’era, anche nel settore del trasporto aereo, la convinzione che per eseguire delle funzioni e svolgere dei compiti fosse necessario solamente un requisito: l’abilità. E’ l’approccio detto “right stuff” , secondo il quale il pilota era il solo responsabile del velivolo e doveva possedere la “giusta stoffa” per solcare i cieli. L’addestramento era basato quasi esclusivamente sulle cosiddette “stick-and-ruddercompetencies”, alla lettera “competenze cloche e pedaliera”, ovvero quelle competenze di base, molto fisiche, che formavano i piloti per saper fare manovre brusche e improvvise; il pane quotidiano in quegli anni, visto che i sistemi automatici erano in fase di sviluppo. Dunque non è difficile pensare come le cause degli incidenti venivano, all’epoca, attribuite quasi esclusivamente a fattori umani legati al volo quali la stanchezza, lo stress e la fatica dei piloti. Si pensò, allora, di affrontare l’aumento del rateo degli incidenti (eventi per milioni di voli), ricorrendo all’ingegneria, ossia con degli investimenti tecnologici: «furono 2 Ibidem 3 L’ICAO è l’organizzazione internazionale dell’aviazione civile. E’ un agenzia autonoma delle Nazioni Uniti che si occupa di dettare principi e linee guida per la navigazione aerea e internazionale. Cfr. https://www.enac.gov.it/L%27Enac/Rapporti_con_Istituzioni_e_Associazioni/Organismi_internazionali/Extra_UE/ICA O/index.html 4 Ibidem 5 Ibidem 6 CLERICI P, 2017. Fattore umano e comportamento, INAIL, pp. 1 7 MAGGIORE P., GAJETTI M., BONIFACINO A, 2017, Dal fattore umano alla safety in aviazione, Società Editrice Esculapio, pp. 64 DEFINIZIONE: lo HUMAN FACTOR «è la disciplina che si occupa del fattore umano con lo scopo di studiare le modalità con le quali l’uomo agisce nel suo ambiente lavorativo, al fine di aumentare i livelli di sicurezza delle operazioni»1 .
  • 5. Human Factor: Istruzioni per l’uso Master in Risorse Umane e Organizzazione 2017-2018 4 introdotti degli ausili alla navigazione che aiutavano il pilota a sopperire le proprie mancanze psico-fisiche quando il compito era troppo arduo»8 . Evidenze scientifiche del dopoguerra dimostrarono però come il 65% degli incidenti aerei non era legato alla mancanza di abilità o di addestramento del pilota, ma a fattori quali «la comunicazione tra membri dell’equipaggio, la ripartizione di ruoli e leadership, il coordinamento, la capacità di prendere decisioni in tempo reale»9 . Si passa dunque da un approccio “right stuff” ad uno “human factor”, che predilige le cosiddette “Non-Technical skills”, che più tardi, nel 1998, Avermaete, definì come quelle «abilità cognitive, comportamentali e interpersonali, complementari alle competenze tecnico- professionali, importanti ai fini della riuscita delle pratiche operative nel massimo della sicurezza»10 . Sempre secondo Avermaete, le NTS o NOTECHS sono 7 e si dividono in due categorie, individuali e di gruppo. Quelle individuali sono la consapevolezza situazionale, il decision-making, la gestione dello stress e la capacità di fronteggiare la fatica. Quelle di gruppo sono la comunicazione, il team work e la leadership. 2. ERRORE AMICO MIO La tematica dell’errore è essenziale quando si parla di Human Factor, tanto che quest’ultimo «può essere definito come la disciplina orientata a capire la causa e la natura degli errori, tentando di mitigare gli effetti»11 . Minimizzare e neutralizzare gli errori è dunque un obiettivo della disciplina dello Human Factor, e ciò al servizio della sicurezza sul lavoro. Che cos’è l’errore? Secondo James Reason, esperto britannico di Human Factor, l’errore è il «fallimento nella pianificazione e/o nell’esecuzione di una sequenza di azioni che determina il mancato raggiungimento, non attribuibile al caso, dell’obiettivo desiderato»12 . L’errore si distingue dalla “violazione” per il fatto che quest’ultima è una deviazione intenzionale, un’azione che deliberatamente provoca un danno. Tracciare una linea di demarcazione tra errore e violazione serve inoltre ad aumentare la possibilità di scambio di informazioni: «questo scambio diventa una fonte importante di conoscenza, ma nelle organizzazioni caratterizzate da una cultura di tipo patologico o burocratico viene regolarmente inibito»13 . Analizzare gli errori e imparare da essi è molto importante. Nel caso specifico dell’aviazione, l’errore, per la sua tragicità, potrebbe comportare una fatalità tale che la sua analisi non sia più utile per coloro ai quali servirebbe, ovvero i piloti. Legato alla questione dell’errore possiamo sottolineare come negli Stati Uniti col termine Human Factor si indica la disciplina che nel resto del mondo è conosciuta come Ergonomia. Secondo la definizione della International ErgonomicsAssociation, «l’ergonomia (o scienza del Fattore Umano) è la disciplina scientifica che studia le interazioni tra l’essere umano e gli altri elementi di un sistema, applicando teorie, principi, dati e metodi per progettare, allo scopo di migliorare il benessere umano e le prestazioni del sistema»14 . 8 CHIALASTRI A, Ivi, pp. 19 9 CLERICI P, 2017. Ivi, pp. 1 10 SPADONI D, Ivi 11 CHIALASTRI A, Ivi, pp. 161 12 DEGANI L., RINALDI O., MONTURANO M., LOPEZ A., UBEZIO M, Principi di riskmanagment nei servizi sanitari e socio- sanitari, Maggioli Editori, pp. 102 13 CHIALASTRI A, Ivi, pp. 162 14 CLERICI P, Ivi, pp. 2
  • 6. Human Factor: Istruzioni per l’uso Master in Risorse Umane e Organizzazione 2017-2018 5 3. IL QUADRO NORMATIVO La tematica del fattore umano nel quadro normativo europeo ed italiano sul Lavoro rappresenta oggi per il legislatore una delle nuove frontiere legate alla prevenzione e sicurezza: il suo approfondimento porterebbe infatti a un beneficio non solo in termini di benessere dei lavoratori (“welfare”) ma anche in chiave di “cost-saving” sistemico. La legislazione italiana riguardante la salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro è il risultato di un percorso intrapreso 50 anni fa, sviluppatosi in sinergia con la normativa comunitaria di riferimento. Le fonti di regolamentazione della salute e della sicurezza sul lavoro sono molteplici ed eterogenee e talune di esse, ancora vigenti, sono particolarmente risalenti nel tempo, a testimonianza del fatto che la necessità – di evidente impatto sociale – di tutelare la salute dei lavoratori e quella di garantire risarcimenti ai familiari o dei lavoratori per infortuni o malattie è sempre stata colta dal nostro Paese.15 Si possono individuare tre momenti storici riguardanti il quadro normativo sulla sicurezza sui luoghi di lavoro: - il Codice Civile del 1865 - le norme emanate dagli anni ‘50 agli ‘80 15 FANTINI L., GIULIANI A., Salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. Le norme interpretazione e prassi, Milano, Giuffrè editore, 2011
  • 7. Human Factor: Istruzioni per l’uso Master in Risorse Umane e Organizzazione 2017-2018 6 - a partire dagli anni ’90, la disciplina di recepimento delle direttive comunitarie a cui si è aggiunta la tematica del coinvolgimento dei lavoratori nella gestione della sicurezza aziendale. La tutela della persona fisica e della personalità morale del lavoratore trova fondamento normativo, innanzitutto, nel dettato costituzionale degli articoli 2, 32, 35, 41 oltre che nella legislazione ordinaria e speciale. In particolare, l' articolo 32 riconosce il diritto alla salute quale interesse fondamentale della collettività, e l' art. 41 prevede che l' iniziativa economica “non può svolgersi in contrasto con l' utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. Da tali principi si desume, pertanto, il diritto del lavoratore a svolgere la propria prestazione di lavoro in condizioni di salubrità ambientale e la sua prevalenza rispetto al diritto dell'imprenditore di organizzare liberamente la propria attività economica.16 Nel codice civile viene invece evidenziato all'articolo 2087 il principio che attribuisce al datore di lavoro un generale obbligo di adozione delle misure che secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e morale dei lavoratori. L' articolo 2087 trova fondamento normativo a partire dall' art 41 della Costituzione, considerando la salute come diritto primario del lavoratore e della collettività in generale. In attuazione del Trattato di Roma del 25 marzo 1957, con la direttiva 89/391/CEE del Consiglio dei Ministri del 12 giugno 1989 fu introdotto poi in Italia ilD.Lgs 626 del 1994: in esso si venne ad instaurare un sistema garantista che poneva per la prima volta l'uomo come fulcro della sicurezza in azienda e non più la macchina, formalizzando da un lato la necessità della formazione e della partecipazione dei lavoratori alla sicurezza sul lavoro e dall'altro codificando i doveri giuridici d'informazione. Anche se con non poche forzature, è possibile vedere un primo accenno del legislatore italiano alla presa di coscienza della rilevanza del fattore umano in termini di miglioramento delle dinamiche riguardanti la sicurezza nei luoghi di lavoro. Inoltre, tramite il D.Lgs 626 del 1994 si adottò una nuova politica per la prevenzione per cui l'imprenditore era tenuto per la prima volta ad inserire delle figure stabili di riferimento per la consulenza, quali il medico competente e il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza per garantire l'osservanza delle norme. Successivamente ad una sentenza della Corte di Giustizia Europea del 15 novembre 2001, con legge del 1 marzo 2002, numero 39, il legislatore italiano intervenne modificando il Dlgs 626/94 introducendo l'obbligo di valutare i rischi per la sicurezza e per la salute dei lavoratori, tra cui i rischi psicosociali quali lo stress, il burn-out e la violenza sul posto di lavoro, tra cui il mobbing. Il Testo Unico del 9 aprile 2008 numero 81 sul miglioramento della tutela della salute dei lavoratori, corretto ed integrato dal D.Lgs. 106 del 2009, emanato dall'Esecutivo su delega del Parlamento, ha abrogato parte della legislazione previgente cioè il Dlgs. 626 del 1994. Formazione ai lavoratori e lotta alle violazioni di legge rappresentano – in sintesi - le prime linee guida su cui si basa il decreto legislativo, che tra l’altro coglie l'occasione - da un lato - per estendere l'ambito di applicazione delle norme sulla sicurezza a tutti i settori di attività ed a tutte le 16 FERRARI G., Il rapporto di lavoro, Torino, Giappichelli editore, 2010.
  • 8. Human Factor: Istruzioni per l’uso Master in Risorse Umane e Organizzazione 2017-2018 7 tipologie di lavoro e - dall'altro - per realizzare una semplificazione e razionalizzazione delle vigenti disposizioni.17 Il D.Lgs 81 del 2008 all'articolo 28 affronta il tema della valutazione del rischi ed una corretta metodologia nel processo di valutazione del rischio tramite tecniche per l’analisi dell’affidabilità umana (HRA). Tecniche, queste ultime, che sono state sviluppate per fornire valori probabilistici agli errori umani connessi ai compiti degli operatori allo scopo di inserirli nel più ampio contesto di valutazione di rischio.18 Molte delle ricerche più avanzate delle scienze del comportamento, in particolare la “behaviourbasedsafety” (BBS), riguardano proprio la possibilità di prevedere le reazioni degli individui sottoposti a determinati stimoli e/o operanti in contesti a rischio. Obiettivo di tale metodologia scientifica è quello di promuovere nell’ambito dell’organizzazione aziendale una cultura della sicurezza che non mira tanto a castigare i comportamenti sbagliati quanto a premiare e dunque nel tempo a rinforzare - talvolta con riconoscimenti verbali, talvolta con gratificazioni tangibili - tutti i comportamenti che concorrono a limitare i rischi.19 L' obbligo di valutazione dei rischi fu introdotto per la prima volta nel panorama europeo nel 1989 con la direttiva quadro sulla SSL20 , 3/931 a cui sono state aggiunte successivamente delle direttive in particolare possiamo ricordarne due, la 90/269/EC e la 90/270/EC, rispettivamente riguardanti l' esposizione da rischio Videoterminali e Movimentazione manuale dei carichi, con attenzione agli aspetti riguardanti l’ergonomia, la distribuzione dei carichi di lavoro e lo Stress da Lavoro Correlato. La valutazione dei rischi sul lavoro trova la sua realizzazione pratica nel cd documento di valutazione dei rischi (DVR) che, da un lato, rappresenta uno scenario completo dei rischi in cui può incorrere sia l' azienda che il lavoratore e che, dall’altro, deve contenere una relazione sulla valutazione dei rischi, l' indicazione delle misure di prevenzione e protezione, il programma delle misure future che si attueranno per risolvere delle criticità e infine l' indicazione delle mansioni che possono porre il lavoratore in uno stato di pericolo. La Normativa Europea in materia di salute e sicurezza sul lavoro riconosce l’importanza dello Human Factor e sottolinea la necessità di creare modelli organizzativi che ne tengano conto, includendo la formazione e l’informazione del lavoratore e la programmazione di attività che coinvolgano tutti i lavoratori (azioni di prevenzione).Tali principi vengono riportati dalla norma BS OHSAS (OccupationalHealth and SafetyAssessment Series)18001 del 2007 e dalle Linee Guida UNI-INAIL21 per i Sistemi di Gestione di Salute e Sicurezza sul Lavoro. Le norme BS OHSAS 17 PELLICCIA L., Prontuario di sicurezza sul lavoro. Violazioni e sanzioni, Rimini, Maggioli Editore, 2008, pp. 9 18 MADONNA M., MARTELLA, G., MONICA L., PICHINI MAINI E., TOMASSINI L., Il fattore umano nella valutazione dei rischi: Confronto metodologico tra le tecniche per l' analisi dell' affidabilità umana, Prevenzione Oggi Vol. 5, n. 1/2, , 2009, pp. 67-83 19 TOSOLIN F, GATTI M, ALGAROTTI E. BehaviorBasedSafety: costruire comportamenti per ottenere risultati, Ambiente e Sicurezza - Il Sole 24 Ore 5 febbraio 2008 20 Sicurezza e Salute sul Lavoro 21 “Le linee guida Uni-Inail sono un documento di indirizzo alla progettazione, implementazione e attuazione di sistemi di gestione della salute e della sicurezza sul lavoro, rivolto soprattutto alle Pmi che caratterizzano il sistema produttivo italiano. Nello spirito della volontarietà della adozione di Sgsl, vogliono essere un valido aiuto nei confronti delle aziende e dei consulenti aziendali. Queste linee guida, pubblicate da Inail in accordo con le Parti sociali e l’Uni, hanno validità generale e la loro applicazione va modulata sulle caratteristiche complessive dell’impresa che intende
  • 9. Human Factor: Istruzioni per l’uso Master in Risorse Umane e Organizzazione 2017-2018 8 18001:2007 esprimono un sistema di gestione della sicurezza sui luoghi di lavoro con il quale si vogliono mettere in luce le caratteristiche di un sistema definito efficiente, che tenga conto costantemente di un monitoraggio da effettuare a scadenze regolari, che non trascuri la situazione interna rispetto ai mutamenti politici di mercato e legislativi. Resta tuttavia il fatto che nella maggior parte dei casi i Sistemi di gestione di salute e sicurezza sul lavoro (SGSL) più diffusi trattano la sicurezza come un problema legato a macchine, ambienti e sostanze, con ciò mettendo in secondo piano il fattore umano. La prevenzione dei rischi nei luoghi di lavoro deve invece considerare il sistema lavorativo nel suo insieme, quindi prendere in considerazione tutte le condizioni che potrebbero portare ad un infortunio.22 Il fattore umano diviene determinante nel momento in cui, in particolare, il lavoratore è sottoposto ad elevati carichi di stress. A partire dal 2011 è divenuto obbligatorio, per le aziende italiane, effettuare la valutazione dello stress da lavoro, mentre già nel 2004 con l'Accordo Europeo sullo stress nei luoghi di lavoro sottoscritto a Bruxelles si era formalizzata tale necessità da parte delle quattro più grandi organizzazioni europee del lavoro (CEEP, UEAPME, UNICE ora BusinessEurope ed ETUC). La tematica del fattore umano, in relazione alla problematica della prevenzione e della sicurezza nei luoghi di lavoro, diversamente che nella legislazione generale, trova un'ampia trattazione nell'ambito della normativa riguardante la sicurezza nel mondo dell'aviazione, da cui si sta prendendo sempre più spesso spunto per affrontare dibattiti in merito e per la stesura di normative riguardanti settori specifici. L'ICAO (International CivilAviation Organization) a partire dal 1989 rese obbligatorio lo studio del Fattore Umano tramite l'emendamento N.159 annesso alla prima Convenzione di Chicago23 . La legislazione in tale settore è proseguita fino ad oggi arricchendosi e divenendo sempre più particolareggiata in virtù dell'avanzamento tecnologico che si è verificato negli anni. In uno scenario normativo che va sempre più spesso in direzione di una stratificazione normativa, la percezione di un irrigidimento per le procedure che conducono ad un ambiente lavorativo sicuro può immediatamente risaltare all'attenzione. Il legislatore italiano è intervenuto, anche se timidamente, in tal senso negli ultimi anni: basti ricordare il “Jobs Act”10, con cui si è cercato d'operare una semplificazione del D.Lgs.81/08. Emergerebbe però la necessità di una riforma che mostri un carattere maggiormente dinamico e che tenga conto delle peculiarità delle organizzazioni di lavoro, mediante il recepimento -da meritevoli esperienze di diversi Stati europei- di un approccio improntato alla praticità invece che al formalismo. adottarle; non sono destinate alla certificazione (né all'uso ai fini della vigilanza da parte degli organi istituzionali) e quindi, qualora un azienda voglia certificare l’adozione del proprio sistema di gestione, il riferimento corretto diventa la norma BsOhsas 18001:07.” https://www.inail.it/cs/internet/attivita/prevenzione-e-sicurezza/promozione- e-cultura-della-prevenzione/sgsl/uniinail.html 22 BILLA C., MAROTTA N., MORI A , ZIRILLI O., Il fattore umano:Analisi, cause e tecniche di valutazione, Roma, 2016, pp. 7 23 La Convenzione di Chicago è un trattato siglato nel 1944 con cui furono fissati i principi dell'aviazione civile e del trasporto su scala mondiale. http://www.esteri.it/mae/it/politica_estera/economia/cooperaz_econom/icao.html
  • 10. Human Factor: Istruzioni per l’uso Master in Risorse Umane e Organizzazione 2017-2018 9 4. LO STRESS E LA SICUREZZA 4.1. IL QUADRO GENERALE Nella medicina del lavoro lo “stress lavoro correlato” può essere definito come la percezione di squilibrio avvertita dal lavoratore quando le richieste dell'ambiente lavorativo eccedono le capacità individuali per fronteggiare tali richieste, portando inevitabilmente nel medio-lungo termine ad un vasto spettro di sintomi o disturbi che vanno dal mal di testa, ai disturbi gastrointestinali e/o patologie del sistema nervoso come disturbi del sonno, nevrastenia, sindrome da fatica cronica fino a casi di burn-out o collasso nervoso ATTENZIONE: gli elementi che causano stress (cd stressors) non sono solo quelli legati al carico di lavoro, ma anche fattori come problemi personali, la famiglia, amici o problemi finanziari! In ambito lavorativo lo stress viene quindi concepito come una difficoltà di adattamento reciproco tra l’individuo e l’organizzazione quando le richieste poste dal lavoro non sono commisurate alle capacità e/o risorse del lavoratore (Minchie, 2002)24 . In tal caso viene a crearsi uno squilibrio che porta a delle conseguenze, le quali pesano in primo luogo sull’individuo stesso ma poi anche sull’organizzazione lavorativa. Per quanto concerne il livello personale, le conseguenze possono essere di tipo psicosomatico: ad esempio digestione difficile, gastrite, dolori muscolari. Inoltre può emergere una compromissione delle funzioni emotive che comprendono reazioni d’ansia, attacchi di panico, depressione. Alle conseguenze sul funzionamento emotivo, si affiancano anche quelle sul funzionamento cognitivo, ossia la difficoltà di concentrazione, di memoria, le quali tendono a perdurare anche al di fuori dell’ambiente lavorativo, il cosiddetto sovraccarico cognitivo. Queste conseguenze possono, in alcuni casi, portare anche ad un uso/abuso di sostanze stupefacenti, come droghe e/o alcol, e tale utilizzo influenza inevitabilmente la perfetta esecuzione della propria mansione, andando ad inibire il controllo comportamentale (Richardson, Rothstein, 2008)25 . Queste considerazioni introducono il tema del burnout. È questo un termine inglese la cui traduzione letterale è “bruciato” e sta ad evidenziare una “sindrome derivante da un processo 24MINCHIE S. 2002. Causesand management of stress at work. Occupational &Environmenal Medicine, N 59, pp. 67-72. 25Richardson K. M., Rothstein H. R. (2008). Effect of Occupational Stress Managements Intervention Programs: a meta-analysis. Journal of Occupational HealtPsicology, Vol. 13, N. 1, pp 69 – 93. DEFINIZIONE: dal lato psicologico lo Stress sul lavoro può essere definito “come una reazione interna a stimoli interni ed esterni che producono un’attivazione fisiologica e uno sforzo emotivo che, a loro volta, mettono in moto risposte cognitive o comportamentali”(Westen,2002).1
  • 11. Human Factor: Istruzioni per l’uso Master in Risorse Umane e Organizzazione 2017-2018 10 stressogeno che colpisce le persone in ambito lavorativo e porta con sé una perdita della motivazione, ossia un disamoramento verso il proprio lavoro, con conseguente impedimento di vedere il reale obiettivo delle proprie mansioni” (Lloyd e all, 2002)26 . Una definizione condivisa di “burnout” è la seguente: “Sindrome complessa, a componente prevalentemente psichica, che si instaura come risposta a una condizione di stress lavorativo prolungato” (Tomei, Tomao, Sancini, 2003)27 Edelwich e Brodsky (cit. in Anchisi, Gambotto, 2009) hanno messo a punto quattro stati progressivi che caratterizzano l’evolversi della sindrome del burnout: 1. Stadio dell’entusiasmo: gli operatori sono motivati dal proprio lavoro e ne percepiscono di esso soprattutto i lati positivi. 2. Stadio della stagnazione: inizia a sentirsi il peso dell’impegno lavorativo, vi è un calo dell’entusiasmo con conseguenti sentimenti di noia e preoccupazione. Il proprio lavoro viene percepito come banale, non più entusiasmante. 3. Stadio della frustrazione: quando vi è eccessiva discrepanza tra le aspettative del lavoratore e la realtà. Vi è una percezione di inutilità e di impotenza. 4. Stadio dell’apatia: disimpegno affettivo verso la propria situazione lavorativa. Il desiderio di aiutare l’altro scompare. Si diventa apatici. Tutto ciò porterebbe il lavoratore a comportarsi in maniera meccanica, senza il giusto entusiasmo. I compiti vengono visti come un obbligo e portati avanti per necessità. Le varie ricerche che hanno investigato le cause che conducono un soggetto verso la sindrome del “burnout” hanno messo in luce numerose variabili (Maslach, Schaufeli, Leiter, 2009)28 raggruppabili nei tre seguenti insiemi: Variabili organizzative: ossia ambienti di lavoro poco confortevoli, orari inadeguati, retribuzione non soddisfacente, prospettive di lavoro limitate, rapporti poco costruttivi con i colleghi, prestazioni lavorative troppo routinarie. Variabili socio – culturali: ossia tutti i fattori relativi all’organizzazione sociale collettiva, alla storia politica e culturale, all’evoluzione dei costumi che risultano essere dannose per i lavoratori. Soprattutto negli ultimi anni si è assistito ad una riduzione delle spese per sanità, assistenza e sicurezza. Senza dimenticare che, conseguentemente a ciò, molti utenti hanno scarsa fiducia in tali servizi, e ciò pesa gravemente sull’autostima dei lavoratori coinvolti. Variabili individuali: anche fattori quali età, sesso, titolo di studio, motivazione lavorativa, soddisfazione extra-lavorativa hanno rilievo sul possibile rischio burnout. Inoltre, problemi emotivi non risolti, seppur non legati all’ ambito lavorativo, possono interagire con esso in modo non costruttivo. 26Lloyd C., King R., Lesley C. (2002), “Social Work, Stress and Burnout: a Review”, Journal of Mental Healt, Vol. 22, N. 3, pp. 255 – 265. 27Tomei C., Tomao G., Sancini A. (2003), “Burn – Out”, Giornate Romane di Medicina del Lavoro “Antonello Spinazzola” Sezione regionale Laziale – Abruzzese della S.I.M.L.I.I. – Scuola di Specializzazione in Medicina del Lavoro – Università degli Studi di Roma “La Sapienza”. 28Maslach C., Schaufeli W. B., Leuter M. P. (2009), “Burnout: 35 years of research and practice”, Career Development International, Vol. 14, No. 3, pp 204 – 220.
  • 12. Human Factor: Istruzioni per l’uso Master in Risorse Umane e Organizzazione 2017-2018 11 A tal proposito è utile prendere in analisi il concetto di decisionmaking: prendere una decisione non è mai semplice, soprattutto in casi di emergenza; se poi ci si trova in una condizione di stress elevato, è alta la probabilità di poter commettere degli errori. A tal proposito Friedman (2017), insieme ad un’equipe di neuro scienziati del MIT, ha dimostrato che quando si è chiamati a prendere decisioni in situazioni in cui è necessario bilanciare e valutare i costi e i benefici, lo stress cronico ha un ruolo cruciale nel determinare le scelte. La capacità di valutare i costi e i benefici di un’opzione è essenziale nel momento in cui gli individui si trovano a prendere una decisione che si riveli poi soddisfacente e “razionale”; tuttavia tale capacità risulta compromessa in alcuni disturbi tra i quali la “depressione”, l’ “ansia persistente e invasiva” (Friedman et al., 2017)29 . I ricercatori hanno messo in atto un esperimento tramite l’esposizione di topi a periodi brevi di stress ma prolungati nel tempo, per circa due settimane. Si è osservato che i topi esposti a episodi di stress cronico si comportavano alla stessa maniera dei topi manipolati tramite tecniche di optogenetica, cioè tendevano a raggiungere sempre la ricompensa più alta muovendosi in un percorso pericoloso all’interno del labirinto, al contrario dei topi non sottoposti a stress che si “accontentavano” dalla ricompensa meno vantaggiosa ma facilmente raggiungibile. In sostanza l’animale sceglieva il cibo preferito senza valutare l’alto costo della decisione, in quanto, per ottenerlo, doveva percorrere un percorso pericoloso. Pertanto i ricercatori hanno concluso che i circuiti presi in esame fossero cruciali per integrare le informazioni circa i costi e i benefici di un’opzione di scelta al fine di implementare i comandi della corteccia prefrontale, responsabile dell’implementazione dell’azione goal-directed tramite l’attivazione di specifici interneuroni e l’inibizione degli striosomi (Friedman et al., 2017). Quando l’animale è sottoposto a stress cronico, i circuiti si attivano in modo anomalo e impediscono alla corteccia prefrontale di inibire gli striosomi che si iperattivano. 4.2. IL MONDO AERONAUTICO Può dunque esservi una difficoltà di decisionmaking in situazioni di elevato stress e pericolo. Questo può accadere in diversi contesti, ad esempio in ambito lavorativo spesso possono esserci delle fallacie di ragionamento in situazioni di emergenza, che vanno ad eludere inconsapevolmente il sistema di sicurezza. Ad esempio, in ambito aeronautico sono diversi i fattori che portano ad una inconsapevolezza della situazione di rischio. A tal proposito è possibile prendere in analisi l’essere umano come sistema multidimensionale, poiché non può essere colto da un singolo approccio. In Italia Antonio Chialastri, pilota comandante in Alitalia, nel suo libro Human Factor prende in analisi quello che definisce il circolo della conoscenza30 : ovvero l’essere umano, come scritto poc’anzi, è strutturato da diverse dimensioni come: percezione, attenzione, emozione, linguaggio, Questi elementi del cerchio camminano sempre insieme e i difetti di ragionamento possono essere dovuti ad alterazioni degli elementi in questione. Ad esempio, le nostre capacità di ragionamento possono alterarsi a causa di una percezione distorta, oppure di fallacie indotte da anomalie presenti negli elementi del cerchio che portano ad un abbassamento della soglia di attenzione. Tutti gli esseri umani sono soggetti a “bias cognitivi” intesi come costrutti fondati al di fuori del giudizio critico, su percezioni errate o deformate, su pregiudizi e ideologie e utilizzati spesso per prendere decisioni in fretta e senza fatica. 29 Friedman, A., Homma, D., Bloem, B., Leif, G., et al. (2017).Chronic stress alters Striosome-circuitdynamics, leading to aberrant decision making.Cell, 171(5), 1191-1205. 30 CHIALASTRI A, 2012. Human Factor, Prestazioni & Limitazioni Umane. IBN. Pp.201
  • 13. Human Factor: Istruzioni per l’uso Master in Risorse Umane e Organizzazione 2017-2018 12 Si tratta, il più delle volte, di errori cognitivi che impattano nella vita di tutti i giorni, non solo su decisioni e comportamenti ma anche sui processi di pensiero. Questi possono essere considerati come delle euristiche, ovvero dei procedimenti mentali intuitivi e sbrigativi: ad esempio i piloti di fronte ad una comunicazione ambigua tendono a colmare la lacuna attribuendo un significato che completi il quadro mentale in base alle proprie aspettative implicite ed inconsapevoli.31 Ma il cervello umano non è idoneo per il multitasking: anche se continuamente tentiamo di sfidare noi stessi mettendoci alla prova, non sempre i risultati sono soddisfacenti ed inoltre determinati task hanno la priorità su altri, come ad esempio quelli il cui buon esito ci garantisce la sopravvivenza e la salute. Naturalmente vi sono determinati contesti in cui è richiesta una maggior capacità di attenzione divisa: ad esempio, i piloti sono soggetti continuamente a diversi stimoli. Nel momento in cui rientrano nella sequenza di routine, tali stimoli non apportano problematiche ma - ove mai ci fosse una rottura della routine come ad esempio in una situazione di emergenza – tenderebbero a far focalizzare inconsapevolmente l’attenzione del pilota sugli stimoli iniziali, trascurando elementi fondamentali per la risoluzione dell’eventuale problematica. In questi casi la mente comincia a bloccare i segnali in entrata, lasciando passare solo quelli che servono a mantenere la motivazione presente nel momento dell’inizio attivo della situazione: cosa che porta a prendere decisioni errate. L’attenzione difatti è monocanale: ovvero il cervello può concentrarsi bene solo su una cosa ma nel momento in cui emerge un imprevisto, e quindi l’attenzione richiesta è superiore a quella che occorre nella routine, avviene un rallentamento delle operazioni. Un’ ulteriore funzione rilevante è quella della memoria: per memorizzare dei dati, tutti utilizziamo delle strategie. Nl caso specifico dei piloti, che come scritto poc’anzi devono necessariamente attivare diverse strutture cognitive contemporaneamente, ci si affida all’ottimizzazione del processo mnemonico per far si che le azioni messe in atto possano, con la continua ripetizione, divenire abitudine. Tutto ciò fa riferimento al concetto di automatismo che, a lungo andare, può portare ad un processo di disumanizzazione e quindi a far mettere in atto all’uomo procedure in maniera sequenziale, come se fosse egli stesso una macchina. Un ulteriore elemento che Chialastri (2012) prende in analisi è quello delle emozioni. Oltre a manifestazioni esteriori, anche queste apportano delle influenze e quindi delle modifiche alle strategie cognitive necessarie per far fronte allo stimolo che ha innescato l’emozione specifica. In una situazione di pericolo, le emozioni possono andare a sopraffare le capacità di ragionamento facendo si che l’istinto di sopravvivenza abbia la meglio, mobilitando alcune aree del cervello, alcune consce e altre automatiche. Questo porta a dire che il processo decisionale non può basarsi solo su fattori cognitivi. Inoltre, Chialastri (2012) prende in analisi le parole di Antonio Damasio per individuare il delicato rapporto tra la gestione corretta delle emozioni e le situazioni che possono capitare in volo: “ il pilota di un aereo di linea che sta per atterrare in un aeroporto in un momento di traffico aereo molto intenso e in cattive condizioni metereologiche, non deve consentire che i sentimenti disturbino la sua attenzione dai particolari dai quali dipende la sua decisione; tuttavia, egli deve connettere i sentimenti con il senso di responsabilità; un eccesso di sentimento o un difetto di sentimento possono avere conseguenze disastrose” (Damasio,1995)32 . 31 CHIALASTRI, 2012. Ivi Human Factor, Prestazioni & Limitazioni Umane. IBN. Pp.203 32 DAMASIO A.R. 1995. DAMASIO A.R. 1995. L’errore di Cartesio. Adelphi, Milano.
  • 14. Human Factor: Istruzioni per l’uso Master in Risorse Umane e Organizzazione 2017-2018 13 È necessario dunque essere consapevoli delle reazioni del proprio organismo: quello che deve essere controllato è il livello di allerta o “arousal” necessario a rispondere alle sfide dell’ambiente poiché una risposta poco efficiente potrebbe non essere efficace nel fronteggiare una situazione critica, mentre una risposta troppo emotiva potrebbe inibire il processo decisionale (Chialastri, 2012). Ciò che può incidere sulle emozioni è, come scritto in precedenza, il livello di stress: ad esempio i piloti sono costantemente soggetti, visto il carico di responsabilità ma anche per lo stile di vita che conducono, a frequenti variazioni di jet lag che portano ad un disturbo del ritmo circadiano e momenti di solitudine lontani dalla famiglia. Un aspetto cruciale per la sicurezza è da ricondurre ai test psicofisici sui piloti e sul personale di bordo: difatti la vita dei piloti può essere molto stressante a causa delle condizioni stesse di lavoro, spiega Riccardo Canestrari, coordinatore nazionale Anpac (Associazione professionale dei piloti e degli assistenti di volo) e comandante di A320. Inoltre vi è il fattore solitudine legato ai turni di lavoro: ad esempio capita ogni giorno di lavorare con persone diverse e quando si affronta un momento di difficoltà, il più delle volte ci si ritrova ad affrontarlo da soli. Questi fattori non sono da sottovalutare poiché possono incidere sui diversi livelli del cerchio di conoscenza (Chialastri, 2012), e ciò può provocare reazioni psicofisiche dannose, come ad esempio uno stato di depressione o la stessa sindrome di burnout. Un esempio eclatante è sicuramente il caso di Lubritz, copilota della compagnia aerea Germanwings che il 24 Marzo 2015, a causa del suo folle gesto suicidario, uccise 150 persone. È emerso dalle indagini che Lubritz soffrisse di depressione, ma questo non era mai emerso prima della tragedia. Qui dunque si evidenzia una pecca nel sistema di sicurezza rispetto all’essere umano e non alla macchina. In ambito lavorativo si parla poco di queste cose: in genere le dinamiche relazionali extraprofessionali sono improntate ad un approccio superficiale e leggero. Uno dei punti fondamentali per quanto concerne il processo della sicurezza, soprattutto nel caso specifico dell’ambito aeronautico, è invece quello di innalzare il livello di consapevolezza rispetto ai limiti umani: se un pilota risulta sotto stress o “non idoneo” nel corso degli accertamenti o dei controlli periodici da parte delle compagnie aeree, rischia di vedersi bloccata la licenza di volo fino ad un successivo controllo. Come accorgersi dunque che un pilota è entrato in fase di rischio? Per facilitare la comunicazione su questioni più intime e personali, da circa 20 anni negli USA e più recentemente in Spagna, Francia ed Olanda, sono stati istituiti dei gruppi di ascolto e supporto (PAG). L’organizzzazione internazionale dei piloti, IFALPA, che raggruppa circa 100mila piloti nel mondo e di cui Anpac fa parte, sta stimolando l’istituzione di gruppi di ascolto in altri Paesi del mondo. Si tratta di strutture, le cui procedure sono coordinate dalle associazioni professionali dei naviganti con il supporto di aziende ed istituzioni, a cui un pilota o un assistente di volo possono liberamente rivolgersi, in ambiente protetto e riservato, per qualsiasi problematica legata al proprio stato psicofisico. Il pilota per anni è stato addestrato ad immaginarsi sempre più vicino ad una macchina, ignaro delle emozioni e sensazioni che ne avrebbero inquinato il processo decisionale. 33 33 SPERANDIO S, 2015. Anpac:”Piloti sotto stress, i controlli non bastano, servono gruppi di ascolto per chi va in crisi”. Sole 24 ore.
  • 15. Human Factor: Istruzioni per l’uso Master in Risorse Umane e Organizzazione 2017-2018 14 5. L’ERGONOMIA E L’ INTERAZIONE UOMO-MACCHINA L’ergonomia è la scienza volta alla comprensione delle interazioni tra i soggetti umani e le altre componenti di un sistema ed è la professione che applica teorie, principi, dati e metodi per progettare con la finalità di accrescere il benessere dei soggetti umani e le prestazioni complessive del sistema. Gli ergonomi contribuiscono alla progettazione e alla valutazione di compiti, funzioni, prodotti, ambienti e sistemi in modo da renderli compatibili alle esigenze, alle capacità e ai limiti delle persone” (International ErgonomicsAssociation). Dal punto di vista dello Human Factor, l’ergonomia è di fondamentale importanza dato che spesso una pecca nell’interazione uomo-macchina può portare a disastri dal punto di vista della sicurezza. L’attenzione alle condizioni di lavoro fa parte delle caratteristiche storiche di diverse aziende, tra cui ad esempio Olivetti, che ha sempre chiesto agli architetti che progettavano i suoi uffici di pensare ad ambienti gradevoli in cui trascorrere le giornate lavorative. Nel corso del tempo l’ergonomia ha subito un’evoluzione: prima i riflettori erano concentrati più su un’ergonomia fisica, ovvero si dava molta più importanza alla macchina, anche perché prima l’attività consisteva nel fare materialmente qualcosa e agli inizi del ‘900 si era più improntati su una visione come “la scienza scopre, la tecnologia applica, l’uomo si adegua”. L’elemento umano era quindi concepito in interazione passiva con la macchina. Solo verso gli anni ’70 si comincia a pensare di poter adeguare la macchina all’uomo: si progettano i sistemi affinchè questi possano essere rispondenti il più possibile alle caratteristiche di chi deve utilizzarlo. A tal proposito iniziarono ad essere presi in analisi i processi mentali implicati come percezione e attenzione. Vi è un’ulteriore fase intorno agli anni ’80, in cui si inizia a parlare di “ergonomia di prevenzione”, che non riguarda più le singole macchine, ma i sistemi. In questa fase si vanno ad analizzare quelli che sono i processi cognitivi, analizzando i modelli mentali degli utilizzatori delle macchine. Normann, psicologo cognitivista, fu uno dei primi che investì parte dei suoi studi sulle modalità di interazione uomo-macchina:“ Le persone propongono cosa, la scienza studia come, la tecnologia si adegua” (Chialastri 2015). In aviazione, l’evoluzione ha compiuto passi da gigante, e sempre più l’evoluzione dell’ergonomia si è fusa con quella dell’automazione, poiché l’utilizzo di tecnologie che supportano o sostituiscono l’uomo è diventato talmente pervasivo che oramai non ci rendiamo nemmeno più conto di utilizzare delle macchine. Le tecnologie “embedded” sono talmente comuni e familiari che ci sembrano naturali: difatti il livello di maturità della tecnologia è al suo massimo livello proprio quando non è concepita più come tale. Eppure, l’aviazione, nonostante sia un settore ad alta tecnologia, non ha ancora raggiunto un livello di maturità tale da rendere istintivo il comprendere i comandi e le procedure di un aereo con il minimo sforzo. Quello che difatti oggi ci si chiede è come, data la complessità dei sistemi, si
  • 16. Human Factor: Istruzioni per l’uso Master in Risorse Umane e Organizzazione 2017-2018 15 possa tenere l’operatore al centro decisionale di comando e controllo e farlo comunicare adeguatamente con la macchina. Prima dell’introduzione degli aerei di nuova generazione, il pilota doveva conoscere bene gli impianti e gli strumenti, poiché in caso di malfunzionamento poteva capire cosa fosse successo ed intervenire per colmare il gap. Con gli aerei di nuova generazione sono state introdotte novità rispetto al modello mentale dell’utilizzatore: ad esempio vi è stata un’integrazione degli strumenti in un’area ridotta come può essere, ad esempio, un singolo display. Questo adattamento da un lato può essere visto come un vantaggio, per quanto concerne l’ottimizzazione degli spazi, ma dall’altro può essere uno svantaggio, difatti se prendiamo in considerazione l’aspetto della gestione del controllo, è possibile notare che il computer riesce a verificare le possibili inesattezze del pilota, ma non è possibile affermare il contrario. Si innesca così il fenomeno della “complacency”, alimentata dalla diminuzione di addestramento alle manovre basiche. Infatti, con le nuove tecnologie, pare che il pilota medio sembra aver perso la capacità di avere un frame cognitivo per poter comprendere, nel migliore dei modi, il senso delle indicazioni ricevute dagli strumenti. Una studiosa come Susanne Bainbridge, aveva, trent’anni fa, evidenziato quelle che vengono definite “le ironie dell’automazione” (Bainbridge, 1983)34 . Man mano che i sistemi diventano sempre più complessi e sempre più i livelli di automazione vengono introdotti con l’intenzione di rimpiazzare il lavoro umano, assistiamo alla trasformazione dell’uomo quale elemento sempre più necessario all’interno di queste “complessità tecnologiche”, al fine di raggiungere l’obiettivo là dove le macchine, per limiti di progettazione, non possono arrivare. All’inizio degli anni ’80, con l’introduzione e l’intensificazione di queste tecnologie, si è assistito ad un aumento delle minacce per la sicurezza, dovute soprattutto all’incomprensione, a livello cognitivo, del funzionamento delle macchine di nuova generazione. Il principio che enfatizza l’uso dell’automazione, parte dalla concezione che l’uomo sia l’anello debole, come essere fallace. In realtà, ciò che è emerso negli ultimi anni, è che la componente umana è sempre necessaria, ma ha cambiato ruolo, da attore a controllore, tanto da dover entrare in scena proprio quando l’automazione fallisce. (Chialastri, 2015). La mentalità di base di questa rivoluzione tecnologica, si può sintetizzare in “Quando le cose vanno bene, il computer si occupa di tutto, quando succede qualcosa di anormale, proprio perché non prevedibile, interviene l’operatore per ristabilire le condizioni di sicurezza” (Chialastri, 2015). Quindi l’essere umano è relegato al compito di supervisore, ma questa visione cozza con il punto di vista del pilota che ragiona in altri termini, ovvero “Quando tutto va bene io sono ai comandi. Quando le cose si mettono male, vorrei che l’automazione mi aiutasse” (Chialastri, 2015). Quello che succede è che quando le cose vanno bene, il carico di lavoro è così basso che il pilota rischia la “complacency”, mentre quando le cose vanno male ha molta difficoltà a prendere il 34 BAINBRIDGE S, (1983). “Ironies of automation” , in Automatica, vol.19, n.6 pp. 775-779, BAKAN J, (2004), The corporation, Fandago, Roma.
  • 17. Human Factor: Istruzioni per l’uso Master in Risorse Umane e Organizzazione 2017-2018 16 controllo per via della perdita di abilità. È necessario chiedersi quale potrebbe essere il livello ottimale di automazione. Innanzitutto sarebbe opportuno decidere cosa affidare all’uomo e quali compiti far svolgere alla macchina. Da un lato sarebbe vantaggioso attribuire all’uomo i compiti che riesce a svolgere meglio e alle macchine quello che possono fare in modo più affidabile. Ma dall’altro lato è improbabile che esistano dei sistemi che definiscano volta per volta quale livello è più giusto per particolari situazioni in volo. Per quanto riguarda invece la funzione dell’uomo, bisognerebbe mantenere l’operatore umano sempre dentro il circuito di decisione e controllo, affinchè possa aumentare la motivazione, la competenza e la consapevolezza. Una delle sensazioni che maggiormente emerge è quella dell’ “Out of the loopsyndrome” ovvero, “Sono io che porto lui o è lui che porta me?” In tal caso la percezione, la comprensione e l’anticipazione degli eventi sono affetti dalla mancanza di motivazione indotta dal carico di lavoro mentale molto basso, dovuta all’eccessiva fiducia sull’affidabilità delle macchine che portano il pilota ad abbandonare il senso critico. E nel momento in cui emerge una fallacia nell’automazione, ha difficoltà a prendere in mano la situazione e/o a mantenere un livello di comprensione tale da affrontare in maniera efficiente l’emergenza35 . (A tal proposito, Billings ritiene che un livello di consapevolezza basso da parte dell’essere umano, in questo caso del pilota, è un fattore fondamentale poiché porta ad un’incapacità di prendere decisioni, soprattutto nell’immediato, come in particolari situazioni di rischio, e questo, a sua volta, porta ad un fallimento del sistema di sicurezza). 6. APPENDICE: CASE STUDIES In questo capitolo verranno presi in esame due casi pratici per poter analizzare in concreto il ruolo dello Human Factor nell’ambito della sicurezza sul lavoro. Il primo caso studiato è rappresentato da uno dei più gravi incidenti marittimi della marineria italiana, ovvero quello avvenuto a gennaio del 2012 alla nave da crociera Costa Concordia. Il secondo invece è quello del volo Air France 447, precipitato a giugno del 2009. Nell’analisi di quanto accaduto partiremo dal rispondere alle seguenti domande: Cosa è successo? Come? Perché? E per fare questo ci serviremo di alcuni dei modelli investigativi aeronautici più utilizzati, riconosciuti dall’ICAO e dalla comunità internazionale, oltre a prendere in considerazione tutti gli elementi studiati sul fattore umano, dal clima organizzativo all’errore, dalle condizioni psico-fisiche al lavoro di gruppo fino al rapporto uomo-macchina. 35 Cfr. CHIALASTRI A, (2015). Human Factor, il rapporto Uomo-Macchina. IBN.
  • 18. Human Factor: Istruzioni per l’uso Master in Risorse Umane e Organizzazione 2017-2018 17 6.1 IL CASO DELLA COSTA CONCORDIA Il primo caso esaminato è quello del naufragio della nave da crociera Costa Concordia, avvenuto il 13 gennaio del 2012 al largo dell’Isola del Giglio. L’incidente, costato la vita a trentadue persone tra equipaggio e passeggeri, è stato uno degli incidenti navali più gravi della storia della marineria italiana ed ha scosso profondamente l’opinione pubblica. Il capitano Francesco Schettino è stato condannato a sedici anni di reclusione per aver ritardato l’evacuazione e abbandonato la nave. 6.1.1. L’EVENTO La nave da crociera Costa Concordia, appartenente all’armatore italiano Costa Crociere S.p.A, mollò gli ormeggi nel porto di Civitavecchia alle ore 18.57 del 13 gennaio 2012 diretta a Savona per l'ultima tappa della crociera «Profumo d'agrumi» nel Mar Mediterraneo36 . Uscita dal porto, la nave assunse la rotta usualmente percorsa dalle navi della compagnia nel tratto tra Civitavecchia e 36 La cronistoria del disastro si basa sulla ricostruzione fatta dalla Rai nel documentario pubblicato sul sito www.rainews.it una volta completati i lavori di smaltimento del relitto a gennaio del 2017. All’interno dello stesso sono presenti foto riginali, video e audio della notte del naufragio. I MODELLI DI INDAGINE 1) Il modello SwissCheese di Reason Il modello di Reason1, chiamato anche SwissCheese, immagina le varie barriere politiche, tecnologiche, legislative ed organizzative all’errore come una serie di pezzi di groviera. Quando i buchi di questi pezzi di formaggio si allineano, si sovrappongono, si crea una falla nel sistema e l’errore, non trovando nessuna barriera ad ostacolarlo, si compie. Questo modello dunque prende in considerazione i fattori latenti e le cause scatenanti di un incidente. É fondamentale per capire come migliorare la struttura delle barriere protettive. 2) Il modello SHELL L'abbreviazione SHELL sta per Software, Hardware, Environment, Liveware, (Central) Liveware1. Questo paradigma è stato definito da Reinhart come "la relazione dei fattori umani con l'ambiente dell'aviazione". Questo tipo di modello quindi affronta l’analisi del sistema come interazione tra norme, macchine, contesto ambientale e persone. Ognuno di questi elementi costituisce un tassello di un puzzle al cui centro vi è l’uomo. Secondo il modello SHELL, queste tessere sono in interazione costante tra di loro ma non si intersecano mai perfettamente, perché vi sono degli attriti ineliminabili che derivano proprio dall’interazione stessa. 3) Il modello S-R-K di JanRasmussen In ultima analisi troviamo il modello di Rasmussen1. Questo studiopermette di distinguere l’errore dalla violazione in base a tre tipologie di comportamento: Skill-basedbehaviour, Rule-basedbehaviour e Knowledge-basedbehaviour.Il primo è ilcomportamento di routine basato su abilità apprese per le quali l’impegno cognitivo è bassissimo ed il ragionamento è inconsapevole, automatico. Il secondo è il comportamento guidato da regole di cui la persona dispone per eseguire compiti noti. Infine, il terzo è il comportamento da attuare quando ci si trova in presenza di situazioni nuove o impreviste; è il ragionamento complesso che cerca la soluzione laddove non è stata data. Sulla base di questa distinzione si individuano tre principali categorie di errore e di violazione: - Skill: L’errore in questo caso è chiamato lapse ed è un errore di esecuzione provocato da una dimenticanza, da un vuoto di memoria. Si può avere violazione nel caso in cui, nel portare a termine dei compiti routinari si cerca di ottimizzarne i movimenti, l’energia impiegata e la velocità di esecuzione attraverso scorciatoie, escamotage o trucchetti del mestiere. - Rule: In questo livello l’errore, anche detto slip, è unerrore di esecuzione che si verifica a livello di abilità. Può essere una dimenticanza o uno sbaglio involontario.Si ha violazione laddove si applica in maniera scorretta una regola valida o laddove quest’ultima non venga applicata intenzionalmente. - Knowedge: In ultima analisi si può avere l’errore definito mistake. Si tratta di un errore di pianificazione commesso involontariamente prima dell’esecuzione pratica del piano d’azione.Quest’ultimo può trasformarsi in violazione laddove si verifichi una mancata osservanza volontaria dei precetti professionali, ovvero dei principi che stanno alla base di tutte le norme professionali. Capire in quale livello si colloca l’errore o la violazione è molto importante in quanto permette di capire le cause della situazione che si è verificata e di prevenirne di simili in futuro, garantendo standard di sicurezza sempre più elevati.
  • 19. Human Factor: Istruzioni per l’uso Master in Risorse Umane e Organizzazione 2017-2018 18 Savona. Alle 21:04 la nave lasciò la rotta usuale per la manovra di passaggio ravvicinato sotto l'isola del Giglio. Secondo quanto riportato successivamente dalle indagini, l’avvicinamento faceva parte di un rito chiamato “inchino”, già praticato in precedenza anche da altre navi e noto alla compagnia di navigazione. Giunta nei pressi dell'isola del Giglio, la nave,infatti non si diresse verso nord per riprendere la normale navigazione parallela alla costa, ma continuò ad avvicinarsi all’isola. Sia il primo ufficiale di coperta Ambrosio che il capitano Schettino ordinarono di proseguire con la manovra. La nave giunse così a quattrocentocinquanta metri dagli scogli delle Scole e poi ancora più vicino, a novantasei metri dalla riva, dove urtò il più piccolo degli scogli. L’impatto aprì una falla di circa settanta metri sul lato sinistro della nave, provocando la brusca interruzione della navigazione, un forte sbandamento e il conseguente incaglio sul basso fondale. L’allagamento coinvolse numerosi compartimenti della nave e portò infine alla sua parziale sommersione. Non fu mai lanciato nessun Mayday. I soccorsi giunsero in ritardo contribuendo a causare la morte di trentadue persone. 6.1.2. L’INDAGINE SULLE CAUSE Secondo il modello di Reason, prima che l’errore si compia esistono varie tipologie di barriere che vengono messe in atto per impedirlo. Nel caso della Costa Concordia, in primo luogo, risulta evidente la falla nel sistema organizzativo, nel management. La manovra che ha causato l’incidente infatti faceva parte di un rito che facevano tutti e che, per questo motivo, si riteneva erroneamente molto meno pericolosa di quanto non fosse realmente. L’organizzazione era a conoscenza di questa violazione rutinaria e non ha mai preso provvedimenti. Accanto a questa lacuna così eclatante, gli atti del processo ne hanno messe in risalto altre chiaramente meno evidenti ma altrettanto importanti. Numerosi passeggeri infatti, in seguito all’incidente hanno lamentato carenze nelle procedure di emergenza e mancato rispetto delle normative di sicurezza, permettendo di aprire un dibattito anche sulla preparazione professionale del personale di bordo. Alla falla all’interno dell’organizzazione si è sovrapposta quella all’interno dell’impianto normativo. La legge del mare infatti non sembra essere riuscita a predisporre una giusta barriera all’evento. Le domande che sorgono spontanee quindi sono molteplici: Il sistema è realmente adatto al livello di sicurezza che richiedono oggi le attuali navi in circolazione? La legislazione marittima si è adeguata alle nuove tecnologie introdotte nella navigazione? Esiste un controllo sulla terraferma per prevenire fenomeni come il rito di far inchinare le navi? Le compagnie monitorano il rispetto delle procedure? Volendo scendere ad un livello di indagine ancora più dettagliata, secondo il modello Shell, che prende in esame le relazioni tra l’uomo e il sistema circostante, i rapporti che vengono in evidenza nel caso di specie sono quello tra l’uomo ed il suo gruppo di lavoro e quello tra l’uomo ed il contesto sociale in cui opera. Per quanto riguarda il primo, si sono verificate due problematiche a bordo della Costa Concordia: l’assenza di comunicazione e quella di pensiero critico. Il capitano infatti, al momento dell’emergenza, non ha saputo effettuare l’assegnazione immediata dei compiti né coordinare le procedure, con il risultato che è mancato completamente il lavoro di gruppo. D’altro canto, però, anche il gruppo non si è reso responsabile, non ha manifestato alcun pensiero critico nei confronti della decisione del capitano di effettuare la manovra pericolosa, ma ha accettato pedissequamente l’idea di avanzare verso la costa. L’inganno del pensiero di gruppo può nascondersi dietro ogni organizzazione umana, poiché ciascuna è costituita da gruppi e sottogruppi. Lo stesso problema si
  • 20. Human Factor: Istruzioni per l’uso Master in Risorse Umane e Organizzazione 2017-2018 19 è presentato, infatti, a livello politico-istituzionale ed ha inciso sul rapporto tra l’uomo ed il contesto sociale in cui vive. A testimoniarlo vi è una lettera dello stesso sindaco dell’Isola del Giglio, Sergio Ortelli, che pochi giorni prima del disastro ringraziò il capitano della Costa Concordia Massimo Garbarino per l’omaggio ricevuto e l’incredibile spettacolo offerto dal passaggio ravvicinato al Giglio, dimenticando completamente di considerarne la pericolosità. In ultima analisi, grazie al modello di Rasmussen, è possibile individuare e classificare gli errori e le violazioni fatte prima dell’impatto e durante la manovra di emergenza. Skill: Non sono stati rilevati errori dovuti a dimenticanze o vuoti di memoria ma solo violazioni dovute all’applicazione di euristiche errate. L’abbandono della nave da parte del capitano rientra tra queste ultime. Il comportamento di Schettino infatti va considerato come una violazione volontaria delle responsabilità del capitano, anche se influenzata dalla paura e dall’incapacità di muoversi verso il pericolo. Rule: Nell’ambito di questo livello si possono inserire sia gli errori che le violazioni riguardanti le procedure. Può essere classificato come errore quello di Jacob Rusli Bin, il timoniere che più volte non capì gli ordini di Schettino manovrando in modo sbagliato e contribuendo allo scontro con le rocce. Va classificata come violazione, invece, la decisione di Schettino di modificare la rotta per effettuare l’”Inchino”. Knowledge: Gli errori di pianificazione sono stati alla base dell’evento incidentale. Né il capitano né alcun ufficiale all’interno della plancia hanno desiderato in alcun momento l’evento tragico del naufragio, ma nessuno di essi si è mai comunque reso conto della pericolosità delle distanze e della velocità dell’avvicinamento. Il fatto che quella fosse un’operazione rutinaria e che non ci fossero mai stati incidenti al riguardo ha probabilmente contribuito ad abbassare il livello di sensibilità nei confronti del rischio e condotto alla deriva. Gli errori in questo livello quindi non sono stati commessi per inesperienza o incapacità ma, al contrario, per un’eccessiva fiducia nelle proprie capacità. 6.1.3. L’ANALISI HUMAN FACTOR Per concludere lo studio del caso del naufragio della Costa Concordia, va esaminato il peso dello Human Factor sull’evento complessivo. L’ICAO ha predisposto una sorta di check list per analizzare quelli che sono gli elementi caratterizzanti lo Human Factor, ovvero gli aspetti organizzativi, le performance umane, il lavoro di gruppo e l’interazione tra l’uomo e la macchina. Vediamo come questi fattori hanno inciso sulla sicurezza e cosa possiamo fare per evitare che si ripresentino casi analoghi in futuro. a) Limiti umani e presupposti organizzativi Come è stato dimostrato, l’uomo possiede una grande varietà di limiti connaturati con la sua natura di essere umano. Eliminarli è impossibile, ma riconoscerli e prevenirli può ridurre l’esposizione all’errore. Nella situazione studiata, la decisione di Schettino di ritardare la chiamata ai soccorsi in violazione delle procedure previste può essere sintomatica in primo luogo di un momento di forte stress psicologico. L’evento di collisione infatti può aver generato un’iniziale situazione di shock, essendo la prima volta che una nave Costa Crociere effettuava quella manovra urtando gli scogli, e ciò potrebbe aver contribuito a rallentare il processo di decision making. In secondo luogo, non è da escludere nemmeno che sulla decisione abbia pesato una certa pressione da parte
  • 21. Human Factor: Istruzioni per l’uso Master in Risorse Umane e Organizzazione 2017-2018 20 dell’organizzazione nel cercare di limitare i danni, vista la lunga chiamata di Schettino al suo armatore. Infine, durante la fase di gestione dell’emergenza, è subentrato anche il limite umano della paura, che ha portato Schettino ad abbandonare la nave. b) L’uomo e il lavoro di gruppo É chiaro che le problematiche intercorse nell’incidente sono state molteplici e varie e le cause non sono solamente da ricercare nel comportamento del capitano ma anche in quello del suo equipaggio, che non è mai intervenuto per cercare di prevenire il disastro pur essendo a conoscenza della pericolosità della manovra. Quello che è mancato è sostanzialmente il gruppo, la comunicazione, il team work ed è evidente come anche questo fatto abbia pesato sul risultato finale. Per evitare che in futuro possano ripresentarsi situazioni analoghe è necessario ripartire proprio da qui, ovvero dall’uomo e dalla sua centralità. Un gruppo coordinato che condivide le proprie esperienze, crea sinergia, costruisce senso critico nei confronti dei comportamenti errati innalza il livello di sicurezza comune! 6.2 IL CASO DEL VOLO AIR FRANCE 447 L’incidente aereo del volo Air France 447 rappresenta un evento paradigmatico in quanto ha concentrato in sé ogni sorta di problematica del fattore umano. Il caso ha evidenziato soprattutto i limiti della concezione dell’uomo come minaccia che può essere neutralizzata con l’intervento della tecnologia, costituendo per l’ergonomia ed il rapporto uomo-macchina ciò che l’attentato dell’11 settembre ha rappresentato per la security. 6.2.1. L’EVENTO Il volo Air France 447 decollò dall’aeroporto “Galeao” di Rio de Janeiro il 31 maggio 2009, diretto all’aeroporto “Charles de Gaulle” di Parigi. A bordo del velivolo, oltre all’equipaggio composto da un comandante, due primi ufficiali e nove persone tra hostess e steward, erano presenti 212 passeggeri. A metà strada tra la costa Nord-orientale brasiliana ed il Senegal, il velivolo entrò nella zona di convergenza intertropicale sotto il controllo dell’autopilota. Alle ore 2.02 il Comandante decise di lasciare il cockpit per andare a riposare avvisando i piloti di non effettuare deviazioni eccessive sulla rotta che avrebbero reso necessario uno scalo tecnico per il carburante. I due piloti rimasti in cabina si trovarono di fronte al problema di dover evitare la vasta area temporalesca presente sulla rotta e decisero di effettuare una piccola deviazione verso nord. Alle 2.10 il pilota automatico si disinserì automaticamente a causa della formazione di ghiaccio sui tubi di Pitot, che misurano la velocità del motore, ed il co-pilota più giovane e con meno esperienza di volo assunse i comandi manuali. Sebbene la situazione non presentasse nulla di eccezionale e la procedura più sicura da seguire prevedesse di non intervenire sull'assetto dell’aereo, il co-pilota ai comandi tirò a sé la cloche, mettendo l'assetto in cabrata. Grazie alle registrazioni della cabina di guida è stato possibile ricostruire questi minuti di grande confusione37 . Il co-pilota più anziano infatti invitò più volte il suo compagno a fornire un input di discesa ma senza mai essere ascoltato. Nel perdere le indicazioni 37 Nel 2016 il canale televisivo National Geographic ha trasmesso un documentario dal titolo “Air France 447 Crash” in cui sono stati ricostruiti gli ultimi minuti di volo prima dell’impatto. Il video è successivo al ritrovamento delle scatole nere e grazie a queste è stato possibile ascoltare anche tutti i dialoghi intercorsi tra i piloti.
  • 22. Human Factor: Istruzioni per l’uso Master in Risorse Umane e Organizzazione 2017-2018 21 di velocità del velivolo, infatti, il primo aveva capito che era necessario scendere in picchiata per recuperare velocità e tenere in volo l’aereo, mentre il secondo, che continuava a mantenere il comando, credeva alla “perdita apparente” di altitudine provocata dal congelamentodei tubi di Pivot e premeva per tenere l’aereo in cabrata per recuperare quota. Il co-pilota più esperto decise allora di prendere i comandi ma senza alcuna chiamata standard per avvisare il collega che, dal canto suo, continuò a pilotare. La conseguenza fu un doppio input per il mezzo che entrò irrimediabilmente in stallo. L’allarme di stallo si inserì e suonò per ben settantaquattro volte prima dello schianto. Quando giunse il Comandante in cabina la situazione era ormai irrimediabilmente compromessa. Nessuno dei due piloti fu in grado di spiegare cosa stesse succedendo al velivolo e il comandante non riuscì a riprendere in mano i comandi dell’aereo che, alle ore 2.14, dopo soli quattro minuti dalla disattivazione del pilota automatico, si schiantò nell’oceano, scomparendo senza lasciare traccia. Non fu mai dato nessun messaggio di allarme, né fu mai lanciato alcun Mayday. 6.2.2. L’INDAGINE SULLE CAUSE La prima falla nel caso del volo Air France 447 è situata all’interno della barriera normativa per cui non tutti i piloti erano a conoscenza della procedura da seguire nel caso di disattivazione del pilota automatico. Gli stessi investigatori della BEA38 hanno evidenziato la presenza di deficienze organizzative ed operative dovute al fatto che le ispezioni erano poche e preannunciate39 . Anche a livello di presupposti organizzativi e professionali, è risultato lacunoso l’addestramento dei piloti in caso di stallo ad alta quota e ciò ha costituito una grave mancanza del sistema di gestione dell'emergenza. Alla falla della barriera normativa ed organizzativa, inoltre, si è sovrapposta anche quella tecnologica. Il problema principale riscontrato in cabina è stato infatti il disorientamento indotto dall’automazione. Gli allarmi ci sono stati ma sono stati travolti da numerosi altri avvisi acustici che hanno confuso i due piloti senza apportare alcun contributo informativo predominante. Grazie al modello LUC40, che costituisce un’estensione del modello di Reason, possiamo vedere come le condizioni nascoste, che si sono palesate poi tutte insieme nel disastro aereo, si annidavano nel management. Come spesso succede infatti in alcuni processi aziendali, è difficile capire dove siano le responsabilità quando viene messo in atto un vero e proprio processo di “normalizzazione della devianza”41 . Come accorgersi che i piloti avevano uno scarso addestramento? Come verificare il rispetto delle procedure di emergenza al di fuori delle visite d’ispezione? Passando dall’analisi del modello di Reason a quella del modello Shell, i rapporti che vengono in evidenza nel disastro aereo del volo Air France 447 sono quello tra l’uomo e la macchina e quello tra piloti. Ad aver inciso in negativo sul primo è stato il guasto dei tubi di pivot, che ha generato 38 BEA letteralmente significa Bureau d'Enquêtes et d'Analyses pour la Sécurité de l'Aviation civile est l'autoritéresponsabledesenquêtes de sécuritédans l'aviation civile. 39 CHIALASTRI A., 2015. Human Factor Volume 4, IBN editore, pp.353 40 Il modello LUC (LatentUnsafeCondition) costituisce una sorta di estensione di quello di Reason e mette in evidenza le condizioni nascoste che si sono palesate tutte insieme nell’incidente. Il modello specifica in quale aree si annidano i fattori latenti. 41 BONAZZI G., 2007. Dire, fare, pensare, Decisioni e creazione di senso nelle organizzazioni, Franco Angeli, pp.218 e ss. Per normalizzazione della devianza si intende quel processo che porta ad avere dimistichezza con qualcosa di imponderabile e la convinzione che il rischio non è eliminabile anzi, va dato per scontato e affrontato con routine non codificate.
  • 23. Human Factor: Istruzioni per l’uso Master in Risorse Umane e Organizzazione 2017-2018 22 disorientamento in cabina e mostrato chiaramente cosa può succedere quando l’uomo si affida ciecamente all’automazione. Per quanto riguarda il secondo rapporto invece, ciò che è mancata sostanzialmente è stata la comunicazione. Il passaggio di consegne da un pilota all’altro non è mai avvenuto secondo lo standard di compagnia e l’assenza di coordinazione dell’equipaggio è stato uno degli elementi determinanti dell’incidente. Infine, in ultima analisi, il modello S-R-K permette di studiare la natura degli errori e delle violazioni e di comprenderne le dinamiche. Nel caso di specie, è possibile affermare che nessuno dell’equipaggio ha commesso delle violazioni intenzionali, ma gli errori sono stati molteplici e provenienti da tutti i livelli studiati da Rasmussen. Skill: Il co-pilota più giovane ed inesperto ha utilizzato l’euristica per rispondere all’avviso dei sistemi tecnologici che comunicavano un irreale abbassamento di altitudine, manovrando il velivolo in modo esattamente opposto a come avrebbe dovuto. In questo errore hanno giocato un ruolo fondamentale sia l’inesperienza che le condizioni ambientali. Rule: In questo livello si inserisce l’errore riguardante la mancata applicazione delle procedure. Non c’è mai stato un passaggio di consegne tra piloti, nessuno ha mai comunicato all’altro ciò che stava facendo per rimediare alla situazione di emergenza e molto probabilmente ciò è stato dovuto allo shock subito. Knowledge: L’errore knowledge è un errore di pianificazione. Nel caso in esame è mancata una definizione della traiettoria da seguire in previsione dell’impatto con la turbolenza. Il ragionamento tipico di questo livello è il ragionamento complesso, e nel volo in questione è possibile affermare che il processo di decision making è stato chiaramente danneggiato dalla saturazione sensoriale cui sono stati sottoposti i piloti. 6.2.3. L’ANALISI HUMAN FACTOR L’episodio occorso al volo Air France 447 costituisce un evento paradigmatico per lo studio dello Human Factor. Nell’incidente si sono verificati simultaneamente, infatti, tutti gli elementi costitutivi di quest’ultimo. a) L’uomo ed i suoi limiti I limiti umani che si sono presentati all’interno della cabina di pilotaggio sono stati determinati da tre fattori: dal sonno, dal jet lag e dalla stanchezza. Un equipaggio che vola tutta la notte, a causa della variazione dei ritmi del suo orologio biologico, può essere soggetto ad una diminuzione della concentrazione, della memoria a breve termine e della capacità di prendere decisioni immediate. Nel volo in questione, come emerge dalle registrazioni, sia il co-pilota più esperto che il comandante hanno manifestato la necessità di riposare. Al momento di gestire l’emergenza quindi, è facile dedurre come siano state rallentate le capacità cognitive di entrambi. Il fattore che ha giocato però il ruolo più rilevante nel decision making è stato lo stress dovuto alla “fundamentalsurprise”42 . A differenza di un normale evento stressante, che genera un’ottimizzazione delle risorse disponibili ed un miglioramento delle performance, la 42 WEARS R. L., KENDALL WEBB L., 2011. Fundamental On Situational Surprise: A Case Study With Implications For Resilience, Presses des Mines, pp270-276
  • 24. Human Factor: Istruzioni per l’uso Master in Risorse Umane e Organizzazione 2017-2018 23 “fundamentalsurprise” è una situazione di sorpresa improvvisa inspiegabile ed ingestibile che crea l’effetto inverso, di incapacità di gestione, di paralisi, di shock. b) L’uomo e le condizioni ambientali e organizzative Quando si parla di presupposti organizzativi, in primo luogo si parla di clima organizzativo, di rapporto tra management e dipendenti, ma anche di influenze esterne provenienti ad esempio dalle condizioni ambientali o dalla politica, dalle istituzioni. Si parla quindi di tutto quello che può incidere sul coinvolgimento della persona, rendendola più o meno motivata. La tempesta in cui si sono imbattuti i piloti, la scelta del Comandante sull’imbarco del carburante è un chiaro esempio di come il clima incida sui singoli. Allo stesso modo però, anche il comportamento diffuso dei singoli può creare un effetto sul clima organizzativo generale. Il fatto che quello non fosse stato il primo volo a riscontrare problemi con il congelamento dei tubi di pivot nella traiettoria seguita avrebbe dovuto allertare i piloti, i quali, al contrario, di fronte all’elevato rischio, hanno dimostrato un consistente abbassamento di sensibilità. Questo ha influito notevolmente nel condurre tutta l’organizzazione alla deriva. c) L’uomo ed il lavoro di gruppo All’interno di questo ambito vanno ricollegate sia le problematiche inerenti la consapevolezza delle dinamiche ambientali che interpersonali. In primo luogo infatti è evidente quanto poco i due piloti alla guida avessero condiviso della situazione in corso. Al momento dell’avaria si era generata una confusione tale da far presumere ragionevolmente che i due non avessero una shared situation awareness. In secondo luogo, non va dimenticato che nel lavoro di gruppo rientrano anche le dinamiche interpersonali. Quando si lavora in team infatti è importante capire gli stati d’animo di chi lavora con noi poiché potrebbero interferire con l’obiettivo finale. Nel caso di specie è possibile che non tutti gli stati d’animo dei piloti siano stati compresi fino in fondo, come ad esempio quello del pilota più giovane che più volte fece domande sulla turbolenza in corso, chiedendo di poterla evitare. d) L’uomo e la macchina Da ultimo, ma non meno importante, va esaminato il rapporto uomo-macchina. Il fatto di non aver compreso quello che stava succedendo in gran parte è dipeso in questo caso da fattori ergonomici. Il problema che si è presentato con il congelamento dei tubi di Pivot è rappresentato dal fatto che questi ultimi hanno iniziato a inviare segnali non corretti e l’aereo non era predisposto a riconoscerli come inattendibili. I piloti quindi si sono trovati di fronte alla situazione di dover capire da soli, senza l’aiuto della tecnologia, se i dati fossero corretti, se lo fossero solo in parte o se non lo fossero affatto. L’incidente ha aperto un vero e proprio dibattito sull’automazione e sul rapporto tra l’uomo e la macchina. Se per gli altri ambiti dello Human Factor infatti è stato pensato nel tempo uno specifico intervento della norma o della psicologia, in questo caso le domande sono ancora in attesa di una risposta. Il progresso tecnologico ha condotto infatti a progettare e costruire macchine sempre più all’avanguardia, in grado di spostare l’intervento umano da un diretto impegno manuale al semplice controllo dei propri processi automatici. É possibile che tali macchine siano realmente in grado di soddisfare i requisiti di sicurezza e prevenzione richiesti dal proprio utilizzatore se non sono in grado di leggerne i bisogni? E’ l’uomo che deve adeguarsi alla macchina oppure è la macchina che deve adeguarsi all’uomo?
  • 25. Human Factor: Istruzioni per l’uso Master in Risorse Umane e Organizzazione 2017-2018 24 CONCLUSIONI Dall’ analisi delle modalità di accadimento di incidenti del lavoro, si evince che il rischio maggiore è connesso non all’utilizzo di macchine e procedure, ma al fattore umano. Ad ogni livello di responsabilità e potere, infatti, l’uomo riflette i limiti connaturati alla sua condizione sui rapporti interpersonali nel contesto lavorativo e di conseguenza sull’uomo stesso. Risulta quindi fondamentale agire direttamente sull’ambiente di lavoro intervenendo per diminuire il verificarsi di comportamenti errati e allo stesso tempo favorendo giuste pratiche. In caso di errore, infatti, risulta essere di maggior aiuto individuare il come piuttosto che il chi, e fare in modo così che un’organizzazione sia orientata al fattore umano per innalzare il livello della sicurezza. (Human factor oriented). Tutti i contesti lavorativi dovrebbero porre attenzione ai principi etici e alla valorizzazione del fattore umano, l’azienda deve dunque dare importanza al lavoratore come uomo. Porre nuovamente l’uomo al centro del mondo lavorativo inteso come ciclo produttivo significa considerare le criticità date dall’interazione con la macchina, la quale è da considerare come strumento a servizio dell’uomo e non come sostituto. In virtù di questa consapevolezza si avverte la necessità di un utilizzo strategico e funzionale delle macchine, in cui la capacità decisionale dell’uomo non venga mai messa da parte e il livello di attenzione e formazione dei lavoratori mantenga un livello costantemente aggiornato. Affinchè si possa realizzare un sistema produttivo, efficiente ed efficace, nei vari luoghi di lavoro, la disciplina dello Human Factor deve essere affidata ad una gestione capillare delle risorse umane in concomitanza con una semplificazione delle procedure e con un aumento dei controlli del rispetto delle normative vigenti. Un ambiente lavorativo ergonomico a 360° modellato a seconda delle diverse necessità del lavoratore favorisce lo sviluppo delle capacità del singolo in termini di pensiero critico e di motivazione, ma anche quelle del gruppo per team working e per l’integrazione. Sulla base di questa convinzione è possibile lavorare in maniera più consapevole su errori e pratiche scorrette, in modo da ridurre l’impatto negativo del fattore umano sulla sicurezza. Quest’ultima non và identificata con il mezzo bensì con il fine, la sicurezza non è la procedura ma la salvezza dell’uomo. Non si può applicare solo il modello dei costi e dei ricavi al tema della sicurezza in quanto non è possibile quantificare le conseguenze dell’assenza di sicurezza. L’investimento in sicurezza, quindi, non può essere visto come perdita bensì come un valore aggiunto, perchè non è quantificabile il danno che si verrebbe a creare nel caso in cui si verifichi una falla nel sistema di sicurezza.
  • 26. Human Factor: Istruzioni per l’uso Master in Risorse Umane e Organizzazione 2017-2018 25 BIBLIOGRAFIA 1. ALLEN JG., BETANCOURT TS., DONNELLY-MCLAY D., MCNEELY E., WEISSKOPF MG., WU AC., 2016. Airplane pilotmentalhealth and suicidalthoughts: a cross- sectionaldescriptivestudy via anonymous web-basedsurvey, EnvironmentalHealth 2. AAVV., 2016. Human factors in the chemical and processindustries, JanetteEdmonds The Keie Centre 3. AAVV., 2001. The effects of commuting on pilotfatigue, National ResearchCouncil- The nationalaccademies 4. BILLA C., MAROTTA N., MORI A , ZIRILLI O., Il fattore umano:Analisi, cause e tecniche di valutazione, Roma, 2016, pp. 7 5. BILLA C., MAROTTA N., MORI A., ZIRILLI O., 2016. Il Fattore Umano: Analisi, Cause e Tecniche di valutazione,UniPi 6. BONAZZI G., 2007. Dire, fare, pensare, Decisioni e creazione di senso nelle organizzazioni, Franco Angeli, pp.218 e ss. 7. CACCIABUE PC., 2010. Sicurezza del trasporto aereo, Springer Science & Business Media 8. CARLUCCI C., 2015. Burnout: stress lavorativo cos’è, da cosa e causato e cosa comporta, State of mind 9. CHIALASTRI A., BARTOCCINI F., SCIALANGA M., 2017. Dopo Germanwings: la vita del pilota di linea, IBN editore 10. CHIALASTRI A., 2011. Human FactorVol 1 Sicurezza & errore umano, IBN Editore 11. CHIALASTRI A.,2012. Human FactorVol 2 Prestazioni & limitazioni umane, IBN Editore 12. CHIALASTRI A., 2015. Human FactorVol 4 Il rapporto uomo-macchina, IBN Editore 13. DEKKER S.W.A., 2005. Tenquestionsabout human error. A new view of human factors and systemsafety, LEA Lawrence ErlbaumAssociates 14. DEL PINTO G., 2017. Il fattore umano nel controllo del traffico aereo, ANACNA 15. GAETANO E., 2017. Troppo stress? rischiamo di prendere decisioni rischiose, State of mind 16. GLENDON I., CLARKE S., 2017. Human Safety and Risk Management: a PsychologicalPerspective, CRC Press 17. FANTINI L., GIULIANI A., Salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. Le norme interpretazione e prassi, Milano, Giuffrè editore, 2011 18. 1 FERRARI G., Il rapporto di lavoro, Torino, Giappichelli editore, 2010. 19. FLIN R., O’CONNOR P., CRICHTON M., 2011. Il Front-line della sicurezza. Guida alle Non-Technical Skill.Hirelia Edizioni 20. LEHTO M.R., BUCK J.R., 2000. Introduction to Human Factors and Ergonomics for engineers, LEA Lawrence ErlbaumAssociates - Taylor & Francis Group 21. MADONNA M., MARTELLA, G., MONICA L., PICHINI MAINI E., TOMASSINI L., Il fattore umano nella valutazione dei rischi: Confronto metodologico tra le tecniche per l' analisi dell' affidabilità umana, Prevenzione Oggi Vol. 5, n. 1/2, , 2009, pp. 67-83 22. MAGGIORE P., GAJETTI M., BONIFACINO A., 2017. Dal fattore umano alla safety in aviazione, Società Editrice Esculapio 23. Normativa OccupationalHealth and SafetyAssestment Series 18001 del 2007, BritishStandardsInstitution
  • 27. Human Factor: Istruzioni per l’uso Master in Risorse Umane e Organizzazione 2017-2018 26 24. PELLICCIA L., Prontuario di sicurezza sul lavoro. Violazioni e sanzioni, Rimini, Maggioli Editore, 2008, pp. 9 25. STRANKS J.W., 2007. Human Factors and BehaviouralSafety, ButterworthHeinemann 26. Testo unico in materia di sicurezza sul lavoro, Decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81 27. TOSOLIN F, GATTI M, ALGAROTTI E. BehaviorBasedSafety: costruire comportamenti per ottenere risultati, Ambiente e Sicurezza - Il Sole 24 Ore 5 febbraio 2008 28. WISE J.A., HOPKINS V.D., GARLAND D.J., 2010. Handbook of aviation human factors, CRC Press - Taylor & Francis Group 29. WEARS R. L., KENDALL WEBB L.,2011,Fundamental On SituationalSurprise: A Case Study With Implications For Resilience, PressesdesMines
  • 28. Human Factor: Istruzioni per l’uso Master in Risorse Umane e Organizzazione 2017-2018 27 INTERVISTA AD ANTONIO CHIALASTRI, Comandante di Alitalia-Società Aerea Italiana S.p.A. La prima causa di incidenti nei settori ad alto rischio è da addebitare all’errore umano. È stato stimato che la percentuale degli incidenti causati dal fattore umano è pari al 73%43 . Ma che cosa si intende quindi per Human Factor? Come incide sulla sicurezza? Cosa si può fare per migliorare la situazione? Lo abbiamo chiesto ad Antonio Chialastri, Comandante su Airbus A-320 per Alitalia- Società Aerea Italiana S.p.A.. Laureato in filosofia, Chialastri ha collaborato in qualità di esperto di human factor ad alcuni progetti della Comunità Europea come Flysafe, Odicis o Cleansky, per lo sviluppo di nuove tecnologie ed è stato membro della Resilience Engineering Association. Attualmente fa parte del comitato scientifico del centro studi S.T.A.S.A e collabora come docente di human factor nel master in aviazione civile all’Università degli Studi di Roma ‘La Sapienza’. Professor Chialastri che cosa si intende per Human Factor? Può essere considerata una disciplina? Oggi lo Human Factor non è una disciplina accademica, nonostante potrebbe avere tutte le caratteristiche di una laurea, non esiste un’università in Italia per analizzare lo human factor. In America questo concetto esiste come sinonimo di ergonomia e si studia sotto il punto di vista del rapporto uomo-macchina al fine di renderlo più sicuro ed efficiente, senza prendere in considerazione il lavoro di gruppo per esempio. Nel nostro caso possiamo definire lo human factor come un approccio interdisciplinare e multidisciplinare allo studio dell’elemento umano. Multidisciplinare in quanto tocca vari settori, a partire da quello dell’aviazione fino a quello medico o chimico, interdisciplinare in quanto si alimenta di diverse discipline come la psicologia, la sociologia, l’ingegneria e ogni altra materia dove c’è l’elemento umano. Perché si è incominciato a studiare lo human factor? Perché la prima causa degli incidenti in questi settori ad alto rischio è l’errore umano! Nel corso del tempo questo si è declinato in varie forme, la sua natura è cambiata, ma alla base c’è sempre l’uomo. Quando si è iniziato a studiare il fattore umano? E come si è declinato questo studio nel tempo? Negli anni ’60 c’è stato il problema delle performance, all’uomo è stato richiesto nel tempo di fare cose sempre più complesse e veloci per cui l’uomo antropologicamente non è adatto. Quindi c’è stato bisogno all’inizio di studiare un essere terrestre si comporta in volo. Non è possibile recepire nello stesso momento troppi input, il nostro apparato cognitivo non ce lo permette, non è strutturato come una macchina. Dopo il terzo input acustico, gli altri vengono tagliati. Negli anni ’70 gli incidenti avvenivano per mancanza di un adeguato teamwork. La gerarchia esasperata era un problema, perché il flusso comunicativo si arrestava per timore dell’autorità, o perché il suggerimento di un subordinato non veniva adeguatamente considerato. In alcuni Paesi dell’estremo oriente ancora oggi il comandante è considerato ancora oggi l’imperatore del volo e non è possibile parlargli o contraddirlo. Nel primo caso, riguardante le prestazioni umane, abbiamo usato la tecnologia, nel secondo caso, cioè il teamwork carente, la sociologia. 43 I dati provengono da uno studio fatto nel 2016 presso l’Istituto aeronautico Lindbergh di Firenze dal professor Carlo Enrico Paciaroni dal titolo “Human factor – il fattore umano”.
  • 29. Human Factor: Istruzioni per l’uso Master in Risorse Umane e Organizzazione 2017-2018 28 Successivamente, negli anni ’80, l’errore umano è stato indotto principalmente da decisioni discutibili, causata dalle crescenti pressioni organizzative. Profitto e sicurezza spingono in direzioni opposte. Quando negli anni ’80 arrivarono i manager alla NASA coniarono lo slogan: Cheaper, Faster and Better, ovvero le cose le faremo in maniera più economica, più veloce e meglio di prima, sintesi di una nuova mentalità che nel lungo tempo però presenterà il conto alla NASA stessa. Infatti dal 1986 al 2002 la NASA ha avuto ben due incidenti gravi su venti lanci. L’errore umano quindi, in questo caso, è stato indotto dall’organizzazione. Ci sono numerose barriere che possono intercettare l’errore, da quella politica (che impone per esempio di non volare più di un tot di ore consecutive) a quella addestrativa, fino a quella tecnologica. Quando tutti i buchi di queste barriere si allineano, arriva l’incidente. Negli anni ’90 cambia ancora il motivo degli errori, questa volta la causa degli incidenti non è il fatto che i piloti non sono supportati dalle giuste tecnologie ma al contrario, ce ne sono troppe! A volte i piloti non conoscono la logica di funzionamento dell’automazione, il significato di tutte le spie che possono apparire e talvolta non capiscono che succede. Il caso più eclatante è stato quello del volo dell’Air France 747, caduto nel 2009 in mezzo all’oceano atlantico, dove si è verificata la cosiddetta fondamental surprise, ovvero una situazione così sorprendente che è fuori dal normale paradigma di comprensione di una persona. Infine dal 2012 al 2015 ci sono stati 5 casi di interferenze dovute ad azioni volontarie di piloti intenzionati a creare un danno. Il caso Germanwings è il più noto ma non è l’unico, poiché ci sono stati cinque casi in cinque anni. La domanda è: come mai? Se negli anni ’60 abbiamo risposto agli incidenti con la tecnologia, negli anni ’70 con la psicologia, negli anni ’80 con la normativa e quindi con norme più severe, negli anni ’90 con l’ergonomia, come rispondiamo oggi? La mia opinione è ci sia bisogno di coltivare le risorse umane. Ogni essere umano ha un suo punto di rottura e se consideriamo quanti elementi destabilizzanti ci sono a livello esistenziale per chi viaggia continuamente, perdendo gli abituali riferimenti familiari, sociali, culturali, non dovrebbero meravigliare fenomeni di sofferenza anche grave come il burn- out. Un pilota, che ha una formazione principalmente tecnica, è un decisionista, e potrebbe non essere in grado di riconoscere il proprio malessere. Se lo riconosce potrebbe avere difficoltà a parlarne e se ne parla difficilmente lo farà con uno psicologo. La risposta secondo me sta proprio nello studio dell’human factor a 360 gradi, inteso come studio di tutti gli aspetti della vita e non soltanto del periodo in cui si trova ai comandi di un jet. Come si vede, nel tempo cambiano la natura degli incidenti e le cause. Quindi devono cambiare anche le soluzioni. A volte, le soluzioni diventano un problema, come si è visto a proposito di automazione, di CRM e di porta blindata (Introdotta nel 2001 a seguito degli eventi dell’11 settembre). Quindi secondo lei l’uomo è la causa ma anche la soluzione al problema? Secondo me il problema principale sta nel processo di disumanizzazione del lavoro, quindi la soluzione sta proprio nel tornare a vedere l’uomo come una risorsa piuttosto che come un problema. Gli incidenti sono solo la punta di un iceberg, la parte che si manifesta all’esterno di un fenomeno in realtà molto più ampio. In volo spesso, anzi praticamente sempre, si fanno errori. L’addestramento, la disciplina operativa e la cultura aeronautica servono ad evitare di farli, riconoscerli quando li stai facendo e mitigarli una volta fatti. C’è tutta una serie di procedure e protocolli per evitare che l’errore arrivi a destinazione. Basti pensare alla check list. Questa è nata nel 1935 quando la Boeing presenta il modello 299 agli ufficiali americani. Si trattava di un buon