3. GiveMeAChance
Editoria Online
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GiveMeAChance s.r.l. – Editoria Online
Viale Regina Margherita, 41 – Milano
1° edizione Settembre 2014
www.givemeachance.it
4. A coloro che amo.
A tutti gli uomini
che cercano,
e cercano ancora...
5. Due parole di introduzione...
INGENUITAS:
“Condizione della persona nata libera.
Nobiltà di sentire, lealtà, schiettezza, sincerità.”
Calonghi-Georges, Dizionario della lingua latina.
La scelta del titolo a esprimere la volontà di credere ancora nella
libertà, nella nobiltà del sentire, nella sincerità. L’ingenuità non
è un difetto, non è un dono. Può essere una volontà. Il desiderio
di superare il vuoto paralizzante del dolore, della disillusione,
della sofferenza, per credere ancora. La volontà di affacciarsi al
mondo a scoprire paesaggi naturali e umani. Oltre le ferite, oltre
gli inganni, oltre le amarezze, oltre il cinismo. L’ingenuità non è
di chi non ha patito angoscia, tormento o delusione. E’ di chi li
vuole superare alimentando uno sguardo colmo di meraviglia e
di stupore.
4
6. 5
La mia musica...
Amo la vita
nel confuso turbinio delle passioni,
nella pace perfetta dell’Amore,
nella corsa tutta umana del tempo.
Amo la vita
nella gioia liberata dalla danza,
nell’aridità impietosa del dolore,
nelle lucciole di maggio.
Amo la vita
nelle promesse dell’alba nascosta,
nella frustrazione del ramo spezzato,
negli occhi, attenti o distratti, degli altri.
Oggi
le mie radici
si fanno più profonde
a regalarmi
8. 7
Tregua
Dissolvermi,
trasparente,
nella luce,
senza colore
né corpo.
Senza dolore.
C’era una volta un bambino, era molto bello. Cercava la simme-tria
e la perfezione dei suoi lineamenti in tutte le cose, in realtà
ovunque voleva trovare sé stesso.
Un giorno fu profondamente tradito dal suo migliore amico, o
almeno così si sentiva lui. Soffrì molto e decise che non
l’avrebbe più permesso. Così inibì ogni sua emozione, si rin-chiuse
in sé stesso e coltivò l’indifferenza nei confronti di ciò
che accadeva. Si permetteva di lasciarsi andare solo con gli ani-mali
e la natura, perché lì ritrovava la sua purezza e non temeva
di essere ferito.
9. GiveMeAChance
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Un giorno, però, il suo cane Figaro morì. E ancora una volta sof-frì
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intensamente. Decise quindi che non avrebbe più avuto cani,
così da risparmiarsi quel dolore. E quando ripensava a Figaro
che gli faceva le feste, che saltellando esplorava con lui il bosco,
che gli leccava il viso, che lo aspettava al ritorno da scuola e lo
seguiva ovunque, disprezzava quei ricordi e la sua debolezza, at-tribuendovi
l’origine della sua sofferenza.
Il suo aspetto mutò. I suoi lineamenti erano sempre perfetti, ma
incolori, non comunicavano nulla. Il suo sorriso compariva solo
di notte, mentre sognava del suo antico amico e del suo cane:
non era ancora riuscito a controllare il mondo onirico.
La sua maestra si accorse di ciò. Era una donna sulla sessantina,
esperta di vita, di emozioni e di sentimenti, e pensava che il suo
lavoro non fosse solo quello di impartire conoscenze, ma di fare
in modo che i suoi studenti si ponessero delle domande e ragio-nassero
con la loro testa. Così decise di evitare una paternale e
un confronto a tu per tu col ragazzo, ma cercò un altro modo per
stimolare le sue riflessioni.
Un giorno lo chiamò dopo la scuola e gli chiese un grande favo-re.
Avrebbe dovuto per un mese presentarsi a casa sua tutti i
giorni alle cinque e portare il suo cane a fare una passeggiata,
10. Tregua
perché lei ospitava un nipotino malato e non voleva fare manca-re
a Blu, questo era il nome del cane, il momento più bello della
giornata. Lesse negli occhi del bambino un entusiasmo subito
frenato da una grande paura. Ma egli non ebbe il coraggio di di-re
di no alla maestra, così accettò.
Giorno dopo giorno si presentava a casa dell’insegnante alle
cinque in punto a portar fuori Blu. Il cane era molto affettuoso e
di buon carattere e gradiva molto quelle scorribande nel bosco.
Già dalle quattro e mezza si metteva vicino alla porta ad aspetta-re
il suo nuovo amico, come la maestra non mancò di fargli no-tare.
Quello che all’inizio non era che un dovere per il bambino, di-venne
il momento più felice della sua giornata: infatti arrivava
sempre in ordine e serio e se ne tornava sudato e sorridente.
Quando il mese fu trascorso, la maestra lo invitò a entrare e gli
offrì un tè. Gli disse che il suo cane era molto contento di tra-scorrere
quella mezzoretta con lui tutti i giorni, stava a lui sce-gliere
se proseguire o no.
Il bambino dopo una lunga pausa scoppiò a piangere. La donna
stette in silenzio, gli porse un fazzoletto e lo invitò a far uscire
senza fretta tutto il suo dolore. Lui la guardò stupito e si sentì li-
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11. GiveMeAChance
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bero di continuare a singhiozzare in solitudine per altri dieci mi-nuti
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nel salotto della donna. Quindi lei tornò e gli chiese perché
avesse pianto. Egli spiegò che ripensava al suo cane morto e che
non sapeva cosa fare, se continuare a portare a passeggio Blu e
soffrire ancora come per il suo cane quando Blu non ci fosse più
stato, o se smettere e soffrire lo stesso, perché quelle passeggiate
erano la parte più bella della sua giornata. La maestra non lo sol-lecitò
a scegliere l’una o l’altra cosa, ma gli domandò che diffe-renza
ci fosse tra le due sofferenze. Il bambino ci pensò un po’,
poi disse che una dipendeva da lui (non portare più a passeggio
Blu), l’altra no (l’eventuale scomparsa di Blu).
“Bravo! – disse la donna – Ma ce n’è un’altra!”
Il bambino ci pensò a lungo. Quella maestra gli piaceva davve-ro,
era severa, ma così gentile, lo faceva sentire speciale... sem-brava
sempre vedere qualcosa di eccezionale dentro di lui... Per
lei lui era in grado di rispondere e quindi... Finalmente disse:
“Un dolore è causato da qualcosa che ho vissuto, tutti i momenti
belli con Blu; l’altro da ciò che non vivrò: saprò che Blu sarà
qua ad aspettarmi, ma io non verrò e continuerò a pensare a cosa
avrei fatto con lui.” “Dunque – riassunse la maestra- un dolore
deriva dalla gioia provata, l’altro dalla rinuncia a provare quella
12. Tregua
gioia. È una scelta importante. Pensaci bene fino a domani, me
lo dirai a scuola.”
Il bambino ci rimase male, aveva sperato in qualche suggeri-mento.
La maestra lo trattava da grande, sì, ma che fare? Ci pen-sò
tutta la sera e tardò ad addormentarsi, ma il mattino successi-vo
ebbe la risposta.
Arrivò presto a scuola, la cercò con lo sguardo e le si avvicinò
impaziente. Lei lo fissava amorevolmente. Le disse: “ Ho capito
che il dolore non lo eviterò, posso solo scegliere quale dei due
sarà, ma la gioia dipende da me. In un caso soffrirò perché avrò
scelto la gioia, nell’altro perché ci avrò rinunciato. Allora è me-glio
averla!” Il sorriso raggiante della maestra lo avvolse tutto e
le sue parole lo inorgoglirono: “Sono molto fiera di te, hai impa-rato
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la lezione più importante!”.
13. Orizzonti
Avidamente,
incessantemente
cerchi
una risposta.
I tuoi occhi impazienti
spogliano
il tuo quotidiano.
Le tue mani ansiose
sono vuote
di polvere.
Il tuo corpo
si fa gomitolo
per scrutare la luce
dentro di te.
Una fiammella fragile
abita il tuo animo
e tu vivi
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14. Orizzonti
13
con la paura
di un vento crudele
che la uccida.
Ma il lampo
del fuoco
ogni giorno
fruga
la tua realtà,
dà risalto
alla tua oscurità, incomprensibile,
ti esorta
a bere
dell’orizzonte mutante
in cui
potresti
tuffarti.
La bella signora araba incedeva femminile e sicura, con occhi
caldi che disegnavano secoli di donne, che brillavano di orienta-le
saggezza e consapevolezza. Era diversa da tutte. Pareva di-
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stante dal mondo attorno a lei, eppure ogni volta che sorrideva si
era certi ne cogliesse la magica essenza.
Gambe lunghe, pronte a una corsa mai pronunciata.
Capelli neri, promesse di timida sensualità, raccolti in una mor-bida
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treccia: il suo viso non ne aveva bisogno.
I suoi occhi partecipavano senza mai essere indiscreti: parevano
abbozzare un sorriso e fuggire via, a toccare il lontano orizzonte.
A metà tra due culture: vestiva all’europea e parlava arabo egi-ziano,
incedeva come una modella e sorrideva di quella dolce
femminilità che è solo orientale. Era la sintesi della donna di
ogni cultura e tempo. Luminosa e forte, eppure chiedeva prote-zione.
Bella, eppure desiderava la conferma sussurrata del suo
uomo. Nobile, eppure palpitava di quell’aria così concreta che la
circondava.
Soprattutto era consapevole, ricca di quell’umanità schietta o so-fisticata,
povera o sfarzosa, allegra o triste, che combatte o che
si arrende, ma che ogni giorno si alza a vivere il mistero della
vita, incomprensibile ma affascinante come gli uomini che lo
danzano.
16. 15
Le due consuocere
Donna,
tu appartieni
all’infinito:
smettila
di invocare
una terra tua,
consacrata
dalla proprietà
e dal limite,
ma libera il tuo volo,
a saziare la fame
di paesaggi
e di amore
senza confini.
Le due consuocere erano in vacanza insieme: entrambe amavano
quella meravigliosa villa nascosta tra il verde, arrampicata sulla
17. GiveMeAChance
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collina a prendersi tutta la luce specchiata dal golfo del Tigullio,
i ritmi imposti dalla gestione delle suore, la preghiera comune,
le passeggiate, l’ottimo vitto e la quiete “santa” di quel Paradiso.
Avevano la stessa età, ma non potevano essere più diverse, an-che
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nell’aspetto.
L’una era sottile e fragile, l’altra pienotta e stabile; la prima si
lamentava dei suoi pochi capelli, la seconda ne aveva una selva;
l’una coltivava il dubbio, su cui ragionava a lungo e, dopo ap-profondite
analisi, lo vinceva con l’introspezione e la preghiera,
l’altra coltivava l’azione e sembrava la decisione incarnata, ma
esprimeva insicurezze e sofferenze solo al cospetto del suo
Creatore, compagno inseparabile di tutte e due, come i loro oc-chi
color corteccia.
Margherita veniva da un’ottima famiglia, aveva ricevuto
un’eccellente educazione e si era sempre mostrata riservata, acu-ta
e timida, messa un poco in ombra dalla bellezza folgorante e
dalla personalità forte della madre. Il suo papà la definiva la mia
poetessa, per la sua capacità di dar forma a pensieri ed emozioni
con le parole scritte. Era sbocciata, come primula alla scomparsa
dell’ultima neve, quando si era innamorata e poi sposata. Era
una donna molto sensibile e intelligente, che sapeva vedere oltre
18. Le due consuocere
le regole imposte dalla sua educazione, perché spesso leggeva
direttamente nel cuore delle persone. Odiava l’ostentazione, il
suo vestire era sobrio ed essenziale e adorava la lettura. Si cre-deva
più fragile di quanto non fosse: la sua vita testimoniava la
sua eccezionale forza d’animo. Quel marito meraviglioso, che le
aveva dato tre figli, era prematuramente morto dopo soli otto
anni di matrimonio. Anche la sua fine avevano affrontato fianco
a fianco, lui era medico ed era consapevole di quello cui stava
andando incontro: uniti dall’amore reciproco e dai loro luminosi
ideali, avevano percorso stretti stretti quell’ultimo tratto di stra-da
concesso loro insieme. Lei aveva scritto di quegli ultimi gior-ni
e i pochi che avevano letto quelle pagine avevano pianto di
commozione di fronte a tanto amore, coraggio e grandezza
d’animo. Ma poi si era trovata sola con i tre bambini. E la guer-ra.
E i problemi della vita. Ma era riuscita a crescere i suoi figli
prima e i suoi nipoti dopo rendendo presente tra loro la figura
del padre e del nonno, tanto egli respirava ancora nelle sue fibre
e viveva nel suo animo. Talora era severa, ma era capace di stu-pire
e di disorientare con i suoi inaspettati guizzi di ironia. Da
nonna si era addolcita, pur mantenendo un certo rigore (“Il gela-to
non si lecca!” “Ma nonna, è un cono, come faccio?”), e deli-
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19. GiveMeAChance
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ziava i nipoti con i suoi racconti di gioventù o di vita in collegio,
ma la cosa che si imprimeva nei loro corpi erano i suoi abbracci:
così esile rivelava una forza nello stringerli da lasciare per sem-pre
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la sua impronta in loro.
Brigida invece veniva da un’austera famiglia agricola, aveva po-tuto
frequentare solo le scuole elementari e aveva sempre con-tribuito
al lavoro domestico. Pur avendo un grande senso del
dovere, aveva commesso qualche piccola trasgressione alla se-verità
imperante e negli occhi le brillava allegra e benevola ma-lizia.
Essendo avida di conoscenza e di sapere, aveva letto molto
e aveva sempre cercato di imparare da chi ne sapeva più di lei,
tant’è che le dicevano che scriveva molto bene, seppur con qual-che
errore. Andare a vivere in città, con tutte le sue offerte cultu-rali
e non, l’aveva aiutata. Anche da anziana era sempre aggior-nata
sulle ultime scoperte e invenzioni. Amava essere in ordine,
adorava i cappelli e ci teneva al decoro. Era molto generosa ed
era una donna d’azione: dove c’era bisogno era sempre presente.
Era riuscita a evitare che fossero i suoi genitori a sceglierle il
marito: si era sposata tardi per l’epoca, ma per amore. Il marito
era il suo opposto, troppo esuberante a volte, ma si compensa-vano
benissimo. Era una donna intelligente che aveva saputo
20. Le due consuocere
colmare la sua scarsa istruzione con il suo acuto interesse per ciò
che la circondava, con l’osservazione e con la forza che le deri-vava
dall’aver combattuto tante battaglie e superato mille diffi-coltà.
Si sapeva anche godere la vita: che fosse un dolce,
un’amica, un nipote o un buon libro. Il Buon Dio, come definiva
lei quell’ideale puro e cristallino che le brillava nell’animo, le
aveva dato il dono di una creativa immaginazione, che nella sua
vita l’aveva molto aiutata. All’occorrenza rivelava anche una
certa furbizia, che era capacità di uscire dai guai, mai inganno
del prossimo. Nella sua giovinezza aveva avuto diversi problemi
di salute, a conferma della sua celata sensibilità, spazzati via da
una vecchiaia in cui mostrava una salute di ferro, sintomo del
suo conquistato equilibrio e della sua autentica serenità.
A vederle passeggiare a braccetto nel parco di Villa Caterina
non si indovinavano tutte queste differenze, si coglievano solo le
loro affinità e la loro complementarietà.
Ma non era sempre stato così...
Amelia si stava preparando per uscire. I tacchi la slanciavano,
anche se non erano le caviglie il suo punto di forza, ma piuttosto
la regolarità dei suoi lineamenti, l’armonia dei suoi movimenti e
l’espressività travolgente delle sue “facce” e dei suoi gesti. Il co-
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21. GiveMeAChance
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lore dei suoi occhi, diversi nella loro pigmentazione, era raro e
prezioso, ma svelato a pochi: portava sempre gli occhiali da sole
a nascondere la sua eterocromia, oggetto di troppa curiosità e
collegabile alla sua malattia. Eppure quel grigio e quel verde
erano valorizzati dai morbidi capelli castani, che arrivavano alle
spalle, e dalle scure sopracciglia ad ala di gabbiano. La figura
era snella, ma non asciutta, l’altezza nella media, braccia e gam-be
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piuttosto lunghe.
I gravi problemi di salute ne avevano fatto una ragazza protetta e
viziata. Abituata a essere al centro dell’attenzione. E certamente
aveva i numeri per starci. Vivace ed entusiasta, decisa, allegra e
piena di vita. Ma umorale. Bastava un niente a farla sentire feri-ta,
tradita, delusa. Imprevedibilmente. E allora compariva l’altra
faccia di Amelia. Quella della vittima sofferente. Abile manipo-latrice
delle emozioni e reazioni altrui. Poteva invitare a casa un
barbone che la inteneriva e occuparsi affettuosamente di lui,
come far leva sul senso di colpa dei genitori, che irrazionalmen-te
si pensavano responsabili delle gravi difficoltà che lei aveva
incontrato nel suo percorso, per ottenere da loro ciò che voleva.
Era difficile da conoscere.
22. Le due consuocere
Quella sera avrebbe dovuto incontrare le sue amiche. Una di lo-ro,
poi, le avrebbe presentato un ragazzo, a suo parere, perfetto
per lei. Non ci credeva molto, ma perché no? Si sarebbero diver-tite
e sarebbe stata in compagnia, lei che, da figlia unica, era fe-lice
ogni volta che una zia, un cugino o un amico veniva a casa a
trovarli.
Un ultimo tocco di rossetto ed era pronta.
Si doveva trovare in piazza del Duomo per un aperitivo da Zuc-ca.
Poi cena. Fu la prima ad arrivare. Scorse Cristina in lonta-nanza,
con lei un ragazzo. Lo osservò con calma prima di sbrac-ciarsi
a salutare. Non molto alto, piuttosto snello. Fine, decisa-mente
fine. Portava gli occhiali. Richiamò la loro attenzione.
Dopo le presentazioni, arrivarono Giulio e Paola, per ultima
Francesca. Come sempre chiacchierarono allegramente e si pre-sero
affettuosamente in giro. Il ragazzo, che si chiamava Luca,
piacque molto ad Amelia e la cosa le parve reciproca, quando,
salutandola, le chiese il suo numero di telefono.
Uscirono insieme per un mese. Erano fortemente attratti l’uno
dall’altra, parlavano di tutto e godevano della reciproca compa-gnia.
Non si salutavano mai senza aver prima fissato l’incontro
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successivo. Si erano abbandonati a quell’amore con un ardore
totalizzante, infantile.
I guai incominciarono quando Luca presentò Amelia a sua sorel-la.
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Egli apparteneva a una famiglia di tradizione, la cui “custo-de”
era appunto la sorella Cornelia. Non che non avesse grandi
pregi: generosa, molto sensibile a volte, interessante conversa-trice,
colta, o forse erudita, elegante. Allora, però, fece un grave
errore: giudicò Amelia dalle apparenze e da ciò che aveva sapu-to
della sua famiglia. Il suo ambiente di provenienza è troppo
diverso dal nostro, queste le sue parole a Luca. Quindi elencò
una serie di frasi e comportamenti sbagliati che la ragazza di na-tali
troppo modesti aveva evidenziato in quella visita a casa sua,
infine riferì tutto alla madre con una tale forza persuasiva, che
Demostene ne avrebbe provato invidia! Amelia era bollata. Sen-za
essere stata conosciuta. Certo non era una donna semplice,
era certamente problematica, ma avrebbe avuto diritto a una
chance, come tutti. Chance che Luca le negò. Infatti, influenzato
dalla sua famiglia, le propose di restare amici, un classico. Inuti-le
precisare che Amelia rifiutò. Tornò a casa, singhiozzò dispe-ratamente
nella vasca, scaldata da un bagno solo sulla pelle ri-storatore,
e si impose di non pensarci più: il suo pregio e al con-
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