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Miti di Sarmato
Nicola Pionetti
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Ad Afrodite
Inno ad Afrodite
Eridano
Maia
Cicno
Le Origini
I segni della storia
I Liguri e gli Etruschi
Il tempo dei Romani
Racconti dei secoli di mezzo
Il santuario della Vergine
Il castello di Sarmato
San Rocco
La grotta di San Rocco
La fonte miracolosa
A san Rocco
/
Inno ad Afrodite
Venus Ambrosia, l'Amor io ti canto
per la mia terra, datrice di luce,
fiumi, pianure e pur dolci monti
mio cuor non tace.
Tu dall'Olimpo, divina bellezza
l'opera veglia, mia gioia immortale,
e mi concedi di mente pienezza,
d'Eros lo strale.
I miti antichi nessuno ricorda
dei della patria non più sono ornati,
giace la cetra, memoria già scorda
Sacri Penati.
Sorga il mio canto, di Venere figlio,
risuoni il cembalo, l'arpa, il flauto
in alto a te giunga, splendido giglio,
né sia incauto.
E quando il cuor intenerisce il pianto
vieni tu cara, le lacrime tergi,
con il tuo sguardo, dolce l’incanto,
di nuovo emergi.
Dea, bella e umana, con Amor ti prego
aiutami diva dagli occhi diamante,
di luce è il tuo corpo, né dai diniego
a me, tuo amante.
Eridano
Molti poeti narraron la storia,
del figlio d’Apollo, Fetonte chiamato.
/
Affinché non se ne perda memoria
Sciolgo il mio canto, dal vento portato.
Eri Fetonte un giovane bello,
dei raggi del Sole il tuo corpo splendeva,
d’oro la chioma, il bianco mantello
come diamante nel di’ traluceva.
Ancor giovinetto, dice il racconto,
fosti sfidato con queste parole:
“dimostrati degno d’Apollo, e dai conto
di essere del padre l’autentica prole”.
Ferito l’orgoglio dalla mala voce
non attendesti la sera calare,
andasti dal padre, e con una prece
del Sole il carro chiedesti guidare.
Accettò Apollo, benché non convinto,
di farti condurre il carro di Elio,
supplicò il figlio, il padre fu vinto,
e ti concesse il suo sacro cimelio.
Eccoti correr pel cielo più alto,
trarre la biga, il cocchio celeste
ch’ora attraversa il cielo cobalto,
mille colori, di luce, si veste.
Riconosciuta la mano inesperta,
fuggono, infuriano i bianchi cavalli,
che sogliono miti, per l’aria aperta
tirare il Sole per tutte le valli.
Impazza, strepita il cocchio infuocato
e troppo in alto, financo alle stelle
giunge il nocchiere, Urano è bruciato:
così ne nacquer le gemme più belle
che ancora oggi incoronano il Cielo,
della Via Lattea le mille sorelle,
bene si vedono quando c’è il gelo,
/
e danno alla Volta lo splendido velo.
Ma dalle stelle la nave furiosa,
ora precipita sino alla terra
e già ne ardea quasi ogni cosa,
mentre a Fetonte il cuor si rinserra.
Zeus veduto cotanto disastro,
contro Fetonte invia una saetta;
ferito, a morte, il cocchiere dell’astro,
reo solamente di sua guida inetta,
torna alla terra nell’estate stanca.
Come meteora il giovin Fetonte,
precipita al suolo, respiro gli manca,
giace ora morto vicino ad un fonte.
Riprese Apollo il suo carro solare,
stella che luce da, vita e calore,
ritorna Elio al suo corso normale
ora sospinto da savio motore.
E le sorelle del morto cocchiere,
Eliadi chiamate, dolcezza immensa,
lagrime ogni ore, giorni e sere
presero a piangere, per la sua assenza.
Tanto cridaron le tristi ancelle
che un fiume intero presto ne nacque,
e smisero solo le meste sorelle
quando a Nettuno ne giunsero l’acque.
E’ questo il fiume Eridano chiamato,
Il Po che trascorre d’Italia la landa;
Sarmato sfiora, né mai agitato
anche se il ciel troppa pioggia ci manda.
E le Eliadi, con Zeus adirate,
racconta il mito, ripete il poeta,
in candidi pioppi furon trasformate;
ancora oggi, quando sera è cheta
/
ne stillan dai tronchi lagrime d’ambra,
perché nessun di Fetonte si scordi,
giovine incauto, pallida ombra,
scorre il Gran Fiume, ne porta i ricordi.
Maia
Landa ubertosa la sponda padana,
che a meridione del Fiume si stende,
fin dove incontra la landa lontana
il monte Appennino ch’al cielo s’appende.
Nera è la terra che da frutti e fiori,
ma non da sola ne genera l’erba:
l’uomo coltiva i semi datori,
coglie la bacca che più non è acerba.
Soleva un tempo, tramanda memoria,
della Dea Terra, Maia la bella,
l’uomo dei campi onorare la gloria
per ingraziarsi di sorte la stella.
Maia usava la terra curare
dall’alto d’Olimpo, o dal ciel per qualcuno
e si credeva la diva guidare
le Pleiadi stelle compagne a Nettuno.
“Oh madre terra” diceva l’umano
“la mia fatica e l’opera premia,
con i miei campi su dammi una mano,
per il raccolto e per la vendemmia.
provvedi tu, oh Dea savia e buona,
alla mia landa che scorre l’aratro,
anche se il cielo tuona e risuona
tu che proteggi da ogni disastro”;
così diceano le rustiche genti,
e la dea Maia per ben onorare,
/
(cosa che scordano gli imprevidenti)
un maialin solean sacrificare.
Il sacro rito avveniva di maggio
(Maius chiamato presso i latini:
sino nel nome alla dea v’è omaggio!)
Si fean sacerdoti i contadini.
Arsa la pira, l’altare lavato
ecco il porcello già vien immolato:
a fine del mese venia scorticato;
col sangue suino ben sgocciolato
seguivano, sacre, le libagioni,
con carni pregiate dell’animale,
e si facean pure le processioni,
la Buona Dea per ringraziare.
D’altronde si pensi al vocabol “maiale”:
non contien forse di “Maia” memoria?
Gli antichi un canto ci mandan corale:
è per la Diva il suo nome, la gloria.
E quando di Maggio principia la fine,
Sarmato fa ancora oggi gran festa,
col sacro animal libagion sopraffine
segno ch’ancor la memoria è desta.
Cicno
Fin dove il guardo d’umano si perde
quando l’inverno gelato imperversa,
giunge lontano, per l’aria più tersa,
a un grande monte che vasto si erge.
Solo da lungi si puote ammirare;
v’è chi a salirlo in passato ha provato
ma il dio che lo vive l’ha fulminato:
non osi l’umano mai un divo sfidare.
/
L’olimpica roccia sacrale inviolata
è la dimora dei grandi divini
che ci risguardano dagli Appennini
e che tutelan la terra adorata.
Penice grande e potente bastione,
sempre le nubi t’avvolgon la cima
nei tempi d’oggi ed in quelli di prima,
da te principia il ridente Tidone.
Racconta il mito che a’piè di quel monte
viveva un principe Cicno chiamato
che ancora l’Amor non aveva incontrato,
come il Tidone ricorda alla fonte
che io una volta, bambino, ho veduto.
Vidi vicino a quella sorgente
un’iscrizione che incognita gente
ha certamente in passato voluto:
§ A Cicno il giovane e tenero amante
che per l’acque pure ora va e sempre sonda,
lento disegna la placida onda
e giunge fino a Eridano distante. §
Dicon gli antichi che il giovane bello
che non aveva ancora moglie presa,
giunse alla fonte, più pura, distesa
vicino al Penice, de’ Divi castello.
Si specchiò Cicno dentro alla fontana
e vide il volto d’un bel giovinetto
e rifletteva il sembiante, perfetto,
che non sembrava d’origine umana.
Tanto era bello quel giovane viso
che non toglieva da Cicno lo sguardo;
e lo fissava, e pareva, maliardo,
mandare indietro, lo specchio, un sorriso.
Ma già tentava l’intrepido, audace
/
il ninfo afferrare, e stringer ma presto
sfugge dall’acqua l’immagine, e mesto
se ne ritrae il volto, bello e fugace.
Piange ora Cicno, da Eros colpito,
che di quel volto era già innamorato:
tanto era bello il figuro, l’amato!
Questo ci dice il cantico, il mito.
Oh tu, beltade, che in principio appari
nei visi fulgidi dei ragazzetti,
per qualche rapido tempo tu metti
in quei bei volti le gemme dei mari
Fuggon quegl’anni dal giovane cuore
che è talvolta da Amore segnato,
di sofferenze è lo spirto screziato,
e segue, certo, a quei tempi, il dolore.
Ma già principia l’etade più stanca,
in cui la vita va contro alla Morte
che giace certa ed assisa alla porte
e già la pelle si fa dura e bianca
Il giovine Cicno nel cuore degli anni,
ora riprova a guardare nel fonte
rivede tosto la giovine fronte
e prova d’Amore tutti gli affanni.
Ancora tenta, l’immagin sottile
Cicno (oh narciso!) di accarezzare
ma si corrompe come onda del mare
l’acqua che scorre di dentro il bacile.
Ma Eros che non si trovava lontano,
ode del giovin il pianto accorato
ed invia bella una Ninfa nel prato
a dar ristoro a quell’animo umano.
Ecco la parte più bella del mito:
terge la diva le lacrime, il pianto;
/
chè ne era il giovane afflitto tanto
(come è del Tidon alla fonte scolpito)
Cicno negli occhi la ninfa ora guarda
e le rivolge una sola preghiera:
“fa, diva, che io possa in questa sera
vedere l’amato: che il mio amore arda
per sempre assieme a quel cuore fugace;
da tal bellezza, quegli occhi diamante,
ora si trova il mio spirto distante:
dammi tu, ninfa, un poco di pace”.
La dolce ninfa da Eros mandata,
così il volere de’Dei si compiva,
già si avvicina alla fonte, alla riva
e dentro immerge la mano fatata.
E pronunciate sacrate parole
si volge a Cicno, che guarda vicino,
e ne prepara il suo eterno destino,
che fu legato, per sempre, da Amore.
“Giovine amante – diceva la diva –
Sei tu sicuro del tuo volere?”
Cicno, già certo delle sue parole,
si fa vicino alla ninfa, alla ripa.
Solo lo sfiora con mano la Dea,
ed ecco Cicno principia a mutare
in un gran cigno di bianco colore,
che dentro al fonte di già s’immergea.
§
Ora va il cigno per sempre accoppiato,
al suo sembiante, portato dall’onda,
scorre pel fiume e più non affonda
nell’acque chete la mano, ma, alato,
plana sul piano del fiume Tidone,
/
il fiume che lento nel Pado si pone
che butta l’acqua del Penice monte,
là dove giace quell’antico fonte,
che io già vidi. Ma solo talvolta
quando l’estate si trova lontana,
giungono l’acque della fiumana,
sino alla foce nell’ansa di molta.
Sono i momenti dell’anno solare,
in cui il Gran Cigno si vede danzare,
nel Po, il fiume che getta le onde,
sino nell’Adrio, il lontano mare.
Oh Cigno giovane, tenero, amante
che per l’acque pure ora va, e sempre sonda,
lenta racconta la placida onda
di quell’amore, nel tempo distante.
Le Origini
§ Quo ex populo Sarmatum
originem traxit.
Hic perenniter posterorum
memoriae traditur §
Questo tramanda la targa lapidale
posta vicina al palagio comunale
accanto al castello di Sarmato bello,
manda memoria da tempo ancestrale.
Tempo in cui il borgo ancora non c’era,
ma v’era sol la feconda pianura,
dal Fiume solcata, agl’uomini ignota
né si faceva di terra terra coltura.
Solo le fiere scorrevan pel piano
vivendo libere sul suolo padano,
bestie feroci, che correan veloci
fin dove il fiume si perde, lontano.
/
Da terre remote, alla fertile sponda,
venner su Fiume portate dall’onda
nobili genti, provate da stenti,
ad abitare la terra feconda.
di questi popol’ di militi esperti
l’origine canto, se pur sono incerti
quegli scrittori, e gl’antichi cantori,
ch’ormai la polvere ha ricoperti.
Erodoto dice, ed io gli do fede,
seppur v’è altri che al conto non crede,
ch’Amazzoni forti, in balia delle sorti
del mar Adriatico solcaro la sede
Erano state dei Greci battute,
e sulla flotta, legate, imbarcate;
erano fiere, pugnaci, guerriere,
come ancor oggi sono ricordate.
Ne narra il mito, ed io ne do conto,
che dopo la pugna del Termidonto,
l’Amazzoni forti, fecero morti
sulle navi i greci, quand’era il tramonto.
Ma non sapendo la nave guidare,
(non eran avvezze pel pelago andare)
che alla deriva, per Adrio, saliva:
si risolvevano, a caso, a remare.
Fecer naufragio le belle sorelle,
che non sapevan seguire le stelle,
in una landa, bagnata dall’onda,
da genti abitate con chiara la pelle.
Era la regio de’ indomiti Sciti,
grandi guerrieri, de’ greci nemici,
antiche genti, assai distanti,
ma colle Amazzoni furono miti.
/
Preser le donne dalle navi scese
forti cavalli, in groppa al garrese,
ed a raziare, lontane dal mare,
la scita terra voller principiare.
Colte da’ Sciti, che erano astuti,
e che da quelle donne eran incuriositi,
furon graziate, e vive lasciate,
ché il bianco seno avean sotto i vestiti.
Un gruppo di giovin, dgli Sciti figli,
che i volti avevano ancora vermigli
alle donne si uniro, piacquero loro,
ed accettarono mille perigli.
Le forti Amazzoni non eran votate,
al focolare ad esser legate,
ed ai mariti, forti ma miti,
dissero queste parole alate:
“Oh grandi uomini di scita landa
a noi non piace che l’uomo comanda
si vive assieme, chiariamo per bene
che voi, sicur, in casa non ci manda!
Lasciate la terra dei vostri padri,
prendete tutto, i più bei puledri,
con noi venite, in terre incognìte,
e date un ultimo bacio alle madri”
Tosto le seguono i giovani sciti,
in nuova landa, degl’avi scordati,
regioni rudi, Meotìdi Paludi,
sol dalle fiere e da’ fiori abitati.
Molto viaggiarono, i giovani amanti
e a settentrione giungevan, distanti
fin dove il sole, del freddo si duole,
come ne dicon poeti sognanti.
E dall’unione dei Sciti indomiti
/
colle guerriere che non sono mai miti,
nacquero figli, ignari di perigli,
che Sarmati forti furon chiamati.
Un popol di guerrieri si generò,
che delle madri la forza portò
sino alla morte, tanto fu forte,
in volto sempre il nemico guardò.
Sarmate genti, dai Greci temute,
sempre da tutti furon combattute.
In quella landa, che uom non comanda
in quelle terre “Sarmazia” nomate,
fur dai Latini una volta scacciate.
Ma presto lasciaron le lande desolate,
dal sol ignorate, che giaccion gelate,
che sol dalla neve non son dimenticate.
Sarmo
Due secoli dopo, il mito dice
quel popol d’arme, ch’è ignaro di pace
d’amazzone grembo, generò un bimbo,
che aveva nel corpo la forza d’Ajace.
Quel giovane bello, Sarmo chiamato,
solo da Omusio e Campi è ricordato,
cresceva sano, e né pareva umano,
tanto invincibil sarebbe diventato.
Sarmo che cresci veloce e sereno,
non sai ancor tu che grande destino,
la tua mente ancor non lo sente,
di tua sorte sei ignaro, oh divino.
Figlio di dee e di uomini invitti
per le tue vene va il sangue de’Sciti,
t’assegna La Moria in questa storia,
la più bella parte di tutti i Miti.
/
Quando maggior fosti diventato,
come se dal destino tu fossi vocato,
lasciasti tua terra, partisti per guerra,
e riprendesti il mare solcato
dalle tue madri, le Amazzoni fiere,
il grande golfo Adriatico chiamato.
Andava la nave, gonfie le vele,
avevi pur delle donne portato
l’Italica sponda per colonizzare,
andasti per ore e giorni pel mare,
fino a che Sorte avversa ti colse,
e ti spinse quasi persino a morire.
Memore Moira delle madri antiche,
facesti naufragio su sponde nemiche,
da’ Libi abitate, da’ divi scordate,
genti lontane dal Nilo partite.
Con i tuoi fedeli ed i savi compagni,
pria andasti in terra che il mare non bagni,
ma piena di bestie colonia trovasti.
come nel più terribile dei sogni.
Mostri che fin a’Dei mettean paura
che escon dai monti quando la sera è scura,
cani d’Inferno, dal sonno eterno,
e che conducon a morte sicura.
Un terribile mostro, con sette teste,
Sarmo – oh coraggio! – conciasti per feste,
la lama sfoggiata, la chioma mutilata,
ed un gran fuoco, a riparo, accendeste.
Il giorno seguente, rinata la luce,
tutti seguiron te, indomito duce,
che conducevi, e i compagni salvavi
da sicur destino di morte truce.
Sarmo e Didone
/
Era la Libia da donna regnata
bella regina, Didone nomata,
nobile traccia, bianche le braccia,
che presto a te si sarebbe legata.
Guidati i compagni ad una città,
Didone t’accolse, stupenda beltà.
Giovine seno pur non sereno,
Amor conoscesti, o Sarmo, colà.
Avea Didone il cuor infranto,
nel dolor immerso per il rimpianto
d’Enea il ricordo, l’eroe d’amor sordo,
che tristemente la dannava al pianto.
L’aveva lasciata Enea il troiano,
su di una rupe di Libia, lontano,
mentre per mare, doveva tornare,
tanto soffrì, tanto le donne amàno.
Voleva lasciare Didone la vita,
ma la sua Sorte non le fu nemica,
chè quando Sarmo le giunse alle porte
l’anima sua ne fu ringiovanita.
Tanto si piacquero i giovani amanti,
che pur venivano da terre distanti,
che si sposaro pe’ amor, fatto raro,
e furono balli di giostre e di canti.
Ma un gran Destino Sarmo attendeva
che prendere il pelago gli imponeva.
Allora prese con se la sua sposa
e sotto il ciel terso la Notte li amava.
Riprese il corso il destino di Sarmo,
come racconta la lapide in marmo,
destino baciato, d’amor appagato
che io ricordo con il mio carmo.
/
Scorse la barca di Sarmo pel mare,
guidata di notte e nel giorno solare,
il gran condottiero intrepido e fiero
il golfo Adriatico prese a salpare.
La fondazione di Sarmato
Fu poi sospinta la nave lontano,
sino alla foce del fiume Eridano
verso la fonte, nell’Alpino monte
saliva il corso del fiume padano.
Oh Po che tagli la grande pianura,
te ne vai lento nella notte scura,
doni al contado, che inondi di rado,
frutti e verdura che cresce e matura.
Solo talvolta le tue fauste sponde
l’acqua trapassa con lente onde,
fluido che da vita alla terra amica,
il limo e la sabbia pel piano diffonde.
Sarmo, Didone, le donne e i compagni
scorrean la ripa che tu, Pado, bagni,
il giorno passava, la stella brillava,
finché cessarono i venti benigni.
Ed arrivaste a una terra maestosa,
ch’al pie’d’Apennino giace distesa,
la landa aperta pareva deserta
fin dove sguardo d’umano si posa.
Ma racconta Omusio, quel grande oratore,
che quelle sponde aveano un signore
Olubro chiamato, dai suoi riverito,
del popol dei Galli gran protettore.
Quei barbari che ne vivevan la riva,
anche il buon Campi ce lo ricordava,
erano stati ai Liguri alleati,
e questo ancor lor costume segnava.
/
Con tutti quante le donne e i soldati
Sarmo e Didon da lontano arrivati,
prendon infin il lor giusto posto
sopra d'un poggio, ben riparati;
e già si danno capanne ad alzare,
per ripararsi da’ terribil fiere,
che sono infauste, né mai esauste
l’umana spoglia di terrorizzare:
Si’ ebbe l’origine Sarmato bello,
nel tempo in cui ancor non v’era il castello,
da Sarmo ebbe il nome il nuovo villagio,
come sul palagio riporta il cesello.
Ma quando ad Olubro la notizia giunse,
de’ nuove genti venute da oriente,
ferrò i cavalli per scorrer le valli,
ed i suoi soldati, da’ bei corpi, unse.
Preparò Sarmo il suo esercito forte
che non avea mai timor della morte:
“Deh! Sarmati duri, gente d’onori
noi non avrem inimica la Sorte.
Il nostro destino ci chiama a battaglia,
montate i cavalli, indossate la maglia.
Proteggiam Sarmato, appena fondato,
ché la mia Stella giammai non si sbaglia”
Olubro da un lato, Sarmo di contro
ecco già schieran l’esercito pronto
e dato il segno nel modo più degno
tosto si avviano al feroce scontro.
Avvenne quella battaglia fatale
vicino a dov’oggi v ’è un casolare
chiamato “Isabella” da “Insula belli”
dove più cadde, di sangue, lo strale.
/
La morte di Didone
Dato che i Galli perdevan la pugna
e già ripiegavan colla loro insegna,
l’Olubro presto ed in modo inonesto
decise questo, il mito ci insegna:
mandò al villaggio de’ sarmate genti
alcuni uomini assai fraudolenti
tra cui v’era Cropio, storpio ad un occhio:
preser le donne in pochi momenti.
E poi condottele al campo di guerra
da’ parte dei Galli, che avevan la terra,
preser l’amata da Sarmo sposata
Didone povera, inerme: eri bella,
e minacciaro con spada la sposa.
Sarmo che pur non voleva la resa,
diede il segnale al fedel militare
perché Didone non venisse lesa.
L’arme deposer la sarmate genti,
spadoni a terra, smontati gli armenti,
le mogli dare il nemico pregaro:
non potean di donna soffrir i lamenti.
Ma ecco che fece l’Olubride cane,
di tutti gli atti, di certo il più infame,
lasciava Didone andar dal suo amore,
ma la colpiva, da tergo, con strale.
Ferita la schiena, la giovin regina
fu dal suo Sarmo presa vicina,
ne stringe le braccia, gli bacia la faccia:
ma gia’ si fea la sua vita piccina.
Codeste fur le sue estreme parole:
“Oh tu che fosti di mia vita amore
tanto ti ho amato, mio adorato:
vendica, Sarmo! Proteggi la prole”
/
Didone giace ora morta nel prato,
tra le forti braccia del suo uomo amato.
Che gia’ corre il fretta, quasi saetta
ad ammazzare l’Olubro, l’odiato.
Riarde la pugna e piegano i Galli,
che già si ritiran per le loro valli,
Il milite Sarmo scortica Olubro,
ne strazia il corpo, ne stralcia i capelli.
Ed in memoria di morta Didone,
scorre un fiume or chiamato Tidone,
placan la sete, l’acque sue chete,
come ricorda l’antica canzone:
§ Là fu sepolta la nobile sposa,
da Sarmo, il suo amato, assieme una rosa
con il dolore, nel suo umano cuore
giace nel greto, ogni cosa riposa. §
§
Questa è l’origine dei sarmatesi,
ch’hanno il più bello di tutti i paesi,
sarmate genti, dal cuor già le senti,
dall’Olubro figlio mai più furo offesi.
§ Dal popolo Sarmato, Origine tratto,
A memoria dei posteri, a oblivio fu ratto,
con questa scritta nel marmo intatto,
Sia questa pietra a ricordo del fatto. §
Questo tramanda la targa lapidale
Posta vicin al palagio comunale
vicino al castello di Sarmato bello,
manda memoria da tempo ancestrale.
I segni della storia
/
I Liguri e gli Etruschi
I
Alle avventure di Sarmo, l’audace,
seguiron secoli ed anni di pace,
né dice il poeta che tesse la seta
chi tenea Sarmato e niuno ci vieta
di ricostrurre quell’antica storia
poiché abbiam segni che recan memoria,
reperti che parlano di quel passato
ch’oggi da ognuno par dimenticato.
Delle più antiche popolazioni
noi non abbiamo ché alcune menzioni;
solo in sugli appennini, sappiamo,
viveano i Liguri, popolo strano
pronto ad andare per mare per guerra,
ma non sapea coltivare la terra.
Fu questo il popol, ritengono alcuni,
che diede il nome al torrente Tidone,
nome che per lor voleva dire,
“fiume che va solo pe’ alcune ore”:
e chi ben conosce la nostra fiumana
sa che del torrente non ha che la fama,
dato che non per ore ma per mesi
resta senz’acque, e sono offesi
i suoi fondali dai raggi del sole
che secca e sterpa l’erba, che duole
quasi bruciata nell’estate calda,
mentre l’agreste cicala rimanda,
un cantico terreo di morte e, stanco,
giace il limo nel fondale bianco.
/
Sappiamo pure da qualche scrittore
che del passato s’è fatto cantore
che anche gli Etruschi abitaron la terra
che a Piacenza, attorno, si serra.
Ma ancor incerta principia memoria
né v’è più chiara la voce di Storia,
abbiamo antico insicur testimone
che fuor dal dubbio il racconto non pone.
Il tempo dei Romani
Se alle origin delle antiche genti,
tu che, curioso, il mio racconto senti
vuoi risalire come ad una fonte,
o attraversare sopra d’un ponte
gl’anni lontani dal secolo nostro,
corra tua mente fino a quel bosco
che tra il Tidone ed il fiume Po giace,
dove traluce sull’acque la foce.
Pochi anni fa’, lì, la feconda terra,
ci restituiva una preziosa armilla
e ancor monete, fermagli e gioielli
di color d’ambra e di pietre, assai belli.
Avvenne il fortuito ritrovamento,
di cui fu tutto il paese contento,
vicino al paesino chiamato Veratto.
E venne alla luce portato intatto!
Ma non fu l’unica cosa trovata:
pur d’una casa romana istoriata
si reperiva il bel fondamento!
E ancor denari, di nobile argento;
aveano i soldi codesta iscrizione:
“al padre Cesare, l’imperatore”,
/
dal che s’evinser l’origin latine
di quelle genti a Scottine vicine.
Erano genti votate al contado
in quelle terre solcate dal Pado,
vivean cascine, “villae” appellate,
e certo indigenti non erano state.
Erano solite romane genti
di terra vasta far appezzamenti,
e si trova ancora la traccia di questo,
pel centuriale e palese resto.
Che ben evidente si legge nel suolo
se dall’alto guardi, come fossi in volo,
la parte di landa che stà tra il torrente
Tidone ed il borgo di sarmata gente.
Più non abbiam di que’ tempi i racconti,
solo quei resti di latine genti,
giunte da Roma, l’Urbe lontana
a conquistare la terra padana.
Sponda che ai Galli era stata strappata
secoli addietro da gente sarmàta
che ora viveva, in pace sancita,
con il roman dividendo la vita.
La via Postumia, or Emilia chiamata,
fu dai romani ingegner progettata,
e proprio vicino a quel luogo passava
dove oggi ancora incontra la strada
che dal Borgo Novo dritta proviene
e al centro di Sarmato, rapida, viene.
V’era in quel luogo già ai tempi romani
un gran movimento di merci e di umani.
In quel posto sorge un’antica locanda,
dove le genti da lungi e da randa,
solean fermarsi per prender riposo
/
e per mangiare un boccone gustoso.
Oggi si trova al quadrivio vicino,
una casetta chiamata “casino”,
che di sicur ha un’origin latina
ed alla Bettola sorge vicina.
Era in origin, quel piccol sacello,
che è decorato da antico cesello,
una stazione di posta romana,
che da Piacenza non era lontana
che tredici miglia, la giusta distanza
per dare ai cavalli riparo, in stanza
posta, protetta da archi gemelli,
che ancora oggi si leggono, belli.
Qualche chilometro andando ad oriente,
si giunge al nostro caro torrente
là dove giace sepolta la sposa,
di Sarmo, il forte, assieme alla rosa.
Proprio nel punto che pare più aperto
aveano i latini, popolo esperto,
un grande ponte ad arcate elevato,
ma il suo segn giace ora certo scordato.
E a protezione del Ponte Tidone,
un picciol villaggio il romano pone,
di mura cintato da mastio vegliato
che ancora oggi “castello” è nomato.
E lungo il Po in quei tempi lontani,
avean costrutto i savi romani
un grande porto per attraversare
del Pado la sponda, e per andare
sino alla foce del fiume Eridano:
là dove perde le sue acque, nel limo,
il grande fiume che scorre pel piano
e taglia lento il suolo padano.
/
Sorgea quel porto in un luogo chiamato
“Bosco di Litta”, ancor oggi locato
vicino all’ansa del fiume maestoso
che scorre l’onde e va, senza riposo.
“Litta” che poi “ghiaia” e “sasso” vuol dire
(solan così pietrea terra chiamare),
ché sorge il porto insu giarosa sponda
ma lentamente, per questo, s’affonda.
S’affonda nella memoria e nel tempo
questo racconto ma qualche frammento
pur sopravvive a quegli anni perduti
che da genti d’oggi non son conosciuti.
E corre nel cuore de’ Sarmatesi,
che hanno il più bello di tutti i paesi,
di sangue romano pure una stilla:
de’ latine genti la Sorte ci brilla!
Poiché dei segni ne recan memoria,
abbiam raccolto il canto, la storia.
Miti che parlano di quel passato
che col mio racconto ho, forse, salvato.
Racconti dei secoli di mezzo
Il santuario della Vergine
Terra mariana quella sarmatese,
coi suoi oratori e colle sue chiese
che nel passato son state innalzate
ed alla Santa Maria dedicate.
Ancora oggi la plebana nostra
insul frontone una scritta si mostra
assumpta est in coelum maria,
/
che con il tempo non se ne andra’ via.
Non credo antica la scritta devota
che giace sopra la nuova facciata
che fu posata, come una cortina,
sessant’anni orsono su quella di prima.
Seppur non resti che l’abside antico
di questa chiesa sontuosa, ti dico
ch’avea in passato un interno maestoso
tutto istoriato, in oro prezioso.
Proprio nel mezzo del milleottocento,
dice in archivio un chiar documento,
si volea rifare da nuovo il sagrato
ché ormai dal tempo era troppo segnato.
Ma quando il marmo si prese ad alzare
per la piazzetta da nuovo sòlare,
ecco che accadde: con grande sorpresa
si trovò vicino alla nostra chiesa
un gran sepolcro d’antica fattura,
che, dice la nostra fonte sicura,
aveva almeno mill’anni passato
sotto alla terra ben tutelato.
Presto si sparse pel borgo la voce;
Sarmato accorse, l’archivio dice,
tutto all’intorno alla fossa scavata
dove la tomba era stata trovata.
Giaceva sopra il sepolcro una scritta
che era incisa ma molto fitta,
ma si leggeva ben chiaro un cognome:
Burnengus iacet hic. Fu il sicur nome
d’un combattente o d’un principe antico
che di Liutprando era stato un amico;
de’ Longobardi fu nobile figlio
e ora posava in quel tetro giaciglio.
/
Pier Maria Campi dentr’alla sua Historia
parla di un principe che ebbe la gloria
di comandare l’esercito forte
de’ Longobardi e sfuggì la morte
mentre ardeva la pugna assai dura,
e già calava la notte più scura,
questo signore, Burnengo chiamato,
riuscì a salvare un giovin soldato
che poi non era che il giovin Liutprando,
il figlio del re, che poi il tempo andando
sovran de’‘Bardi sarie diventato,
re e cristiano molto rinomato.
Per ringraziare la felice sorte
che gli aveva evitato la morte,
Burnengo fece alla Vergine il voto
di dedicarle un luogo devoto.
E fu così che a guerra finita,
il longobardo impegnò la sua vita
a costruire una chiesa vicina
a quella strada chiamata Spadina.
Sappiamo pure la sicura data
in cui la chiesa venne elevata:
venticinqu’anni dopo il Settecento.
Dopo di ciò fu il paese contento
della sua chiesa a Maria dedicata,
a quella Vergine tanto amata
che si ricorda da sempre in quel posto
proprio nel cuore del mese d’agosto.
E il fondatore, così fu voluto,
sotto al sagrato fu poscia lasciato.
E ancor riposa la sua antica spoglia,
vicina alla chiesa, sotto la soglia.
/
Il castello di Sarmato
Il gran castello che s’erge imponente
nel cor di Sarmato, grande gioiello,
fu innalzato da antica gente
con il suo mastio e con il suo rivello.
Oh quanta storia han veduto passare
i tuoi muri antichi! E quanti nemici
sotto tuo arco han dovuto lottare,
eppure tu ora nulla ne dici.
Giaci silente come una rupe
con i tuoi graffi e le tue merlature
che in qualche tratto ora sono dirute:
hai grandi antri e porte oscure.
Coi tuoi segreti, che serbi nascosti
dentro ai forzieri di fabbrica antica,
dice leggenda: hai diamanti riposti
e ben riparati da mano nemica.
Storia e racconto si fondon nel tempo
che ora per sempre è perduto, e l'insegna
porta l’antico tuo monumento
che il bel paese di Sarmato regna.
Un primo castello, ma meno grandioso
di quello che oggi si erge sul piano,
fu costruito nel tempo insidioso
(che a noi sta ottocent’anni lontano)
in cui Federico il Barbarossa
voleva punire l'Italia ribelle
ed i Comuni portare alla fossa;
ma il piacentin, di sicur non imbelle,
decise di fare una tripla cortina
contro Pavia, la città fedele
all’imperador già nel tempo di prima,
/
a protezion di Piacenza ribelle.
Tre bei castelli fur così costruiti:
a Borgonovo una grande rocca;
ebbe Castello dei muri torniti.
E al fin si erse la sarmata roccia
Ch’ora è di certo il castello più bello
che svetta alto sul piano padano;
di mura si cinse, come un anello,
ed i pagani da randa arrivaro.
Eppure quell’antiquato maniero
ebbe una vita assai travagliata;
se vuoi saperla vada il tuo pensiero
verso la fine del milleduecento
quando Ubertino, il terribile Lando,
ne diroccava le mura potenti
e pur al Taglio il nemico mandando
nel pozzo povere ed umili genti
che nel castello s’eran rifugiate.
Dicono ancora taluni racconti,
che quelle voci non giaccion scordate
ché ancora a volte se n’odon lamenti.
Pianti di strepiti, urla di morte
del tempo antico in cui v’era la guerra
e non piegaro benigne le sorti
che insanguinavan la povera terra.
In quegli anni nemici eran pure
che da Pavia venivano spesso
per rovinare il raccolto e raziare
uomini case e pure le messi;
e per proteggere da quegli attacchi
genti e contado, un nuovo mastio
si prese a fare, e pure una rocca,
per tutelarsi da tutto quell’astio.
/
Verso il principio del milletrecento
certo teneva il nuovo castello,
come ci dice il Campi in commento,
la nobile casa dei Pelestello
che era pur Pallastrelli chiamata,
una famiglia di buona nomea
la piacentina e nobil casata
Sarmato e pure le terre avea.
Gherardo, il conte del grande maniero
aveva pure dei servi di certo:
in quella piccola via risiedero
“vicol badile” ch'ha il nome e erte
crescon le mura che oggi lì sono.
Quel tal Gherardo, ritengono alcuni
aveva pure un suo soprannomo
ch’era Gottardo, dicon taluni.
E di qui principia quella novella
che lega Sarmato al pellegrino
San Rocco, certo la storia più bella
che si racconta ad ogni bambino
che nel paese è nato e cresciuto
all’ombra di quell’antico castello,
che fu nei secoli molto temuto
e che riposa ancora assai bello
nel cor di Sarmato e s'erge imponente
come dorato e prezioso gioiello,
così voluto da antica gente
con il suo mastio e con il suo rivello.
Oh quanta storia han veduto passare
I tuoi muri antichi! E quanti nemici
sotto il tuo arco han dovuto lottare
per le tue torri, ma nulla tu dici.
/
San Rocco
Tanti scrittori hanno già raccontato,
il bel racconto di Rocco, il francese,
che da Mompolieri raggiunse il paese:
un grande dono per Sarmato è stato.
Pur non son certe le più antiche fonti,
sull’anno preciso della sua venuta.
Si sa che la storia è talvolta muta
e li principiano i più bei racconti
che ci raccontan di un tempo lontano
in cui a Sarmato c’era la peste
che imperversava per la landa agreste:
feriva, il morbo, e colpiva l’umano.
Rocco era un giovin cristiano devoto
un pellegrino di nobil famiglia
che avea raggiunto, tirando la briglia,
Piacenza, indove era stato colpito
da quel terribile morbo fatale
che nel bel mezzo del milletrecento
faceva a tutti terrore e spavento
portando al popolo sorte mortale.
Racconta il mito che il pellegrino
lasciasse a piedi città di Piacenza
per non diffondere la pestilenza
e si ritirasse in un bosco, vicino
a Sarmato dietro a quel grande castello
che ancora oggi si staglia nel cielo
con la sua torre e con il maniero
e che è del paese il prezioso gioiello.
Rocco si fece un precario riparo,
sotto alle fronde di un gran cornaiolo
e si distese un poco sul suolo
/
in quel pacifico bosco non rado.
Il giorno seguente il giovin piagato,
poco lontano da quella sua sua grotta
per alleviar il dolor con cui lotta
invoca Iddio: è molto malato.
Subito Dio, che ne sente la prece,
sgorga dalla nuda roccia una fonte
con cui San Rocco rinfresca la fronte;
ed un lavacro alla gamba si fece.
E ritornato alla sua grotta verde
ecco che vede un piccolo cane
che aveva in bocca un pezzo di pane:
or glielo porge, e, nel bosco, si perde.
Questo prodigio, segnale divino,
si ripeteva nei giorni seguenti
e ristorava di Rocco i lamenti
ed il dolor si facea men vicino.
Quel cagnolino che visse cent’anni,
Reste chiamato secondo il racconto,
portava il pane di sua sola sponte
e Rocco salvava un po’ dagli affanni.
Reste rubava il vitale panino
di sotto la mensa del nobil Gottardo
che un giorno lo segue, tenendol codardo
mangiar di nascosto, ma al pellegrino
giunge nel bosco; e Rocco scoperto
lo accoglie e lo cura di dentro al castello
ch’era Gottardo un de’ Pallastrello,
e nobile d’animo era di certo.
Riconosciuto il santo francese
(la di lui fama era già ben diffusa)
pure Gottardo i suoi beni ricusa
e si fè pellegrino, lasciando il paese.
/
I due compagni ora vanno lontani,
e v’è chi dice che il nobil Gottardo
fondò sul passo di San Gottardo,
un monastero, ritiro d’umani.
I gran poeti hanno di già cantato,
la bella storia di quel pellegrino
che si racconta ad ogni bambino
che nel paese di Sarmato è nato.
Ad divum Rochum sarmaticum
Proprio nel cuor del millecinquecento
Il Conte Federico Scotti scrisse
per Rocco un carmen latino e disse
tutta la storia e l’antico racconto.
Di questa canzone il Campi ci parla,
nella sua Historia dell’urbe Piacenza
che giace da Sarmato a poca distanza,
ma solo in parte io posso citarla:
§
Litibus diris licet implicatum
Dive Castellum Roche Pessulana
Quem dedit nobis regio fecunda
Numinis aura:
Sarmatum multa prece supplicantis
Rustici victus tamen ex olympo
Respicis summo: tibi nec dicatas
Despicis aras.
Caereo septas, radios iuvare
Solis ut plebes videatur ipsa
Velle, tam crebro: varioq. fulvi
Vase metalli:
Hoc memor te olim iacuisse campo
/
De via fessum tibi et indigenti
Ore Correptam Cererem attulisse
Crebra Catellum,
Quo Palaestellum domus obtinebat
Tempore hanc sedem domui relictam
Post meae, ut tanquam decus ignis esset
Omne parentum,
Sicca non culpa milicae, at eorum,
Candido mutant nigra qui colore:
Alba qui rursus nigra dant videri:
Iuraq; Solvunt.
§
Et pyrum cuius recubas sub umbra
Ferre das florem, pyra et ipsa eadem
Nocte, rem produnt monimenta qualem
Rara priorum:
Quae pyra haud paucos superant in annos
Praesidi contra validi periculum:
Silvem quando minitatur ardor
Sirius aegris.
Donec (indignum facinus) propinqui
Caede funestat decus hoc propinquus:
Et sacras raptu vigilantis ante
Virginis aras.
Vota nec reddit mulier periclo
Functa candentis positu sacelli:
Quae mora huic spontam prohibe parētē
Solvere pallam.
Haec tuam mentem Roche reddiderunt
Sarmato avversam scio, et oppidanis
Huius est autem pyrus arefacta
Testis abundans. §
/
[Di questa bella ed antica canzone,
ora riporto una mia traduzione
(La mia Maestra di greco e latino
mi ha dato aiuto, come ad un bambino).
Ma questa docente, che ho sempre adorato,
il suo nome non vuol che sia ricordato:
quanto ti devo, mia cara Polinna,
che ai mei pensieri sei sempre vicina.]
§
Pur se implicato in dispute funeste
il castello di Sarmato, o San Rocco
dall'alto ciel tu guardi, tu a noi dato
da Pessulana terra
con soffio favorevole del dio,
da molta prece vinto del villano
che a te suppliche volge; né disdegni
i dedicati altari
fitti di ceri, si ch'ai raggi stessi
de sol sembra che il popolo in aiuto
correre voglia, con si ornati vasi
di fulvo oro preziosi.
Ricorda che qui un tempo tu giacesti
e a te, povero e stanco pellegrino
portò, afferrato con la bocca, il pane
un cagnolino spesso,
nel tempo in cui questa sede reggeva
famiglia Pallastrelli, poi lasciata
alla famiglia mia, che teda fosse
tutto l'onor dei padri;
non fu reo Seccamelica, ma quelli
che con bianco color mutano il nero
e fanno il bianco poi nero apparire
sacri patti rompendo.
/
Ma per questo delitto il Creatore
di grandine e di flutti aspra tempesta
invia alla terra, devastando i solchi
per i campi fecondi.
E fai fiorire il pero alla cui ombra
riposi, e pere in quella notte stessa
producono ciò che ben raramente
gli antenati ricordano;
e queste pere per non pochi anni
abbondano, di valido presidio
se pericol di peste agli ammalati
Sirio ardente minaccia.
Finche (orrore!) con strage di parente
un parente profana il luogo degno
e rapisce una vergine che veglia
davanti ai sacri altari;
né, sofferto il pericolo, la donna
i voti sciolse, un candido sacello
ponendo; vieta tale indugio all'avo
dare il promesso manto.
O Rocco, so che questo rese avverso
alla nostra citta l'animo tuo;
lo testimonia chiaramente il pero
di colpo disseccato.
Tuttavia non odiare Federico
in nulla, il riconosci, men devoto
al tuo santo voler, né mai rivolto
ad osar cose atroci,
ignaro di pensieri fraudolenti
ed assai poco assiduo di quei luoghi
mentre s'accinge, lungi da Piacenza,
d'arti belle a dotarsi;
/
Cosi che possa ritornare ai suoi
paterni lidi di saggezza pieno,
trasportando una nave sul vicino
fiume, di merci carca.
Ma ti che puoi, la pestilenza storna
da me per primo, e poi da quanti nutro
con amor come figli, e poi dai campi,
da' buoi, maiali e piante;
pur s'io creda che tu, ben ricordando
che il tuo maestro Cristo ai suoi nemici
perdonò, anche i malvagi vuoi guarire
con clima salutare.
O Rocco, il cuore anteponi al sacello
che, iniziato, la scabra rupe tiene
al di sotto delineando un arco
con cuspidi gemelle
in nuda ghiaia mal consolidato;
anche se quivi il verdeggiar del prato
aperto il guardo appaghi, e pur del bosco
fino al fiume regale.
Ch'io giunga pure dai Britanni biondi
o dagli Sciti, che seco sui carri
traggono i figli, o con piu strano orrore
da tue genti ospitali,
Caucaso; sempre in fondo alla mia mente
te, Rocco, meco condurro; d'agosto
al mezzo, d'anno in anno, le tue gesta
saranno celebrate;
allontana dal popolo indigente
le antiche sorti, ed allo zio, che è pronto,
lascia che possa governar le genti
in autentica pace;
borsa, bastone e pur berretto porti
/
come i compagni tuoi diretti a Roma;
le membra esposte ad un funesto morbo,
da pene afflitte, aiuti;
di nuovo mostri alla coscia sinistra
la ferita, che una lancetta incide
nella nostra citta; poi ritornato
ai tuoi paterni lidi
sei prigioniero, o caro, in tetre sbarre
come se per spiar tu fossi giunto
da alcun riconosciuto, ai tempi iniqui
della guerra crudele.
Dopo molto soffrir per cinque anni,
velocemente al termine condotto
del tempo a te concesso (sette lustri
neppur) morto riposi.
La grotta di San Rocco
Vi sono dei luoghi che hanno un segreto
che serban nei secoli mistero grande:
la piccola grotta del Santo più amato
cela il volto, non troppo distante,
di Rocco il divo che cura la peste.
V’è in questo antro pur il cagnolino
a Rocco compagno chiamato Oreste:
e nel sacello sta sempre un lumino
acceso da alcune mani devote.
Sotto alla fronde del bel cornaiolo,
riposa sempre San Rocco, seduto
nel suo eterno colloquio divino.
La fonte miracolosa
Quando San Rocco era stanco e malato,
/
poco distante dal bosco, sua casa,
aveva certo Iddio pregato:
“Dio che guidi e sorreggi ogni cosa
dammi ti prego un po' di ristoro,
ché il dolor più non posso soffrire
son tanto piagato che quasi ne mòro”.
Poi udita la santa preghiera
Il Signor dice al giovine Rocco:
“pianta il bordone, e abbi tu fede”;
ecco che basta del legno un sol tocco
che l’acqua già la dura roccia fende.
La chiesa di San Rocco
La piccola chiesa che giace del viale
al fine della cortina di tigli,
è certamente il più bel memoriale
del divo Rocco per i suoi figli.
Sorge quel piccolo luogo di culto,
dove di Rocco v’era la capanna,
e v’è un dettaglio che mi piace molto:
ha pure una sua antica campana;
nell’aere più terso si spande la voce
della fede certa in Te che guarisci,
ed il secol nostro non certo zittisce
del tuo devoto, oh Rocco, la prece.
A san Rocco
Dall’invitte cime d’Olimpo immortali
a Sarmato volgi i tuoi occhi augurali,
Oh Rocco, invocato di spirti rurali
che salgon corali.
Tu a noi dato da francese terra
nel tempo in cui imperversava la guerra
volgi lo sguardo che tutto rinserra
/
e già mai non erra.
Né ti dispiaccion gli altari dorati,
fitti di ceri, di vasi adornati
i fiori e i templi a te dedicati
da Elio baciati.
Questo in memoria del tempo in cui Peste
te cruciava nel cuor di terra agreste,
e venne da te il fedel cane Oreste,
destino celeste.
Allor che la famiglia Palestello
deteneva il palagio ed il castello
poi a me giunto, quasi come anello,
splendido gioiello.
Bartolomeo la colpa non ebbe!
Fu di color che mala madre crebbe
notte e giorno confondono con nebbie
ignobile febbre.
Per questo delitto Iddio vendicator
gli umani figli dimentichi d’amor,
d’ acque tempesta e di grandine ogn’or,
terribile rumor.
L’ombra del pero a te sacra pianta
ti diede ristoro nell’estate stanca
e dava frutti e salute tanta
la siepe santa.
frutti che danno fortuna e abbondanza
corpo protetto se morbo s’avanza,
che empiva le strade di condoglianza,
con macabra danza.
Fino a quel giorno (terribile fatto!)
in cui di vergine avvenne il ratto.
con strage funesta rotto il patto
ignobile atto.
/
e pur la vergine, quasi sacello,
per rimaner inviolato mantello,
immerge in sé un profondo coltello
financo al cesello.
Queste ed altre terribili cose,
a Sarmato contro tua mente rese
ed il pero che pria fioria si palese
seccato, si stese.
Ma non odiare il fedele devoto,
non emulator del villico beoto,
che al tuo volere ha fatto un voto
ed è d’ira vuoto:
Ignoto di pensieri fraudolenti
e non assiduo di quelle genti
che di te ignare son, tu false senti,
ed improvvidenti.
E di tua vita si deve rimembrar:
il Cristo solo ti fece innamorar,
con pura fede a Sarmato tornar,
Iddio a onorar.
Ma il terribile morbo da me primo storna,
quindi dai servi, da bestie con corna,
piaga, ferita, il corpo mal s'adorna,
più non si ritorna.
Tu del Padre de’divi emulo giusto,
memore del tuo maestro il Cristo,
senti la prece, sei tu Oh aristo,
da dio ben visto.
Abiti il tuo tempio, oh divo immortale,
che della peste ci storni lo strale,
ha il tuo altare nel tempo serale
color siderale.
/
Non ancor finito giace il tuo tempio
e pur già ne allontana il tristo e l’empio
s’erge sul pian verde, come esempio
allo sguardo ampio.
Vada il mio cantico ai britanni biondi
ai Caucasi, che costumi hanno immondi,
agli Sciti che se ne van rubicondi
negli estremi Fondi.
Sempre ad agosto Sarmato ti onora,
il tempio è aperto, l’ara arde allora,
al calar del sol, quando l’ora è mòra,
di te rimemòra.
Allontana o San Rocco dal popol l’indigenza,
e da’alla mia casa, d’ampia figliolanza,
in alta pace tener la reggenza,
a me dai udienza.
L’allor, il bastone e il cagolino teco porti
ovunque la peste s’assida ai porti
né osi l’uman a te fare torti
onori a non porti.
Dal segno delle lue colpito al fianco,
tu che riesci a trarre dall’Ade anco
né di visitar l’Urbe fosti manco:
oh Rocco Santo.
Non noto a nessun t’aggiri per la terra
quando tra gl’uomini scoppia la guerra.
volgi lo sguardo che tutto rinserra
tuo figlio afferra.
Dall’invitte cime d’Olimpo immortali
a Sarmato volgi i tuoi occhi augurali,
da voci invocato di spirti corali,
voci celestiali.
§§
/
Tanti scrittori han già raccontato,
il bel racconto di Rocco, il francese,
che da Mompolieri raggiunse il paese:
un grande dono per Sarmato è stato.
Pur non son certe le più antiche fonti,
sull'anno preciso della sua venuta
ma si sa la storia talvolta sta muta
e li principiano i più bei racconti
che pur qualcuno oggigiorno ha scordato.
Poiché dei segni ne recan memoria,
abbiam raccolto il canto, la storia,
Che ora per sempre è al futuro mandato.
/
Non intelligendo fit omnia
Ω 

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Miti di sarmato

  • 1. / Miti di Sarmato Nicola Pionetti Copyright © 2015 Nicola Pionetti # www.nicolapionetti.com Tutti i diritti riservati Ad Afrodite Inno ad Afrodite Eridano Maia Cicno Le Origini I segni della storia I Liguri e gli Etruschi Il tempo dei Romani Racconti dei secoli di mezzo Il santuario della Vergine Il castello di Sarmato San Rocco La grotta di San Rocco La fonte miracolosa A san Rocco
  • 2. / Inno ad Afrodite Venus Ambrosia, l'Amor io ti canto per la mia terra, datrice di luce, fiumi, pianure e pur dolci monti mio cuor non tace. Tu dall'Olimpo, divina bellezza l'opera veglia, mia gioia immortale, e mi concedi di mente pienezza, d'Eros lo strale. I miti antichi nessuno ricorda dei della patria non più sono ornati, giace la cetra, memoria già scorda Sacri Penati. Sorga il mio canto, di Venere figlio, risuoni il cembalo, l'arpa, il flauto in alto a te giunga, splendido giglio, né sia incauto. E quando il cuor intenerisce il pianto vieni tu cara, le lacrime tergi, con il tuo sguardo, dolce l’incanto, di nuovo emergi. Dea, bella e umana, con Amor ti prego aiutami diva dagli occhi diamante, di luce è il tuo corpo, né dai diniego a me, tuo amante. Eridano Molti poeti narraron la storia, del figlio d’Apollo, Fetonte chiamato.
  • 3. / Affinché non se ne perda memoria Sciolgo il mio canto, dal vento portato. Eri Fetonte un giovane bello, dei raggi del Sole il tuo corpo splendeva, d’oro la chioma, il bianco mantello come diamante nel di’ traluceva. Ancor giovinetto, dice il racconto, fosti sfidato con queste parole: “dimostrati degno d’Apollo, e dai conto di essere del padre l’autentica prole”. Ferito l’orgoglio dalla mala voce non attendesti la sera calare, andasti dal padre, e con una prece del Sole il carro chiedesti guidare. Accettò Apollo, benché non convinto, di farti condurre il carro di Elio, supplicò il figlio, il padre fu vinto, e ti concesse il suo sacro cimelio. Eccoti correr pel cielo più alto, trarre la biga, il cocchio celeste ch’ora attraversa il cielo cobalto, mille colori, di luce, si veste. Riconosciuta la mano inesperta, fuggono, infuriano i bianchi cavalli, che sogliono miti, per l’aria aperta tirare il Sole per tutte le valli. Impazza, strepita il cocchio infuocato e troppo in alto, financo alle stelle giunge il nocchiere, Urano è bruciato: così ne nacquer le gemme più belle che ancora oggi incoronano il Cielo, della Via Lattea le mille sorelle, bene si vedono quando c’è il gelo,
  • 4. / e danno alla Volta lo splendido velo. Ma dalle stelle la nave furiosa, ora precipita sino alla terra e già ne ardea quasi ogni cosa, mentre a Fetonte il cuor si rinserra. Zeus veduto cotanto disastro, contro Fetonte invia una saetta; ferito, a morte, il cocchiere dell’astro, reo solamente di sua guida inetta, torna alla terra nell’estate stanca. Come meteora il giovin Fetonte, precipita al suolo, respiro gli manca, giace ora morto vicino ad un fonte. Riprese Apollo il suo carro solare, stella che luce da, vita e calore, ritorna Elio al suo corso normale ora sospinto da savio motore. E le sorelle del morto cocchiere, Eliadi chiamate, dolcezza immensa, lagrime ogni ore, giorni e sere presero a piangere, per la sua assenza. Tanto cridaron le tristi ancelle che un fiume intero presto ne nacque, e smisero solo le meste sorelle quando a Nettuno ne giunsero l’acque. E’ questo il fiume Eridano chiamato, Il Po che trascorre d’Italia la landa; Sarmato sfiora, né mai agitato anche se il ciel troppa pioggia ci manda. E le Eliadi, con Zeus adirate, racconta il mito, ripete il poeta, in candidi pioppi furon trasformate; ancora oggi, quando sera è cheta
  • 5. / ne stillan dai tronchi lagrime d’ambra, perché nessun di Fetonte si scordi, giovine incauto, pallida ombra, scorre il Gran Fiume, ne porta i ricordi. Maia Landa ubertosa la sponda padana, che a meridione del Fiume si stende, fin dove incontra la landa lontana il monte Appennino ch’al cielo s’appende. Nera è la terra che da frutti e fiori, ma non da sola ne genera l’erba: l’uomo coltiva i semi datori, coglie la bacca che più non è acerba. Soleva un tempo, tramanda memoria, della Dea Terra, Maia la bella, l’uomo dei campi onorare la gloria per ingraziarsi di sorte la stella. Maia usava la terra curare dall’alto d’Olimpo, o dal ciel per qualcuno e si credeva la diva guidare le Pleiadi stelle compagne a Nettuno. “Oh madre terra” diceva l’umano “la mia fatica e l’opera premia, con i miei campi su dammi una mano, per il raccolto e per la vendemmia. provvedi tu, oh Dea savia e buona, alla mia landa che scorre l’aratro, anche se il cielo tuona e risuona tu che proteggi da ogni disastro”; così diceano le rustiche genti, e la dea Maia per ben onorare,
  • 6. / (cosa che scordano gli imprevidenti) un maialin solean sacrificare. Il sacro rito avveniva di maggio (Maius chiamato presso i latini: sino nel nome alla dea v’è omaggio!) Si fean sacerdoti i contadini. Arsa la pira, l’altare lavato ecco il porcello già vien immolato: a fine del mese venia scorticato; col sangue suino ben sgocciolato seguivano, sacre, le libagioni, con carni pregiate dell’animale, e si facean pure le processioni, la Buona Dea per ringraziare. D’altronde si pensi al vocabol “maiale”: non contien forse di “Maia” memoria? Gli antichi un canto ci mandan corale: è per la Diva il suo nome, la gloria. E quando di Maggio principia la fine, Sarmato fa ancora oggi gran festa, col sacro animal libagion sopraffine segno ch’ancor la memoria è desta. Cicno Fin dove il guardo d’umano si perde quando l’inverno gelato imperversa, giunge lontano, per l’aria più tersa, a un grande monte che vasto si erge. Solo da lungi si puote ammirare; v’è chi a salirlo in passato ha provato ma il dio che lo vive l’ha fulminato: non osi l’umano mai un divo sfidare.
  • 7. / L’olimpica roccia sacrale inviolata è la dimora dei grandi divini che ci risguardano dagli Appennini e che tutelan la terra adorata. Penice grande e potente bastione, sempre le nubi t’avvolgon la cima nei tempi d’oggi ed in quelli di prima, da te principia il ridente Tidone. Racconta il mito che a’piè di quel monte viveva un principe Cicno chiamato che ancora l’Amor non aveva incontrato, come il Tidone ricorda alla fonte che io una volta, bambino, ho veduto. Vidi vicino a quella sorgente un’iscrizione che incognita gente ha certamente in passato voluto: § A Cicno il giovane e tenero amante che per l’acque pure ora va e sempre sonda, lento disegna la placida onda e giunge fino a Eridano distante. § Dicon gli antichi che il giovane bello che non aveva ancora moglie presa, giunse alla fonte, più pura, distesa vicino al Penice, de’ Divi castello. Si specchiò Cicno dentro alla fontana e vide il volto d’un bel giovinetto e rifletteva il sembiante, perfetto, che non sembrava d’origine umana. Tanto era bello quel giovane viso che non toglieva da Cicno lo sguardo; e lo fissava, e pareva, maliardo, mandare indietro, lo specchio, un sorriso. Ma già tentava l’intrepido, audace
  • 8. / il ninfo afferrare, e stringer ma presto sfugge dall’acqua l’immagine, e mesto se ne ritrae il volto, bello e fugace. Piange ora Cicno, da Eros colpito, che di quel volto era già innamorato: tanto era bello il figuro, l’amato! Questo ci dice il cantico, il mito. Oh tu, beltade, che in principio appari nei visi fulgidi dei ragazzetti, per qualche rapido tempo tu metti in quei bei volti le gemme dei mari Fuggon quegl’anni dal giovane cuore che è talvolta da Amore segnato, di sofferenze è lo spirto screziato, e segue, certo, a quei tempi, il dolore. Ma già principia l’etade più stanca, in cui la vita va contro alla Morte che giace certa ed assisa alla porte e già la pelle si fa dura e bianca Il giovine Cicno nel cuore degli anni, ora riprova a guardare nel fonte rivede tosto la giovine fronte e prova d’Amore tutti gli affanni. Ancora tenta, l’immagin sottile Cicno (oh narciso!) di accarezzare ma si corrompe come onda del mare l’acqua che scorre di dentro il bacile. Ma Eros che non si trovava lontano, ode del giovin il pianto accorato ed invia bella una Ninfa nel prato a dar ristoro a quell’animo umano. Ecco la parte più bella del mito: terge la diva le lacrime, il pianto;
  • 9. / chè ne era il giovane afflitto tanto (come è del Tidon alla fonte scolpito) Cicno negli occhi la ninfa ora guarda e le rivolge una sola preghiera: “fa, diva, che io possa in questa sera vedere l’amato: che il mio amore arda per sempre assieme a quel cuore fugace; da tal bellezza, quegli occhi diamante, ora si trova il mio spirto distante: dammi tu, ninfa, un poco di pace”. La dolce ninfa da Eros mandata, così il volere de’Dei si compiva, già si avvicina alla fonte, alla riva e dentro immerge la mano fatata. E pronunciate sacrate parole si volge a Cicno, che guarda vicino, e ne prepara il suo eterno destino, che fu legato, per sempre, da Amore. “Giovine amante – diceva la diva – Sei tu sicuro del tuo volere?” Cicno, già certo delle sue parole, si fa vicino alla ninfa, alla ripa. Solo lo sfiora con mano la Dea, ed ecco Cicno principia a mutare in un gran cigno di bianco colore, che dentro al fonte di già s’immergea. § Ora va il cigno per sempre accoppiato, al suo sembiante, portato dall’onda, scorre pel fiume e più non affonda nell’acque chete la mano, ma, alato, plana sul piano del fiume Tidone,
  • 10. / il fiume che lento nel Pado si pone che butta l’acqua del Penice monte, là dove giace quell’antico fonte, che io già vidi. Ma solo talvolta quando l’estate si trova lontana, giungono l’acque della fiumana, sino alla foce nell’ansa di molta. Sono i momenti dell’anno solare, in cui il Gran Cigno si vede danzare, nel Po, il fiume che getta le onde, sino nell’Adrio, il lontano mare. Oh Cigno giovane, tenero, amante che per l’acque pure ora va, e sempre sonda, lenta racconta la placida onda di quell’amore, nel tempo distante. Le Origini § Quo ex populo Sarmatum originem traxit. Hic perenniter posterorum memoriae traditur § Questo tramanda la targa lapidale posta vicina al palagio comunale accanto al castello di Sarmato bello, manda memoria da tempo ancestrale. Tempo in cui il borgo ancora non c’era, ma v’era sol la feconda pianura, dal Fiume solcata, agl’uomini ignota né si faceva di terra terra coltura. Solo le fiere scorrevan pel piano vivendo libere sul suolo padano, bestie feroci, che correan veloci fin dove il fiume si perde, lontano.
  • 11. / Da terre remote, alla fertile sponda, venner su Fiume portate dall’onda nobili genti, provate da stenti, ad abitare la terra feconda. di questi popol’ di militi esperti l’origine canto, se pur sono incerti quegli scrittori, e gl’antichi cantori, ch’ormai la polvere ha ricoperti. Erodoto dice, ed io gli do fede, seppur v’è altri che al conto non crede, ch’Amazzoni forti, in balia delle sorti del mar Adriatico solcaro la sede Erano state dei Greci battute, e sulla flotta, legate, imbarcate; erano fiere, pugnaci, guerriere, come ancor oggi sono ricordate. Ne narra il mito, ed io ne do conto, che dopo la pugna del Termidonto, l’Amazzoni forti, fecero morti sulle navi i greci, quand’era il tramonto. Ma non sapendo la nave guidare, (non eran avvezze pel pelago andare) che alla deriva, per Adrio, saliva: si risolvevano, a caso, a remare. Fecer naufragio le belle sorelle, che non sapevan seguire le stelle, in una landa, bagnata dall’onda, da genti abitate con chiara la pelle. Era la regio de’ indomiti Sciti, grandi guerrieri, de’ greci nemici, antiche genti, assai distanti, ma colle Amazzoni furono miti.
  • 12. / Preser le donne dalle navi scese forti cavalli, in groppa al garrese, ed a raziare, lontane dal mare, la scita terra voller principiare. Colte da’ Sciti, che erano astuti, e che da quelle donne eran incuriositi, furon graziate, e vive lasciate, ché il bianco seno avean sotto i vestiti. Un gruppo di giovin, dgli Sciti figli, che i volti avevano ancora vermigli alle donne si uniro, piacquero loro, ed accettarono mille perigli. Le forti Amazzoni non eran votate, al focolare ad esser legate, ed ai mariti, forti ma miti, dissero queste parole alate: “Oh grandi uomini di scita landa a noi non piace che l’uomo comanda si vive assieme, chiariamo per bene che voi, sicur, in casa non ci manda! Lasciate la terra dei vostri padri, prendete tutto, i più bei puledri, con noi venite, in terre incognìte, e date un ultimo bacio alle madri” Tosto le seguono i giovani sciti, in nuova landa, degl’avi scordati, regioni rudi, Meotìdi Paludi, sol dalle fiere e da’ fiori abitati. Molto viaggiarono, i giovani amanti e a settentrione giungevan, distanti fin dove il sole, del freddo si duole, come ne dicon poeti sognanti. E dall’unione dei Sciti indomiti
  • 13. / colle guerriere che non sono mai miti, nacquero figli, ignari di perigli, che Sarmati forti furon chiamati. Un popol di guerrieri si generò, che delle madri la forza portò sino alla morte, tanto fu forte, in volto sempre il nemico guardò. Sarmate genti, dai Greci temute, sempre da tutti furon combattute. In quella landa, che uom non comanda in quelle terre “Sarmazia” nomate, fur dai Latini una volta scacciate. Ma presto lasciaron le lande desolate, dal sol ignorate, che giaccion gelate, che sol dalla neve non son dimenticate. Sarmo Due secoli dopo, il mito dice quel popol d’arme, ch’è ignaro di pace d’amazzone grembo, generò un bimbo, che aveva nel corpo la forza d’Ajace. Quel giovane bello, Sarmo chiamato, solo da Omusio e Campi è ricordato, cresceva sano, e né pareva umano, tanto invincibil sarebbe diventato. Sarmo che cresci veloce e sereno, non sai ancor tu che grande destino, la tua mente ancor non lo sente, di tua sorte sei ignaro, oh divino. Figlio di dee e di uomini invitti per le tue vene va il sangue de’Sciti, t’assegna La Moria in questa storia, la più bella parte di tutti i Miti.
  • 14. / Quando maggior fosti diventato, come se dal destino tu fossi vocato, lasciasti tua terra, partisti per guerra, e riprendesti il mare solcato dalle tue madri, le Amazzoni fiere, il grande golfo Adriatico chiamato. Andava la nave, gonfie le vele, avevi pur delle donne portato l’Italica sponda per colonizzare, andasti per ore e giorni pel mare, fino a che Sorte avversa ti colse, e ti spinse quasi persino a morire. Memore Moira delle madri antiche, facesti naufragio su sponde nemiche, da’ Libi abitate, da’ divi scordate, genti lontane dal Nilo partite. Con i tuoi fedeli ed i savi compagni, pria andasti in terra che il mare non bagni, ma piena di bestie colonia trovasti. come nel più terribile dei sogni. Mostri che fin a’Dei mettean paura che escon dai monti quando la sera è scura, cani d’Inferno, dal sonno eterno, e che conducon a morte sicura. Un terribile mostro, con sette teste, Sarmo – oh coraggio! – conciasti per feste, la lama sfoggiata, la chioma mutilata, ed un gran fuoco, a riparo, accendeste. Il giorno seguente, rinata la luce, tutti seguiron te, indomito duce, che conducevi, e i compagni salvavi da sicur destino di morte truce. Sarmo e Didone
  • 15. / Era la Libia da donna regnata bella regina, Didone nomata, nobile traccia, bianche le braccia, che presto a te si sarebbe legata. Guidati i compagni ad una città, Didone t’accolse, stupenda beltà. Giovine seno pur non sereno, Amor conoscesti, o Sarmo, colà. Avea Didone il cuor infranto, nel dolor immerso per il rimpianto d’Enea il ricordo, l’eroe d’amor sordo, che tristemente la dannava al pianto. L’aveva lasciata Enea il troiano, su di una rupe di Libia, lontano, mentre per mare, doveva tornare, tanto soffrì, tanto le donne amàno. Voleva lasciare Didone la vita, ma la sua Sorte non le fu nemica, chè quando Sarmo le giunse alle porte l’anima sua ne fu ringiovanita. Tanto si piacquero i giovani amanti, che pur venivano da terre distanti, che si sposaro pe’ amor, fatto raro, e furono balli di giostre e di canti. Ma un gran Destino Sarmo attendeva che prendere il pelago gli imponeva. Allora prese con se la sua sposa e sotto il ciel terso la Notte li amava. Riprese il corso il destino di Sarmo, come racconta la lapide in marmo, destino baciato, d’amor appagato che io ricordo con il mio carmo.
  • 16. / Scorse la barca di Sarmo pel mare, guidata di notte e nel giorno solare, il gran condottiero intrepido e fiero il golfo Adriatico prese a salpare. La fondazione di Sarmato Fu poi sospinta la nave lontano, sino alla foce del fiume Eridano verso la fonte, nell’Alpino monte saliva il corso del fiume padano. Oh Po che tagli la grande pianura, te ne vai lento nella notte scura, doni al contado, che inondi di rado, frutti e verdura che cresce e matura. Solo talvolta le tue fauste sponde l’acqua trapassa con lente onde, fluido che da vita alla terra amica, il limo e la sabbia pel piano diffonde. Sarmo, Didone, le donne e i compagni scorrean la ripa che tu, Pado, bagni, il giorno passava, la stella brillava, finché cessarono i venti benigni. Ed arrivaste a una terra maestosa, ch’al pie’d’Apennino giace distesa, la landa aperta pareva deserta fin dove sguardo d’umano si posa. Ma racconta Omusio, quel grande oratore, che quelle sponde aveano un signore Olubro chiamato, dai suoi riverito, del popol dei Galli gran protettore. Quei barbari che ne vivevan la riva, anche il buon Campi ce lo ricordava, erano stati ai Liguri alleati, e questo ancor lor costume segnava.
  • 17. / Con tutti quante le donne e i soldati Sarmo e Didon da lontano arrivati, prendon infin il lor giusto posto sopra d'un poggio, ben riparati; e già si danno capanne ad alzare, per ripararsi da’ terribil fiere, che sono infauste, né mai esauste l’umana spoglia di terrorizzare: Si’ ebbe l’origine Sarmato bello, nel tempo in cui ancor non v’era il castello, da Sarmo ebbe il nome il nuovo villagio, come sul palagio riporta il cesello. Ma quando ad Olubro la notizia giunse, de’ nuove genti venute da oriente, ferrò i cavalli per scorrer le valli, ed i suoi soldati, da’ bei corpi, unse. Preparò Sarmo il suo esercito forte che non avea mai timor della morte: “Deh! Sarmati duri, gente d’onori noi non avrem inimica la Sorte. Il nostro destino ci chiama a battaglia, montate i cavalli, indossate la maglia. Proteggiam Sarmato, appena fondato, ché la mia Stella giammai non si sbaglia” Olubro da un lato, Sarmo di contro ecco già schieran l’esercito pronto e dato il segno nel modo più degno tosto si avviano al feroce scontro. Avvenne quella battaglia fatale vicino a dov’oggi v ’è un casolare chiamato “Isabella” da “Insula belli” dove più cadde, di sangue, lo strale.
  • 18. / La morte di Didone Dato che i Galli perdevan la pugna e già ripiegavan colla loro insegna, l’Olubro presto ed in modo inonesto decise questo, il mito ci insegna: mandò al villaggio de’ sarmate genti alcuni uomini assai fraudolenti tra cui v’era Cropio, storpio ad un occhio: preser le donne in pochi momenti. E poi condottele al campo di guerra da’ parte dei Galli, che avevan la terra, preser l’amata da Sarmo sposata Didone povera, inerme: eri bella, e minacciaro con spada la sposa. Sarmo che pur non voleva la resa, diede il segnale al fedel militare perché Didone non venisse lesa. L’arme deposer la sarmate genti, spadoni a terra, smontati gli armenti, le mogli dare il nemico pregaro: non potean di donna soffrir i lamenti. Ma ecco che fece l’Olubride cane, di tutti gli atti, di certo il più infame, lasciava Didone andar dal suo amore, ma la colpiva, da tergo, con strale. Ferita la schiena, la giovin regina fu dal suo Sarmo presa vicina, ne stringe le braccia, gli bacia la faccia: ma gia’ si fea la sua vita piccina. Codeste fur le sue estreme parole: “Oh tu che fosti di mia vita amore tanto ti ho amato, mio adorato: vendica, Sarmo! Proteggi la prole”
  • 19. / Didone giace ora morta nel prato, tra le forti braccia del suo uomo amato. Che gia’ corre il fretta, quasi saetta ad ammazzare l’Olubro, l’odiato. Riarde la pugna e piegano i Galli, che già si ritiran per le loro valli, Il milite Sarmo scortica Olubro, ne strazia il corpo, ne stralcia i capelli. Ed in memoria di morta Didone, scorre un fiume or chiamato Tidone, placan la sete, l’acque sue chete, come ricorda l’antica canzone: § Là fu sepolta la nobile sposa, da Sarmo, il suo amato, assieme una rosa con il dolore, nel suo umano cuore giace nel greto, ogni cosa riposa. § § Questa è l’origine dei sarmatesi, ch’hanno il più bello di tutti i paesi, sarmate genti, dal cuor già le senti, dall’Olubro figlio mai più furo offesi. § Dal popolo Sarmato, Origine tratto, A memoria dei posteri, a oblivio fu ratto, con questa scritta nel marmo intatto, Sia questa pietra a ricordo del fatto. § Questo tramanda la targa lapidale Posta vicin al palagio comunale vicino al castello di Sarmato bello, manda memoria da tempo ancestrale. I segni della storia
  • 20. / I Liguri e gli Etruschi I Alle avventure di Sarmo, l’audace, seguiron secoli ed anni di pace, né dice il poeta che tesse la seta chi tenea Sarmato e niuno ci vieta di ricostrurre quell’antica storia poiché abbiam segni che recan memoria, reperti che parlano di quel passato ch’oggi da ognuno par dimenticato. Delle più antiche popolazioni noi non abbiamo ché alcune menzioni; solo in sugli appennini, sappiamo, viveano i Liguri, popolo strano pronto ad andare per mare per guerra, ma non sapea coltivare la terra. Fu questo il popol, ritengono alcuni, che diede il nome al torrente Tidone, nome che per lor voleva dire, “fiume che va solo pe’ alcune ore”: e chi ben conosce la nostra fiumana sa che del torrente non ha che la fama, dato che non per ore ma per mesi resta senz’acque, e sono offesi i suoi fondali dai raggi del sole che secca e sterpa l’erba, che duole quasi bruciata nell’estate calda, mentre l’agreste cicala rimanda, un cantico terreo di morte e, stanco, giace il limo nel fondale bianco.
  • 21. / Sappiamo pure da qualche scrittore che del passato s’è fatto cantore che anche gli Etruschi abitaron la terra che a Piacenza, attorno, si serra. Ma ancor incerta principia memoria né v’è più chiara la voce di Storia, abbiamo antico insicur testimone che fuor dal dubbio il racconto non pone. Il tempo dei Romani Se alle origin delle antiche genti, tu che, curioso, il mio racconto senti vuoi risalire come ad una fonte, o attraversare sopra d’un ponte gl’anni lontani dal secolo nostro, corra tua mente fino a quel bosco che tra il Tidone ed il fiume Po giace, dove traluce sull’acque la foce. Pochi anni fa’, lì, la feconda terra, ci restituiva una preziosa armilla e ancor monete, fermagli e gioielli di color d’ambra e di pietre, assai belli. Avvenne il fortuito ritrovamento, di cui fu tutto il paese contento, vicino al paesino chiamato Veratto. E venne alla luce portato intatto! Ma non fu l’unica cosa trovata: pur d’una casa romana istoriata si reperiva il bel fondamento! E ancor denari, di nobile argento; aveano i soldi codesta iscrizione: “al padre Cesare, l’imperatore”,
  • 22. / dal che s’evinser l’origin latine di quelle genti a Scottine vicine. Erano genti votate al contado in quelle terre solcate dal Pado, vivean cascine, “villae” appellate, e certo indigenti non erano state. Erano solite romane genti di terra vasta far appezzamenti, e si trova ancora la traccia di questo, pel centuriale e palese resto. Che ben evidente si legge nel suolo se dall’alto guardi, come fossi in volo, la parte di landa che stà tra il torrente Tidone ed il borgo di sarmata gente. Più non abbiam di que’ tempi i racconti, solo quei resti di latine genti, giunte da Roma, l’Urbe lontana a conquistare la terra padana. Sponda che ai Galli era stata strappata secoli addietro da gente sarmàta che ora viveva, in pace sancita, con il roman dividendo la vita. La via Postumia, or Emilia chiamata, fu dai romani ingegner progettata, e proprio vicino a quel luogo passava dove oggi ancora incontra la strada che dal Borgo Novo dritta proviene e al centro di Sarmato, rapida, viene. V’era in quel luogo già ai tempi romani un gran movimento di merci e di umani. In quel posto sorge un’antica locanda, dove le genti da lungi e da randa, solean fermarsi per prender riposo
  • 23. / e per mangiare un boccone gustoso. Oggi si trova al quadrivio vicino, una casetta chiamata “casino”, che di sicur ha un’origin latina ed alla Bettola sorge vicina. Era in origin, quel piccol sacello, che è decorato da antico cesello, una stazione di posta romana, che da Piacenza non era lontana che tredici miglia, la giusta distanza per dare ai cavalli riparo, in stanza posta, protetta da archi gemelli, che ancora oggi si leggono, belli. Qualche chilometro andando ad oriente, si giunge al nostro caro torrente là dove giace sepolta la sposa, di Sarmo, il forte, assieme alla rosa. Proprio nel punto che pare più aperto aveano i latini, popolo esperto, un grande ponte ad arcate elevato, ma il suo segn giace ora certo scordato. E a protezione del Ponte Tidone, un picciol villaggio il romano pone, di mura cintato da mastio vegliato che ancora oggi “castello” è nomato. E lungo il Po in quei tempi lontani, avean costrutto i savi romani un grande porto per attraversare del Pado la sponda, e per andare sino alla foce del fiume Eridano: là dove perde le sue acque, nel limo, il grande fiume che scorre pel piano e taglia lento il suolo padano.
  • 24. / Sorgea quel porto in un luogo chiamato “Bosco di Litta”, ancor oggi locato vicino all’ansa del fiume maestoso che scorre l’onde e va, senza riposo. “Litta” che poi “ghiaia” e “sasso” vuol dire (solan così pietrea terra chiamare), ché sorge il porto insu giarosa sponda ma lentamente, per questo, s’affonda. S’affonda nella memoria e nel tempo questo racconto ma qualche frammento pur sopravvive a quegli anni perduti che da genti d’oggi non son conosciuti. E corre nel cuore de’ Sarmatesi, che hanno il più bello di tutti i paesi, di sangue romano pure una stilla: de’ latine genti la Sorte ci brilla! Poiché dei segni ne recan memoria, abbiam raccolto il canto, la storia. Miti che parlano di quel passato che col mio racconto ho, forse, salvato. Racconti dei secoli di mezzo Il santuario della Vergine Terra mariana quella sarmatese, coi suoi oratori e colle sue chiese che nel passato son state innalzate ed alla Santa Maria dedicate. Ancora oggi la plebana nostra insul frontone una scritta si mostra assumpta est in coelum maria,
  • 25. / che con il tempo non se ne andra’ via. Non credo antica la scritta devota che giace sopra la nuova facciata che fu posata, come una cortina, sessant’anni orsono su quella di prima. Seppur non resti che l’abside antico di questa chiesa sontuosa, ti dico ch’avea in passato un interno maestoso tutto istoriato, in oro prezioso. Proprio nel mezzo del milleottocento, dice in archivio un chiar documento, si volea rifare da nuovo il sagrato ché ormai dal tempo era troppo segnato. Ma quando il marmo si prese ad alzare per la piazzetta da nuovo sòlare, ecco che accadde: con grande sorpresa si trovò vicino alla nostra chiesa un gran sepolcro d’antica fattura, che, dice la nostra fonte sicura, aveva almeno mill’anni passato sotto alla terra ben tutelato. Presto si sparse pel borgo la voce; Sarmato accorse, l’archivio dice, tutto all’intorno alla fossa scavata dove la tomba era stata trovata. Giaceva sopra il sepolcro una scritta che era incisa ma molto fitta, ma si leggeva ben chiaro un cognome: Burnengus iacet hic. Fu il sicur nome d’un combattente o d’un principe antico che di Liutprando era stato un amico; de’ Longobardi fu nobile figlio e ora posava in quel tetro giaciglio.
  • 26. / Pier Maria Campi dentr’alla sua Historia parla di un principe che ebbe la gloria di comandare l’esercito forte de’ Longobardi e sfuggì la morte mentre ardeva la pugna assai dura, e già calava la notte più scura, questo signore, Burnengo chiamato, riuscì a salvare un giovin soldato che poi non era che il giovin Liutprando, il figlio del re, che poi il tempo andando sovran de’‘Bardi sarie diventato, re e cristiano molto rinomato. Per ringraziare la felice sorte che gli aveva evitato la morte, Burnengo fece alla Vergine il voto di dedicarle un luogo devoto. E fu così che a guerra finita, il longobardo impegnò la sua vita a costruire una chiesa vicina a quella strada chiamata Spadina. Sappiamo pure la sicura data in cui la chiesa venne elevata: venticinqu’anni dopo il Settecento. Dopo di ciò fu il paese contento della sua chiesa a Maria dedicata, a quella Vergine tanto amata che si ricorda da sempre in quel posto proprio nel cuore del mese d’agosto. E il fondatore, così fu voluto, sotto al sagrato fu poscia lasciato. E ancor riposa la sua antica spoglia, vicina alla chiesa, sotto la soglia.
  • 27. / Il castello di Sarmato Il gran castello che s’erge imponente nel cor di Sarmato, grande gioiello, fu innalzato da antica gente con il suo mastio e con il suo rivello. Oh quanta storia han veduto passare i tuoi muri antichi! E quanti nemici sotto tuo arco han dovuto lottare, eppure tu ora nulla ne dici. Giaci silente come una rupe con i tuoi graffi e le tue merlature che in qualche tratto ora sono dirute: hai grandi antri e porte oscure. Coi tuoi segreti, che serbi nascosti dentro ai forzieri di fabbrica antica, dice leggenda: hai diamanti riposti e ben riparati da mano nemica. Storia e racconto si fondon nel tempo che ora per sempre è perduto, e l'insegna porta l’antico tuo monumento che il bel paese di Sarmato regna. Un primo castello, ma meno grandioso di quello che oggi si erge sul piano, fu costruito nel tempo insidioso (che a noi sta ottocent’anni lontano) in cui Federico il Barbarossa voleva punire l'Italia ribelle ed i Comuni portare alla fossa; ma il piacentin, di sicur non imbelle, decise di fare una tripla cortina contro Pavia, la città fedele all’imperador già nel tempo di prima,
  • 28. / a protezion di Piacenza ribelle. Tre bei castelli fur così costruiti: a Borgonovo una grande rocca; ebbe Castello dei muri torniti. E al fin si erse la sarmata roccia Ch’ora è di certo il castello più bello che svetta alto sul piano padano; di mura si cinse, come un anello, ed i pagani da randa arrivaro. Eppure quell’antiquato maniero ebbe una vita assai travagliata; se vuoi saperla vada il tuo pensiero verso la fine del milleduecento quando Ubertino, il terribile Lando, ne diroccava le mura potenti e pur al Taglio il nemico mandando nel pozzo povere ed umili genti che nel castello s’eran rifugiate. Dicono ancora taluni racconti, che quelle voci non giaccion scordate ché ancora a volte se n’odon lamenti. Pianti di strepiti, urla di morte del tempo antico in cui v’era la guerra e non piegaro benigne le sorti che insanguinavan la povera terra. In quegli anni nemici eran pure che da Pavia venivano spesso per rovinare il raccolto e raziare uomini case e pure le messi; e per proteggere da quegli attacchi genti e contado, un nuovo mastio si prese a fare, e pure una rocca, per tutelarsi da tutto quell’astio.
  • 29. / Verso il principio del milletrecento certo teneva il nuovo castello, come ci dice il Campi in commento, la nobile casa dei Pelestello che era pur Pallastrelli chiamata, una famiglia di buona nomea la piacentina e nobil casata Sarmato e pure le terre avea. Gherardo, il conte del grande maniero aveva pure dei servi di certo: in quella piccola via risiedero “vicol badile” ch'ha il nome e erte crescon le mura che oggi lì sono. Quel tal Gherardo, ritengono alcuni aveva pure un suo soprannomo ch’era Gottardo, dicon taluni. E di qui principia quella novella che lega Sarmato al pellegrino San Rocco, certo la storia più bella che si racconta ad ogni bambino che nel paese è nato e cresciuto all’ombra di quell’antico castello, che fu nei secoli molto temuto e che riposa ancora assai bello nel cor di Sarmato e s'erge imponente come dorato e prezioso gioiello, così voluto da antica gente con il suo mastio e con il suo rivello. Oh quanta storia han veduto passare I tuoi muri antichi! E quanti nemici sotto il tuo arco han dovuto lottare per le tue torri, ma nulla tu dici.
  • 30. / San Rocco Tanti scrittori hanno già raccontato, il bel racconto di Rocco, il francese, che da Mompolieri raggiunse il paese: un grande dono per Sarmato è stato. Pur non son certe le più antiche fonti, sull’anno preciso della sua venuta. Si sa che la storia è talvolta muta e li principiano i più bei racconti che ci raccontan di un tempo lontano in cui a Sarmato c’era la peste che imperversava per la landa agreste: feriva, il morbo, e colpiva l’umano. Rocco era un giovin cristiano devoto un pellegrino di nobil famiglia che avea raggiunto, tirando la briglia, Piacenza, indove era stato colpito da quel terribile morbo fatale che nel bel mezzo del milletrecento faceva a tutti terrore e spavento portando al popolo sorte mortale. Racconta il mito che il pellegrino lasciasse a piedi città di Piacenza per non diffondere la pestilenza e si ritirasse in un bosco, vicino a Sarmato dietro a quel grande castello che ancora oggi si staglia nel cielo con la sua torre e con il maniero e che è del paese il prezioso gioiello. Rocco si fece un precario riparo, sotto alle fronde di un gran cornaiolo e si distese un poco sul suolo
  • 31. / in quel pacifico bosco non rado. Il giorno seguente il giovin piagato, poco lontano da quella sua sua grotta per alleviar il dolor con cui lotta invoca Iddio: è molto malato. Subito Dio, che ne sente la prece, sgorga dalla nuda roccia una fonte con cui San Rocco rinfresca la fronte; ed un lavacro alla gamba si fece. E ritornato alla sua grotta verde ecco che vede un piccolo cane che aveva in bocca un pezzo di pane: or glielo porge, e, nel bosco, si perde. Questo prodigio, segnale divino, si ripeteva nei giorni seguenti e ristorava di Rocco i lamenti ed il dolor si facea men vicino. Quel cagnolino che visse cent’anni, Reste chiamato secondo il racconto, portava il pane di sua sola sponte e Rocco salvava un po’ dagli affanni. Reste rubava il vitale panino di sotto la mensa del nobil Gottardo che un giorno lo segue, tenendol codardo mangiar di nascosto, ma al pellegrino giunge nel bosco; e Rocco scoperto lo accoglie e lo cura di dentro al castello ch’era Gottardo un de’ Pallastrello, e nobile d’animo era di certo. Riconosciuto il santo francese (la di lui fama era già ben diffusa) pure Gottardo i suoi beni ricusa e si fè pellegrino, lasciando il paese.
  • 32. / I due compagni ora vanno lontani, e v’è chi dice che il nobil Gottardo fondò sul passo di San Gottardo, un monastero, ritiro d’umani. I gran poeti hanno di già cantato, la bella storia di quel pellegrino che si racconta ad ogni bambino che nel paese di Sarmato è nato. Ad divum Rochum sarmaticum Proprio nel cuor del millecinquecento Il Conte Federico Scotti scrisse per Rocco un carmen latino e disse tutta la storia e l’antico racconto. Di questa canzone il Campi ci parla, nella sua Historia dell’urbe Piacenza che giace da Sarmato a poca distanza, ma solo in parte io posso citarla: § Litibus diris licet implicatum Dive Castellum Roche Pessulana Quem dedit nobis regio fecunda Numinis aura: Sarmatum multa prece supplicantis Rustici victus tamen ex olympo Respicis summo: tibi nec dicatas Despicis aras. Caereo septas, radios iuvare Solis ut plebes videatur ipsa Velle, tam crebro: varioq. fulvi Vase metalli: Hoc memor te olim iacuisse campo
  • 33. / De via fessum tibi et indigenti Ore Correptam Cererem attulisse Crebra Catellum, Quo Palaestellum domus obtinebat Tempore hanc sedem domui relictam Post meae, ut tanquam decus ignis esset Omne parentum, Sicca non culpa milicae, at eorum, Candido mutant nigra qui colore: Alba qui rursus nigra dant videri: Iuraq; Solvunt. § Et pyrum cuius recubas sub umbra Ferre das florem, pyra et ipsa eadem Nocte, rem produnt monimenta qualem Rara priorum: Quae pyra haud paucos superant in annos Praesidi contra validi periculum: Silvem quando minitatur ardor Sirius aegris. Donec (indignum facinus) propinqui Caede funestat decus hoc propinquus: Et sacras raptu vigilantis ante Virginis aras. Vota nec reddit mulier periclo Functa candentis positu sacelli: Quae mora huic spontam prohibe parētē Solvere pallam. Haec tuam mentem Roche reddiderunt Sarmato avversam scio, et oppidanis Huius est autem pyrus arefacta Testis abundans. §
  • 34. / [Di questa bella ed antica canzone, ora riporto una mia traduzione (La mia Maestra di greco e latino mi ha dato aiuto, come ad un bambino). Ma questa docente, che ho sempre adorato, il suo nome non vuol che sia ricordato: quanto ti devo, mia cara Polinna, che ai mei pensieri sei sempre vicina.] § Pur se implicato in dispute funeste il castello di Sarmato, o San Rocco dall'alto ciel tu guardi, tu a noi dato da Pessulana terra con soffio favorevole del dio, da molta prece vinto del villano che a te suppliche volge; né disdegni i dedicati altari fitti di ceri, si ch'ai raggi stessi de sol sembra che il popolo in aiuto correre voglia, con si ornati vasi di fulvo oro preziosi. Ricorda che qui un tempo tu giacesti e a te, povero e stanco pellegrino portò, afferrato con la bocca, il pane un cagnolino spesso, nel tempo in cui questa sede reggeva famiglia Pallastrelli, poi lasciata alla famiglia mia, che teda fosse tutto l'onor dei padri; non fu reo Seccamelica, ma quelli che con bianco color mutano il nero e fanno il bianco poi nero apparire sacri patti rompendo.
  • 35. / Ma per questo delitto il Creatore di grandine e di flutti aspra tempesta invia alla terra, devastando i solchi per i campi fecondi. E fai fiorire il pero alla cui ombra riposi, e pere in quella notte stessa producono ciò che ben raramente gli antenati ricordano; e queste pere per non pochi anni abbondano, di valido presidio se pericol di peste agli ammalati Sirio ardente minaccia. Finche (orrore!) con strage di parente un parente profana il luogo degno e rapisce una vergine che veglia davanti ai sacri altari; né, sofferto il pericolo, la donna i voti sciolse, un candido sacello ponendo; vieta tale indugio all'avo dare il promesso manto. O Rocco, so che questo rese avverso alla nostra citta l'animo tuo; lo testimonia chiaramente il pero di colpo disseccato. Tuttavia non odiare Federico in nulla, il riconosci, men devoto al tuo santo voler, né mai rivolto ad osar cose atroci, ignaro di pensieri fraudolenti ed assai poco assiduo di quei luoghi mentre s'accinge, lungi da Piacenza, d'arti belle a dotarsi;
  • 36. / Cosi che possa ritornare ai suoi paterni lidi di saggezza pieno, trasportando una nave sul vicino fiume, di merci carca. Ma ti che puoi, la pestilenza storna da me per primo, e poi da quanti nutro con amor come figli, e poi dai campi, da' buoi, maiali e piante; pur s'io creda che tu, ben ricordando che il tuo maestro Cristo ai suoi nemici perdonò, anche i malvagi vuoi guarire con clima salutare. O Rocco, il cuore anteponi al sacello che, iniziato, la scabra rupe tiene al di sotto delineando un arco con cuspidi gemelle in nuda ghiaia mal consolidato; anche se quivi il verdeggiar del prato aperto il guardo appaghi, e pur del bosco fino al fiume regale. Ch'io giunga pure dai Britanni biondi o dagli Sciti, che seco sui carri traggono i figli, o con piu strano orrore da tue genti ospitali, Caucaso; sempre in fondo alla mia mente te, Rocco, meco condurro; d'agosto al mezzo, d'anno in anno, le tue gesta saranno celebrate; allontana dal popolo indigente le antiche sorti, ed allo zio, che è pronto, lascia che possa governar le genti in autentica pace; borsa, bastone e pur berretto porti
  • 37. / come i compagni tuoi diretti a Roma; le membra esposte ad un funesto morbo, da pene afflitte, aiuti; di nuovo mostri alla coscia sinistra la ferita, che una lancetta incide nella nostra citta; poi ritornato ai tuoi paterni lidi sei prigioniero, o caro, in tetre sbarre come se per spiar tu fossi giunto da alcun riconosciuto, ai tempi iniqui della guerra crudele. Dopo molto soffrir per cinque anni, velocemente al termine condotto del tempo a te concesso (sette lustri neppur) morto riposi. La grotta di San Rocco Vi sono dei luoghi che hanno un segreto che serban nei secoli mistero grande: la piccola grotta del Santo più amato cela il volto, non troppo distante, di Rocco il divo che cura la peste. V’è in questo antro pur il cagnolino a Rocco compagno chiamato Oreste: e nel sacello sta sempre un lumino acceso da alcune mani devote. Sotto alla fronde del bel cornaiolo, riposa sempre San Rocco, seduto nel suo eterno colloquio divino. La fonte miracolosa Quando San Rocco era stanco e malato,
  • 38. / poco distante dal bosco, sua casa, aveva certo Iddio pregato: “Dio che guidi e sorreggi ogni cosa dammi ti prego un po' di ristoro, ché il dolor più non posso soffrire son tanto piagato che quasi ne mòro”. Poi udita la santa preghiera Il Signor dice al giovine Rocco: “pianta il bordone, e abbi tu fede”; ecco che basta del legno un sol tocco che l’acqua già la dura roccia fende. La chiesa di San Rocco La piccola chiesa che giace del viale al fine della cortina di tigli, è certamente il più bel memoriale del divo Rocco per i suoi figli. Sorge quel piccolo luogo di culto, dove di Rocco v’era la capanna, e v’è un dettaglio che mi piace molto: ha pure una sua antica campana; nell’aere più terso si spande la voce della fede certa in Te che guarisci, ed il secol nostro non certo zittisce del tuo devoto, oh Rocco, la prece. A san Rocco Dall’invitte cime d’Olimpo immortali a Sarmato volgi i tuoi occhi augurali, Oh Rocco, invocato di spirti rurali che salgon corali. Tu a noi dato da francese terra nel tempo in cui imperversava la guerra volgi lo sguardo che tutto rinserra
  • 39. / e già mai non erra. Né ti dispiaccion gli altari dorati, fitti di ceri, di vasi adornati i fiori e i templi a te dedicati da Elio baciati. Questo in memoria del tempo in cui Peste te cruciava nel cuor di terra agreste, e venne da te il fedel cane Oreste, destino celeste. Allor che la famiglia Palestello deteneva il palagio ed il castello poi a me giunto, quasi come anello, splendido gioiello. Bartolomeo la colpa non ebbe! Fu di color che mala madre crebbe notte e giorno confondono con nebbie ignobile febbre. Per questo delitto Iddio vendicator gli umani figli dimentichi d’amor, d’ acque tempesta e di grandine ogn’or, terribile rumor. L’ombra del pero a te sacra pianta ti diede ristoro nell’estate stanca e dava frutti e salute tanta la siepe santa. frutti che danno fortuna e abbondanza corpo protetto se morbo s’avanza, che empiva le strade di condoglianza, con macabra danza. Fino a quel giorno (terribile fatto!) in cui di vergine avvenne il ratto. con strage funesta rotto il patto ignobile atto.
  • 40. / e pur la vergine, quasi sacello, per rimaner inviolato mantello, immerge in sé un profondo coltello financo al cesello. Queste ed altre terribili cose, a Sarmato contro tua mente rese ed il pero che pria fioria si palese seccato, si stese. Ma non odiare il fedele devoto, non emulator del villico beoto, che al tuo volere ha fatto un voto ed è d’ira vuoto: Ignoto di pensieri fraudolenti e non assiduo di quelle genti che di te ignare son, tu false senti, ed improvvidenti. E di tua vita si deve rimembrar: il Cristo solo ti fece innamorar, con pura fede a Sarmato tornar, Iddio a onorar. Ma il terribile morbo da me primo storna, quindi dai servi, da bestie con corna, piaga, ferita, il corpo mal s'adorna, più non si ritorna. Tu del Padre de’divi emulo giusto, memore del tuo maestro il Cristo, senti la prece, sei tu Oh aristo, da dio ben visto. Abiti il tuo tempio, oh divo immortale, che della peste ci storni lo strale, ha il tuo altare nel tempo serale color siderale.
  • 41. / Non ancor finito giace il tuo tempio e pur già ne allontana il tristo e l’empio s’erge sul pian verde, come esempio allo sguardo ampio. Vada il mio cantico ai britanni biondi ai Caucasi, che costumi hanno immondi, agli Sciti che se ne van rubicondi negli estremi Fondi. Sempre ad agosto Sarmato ti onora, il tempio è aperto, l’ara arde allora, al calar del sol, quando l’ora è mòra, di te rimemòra. Allontana o San Rocco dal popol l’indigenza, e da’alla mia casa, d’ampia figliolanza, in alta pace tener la reggenza, a me dai udienza. L’allor, il bastone e il cagolino teco porti ovunque la peste s’assida ai porti né osi l’uman a te fare torti onori a non porti. Dal segno delle lue colpito al fianco, tu che riesci a trarre dall’Ade anco né di visitar l’Urbe fosti manco: oh Rocco Santo. Non noto a nessun t’aggiri per la terra quando tra gl’uomini scoppia la guerra. volgi lo sguardo che tutto rinserra tuo figlio afferra. Dall’invitte cime d’Olimpo immortali a Sarmato volgi i tuoi occhi augurali, da voci invocato di spirti corali, voci celestiali. §§
  • 42. / Tanti scrittori han già raccontato, il bel racconto di Rocco, il francese, che da Mompolieri raggiunse il paese: un grande dono per Sarmato è stato. Pur non son certe le più antiche fonti, sull'anno preciso della sua venuta ma si sa la storia talvolta sta muta e li principiano i più bei racconti che pur qualcuno oggigiorno ha scordato. Poiché dei segni ne recan memoria, abbiam raccolto il canto, la storia, Che ora per sempre è al futuro mandato.
  • 43. / Non intelligendo fit omnia Ω