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L’italiano e l’Unità d’Italia
Scuola, italofonia e dialettofonia
Dopo i Promessi Sposi Manzoni precisa l’indicazione dell’uso
fiorentino con la Lettera a Giacinto Carena del 1847, il
primo dei suoi pochi scritti editi sulla questione linguistica.
Nella lettera-trattato elogia l’opera del lessicografo
piemontese Carena, che aveva pubblicato un Prontuario
metodico (ordinato per concetti) di voci domestiche, d’arti e
mestieri dell’uso fiorentino e toscano.
Lettera a Giacinto Carena
Manzoni però, escludendo le altre parlate toscane, circoscrive la sua proposta
alla diffusione del solo fiorentino colto per ottenere la sospirata unità linguistica,
dato che «la lingua italiana è in Firenze, come la lingua latina era in Roma, come
la francese è in Parigi» e rimprovera all’autore piemontese di non aver dato
indicazioni sulla scelta di sinonimi diffusi in zone diverse del territorio italiano, i
geosinonimi (per es. panna: fior di latte, capo di latte, cavo di latte, crema...)
Incaricato ufficialmente da Emilio Broglio, ministro della Pubblica istruzione del
nuovo Regno d’Italia, Manzoni redige la Relazione sull’unità della lingua e i
mezzi per diffonderla (1868), seguita da un’Appendice (1869).
In questi scritti l’autore riafferma l’adozione del fiorentino vivo come mezzo per
sostituire alla moltitudine dei dialetti una sola lingua comune per gli usi parlati e
scritti della giovane nazione italiana.
Indica inoltre le strategie «per diffondere in tutto il paese la cognizione della
buona lingua»:
• compilare un vocabolario della lingua italiana fondato sull’uso vivo di Firenze
• compilare dei vocabolari dialettali, che “traducessero” in fiorentino i vocaboli
delle varie parlate.
Relazione sull’unità della lingua
La prima [obiezione che mi rivolgono] è che, dovendo un vocabolario essere come
il rappresentante delle cognizioni, delle opinioni, dei concetti d’ogni genere, d’una
intera nazione, deve essere formato sulla lingua della nazione, e non sull’idioma
di una città. A questo rispondiamo che in Firenze si trovano tutte le cognizioni, le
opinioni, i concetti di ogni genere che ci possano essere in Italia; e ciò, non già
per alcuna prerogativa di quella città, ma come ci sono in Napoli, in Torino, in
Venezia, in Genova, in Palermo, in Milano, in Bologna, e anche in tante altre città
meno popolose, essendoci in tutte, a un dipresso, un medesimo grado di coltura,
una conformità de’ bisogni, delle vicende, e delle circostanze principali della vita,
e insomma d’ogni materia di discorso. E si potrebbe scommettere, se ci potesse
anche essere il giudice d’una tale scommessa, che tutto ciò che è stato detto in un
anno di pubblico e di privato, di politico e di domestico, d’erudito e di comune, di
scientifico e di pratico, di grave e di faceto, in una di queste città, è stato detto in
tutte, meno, stiamo per dire, i nomi propri delle persone. Si dice tutti le stesse
cose; solo le diciamo in modi diversi. Il dir tutti le stesse cose attesta la
possibilità di sostituire un idioma a tutti gli altri; il dirle in modi diversi attesta il
bisogno che abbiamo di questo mezzo.
Relazione sull’unità della lingua
Sulle indicazioni manzoniane, nel 1890, fu bandito un concorso per fornire alla
scuola dizionari di voci dialettali con il corrispondente nell’uso vivo fiorentino
per l’insegnamento agli scolari dialettofoni.
Tra il 1870 e il 1897 uscì il Novo vocabolario della lingua italiana secondo l’uso
di Firenze, di Giovan Battista Giorgini (genero di Manzoni) ed Emilio Broglio.
Pur avendo scarsa fortuna editoriale, l’opera, ispirata alla proposta manzoniana,
rappresenta una vera svolta nella lessicografia italiana in direzione di una
visione sincronica della lingua.
Molto più fortunato fu il Nòvo Dizionàrio Universàle della lìngua italiàna del
manzoniano Policarpo Petrocchi (1887), che introduceva la grafia ortoepica e
separava nella pagina due livelli di lingua: d’uso (nella fascia superiore) e fuori
d’uso (arcaismi, voci rare o tecniche).
I vocabolari d’uso
La Relazione di Manzoni suscitò svariati consensi ma provocò
anche molte critiche.
Tra gli oppositori più autorevoli ci fu il linguista italiano,
Graziadio Isaia Ascoli, che nel Proemio alla sua rivista, l’Archivio
glottologico italiano (1873), criticò la pretesa di imporre la
lingua di Firenze come una «manica da infilare» a un paese
come l’Italia, in cui non c’erano le condizioni per realizzare
Le critiche di Ascoli
“dall’alto”, con un nuovo modello normativo, l’unità linguistica, né si potevano
cancellare di colpo le varietà dialettali.
La critica di Ascoli mosse proprio dal titolo del Novo vocabolario di Giorgini e
Broglio: lo stesso termine “Novo” era un esito moderno e parlato del fiorentino e
non la forma usata in tutta Italia “Nuovo” che si basava invece sul fiorentino
letterario trecentesco.
Il Proemio di Ascoli analizzava con chiarezza la situazione italiana e la sua
arretratezza rispetto ad altri paesi europei (la Francia e la Germania, in cui l’unità
linguistica si era già realizzata) e sollecitava condizioni culturali diverse e più
progredite, riducendo l’analfabetismo e facendo circolare più largamente in
tutti gli strati sociali la cultura italiana e la lingua letteraria (la «culta parola»),
che rappresentava già la base linguistica comune a tutta Italia.
Il programma di Manzoni, però, sembrò più operativo e concreto, poiché poneva
la scuola al centro del processo di unificazione e diffusione dell’italiano e
riguardava anche la formazione e la “fiorentinizzazione” degli insegnanti e l’avvio
di un’editoria scolastica specializzata («Abbecedarii, catechismi e primi libri di
lettura») per la «diffusione della lingua viva»
Le critiche di Ascoli
In età post-unitaria, secondo le indicazioni
manzoniane, furono infatti particolarmente
fiorenti la stampa e la diffusione di libri per
l’infanzia scritti in da autori toscani (o non
toscani ma fedeli ai precetti manzoniani), che
ampliarono l’attenzione degli italiani alla lingua
parlata e al fiorentino vivo.
Alcuni casi esemplari sono Ciondolino di Vamba
(1896), o i libri di lettura di Ida Baccini; o anche
di autori “manzoniani” non toscani, primo fra
tutti Cuore del piemontese Edmondo De Amicis
(1886).
Libri di lettura
Il caso più fortunato di romanzo per ragazzi scritto in
fiorentino vivo fu Le avventure di Pinocchio. Storia di un
burattino di Carlo Collodi (il cui vero nome era Carlo Lorenzini)
pubblicato nel 1883.
Pinocchio, le avventure del burattino di legno e la sua meta-
morfosi in ragazzino perbene, sarà per le giovani generazioni
scuola di lingua viva e colloquiale, ricca di fenomeni tipici
Pinocchio
dell’oralità, sia nel narrato sia nei dialoghi («si vede che quella vocina me la
sono figurata io», «a me la scuola mi fa venire i mali di corpo»), di esclamazioni
e di onomatopee («intanto la fame l’ho sempre e i piedi non li ho più! Ih!...
Ih!... Ih!.. Ih!», «sento uno spasimo, che quasi quasi... Etcì, etcì, etcì - e fece altri
tre starnuti»).
Il fiorentino “medio” di Pinocchio non ha tratti vistosamente popolareggianti,
ma piuttosto del parlato familiare (come arrivedella, anderò, anderei, il su’
verso, il tu’ babbo, messe invece di ‘mise’, gli è che; o le formule che introducono
l’interrogativa: «O dunque chi sei?», «che mi fareste il piacere?», «O il pesce-
cane dov’è?»). Sono frequenti anche i procedimenti di intensificazione
espressiva, tipicamente favolistici: gli alterati, le ripetizioni («e cresci, cresci,
cresci»), le consecutive risolte in paragoni iperbolici («faceva degli sbadigli così
lunghi, che qualche volta la bocca gli arrivava fino agli orecchi»).
Pinocchio
La vera novità linguistica è data dalla ricchezza di vive espressioni idiomatiche
toscane, che proprio la fortuna di Pinocchio avrebbe fatto entrare nell’uso,
contribuendo alla formazione di una lingua unitaria (alto come un soldo di cacio,
vedere doppio, leggero come una foglia, dall’oggi al domani, legare come un
salame, chi s’è visto s’è visto, andare su tutte le furie, un bene dell’anima, un
sacco e una sporta ecc.), grazie anche allo strepitoso successo editoriale.
Pinocchio
A meno di trent’anni dalla pubblicazione il
libro raggiunse il traguardo di due milioni di
copie vendute, e furono innumerevoli tra le
due guerre le imitazioni, i rifacimenti in
versi, le riduzioni in filastrocche, gli albi
periodici e i fumetti.
Il nuovo Stato Italiano estese a tutto il
territorio nazionale la legislazione scolastica
del Regno di Sardegna (legge Casati del 1859),
che prevedeva l’obbligo di frequenza per un
biennio. In seguito, tramite la legge Coppino
del 1877, l’istruzione elementare divenne
obbligatoria fino all’età di nove anni.
Grazie allo sforzo per l’allargamento
dell’istruzione elementare l’analfabetismo, che
nel 1861 era del 75%, scende nel 1911 al 40%,
mantenendo le punte più alte nel Nord-Est, al
Sud e nelle Isole.
Scuola e alfabetizzazione
Nelle scuole la produzione che segue il modello manzoniano continuò a
coesistere, per molti decenni, con testi scolastici che proponevano un modello
di lingua tradizionale (come il Giannetto del maestro milanese Luigi A.
Parravicini, diffusissimo in tutt’Italia ancora a fine Ottocento) o addirittura di
impronta puristica (come Le prime Letture de’ fanciulli del piacentino Giuseppe
Taverna).
La persistenza della tradizione si nota anche nel filone delle grammatiche, con le
ristampe di testi come le Regole elementari della Lingua italiana (1a ed. 1833) del
purista napoletano Basilio Puoti. Anche nel campo di queste pubblicazioni, però,
si fa strada nella scuola postunitaria il modello “manzoniano”, per esempio le
grammatiche del Petrocchi, 1887, e di Morandi e Cappuccini, 1897, che apre
cautamente all’uso vivo e al parlato.
Modelli tradizionali e manzoniani
Per questa via si diffondono alcuni tratti del fiorentino ottocentesco
nell’italiano: i più evidenti sono il tipo stradicciola (anziché stradicciuola),
con monottongo dopo palatale; io avevo per io aveva del fiorentino
letterario trecentesco e altri ancora; locuzioni tosco-fiorentine diventate
di uso generale, come metter le mani avanti ‘premunirsi’ o restare senza
fiato ‘stupefatto’.
Complessivamente l’italiano scolastico cercherà un non facile
compromesso fra manzonismo e valori della tradizione.
La frequenza elementare, però, era largamente disattesa e discontinua
specie in certe zone e non poteva garantire da sola il pieno possesso della
lingua (l’italofonia).
Modelli tradizionali e manzoniani
Al momento dell’Unità la percentuale degli italofoni era comunque
molto bassa (tra il 2,5% e il 10% secondo Castellani), mentre la
competenza passiva dell’italiano doveva essere certamente molto più
estesa.
Ai primi del Novecento l’italiano guadagna terreno anche come lingua
d’uso familiare nelle classi borghesi. La sua avanzata a scapito dei dialetti
è registrata dal De Amicis nel suo Idioma gentile (1906), che mette in
ridicolo gli usi regionali dell’italiano in famiglia:
«Ce n’è così anche a Milano di famiglie per bene, nelle quali i ragazzi credon
mica di parlar male dicendo scusar senza per ‘far senza’ e tanto ce n’è per
‘tanto fa’ e far su il letto e aver giù la voce e su e giù a ogni proposito».
Italofonia
L’abbandono del dialetto è incoraggiato dalla scuola attraverso i
programmi ministeriali il cui orientamento antidialettale raggiunge il
culmine nei programmi del 1905, sia attraverso la pratica della
traduzione “dal dialetto alla lingua”, sia attraverso l’eliminazione delle
interferenze dialettali dall’italiano degli allievi.
Dalla fine dell’Ottocento fioriscono anche numerosi manualetti di
correzione dei regionalismi, spesso completati da una rassegna degli
“errori” di pronuncia, morfosintassi e lessico tipici dell’italiano parlato in
quell’area, come gli Abruzzesismi di Fedele Romani (1884), o la Voci e
modi errati. Saggio di correzione d'idiotismi e d'altri errori dell'uso
milanese delle maestre Errera (1898).
Tendenze antidialettali
In Raccolta di errori di lingua delle Errera, per es., compare il seguente dialogo:
- Hai finito il trasloco? - Sì.
- E come ti trovi nella casa nuova?
- Non tanto bene, perché mi piace niente del tutto una delle famiglie che abitano
nella porta.
Che viene così “tradotto” nell’italiano “corretto” :
- Hai finito lo sgombero? - Sì.
- E come ti trovi nella nuova casa?
- Non tanto bene, perché non mi piace punto una delle famiglie del casamento.
Tendenze antidialettali
I programmi elementari del 1923, voluti da Giuseppe Lombardo Radice,
individuano la centralità dell’educazione linguistica, fondando
l’insegnamento dell’italiano sul rispetto della personalità del bambino e
del suo patrimonio dialettale.
I programmi Lombardo Radice
Come Ascoli, il filosofo pedagogista Lombardo
Radice non credeva nell’improvvisa sostituzione
della lingua nazionale ai dialetti, ma vedeva in questi
ultimi i mezzi necessari attraverso i quali arrivare ad
appropriarsi della lingua nazionale.
Metodo “dal dialetto alla lingua”
Metodo “dal dialetto alla lingua”
La tendenza antidialettale si rafforza nel periodo tra le due guerre e soprattutto
nel ventennio fascista (1924-1943).
La politica linguistica del fascismo fu infatti improntata a un programma di
esclusiva italianità che rifiutava nettamente le lingue straniere e i forestierismi,
in nome dell’autarchia linguistica, e dell’ostilità ai dialetti, che erano combattuti
anche come possibile veicolo di rivendicazioni autonomistiche.
Politica linguistica del fascismo
Nel 1934 i programmi di Lombardo Radice
vengono “ritoccati” nei loro contenuti più
innovativi, sopprimendo ogni riferimento
positivo al dialetto.
L’autarchia linguistica si tradusse nel rifiuto totale dei dialetti nella scuola e nella
lotta ai forestierismi (con conseguente italianizzazione perfino dei toponimi e
dei cognomi, come lo slavo Vidossich italianizzato in Vidossi, lo sloveno
Vodopivec in Bevilacqua).
Alcuni termini di lingue straniere furono sostituiti con termini italiani che sono
rimasti fino ad oggi, come tramezzino al posto di sandwich, ma anche con altri
che ebbero vita breve, come bevanda arlecchina al posto di cocktail.
Il rifiuto del dialetto continuerà a lungo anche nel secondo dopoguerra. La
scuola proporrà piuttosto un italiano ancora fondato su una norma linguistica
monolitica che nega la specificità della lingua parlata e allontana dall’orizzonte
scolastico il dialetto.
Politica linguistica del fascismo
Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale e del fascismo il dialetto venne
sentito ancora a lungo, sia a scuola sia in famiglia, come un ostacolo
all’apprendimento dell’italiano.
Nei programmi del 1945 il dialetto non viene quasi nominato: l’unico riferimento
riguarda il maestro, che deve «dare l’esempio della buona lettura, evitando
principalmente le inflessioni dialettali».
Nei programmi del 1955 ritorna qualche riferimento ai dialetti e traspare una
Dopo il fascismo
certa “tolleranza” della loro persistenza,
anche se l’italiano viene ancora indicato
come l’unica lingua che la scuola deve
accettare, valorizzare ed insegnare. I
programmi del ’55 resteranno formalmente in
vigore per i successivi trent’anni.
Un momento di rottura nella didattica dell’italiano (e non solo) è rappresentato
dalla scuola di Barbiana di don Lorenzo Milani.
La Scuola di Barbiana (un paesino in provincia di Firenze) era una scuola di
campagna che prendeva decisamente e criticamente le distanze dalla scuola
tradizionale definita (nella celebre Lettera ad una professoressa del 1967) «un
ospedale che cura i sani e respinge i malati» perché non sembrava impegnarsi a
Don Milani e la scuola di Barbiana
recuperare e aiutare i ragazzi in difficoltà
(anche linguistica), ma solo a valorizzare
quelli che avevano già una preparazione
prescolastica o un retroterra culturale dato
da ambienti sociali più alti e da famiglie più
abbienti.
Il motto in inglese della scuola era «I care» poiché accoglieva
ragazzi che erano inizialmente analfabeti, che parlavano
esclusivamente dialetto e che per questo venivano spesso
allontanati o “bocciati” dalle scuole dei paesi vicini. Le critiche di
don Milani alla scuola tradizionale erano spesso mirate alla
questione linguistica
Don Milani e la scuola di Barbiana
Alla fine degli anni settanta i nuovi programmi impongono l’obbligo
scolastico in Italia fino al conseguimento della licenza di scuola
media inferiore (o, in ogni caso, fino a 14 anni di età).
Con l’allargarsi dell’obbligo scolastico e le provocazioni di
personaggi come don Milani comincia a farsi strada anche nel
mondo della scuola e della ricerca scientifica in campo linguistico
l’attenzione ai dialetti come patrimonio linguistico e culturale
dell’allievo, nell’ambito di una nuova consapevolezza per le varietà
del repertorio italiano.
L’attenzione alla varietà
L’attenzione alla varietà
Le Dieci tesi per un ‘educazione Linguistica
democratica (in Scuola e Linguaggio di De Mauro, 1977,
oggi visionabili anche sul sito www.giscel.it) pongono
l’esigenza di superare l’impostazione unicamente
letteraria, insensibile alla variazione degli usi linguistici,
dell’educazione linguistica tradizionale, e di valorizzare
le capacità espressive degli studenti basate appunto
sui diversi registri e sulla padronanza delle diverse
varietà sociali o settoriali.
Si intensifica così la riflessione sul rapporto tra l’italiano e i dialetti nel
percorso didattico: un problema scolastico e sociale non facile da
risolvere, anche per la rapida trasformazione del quadro sociolinguistico,
delle varietà dialettali e del loro uso in rapporto alle varietà dell’italiano,
sempre meno identificabile nella lingua standard.
Le idee di Ascoli e di Lombardo-Radice vengono riprese e sviluppate
nell’ambito “dell’educazione linguistica democratica”, ispirando in modo
sostanziale i programmi per la scuola media del 1979 e per la scuola
elementare del 1985.
L’attenzione alla varietà
In direzione di una maggiore attenzione alle varietà dell’italiano vanno
anche i libri di grammatica per la scuola.
Si rinnovano, abbandonano il tradizionale impianto normativa per
assumere un taglio descrittivo della situazione linguistica italiana e delle
varietà della lingua: un metodo inaugurato da linguisti come Raffaele
Simone (1976) e Francesco Sabatini (1984) e poi divenuto prassi
consolidata.
L’attenzione alla varietà

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030 Italiano e unità italia

  • 1. L’italiano e l’Unità d’Italia Scuola, italofonia e dialettofonia
  • 2. Dopo i Promessi Sposi Manzoni precisa l’indicazione dell’uso fiorentino con la Lettera a Giacinto Carena del 1847, il primo dei suoi pochi scritti editi sulla questione linguistica. Nella lettera-trattato elogia l’opera del lessicografo piemontese Carena, che aveva pubblicato un Prontuario metodico (ordinato per concetti) di voci domestiche, d’arti e mestieri dell’uso fiorentino e toscano. Lettera a Giacinto Carena Manzoni però, escludendo le altre parlate toscane, circoscrive la sua proposta alla diffusione del solo fiorentino colto per ottenere la sospirata unità linguistica, dato che «la lingua italiana è in Firenze, come la lingua latina era in Roma, come la francese è in Parigi» e rimprovera all’autore piemontese di non aver dato indicazioni sulla scelta di sinonimi diffusi in zone diverse del territorio italiano, i geosinonimi (per es. panna: fior di latte, capo di latte, cavo di latte, crema...)
  • 3. Incaricato ufficialmente da Emilio Broglio, ministro della Pubblica istruzione del nuovo Regno d’Italia, Manzoni redige la Relazione sull’unità della lingua e i mezzi per diffonderla (1868), seguita da un’Appendice (1869). In questi scritti l’autore riafferma l’adozione del fiorentino vivo come mezzo per sostituire alla moltitudine dei dialetti una sola lingua comune per gli usi parlati e scritti della giovane nazione italiana. Indica inoltre le strategie «per diffondere in tutto il paese la cognizione della buona lingua»: • compilare un vocabolario della lingua italiana fondato sull’uso vivo di Firenze • compilare dei vocabolari dialettali, che “traducessero” in fiorentino i vocaboli delle varie parlate. Relazione sull’unità della lingua
  • 4. La prima [obiezione che mi rivolgono] è che, dovendo un vocabolario essere come il rappresentante delle cognizioni, delle opinioni, dei concetti d’ogni genere, d’una intera nazione, deve essere formato sulla lingua della nazione, e non sull’idioma di una città. A questo rispondiamo che in Firenze si trovano tutte le cognizioni, le opinioni, i concetti di ogni genere che ci possano essere in Italia; e ciò, non già per alcuna prerogativa di quella città, ma come ci sono in Napoli, in Torino, in Venezia, in Genova, in Palermo, in Milano, in Bologna, e anche in tante altre città meno popolose, essendoci in tutte, a un dipresso, un medesimo grado di coltura, una conformità de’ bisogni, delle vicende, e delle circostanze principali della vita, e insomma d’ogni materia di discorso. E si potrebbe scommettere, se ci potesse anche essere il giudice d’una tale scommessa, che tutto ciò che è stato detto in un anno di pubblico e di privato, di politico e di domestico, d’erudito e di comune, di scientifico e di pratico, di grave e di faceto, in una di queste città, è stato detto in tutte, meno, stiamo per dire, i nomi propri delle persone. Si dice tutti le stesse cose; solo le diciamo in modi diversi. Il dir tutti le stesse cose attesta la possibilità di sostituire un idioma a tutti gli altri; il dirle in modi diversi attesta il bisogno che abbiamo di questo mezzo. Relazione sull’unità della lingua
  • 5. Sulle indicazioni manzoniane, nel 1890, fu bandito un concorso per fornire alla scuola dizionari di voci dialettali con il corrispondente nell’uso vivo fiorentino per l’insegnamento agli scolari dialettofoni. Tra il 1870 e il 1897 uscì il Novo vocabolario della lingua italiana secondo l’uso di Firenze, di Giovan Battista Giorgini (genero di Manzoni) ed Emilio Broglio. Pur avendo scarsa fortuna editoriale, l’opera, ispirata alla proposta manzoniana, rappresenta una vera svolta nella lessicografia italiana in direzione di una visione sincronica della lingua. Molto più fortunato fu il Nòvo Dizionàrio Universàle della lìngua italiàna del manzoniano Policarpo Petrocchi (1887), che introduceva la grafia ortoepica e separava nella pagina due livelli di lingua: d’uso (nella fascia superiore) e fuori d’uso (arcaismi, voci rare o tecniche). I vocabolari d’uso
  • 6. La Relazione di Manzoni suscitò svariati consensi ma provocò anche molte critiche. Tra gli oppositori più autorevoli ci fu il linguista italiano, Graziadio Isaia Ascoli, che nel Proemio alla sua rivista, l’Archivio glottologico italiano (1873), criticò la pretesa di imporre la lingua di Firenze come una «manica da infilare» a un paese come l’Italia, in cui non c’erano le condizioni per realizzare Le critiche di Ascoli “dall’alto”, con un nuovo modello normativo, l’unità linguistica, né si potevano cancellare di colpo le varietà dialettali. La critica di Ascoli mosse proprio dal titolo del Novo vocabolario di Giorgini e Broglio: lo stesso termine “Novo” era un esito moderno e parlato del fiorentino e non la forma usata in tutta Italia “Nuovo” che si basava invece sul fiorentino letterario trecentesco.
  • 7. Il Proemio di Ascoli analizzava con chiarezza la situazione italiana e la sua arretratezza rispetto ad altri paesi europei (la Francia e la Germania, in cui l’unità linguistica si era già realizzata) e sollecitava condizioni culturali diverse e più progredite, riducendo l’analfabetismo e facendo circolare più largamente in tutti gli strati sociali la cultura italiana e la lingua letteraria (la «culta parola»), che rappresentava già la base linguistica comune a tutta Italia. Il programma di Manzoni, però, sembrò più operativo e concreto, poiché poneva la scuola al centro del processo di unificazione e diffusione dell’italiano e riguardava anche la formazione e la “fiorentinizzazione” degli insegnanti e l’avvio di un’editoria scolastica specializzata («Abbecedarii, catechismi e primi libri di lettura») per la «diffusione della lingua viva» Le critiche di Ascoli
  • 8. In età post-unitaria, secondo le indicazioni manzoniane, furono infatti particolarmente fiorenti la stampa e la diffusione di libri per l’infanzia scritti in da autori toscani (o non toscani ma fedeli ai precetti manzoniani), che ampliarono l’attenzione degli italiani alla lingua parlata e al fiorentino vivo. Alcuni casi esemplari sono Ciondolino di Vamba (1896), o i libri di lettura di Ida Baccini; o anche di autori “manzoniani” non toscani, primo fra tutti Cuore del piemontese Edmondo De Amicis (1886). Libri di lettura
  • 9. Il caso più fortunato di romanzo per ragazzi scritto in fiorentino vivo fu Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino di Carlo Collodi (il cui vero nome era Carlo Lorenzini) pubblicato nel 1883. Pinocchio, le avventure del burattino di legno e la sua meta- morfosi in ragazzino perbene, sarà per le giovani generazioni scuola di lingua viva e colloquiale, ricca di fenomeni tipici Pinocchio dell’oralità, sia nel narrato sia nei dialoghi («si vede che quella vocina me la sono figurata io», «a me la scuola mi fa venire i mali di corpo»), di esclamazioni e di onomatopee («intanto la fame l’ho sempre e i piedi non li ho più! Ih!... Ih!... Ih!.. Ih!», «sento uno spasimo, che quasi quasi... Etcì, etcì, etcì - e fece altri tre starnuti»).
  • 10. Il fiorentino “medio” di Pinocchio non ha tratti vistosamente popolareggianti, ma piuttosto del parlato familiare (come arrivedella, anderò, anderei, il su’ verso, il tu’ babbo, messe invece di ‘mise’, gli è che; o le formule che introducono l’interrogativa: «O dunque chi sei?», «che mi fareste il piacere?», «O il pesce- cane dov’è?»). Sono frequenti anche i procedimenti di intensificazione espressiva, tipicamente favolistici: gli alterati, le ripetizioni («e cresci, cresci, cresci»), le consecutive risolte in paragoni iperbolici («faceva degli sbadigli così lunghi, che qualche volta la bocca gli arrivava fino agli orecchi»). Pinocchio
  • 11. La vera novità linguistica è data dalla ricchezza di vive espressioni idiomatiche toscane, che proprio la fortuna di Pinocchio avrebbe fatto entrare nell’uso, contribuendo alla formazione di una lingua unitaria (alto come un soldo di cacio, vedere doppio, leggero come una foglia, dall’oggi al domani, legare come un salame, chi s’è visto s’è visto, andare su tutte le furie, un bene dell’anima, un sacco e una sporta ecc.), grazie anche allo strepitoso successo editoriale. Pinocchio A meno di trent’anni dalla pubblicazione il libro raggiunse il traguardo di due milioni di copie vendute, e furono innumerevoli tra le due guerre le imitazioni, i rifacimenti in versi, le riduzioni in filastrocche, gli albi periodici e i fumetti.
  • 12. Il nuovo Stato Italiano estese a tutto il territorio nazionale la legislazione scolastica del Regno di Sardegna (legge Casati del 1859), che prevedeva l’obbligo di frequenza per un biennio. In seguito, tramite la legge Coppino del 1877, l’istruzione elementare divenne obbligatoria fino all’età di nove anni. Grazie allo sforzo per l’allargamento dell’istruzione elementare l’analfabetismo, che nel 1861 era del 75%, scende nel 1911 al 40%, mantenendo le punte più alte nel Nord-Est, al Sud e nelle Isole. Scuola e alfabetizzazione
  • 13. Nelle scuole la produzione che segue il modello manzoniano continuò a coesistere, per molti decenni, con testi scolastici che proponevano un modello di lingua tradizionale (come il Giannetto del maestro milanese Luigi A. Parravicini, diffusissimo in tutt’Italia ancora a fine Ottocento) o addirittura di impronta puristica (come Le prime Letture de’ fanciulli del piacentino Giuseppe Taverna). La persistenza della tradizione si nota anche nel filone delle grammatiche, con le ristampe di testi come le Regole elementari della Lingua italiana (1a ed. 1833) del purista napoletano Basilio Puoti. Anche nel campo di queste pubblicazioni, però, si fa strada nella scuola postunitaria il modello “manzoniano”, per esempio le grammatiche del Petrocchi, 1887, e di Morandi e Cappuccini, 1897, che apre cautamente all’uso vivo e al parlato. Modelli tradizionali e manzoniani
  • 14. Per questa via si diffondono alcuni tratti del fiorentino ottocentesco nell’italiano: i più evidenti sono il tipo stradicciola (anziché stradicciuola), con monottongo dopo palatale; io avevo per io aveva del fiorentino letterario trecentesco e altri ancora; locuzioni tosco-fiorentine diventate di uso generale, come metter le mani avanti ‘premunirsi’ o restare senza fiato ‘stupefatto’. Complessivamente l’italiano scolastico cercherà un non facile compromesso fra manzonismo e valori della tradizione. La frequenza elementare, però, era largamente disattesa e discontinua specie in certe zone e non poteva garantire da sola il pieno possesso della lingua (l’italofonia). Modelli tradizionali e manzoniani
  • 15. Al momento dell’Unità la percentuale degli italofoni era comunque molto bassa (tra il 2,5% e il 10% secondo Castellani), mentre la competenza passiva dell’italiano doveva essere certamente molto più estesa. Ai primi del Novecento l’italiano guadagna terreno anche come lingua d’uso familiare nelle classi borghesi. La sua avanzata a scapito dei dialetti è registrata dal De Amicis nel suo Idioma gentile (1906), che mette in ridicolo gli usi regionali dell’italiano in famiglia: «Ce n’è così anche a Milano di famiglie per bene, nelle quali i ragazzi credon mica di parlar male dicendo scusar senza per ‘far senza’ e tanto ce n’è per ‘tanto fa’ e far su il letto e aver giù la voce e su e giù a ogni proposito». Italofonia
  • 16. L’abbandono del dialetto è incoraggiato dalla scuola attraverso i programmi ministeriali il cui orientamento antidialettale raggiunge il culmine nei programmi del 1905, sia attraverso la pratica della traduzione “dal dialetto alla lingua”, sia attraverso l’eliminazione delle interferenze dialettali dall’italiano degli allievi. Dalla fine dell’Ottocento fioriscono anche numerosi manualetti di correzione dei regionalismi, spesso completati da una rassegna degli “errori” di pronuncia, morfosintassi e lessico tipici dell’italiano parlato in quell’area, come gli Abruzzesismi di Fedele Romani (1884), o la Voci e modi errati. Saggio di correzione d'idiotismi e d'altri errori dell'uso milanese delle maestre Errera (1898). Tendenze antidialettali
  • 17. In Raccolta di errori di lingua delle Errera, per es., compare il seguente dialogo: - Hai finito il trasloco? - Sì. - E come ti trovi nella casa nuova? - Non tanto bene, perché mi piace niente del tutto una delle famiglie che abitano nella porta. Che viene così “tradotto” nell’italiano “corretto” : - Hai finito lo sgombero? - Sì. - E come ti trovi nella nuova casa? - Non tanto bene, perché non mi piace punto una delle famiglie del casamento. Tendenze antidialettali
  • 18. I programmi elementari del 1923, voluti da Giuseppe Lombardo Radice, individuano la centralità dell’educazione linguistica, fondando l’insegnamento dell’italiano sul rispetto della personalità del bambino e del suo patrimonio dialettale. I programmi Lombardo Radice Come Ascoli, il filosofo pedagogista Lombardo Radice non credeva nell’improvvisa sostituzione della lingua nazionale ai dialetti, ma vedeva in questi ultimi i mezzi necessari attraverso i quali arrivare ad appropriarsi della lingua nazionale.
  • 19. Metodo “dal dialetto alla lingua”
  • 20. Metodo “dal dialetto alla lingua”
  • 21. La tendenza antidialettale si rafforza nel periodo tra le due guerre e soprattutto nel ventennio fascista (1924-1943). La politica linguistica del fascismo fu infatti improntata a un programma di esclusiva italianità che rifiutava nettamente le lingue straniere e i forestierismi, in nome dell’autarchia linguistica, e dell’ostilità ai dialetti, che erano combattuti anche come possibile veicolo di rivendicazioni autonomistiche. Politica linguistica del fascismo Nel 1934 i programmi di Lombardo Radice vengono “ritoccati” nei loro contenuti più innovativi, sopprimendo ogni riferimento positivo al dialetto.
  • 22. L’autarchia linguistica si tradusse nel rifiuto totale dei dialetti nella scuola e nella lotta ai forestierismi (con conseguente italianizzazione perfino dei toponimi e dei cognomi, come lo slavo Vidossich italianizzato in Vidossi, lo sloveno Vodopivec in Bevilacqua). Alcuni termini di lingue straniere furono sostituiti con termini italiani che sono rimasti fino ad oggi, come tramezzino al posto di sandwich, ma anche con altri che ebbero vita breve, come bevanda arlecchina al posto di cocktail. Il rifiuto del dialetto continuerà a lungo anche nel secondo dopoguerra. La scuola proporrà piuttosto un italiano ancora fondato su una norma linguistica monolitica che nega la specificità della lingua parlata e allontana dall’orizzonte scolastico il dialetto. Politica linguistica del fascismo
  • 23. Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale e del fascismo il dialetto venne sentito ancora a lungo, sia a scuola sia in famiglia, come un ostacolo all’apprendimento dell’italiano. Nei programmi del 1945 il dialetto non viene quasi nominato: l’unico riferimento riguarda il maestro, che deve «dare l’esempio della buona lettura, evitando principalmente le inflessioni dialettali». Nei programmi del 1955 ritorna qualche riferimento ai dialetti e traspare una Dopo il fascismo certa “tolleranza” della loro persistenza, anche se l’italiano viene ancora indicato come l’unica lingua che la scuola deve accettare, valorizzare ed insegnare. I programmi del ’55 resteranno formalmente in vigore per i successivi trent’anni.
  • 24. Un momento di rottura nella didattica dell’italiano (e non solo) è rappresentato dalla scuola di Barbiana di don Lorenzo Milani. La Scuola di Barbiana (un paesino in provincia di Firenze) era una scuola di campagna che prendeva decisamente e criticamente le distanze dalla scuola tradizionale definita (nella celebre Lettera ad una professoressa del 1967) «un ospedale che cura i sani e respinge i malati» perché non sembrava impegnarsi a Don Milani e la scuola di Barbiana recuperare e aiutare i ragazzi in difficoltà (anche linguistica), ma solo a valorizzare quelli che avevano già una preparazione prescolastica o un retroterra culturale dato da ambienti sociali più alti e da famiglie più abbienti.
  • 25. Il motto in inglese della scuola era «I care» poiché accoglieva ragazzi che erano inizialmente analfabeti, che parlavano esclusivamente dialetto e che per questo venivano spesso allontanati o “bocciati” dalle scuole dei paesi vicini. Le critiche di don Milani alla scuola tradizionale erano spesso mirate alla questione linguistica Don Milani e la scuola di Barbiana
  • 26. Alla fine degli anni settanta i nuovi programmi impongono l’obbligo scolastico in Italia fino al conseguimento della licenza di scuola media inferiore (o, in ogni caso, fino a 14 anni di età). Con l’allargarsi dell’obbligo scolastico e le provocazioni di personaggi come don Milani comincia a farsi strada anche nel mondo della scuola e della ricerca scientifica in campo linguistico l’attenzione ai dialetti come patrimonio linguistico e culturale dell’allievo, nell’ambito di una nuova consapevolezza per le varietà del repertorio italiano. L’attenzione alla varietà
  • 27. L’attenzione alla varietà Le Dieci tesi per un ‘educazione Linguistica democratica (in Scuola e Linguaggio di De Mauro, 1977, oggi visionabili anche sul sito www.giscel.it) pongono l’esigenza di superare l’impostazione unicamente letteraria, insensibile alla variazione degli usi linguistici, dell’educazione linguistica tradizionale, e di valorizzare le capacità espressive degli studenti basate appunto sui diversi registri e sulla padronanza delle diverse varietà sociali o settoriali.
  • 28. Si intensifica così la riflessione sul rapporto tra l’italiano e i dialetti nel percorso didattico: un problema scolastico e sociale non facile da risolvere, anche per la rapida trasformazione del quadro sociolinguistico, delle varietà dialettali e del loro uso in rapporto alle varietà dell’italiano, sempre meno identificabile nella lingua standard. Le idee di Ascoli e di Lombardo-Radice vengono riprese e sviluppate nell’ambito “dell’educazione linguistica democratica”, ispirando in modo sostanziale i programmi per la scuola media del 1979 e per la scuola elementare del 1985. L’attenzione alla varietà
  • 29. In direzione di una maggiore attenzione alle varietà dell’italiano vanno anche i libri di grammatica per la scuola. Si rinnovano, abbandonano il tradizionale impianto normativa per assumere un taglio descrittivo della situazione linguistica italiana e delle varietà della lingua: un metodo inaugurato da linguisti come Raffaele Simone (1976) e Francesco Sabatini (1984) e poi divenuto prassi consolidata. L’attenzione alla varietà

Editor's Notes

  1. Il metodo pedagogico “dal dialetto alla lingua” era già stato introdotto in età illuminista, e proprio dal maestro di Manzoni, il padre Francesco Soave, che partecipò attivamente alla riforma scolastica austriaca.
  2. Il metodo pedagogico “dal dialetto alla lingua” era già stato introdotto in età illuminista, e proprio dal maestro di Manzoni, il padre Francesco Soave, che partecipò attivamente alla riforma scolastica austriaca.
  3. La grafia ortoepica (ovvero per la corretta pronuncia) segnala tutti gli accenti tonici, anche all’interno di parola, e le diverse aperture delle e e delle o. Si avvia, insomma, una tradizione di vocabolari dell’uso, destinati a entrare nelle famiglie e nelle scuole italiane.
  4. Di notevole interesse furono anche testi destinati a diffondere tra i non toscani la terminologia viva d’arti e mestieri, come i dialoghi contenuti nella rivista fiorentina L’Unità della Lingua (1869-73).
  5. Nella prima capitale del Regno, Torino, lo stato sabaudo aveva già imposto l’italiano come lingua ufficiale (anche se l’uso spontaneo dei cittadini andava verso il dialetto o verso il francese). Fu particolarmente importante a livello linguistico anche lo spostamento della capitale a Firenze nel 1864 (per sei anni in attesa di prendere Roma al papa nel 1871, Breccia di Porta Pia). Questo favorì il contatto non solo scritto, ma anche ravvicinato, tra parlanti fiorentini nativi e individui giunti a Firenze da altre regioni.
  6. Basilio Puoti sarà poi maestro di De Sanctis
  7. Chiaramente l’italofonia si concentrava soprattutto nella Toscana e a Roma, per la vicinanza del dialetto all’italiano letterario, rispetto alle altre aree.
  8. Gli italofoni al momento dell’Unità furono solo il 2,5% su 25 milioni di abitanti secondo De Mauro; circa il 10% secondo Castellani.
  9. I programmi Orestano (perché le istruzioni dei programmi furono dettate dal filosofo Francesco Orestano) del 1905 rispondono all'esigenza di ripensare l'attività scolastica della scuola elementare a seguito della legge Orlando del 1904, che conseguentemente estende l'obbligo scolastico dai 10 ai 12 anni e istituisce, oltre ai quattro anni di scuola elementare per tutti (due di corso inferiore e due di corso superiore), un corso popolare di due anni " per fornire ai giovanetti del popolo preparazione al lavoro e sottrarli alla strada". Le tre sorelle Errera Rosa, Emilia e Anna hanno compilato diversi lavori sul tema dell’educazione alla lettura in ambito scolastico.
  10. Esempio di testo contrastivo dialetto-italiano
  11. Esempio di glosse a un testo dialettale
  12. Prima GM 1914-18; Seconda GM 1939-45 Il ventennio fascista 1924-1943 (vittoria alle elezioni del Partito Fascista-caduta del regime). Autarchia è sinonimo di autosufficienza.
  13. Il ventennio fascista va dalla vittoria alle elezioni del Partito Fascista del 1924 fino alla caduta del regime nel Luglio del 1943.
  14. L’Italia diventa Repubblica dopo il referendum del 2 giugno del 1946
  15. Barbiana è
  16. Barbiana è un paesino in provincia di Firenze
  17. Barbiana è un paesino in provincia di Firenze
  18. Gruppo di Intervento e Studio nel Campo dell'Educazione Linguistica - si definisce un «intellettuale collettivo»: raccoglie studiosi di linguistica e insegnanti di tutti gli ordini di scuola interessati agli studi di teoria e descrizione dei fenomeni linguistici e alla pratica educativa nel settore dell’educazione linguistica. Costituitosi per iniziativa di Tullio De Mauro sulla base dell’articolo 21 dello Statuto della Società di Linguistica Italiana (SLI), il gruppo inizia ufficialmente la sua vita il primo giugno del 1973.