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Frontespizio
Colophon
AMOK
Stephan Zweig
Amok
Traduzione di Emilio Picco
Adelphi eBook
TITOLO ORIGINALE:
Der Amokläufer
Quest’opera è protetta
dalla legge sul diritto d’autore
È vietata ogni duplicazione,
anche parziale, non autorizzata
Prima edizione digitale 2014
© 2004 ADELPHI EDIZIONI S.P.A. MILANO
www.adelphi.it
ISBN 978-88-459-7393-2
AMOK
Nel marzo dell’anno 1912, mentre nel porto di Napoli erano in corso
operazioni di scarico da un grosso transatlantico, si verificò uno strano
incidente, di cui i giornali riferirono in modo ampio, ma assai fantasioso.
Sebbene io fossi tra i passeggeri dell’Oceania, né a me né agli altri fu
possibile assistere allo strano fatto, dato che esso avvenne nottetempo,
durante il caricamento del carbone e lo sbarco dei colli, mentre noi, per
evitare il trambusto, eravamo tutti scesi a terra, passando poi la serata nei
caffè o nei teatri. Comunque, personalmente ritengo che alcune
supposizioni da me allora non espresse in pubblico contengano l’effettivo
chiarimento di quel caso sconcertante, e la distanza degli anni mi consenta
di usare la confidenzialità di un colloquio che precedette immediatamente il
singolare episodio.
Quando all’agenzia marittima di Calcutta cercai di prenotare un posto
sull’Oceania per tornare in Europa, l’impiegato alzò le spalle dispiaciuto.
Al momento non era in grado di assicurarmi una cabina: nell’imminenza
delle grandi piogge la nave era di norma già al completo dall’Australia,
bisognava attendere il telegramma da Singapore. Il giorno dopo, con mio
sollievo, mi comunicò che poteva ancora fissarmi un posto, certo si trattava
solo di una poco confortevole cabina sotto coperta e al centro della nave.
Ero impaziente di tornare a casa, per cui non esitai a lungo e mi feci
assegnare il posto.
L’impiegato mi aveva informato correttamente. La nave era stracarica, e
la cabina pessima: un bugigattolo angusto, rettangolare, vicino alle
macchine, illuminato solo dall’occhio tondo e opaco dell’oblò. L’aria
stagnante, ispessita, puzzava di nafta e di muffa: neanche per un attimo ci si
poteva sottrarre al ventilatore elettrico che ruotava ronzando sopra la fronte
come un pipistrello metallico impazzito. Dal basso – al pari di un uomo che
ansimando trasporti carbone senza tregua su per la medesima scala –
stantuffava e gemeva la caldaia, da sopra invece giungeva incessante
l’andirivieni strascicato dei passi sul ponte di passeggio. Sicché, non appena
ebbi sistemato il baule nel loculo muffoso di traverse grigie, tornai di volata
in coperta e come fosse ambra, emergendo dal profondo, aspirai la brezza
morbida, dolciastra, che da terra soffiava sopra le onde.
Ma anche il ponte di passeggio era tutto calca e irrequietezza: uno
sfarfallio e turbinio di gente che, con il concitato nervosismo dell’inattività
coatta, deambulava su e giù tra incessanti conversari. Il cinguettante
chiacchiericcio delle donne, il continuo camminare in tondo sulla strettoia
della coperta, dove la folla fluiva ciarliera e agitata davanti alle seggiole,
per incontrarsi in continuazione, mi davano un certo quale malessere.
Avevo visto un mondo nuovo, assorbito a ritmo folle una sequenza di
immagini in rapida successione. Ora volevo rifletterci su, analizzare,
mettere ordine, configurare con la calma del poi quanto si era accumulato a
caldo nello sguardo; ma lì, sulla passeggiata zeppa di gente, non c’era un
attimo di requie e di pace. Le righe di un libro si confondevano in presenza
delle ombre ballerine di coloro che passavano chiacchierando. Era
impossibile restare soli con se stessi su quello struscio navale in pieno sole
e in perpetuo movimento.
Ci provai per tre giorni, guardando rassegnato la gente, il mare, ma il
mare restava sempre identico, azzurro e vuoto, solo al tramonto di colpo
cosparso di ogni colore. E la gente la conoscevo a memoria dopo tre volte
ventiquattro ore. Ogni faccia mi era nota fino alla nausea, il riso acuto delle
donne non mi eccitava più, né più mi seccavano le dispute rumorose di due
ufficiali olandesi lì accanto a me. Non rimaneva dunque che la fuga: ma la
cabina era un forno e afosa, nel salone fanciulle inglesi imperversavano
senza requie, strimpellando al piano valzer sincopati. Alla fine invertii con
decisione l’ordine cronologico, calandomi in cabina già nel pomeriggio,
dopo essermi stordito con un paio di birre, per saltare nel sonno la cena e la
serata danzante. Quando mi svegliai, c’era un buio pesto e soffocante nella
piccola bara della mia cabina. Avevo spento il ventilatore, per cui l’aria mi
fermentava untuosa e umidiccia sulle tempie. I miei sensi erano come
storditi: mi occorsero minuti per orientarmi nuovamente quanto all’ora e al
luogo. Mezzanotte, comunque, doveva essere già passata, perché non
sentivo né la musica né lo strusciare continuo dei passi: soltanto le
macchine, cuore pulsante del leviatano, spingevano oltre, ansimando, lo
scafo scricchiolante della nave, verso l’invisibile.
Mi avviai a tastoni in coperta. Non c’era nessuno. E appena levai lo
sguardo sopra la torre vaporante del fumaiolo e i pennoni lucenti come
fantasmi, una magica luminosità mi penetrò d’un tratto negli occhi. Il cielo
irradiava. Era buio rispetto alle stelle che vi turbinavano bianche, e tuttavia
irradiava; era come se una cortina di velluto occultasse una luce immensa,
come se gli astri scintillanti fossero soltanto feritoie e fenditure attraverso le
quali filtrasse l’indescrivibile luminosità. Mai avevo visto il cielo come
quella notte, così radioso, così duro di un blu acciaio, eppure baluginante,
rorido, sonoro, in uno zampillio di luce che pioveva velata dalla luna e dalle
stelle e pareva scaturire da un nucleo arcano. Verniciati di bianco, nella luce
lunare tutti i profili della nave si stagliavano vividi contro l’oscurità
vellutata del mare, i cavi, i pennoni, ogni cosa sottile, tutti i contorni,
dissolti in un flusso di splendore: e sospesi nel vuoto parevano i fari in cima
agli alberi e più in alto l’occhio tondo della coffa, astri terrestri gialli in
mezzo a quelli radiosi del firmamento.
Ma proprio sopra la mia testa si dispiegava la magica costellazione, la
Croce del Sud, martellata nell’invisibile con adamantini chiodi scintillanti;
fluttuava in apparenza, mentre il moto era causato dalla nave che, vibrando
lievemente – gigantesco nuotatore dal petto dilatato nel respiro –, avanzava,
su e giù, su e giù, attraverso il buio dei flutti. In piedi, levavo lo sguardo al
cielo: avevo la sensazione di trovarmi in un bagno dove l’acqua piove calda
dall’alto, solo che lì era la luce, bianca e altresì tiepida, a irrorarmi le mani,
a inondarmi soave le spalle, il capo, a penetrarmi non so come dentro,
giacché ogni tetraggine in me si ritrovò di colpo illuminata. Respiravo
libero, purificato, e con subitanea felicità sentivo l’aria sulle labbra come
una limpida bevanda: aria morbida, frizzante, che dava un lieve senso
d’ebbrezza, commista a un alito di frutti, al profumo di isole lontane. Ora,
per la prima volta da che avevo messo piede sulla nave, mi prese la sacra
voluttà del sognatore e l’altra, più sensuale ancora, di abbandonare come
femmina il mio corpo a quella morbidezza che mi attorniava. Volevo
sdraiarmi, lo sguardo rivolto ai geroglifici bianchi là in alto. Ma le sedie a
sdraio, le seggiole di coperta, erano state tolte, da nessuna parte sul ponte di
passeggio deserto c’era un posto adatto a una sosta trasognata.
Sicché proseguii lentamente a tastoni verso prua, del tutto abbagliato
dalla luce che sempre più intensa pareva irradiarmi dagli oggetti. Quasi
faceva male, quella luce stellare calcinata, abbacinante: desideravo celarmi
da qualche parte nell’ombra, disteso su una stuoia, per sentire quel fulgore
non su di me, ma soltanto al di sopra di me, riflesso sulle cose, così come si
contempla un paesaggio da una stanza in penombra. Finalmente,
inciampando nelle gomene e passando accanto agli argani di ferro, arrivai a
prua e vidi in basso la prora fendere il nero, e il chiaro di luna dissolto
schizzare su a getto, schiumante, dalle due parti della lama. Altalenando, il
vomere ora si alzava ora si abbassava nelle zolle nerofluttuanti, e io sentivo
tutto lo strazio dell’elemento soggiogato, tutta la libidine dell’energia
terrestre in quel gioco balenante. E nella contemplazione perdetti il senso
del tempo. Era un’ora che me ne stavo così, oppure solo qualche minuto?
Su e giù, la cuna gigantesca della nave mi dondolava fuori dal tempo.
Sentivo soltanto sopraggiungere una stanchezza quasi voluttuosa. Volevo
dormire, sognare, eppure non allontanarmi da quella magia, non scendere
giù nella mia bara. Involontariamente avvertii sotto di me con il piede un
ammasso di gomene. Mi sedetti, gli occhi chiusi e tuttavia non pieni di
buio, giacché su di essi, su di me, scorreva l’argenteo fulgore. Sotto sentivo
sciaguattare i flutti, sopra di me trascorrere con inudibile suono il flusso
bianco di questo mondo. E quel sussurro a poco a poco mi entrò nel sangue:
avevo perso la percezione di me stesso, non sapevo più se quel respiro fosse
il mio oppure il cuore della nave che pulsava in lontananza, fluivo, mi
effondevo in quel mormorio incessante del mondo nel mezzo della notte.
Un tossicchiare secco, proprio accanto a me, mi fece trasalire. Mi ridestai
di colpo dalle mie fantasticherie già quasi deliranti. I miei occhi, abbagliati
dalla luce bianca, filtrata attraverso le palpebre abbassate, cercarono
confusamente all’intorno: giusto di fronte a me, nell’ombra del parapetto,
balenava qualcosa come un riflesso di occhiali, quindi si attizzò una brace
spessa, tonda: una pipa accesa. Evidentemente io, assorto nel fissare in
basso la schiumante lama della prora e in alto la Croce del Sud, sedendomi
non avevo notato quel vicino, che doveva essere rimasto lì immobile tutto il
tempo. In modo meccanico, ancora stordito, dissi in tedesco: «Mi scusi!».
«Ma le pare...» rispose in tedesco la voce dal buio.
Non saprei esprimere quanto bizzarro e orrendo fosse quello starsene
seduti in silenzio, uno accanto all’altro nell’oscurità, a un passo da qualcuno
che non si vedeva. D’istinto avevo la sensazione che quell’uomo mi
guatasse, così come io guatavo lui: ma la luce sopra di noi era talmente
intensa nel suo fluire bianco e scintillante, che uno riusciva a captare
dell’altro solo la sagoma nell’ombra. Mi pareva di intendere soltanto un
respiro e un succhiar la pipa fra continui sbuffi.
Il silenzio era insopportabile. Avrei voluto andarmene, ma la cosa poteva
sembrare troppo brusca, troppo precipitosa. Nell’imbarazzo cavai di tasca
una sigaretta. Il fiammifero si accese sibilando, per un attimo la luce
illuminò lo spazio angusto. Scorsi dietro le lenti una faccia sconosciuta, mai
vista a bordo, né durante i pasti né in altro luogo, e fosse il fastidio agli
occhi per la fiammata improvvisa, oppure un’allucinazione: pareva
orrendamente stravolta, fosca e coboldesca. Ma prima che potessi percepire
con chiarezza i particolari, il buio inghiottì di nuovo i tratti fugacemente
illuminati, vedevo soltanto la sagoma di una persona, scura dentro l’oscurità
e, di quando in quando, il cerchio rosso fuoco della pipa nel vuoto. Nessuno
parlava, e quel silenzio era soffocante e opprimente come l’atmosfera
tropicale.
A un certo punto non ce la feci più. Mi alzai e dissi con gentilezza:
«Buona notte». «Buona notte» rispose dal buio una voce rauca, dura,
arrugginita.
Mi avviai a fatica, inciampando nelle attrezzature, lungo le bitte. Ed ecco
risuonare alle mie spalle, frettoloso e incerto, un passo. Era il vicino di
prima. Istintivamente mi fermai. Non si accostò del tutto, attraverso
l’oscurità percepivo nel suo modo di camminare non so quale timore e
angoscia.
«Mi scusi» disse poi in affanno «se le rivolgo una preghiera. Io... io...»
balbettò, incapace, per l’imbarazzo, di continuare senz’altro il discorso
«io... io ho motivi personali... del tutto personali di rifugiarmi in questo
posto... un lutto... io evito la compagnia a bordo... Non intendo lei... no,
no... Vorrei soltanto pregarla... le sarei molto obbligato se non lo dicesse a
nessuno a bordo che lei mi ha visto qui... Si tratta... si tratta, per così dire, di
motivi personali, che mi impediscono al momento di stare in mezzo alla
gente... sì... insomma... sarebbe imbarazzante per me, se lei ne facesse
parola, che qualcuno qui di notte... che io...». Tornò a impappinarsi. Io
dissolsi in un attimo quello sconcerto, assicurandogli all’istante che avrei
esaudito il suo desiderio. Ci stringemmo la mano. Dopo di che tornai nella
mia cabina e mi immersi in un sonno greve, stranamente confuso da una
ridda di immagini.
Mantenni la promessa e non parlai con nessuno a bordo dello strano
incontro, sebbene la tentazione fosse non piccola. Perché durante una
traversata in mare ogni quisquilia diventa un fatto di rilievo: una vela
all’orizzonte, un delfino che balza dai flutti, la scoperta di un nuovo flirt,
uno scherzo senza importanza. E intanto mi tormentava la curiosità di
saperne di più su quell’insolito passeggero: spulciai la lista di imbarco, in
cerca di un nominativo a lui conforme, studiai le persone, per scoprire se
avessero qualche rapporto con lui; per tutta la giornata fui in preda a
un’impazienza nervosa, e in fondo non feci che attendere la sera, nella
speranza di incontrarlo di nuovo. Le situazioni psicologiche misteriose
esercitano su di me un fascino addirittura sconvolgente, mi intriga fino al
midollo scoprire connessioni, e le persone singolari riescono con la loro
sola presenza ad accendere in me un desiderio di conoscerle che è non di
molto inferiore a quello del possesso nel caso di una donna. La giornata mi
riuscì lunga, e si sbriciolò vuota fra le dita. Mi coricai presto: sapevo che mi
sarei svegliato a mezzanotte, vi avrebbe provveduto la cosa stessa. E in
effetti mi risvegliai alla medesima ora del giorno prima. Sul quadrante
fosforescente dell’orologio le due lancette coincidevano in un segmento
luminoso. In fretta, dalla cabina afosa risalii nella notte più afosa ancora.
Le stelle splendevano come la sera precedente e inondavano di una luce
diffusa la nave vibrante; altissima brillava la Croce del Sud. Tutto era come
la sera avanti – nei tropici i giorni e le notti sono più omogenei che alle
nostre latitudini –, solo che in me adesso non avvertivo più quella
sensazione morbida, fluttuante, trasognata, di essere cullato. Qualcosa mi
attirava, mi turbava, e io sapevo dove: all’argano nero di prua, per vedere se
il personaggio misterioso fosse di nuovo seduto lì, impietrito. Dall’alto
risuonò la campana di bordo, e questo mi spinse oltre. Un passo dopo
l’altro, recalcitrante e nondimeno attratto, cedetti a me stesso. Non ero
ancora arrivato in punta, quando vi balenò improvviso qualcosa, come un
occhio rosso: la pipa. Sicché era là.
Istintivamente ebbi uno scarto a ritroso e mi bloccai. L’attimo dopo me
ne sarei andato. Lì davanti, però, qualcosa si mosse nell’oscurità, si rialzò,
fece alcuni passi, e d’un tratto sentii proprio di fronte a me la sua voce,
affabile e angosciata.
«Mi scusi,» disse «lei voleva certo tornare al suo posto, e io ho la
sensazione che stesse per ritrarsi, dopo avermi visto. La prego, si sieda
pure, me ne vado subito».
Mi affrettai a rassicurarlo da parte mia: restasse pure, mi ero
semplicemente ritratto per non disturbarlo. «Lei non mi disturba,» disse con
una certa amarezza «al contrario, sono lieto di non essere, per una volta,
solo. Da dieci giorni non ho pronunciato una parola... anzi, da anni
veramente... e allora si fa fatica, forse perché ormai si soffoca, a furia di
tenersi dentro tutto... Non ce la faccio più a restare in cabina, in quella... in
quella bara... non ce la faccio più... e d’altra parte la gente mi è
insopportabile, perché ride tutto il giorno... Questo non posso sopportarlo
ora... sento le risate fin dentro la cabina e mi tappo le orecchie... certo,
quelli non sanno che... sì, non lo sanno proprio, e poi, che cosa può
importare agli estranei...».
Si interruppe di nuovo. Quindi disse con improvvisa precipitazione: «Ma
non voglio disturbarla... perdoni la mia loquacità».
Accennò un inchino e fece per andarsene. Ma io negai con insistenza.
«Lei non mi disturba affatto. Anch’io sono contento di scambiare qui
qualche parola in pace... Posso offrirle una sigaretta?».
Ne prese una. Io gliel’accesi. Di nuovo la faccia si stagliò a guizzi contro
il nero del parapetto, ora però rivolta a me in pieno: gli occhi dietro le lenti
scrutavano il mio viso, avidi e con un’intensità folle. Mi vennero i brividi.
Sentivo che quell’uomo voleva parlare, doveva parlare. E sapevo di dover
tacere, per aiutarlo. Tornammo a sederci. Aveva accanto un’altra sedia a
sdraio, e me la offerse. Le nostre sigarette sfavillavano e, dal modo in cui il
cerchio luminoso della sua vibrava inquieto nell’oscurità, notai che gli
tremava la mano. Ma tacqui, e altrettanto fece lui. Poi la sua voce
all’improvviso domandò piano: «Si sente molto stanco?».
«No, per niente».
La voce dal buio riprese esitante. «Vorrei chiederle una cosa... cioè,
vorrei raccontargliene una. So, so benissimo quanto sia assurdo rivolgermi
al primo che incontro, ma... io sono... io mi trovo in uno stato psichico
pauroso... sono arrivato a un punto in cui devo assolutamente parlare con
qualcuno... altrimenti crepo... Lei di certo comprenderà, se io... sì, se io
adesso le racconto... So che lei non mi potrà aiutare... ma io sono come
malato a furia di tacere... e un malato è sempre ridicolo per gli altri...».
Io lo interruppi e lo pregai di non tormentarsi. Mi raccontasse pure...
naturalmente non potevo promettergli nulla – e comunque è doveroso
offrire la propria disponibilità. Se si vede qualcuno in una situazione
difficile, l’obbligo di aiutarlo è senz’altro un fatto naturale...
«Doveroso... offrire la propria disponibilità... doveroso cercare di...
Sicché anche lei pensa che vi sia l’obbligo... l’obbligo di offrire la propria
disponibilità».
Ripeté la frase tre volte. Provavo orrore per quel modo ottuso, accanito,
di ripetere. Che fosse pazzo? Oppure ubriaco?
Ma, come se avessi espresso a voce alta il mio sospetto, all’improvviso
disse in tono del tutto diverso: «Lei magari penserà che io sia pazzo o
ubriaco. No, non lo sono – non ancora. Semplicemente mi ha colpito in
modo così strano la parola da lei pronunciata... così strano, perché è
appunto quello che mi tormenta adesso, vale a dire, se vi sia l’obbligo...
l’obbligo...».
Ricominciò a tartagliare. Poi si interruppe per un attimo e riprese con un
nuovo scatto.
«Sa, io sono medico. E allora capitano spesso casi del genere... tragici...
sì, diciamo casi limite, in cui uno non sa se ha il dovere... infatti non esiste
un solo dovere, ossia quello nei confronti del prossimo, ne esiste uno verso
se stessi e uno verso lo Stato e uno verso la scienza... Si è tenuti ad aiutare,
certo, si è qui per questo... massime del genere, però, restano sempre e
soltanto teoriche... Fino a che punto è doveroso aiutare?... Lei è lì, una
persona a me sconosciuta, e io per lei sono altrettanto sconosciuto, e la
prego di mantenere il silenzio sul fatto che mi ha visto... bene, lei sta zitto,
adempie questo dovere... Io le chiedo di parlare con me, perché sto
crepando a furia di tacere... e lei è disposto a darmi ascolto... bene... Ma
questo è facile... Se però le chiedessi di prendermi e scaraventarmi in
mare... ecco che allora la compiacenza, la disponibilità all’aiuto cesserebbe.
A un certo punto finisce... là dove inizia la propria esistenza, la propria
responsabilità... a un certo punto deve pur finire... a un certo punto
quest’obbligo deve cessare... O forse proprio per il medico non è lecito che
venga meno? Ha da essere un Cristo Salvatore, uno che aiuta tutti quanti,
soltanto perché possiede un diploma scritto in latino?, è davvero tenuto a
buttare l’esistenza, a ridurre ad acqua il proprio sangue, se una tizia... un
tizio arriva a pretendere da lui che sia nobile, soccorrevole e buono? Sì, a
un certo punto il dovere cessa... là dove uno non ce la fa più, proprio in quel
punto...».
Tacque di nuovo e si drizzò di scatto.
«Mi scusi... se nel parlare appaio esagitato... ma non sono ubriaco... non
ancora ubriaco... anche questo, adesso, mi capita di frequente, glielo dico
senza remore, in una solitudine così infernale... Consideri che ho passato
sette anni quasi esclusivamente in mezzo agli indigeni e agli animali... per
cui uno disimpara il discorso pacato. Quando poi si dà la stura, è subito un
traboccare... Ma aspetti... sì, lo so... volevo... volevo sottoporle un caso,
chiederle se si ha il dovere di aiutare... di aiutare in modo angelico, puro, se
cioè... Però temo che la cosa vada per le lunghe. Davvero non si sente
stanco?».
«No, per nulla».
«Io... io la ringrazio... Ne vuole?».
Tastò da qualche parte nel buio alle sue spalle. Qualcosa sbatacchiò
tintinnando – due o tre bottiglie, parecchie insomma, che si era messe
accanto. Mi porse un bicchiere di whisky: lo assaggiai appena, mentre lui
tracannò il suo in un sorso. Per un attimo tra noi ci fu silenzio. Suonò la
campana: mezzanotte e mezzo.
«Dunque... le vorrei raccontare un caso. Supponga un medico in una... in
una città piuttosto piccola... o propriamente in campagna... un medico che...
un medico che...». Si inceppò di nuovo. Poi d’un colpo trascinò la sedia
vicino a me.
«Così non va. Devo raccontarle tutto in modo esplicito, dal principio,
altrimenti non può capirlo... Non è possibile parlarne sotto forma di
esempio, di teoria... devo raccontarle il mio caso. Non c’è pudore né
reticenza che tenga... del resto anche davanti a me la gente si denuda e mi
mostra la sua tigna, le sue urine e i suoi escrementi... se si vuol essere
aiutati non si deve menare il can per l’aia né tacere nulla... Sicché non le
racconterò il caso di un medico leggendario... mi metto a nudo e dico: io...
ho disimparato a vergognarmi in quella sporca solitudine, in quel paese
maledetto che ti divora l’anima e ti succhia il midollo dalle ossa».
Dovevo aver accennato qualche gesto, perché si interruppe.
«Ah, lei protesta... capisco, lei è entusiasta delle Indie, dei templi e dei
palmizi, di tutto il romanticismo che comporta un viaggio di due mesi.
Certo, sono affascinanti i tropici, se uno ci passa in treno, in auto, in risciò:
anche per me non è stato diverso, quando ci arrivai la prima volta sette anni
fa. Quante cose sognavo allora: volevo imparare la lingua e leggere nel
testo originale i libri sacri, studiare le malattie, fare ricerche scientifiche,
sondare la psiche degli indigeni – si dice così, vero, nel gergo degli
europei? –, diventare un missionario dell’umanità, della civiltà. Tutti quelli
che arrivano sono accomunati dal medesimo sogno. Ma laggiù, in
quell’invisibile serra, ti vengono meno le forze; la febbre – che ti prendi
comunque, anche se ti imbottisci di chinino – ti corrode il midollo, diventi
fiacco e pigro, molle, una medusa. Come europeo sei in qualche modo
avulso dalla tua vera essenza, quando dalle metropoli arrivi in un simile e
maledetto posto paludoso: prima o poi a chiunque salta una rotella, certi
bevono, altri fumano l’oppio, altri ancora diventano violenti e si
trasformano in bestie – ciascuno si becca la sua razione di follia. Ti prende
la nostalgia dell’Europa, sogni di tornartene un giorno a camminare per una
strada, di sedere in una luminosa stanza in muratura, in mezzo a gente di
pelle bianca; per anni coltivi questo sogno, e quando poi arriva il momento
in cui potresti disporre delle ferie sei già troppo sfatto per andartene. Sai
che in Europa sei dimenticato, un estraneo, una conchiglia nel mare, che
chiunque calpesta. Così rimani, e ti abbrutisci e incanaglisci in quelle
foreste torride, umide. Maledetto il giorno in cui mi sono venduto per quel
buco...
«Del resto, non si trattò poi di una scelta tanto volontaria. Avevo studiato
in Germania, ero diventato medico con tutti i crismi, anzi un bravo medico,
con un posto all’ospedale di Lipsia; in qualche remoto fascicolo dei
“Medizinische Blätter” suscitò a suo tempo molto scalpore un nuovo tipo di
iniezione che avevo praticato io per primo. Poi ci fu una questione di donne,
una tizia da me conosciuta all’ospedale: aveva fatto impazzire a tal punto
l’amante, che costui l’aveva ferita a revolverate – e ben presto mi ritrovai
non meno pazzo di quell’uomo. Aveva un modo di essere arrogante e fredda
che mi stravolgeva il cervello; da sempre le donne imperiose e sfrontate mi
tenevano in pugno, ma quella mi conciò in maniera tale da spezzarmi le
ossa. Facevo quel che voleva lei, per causa sua – sì, perché non dovrei
dirlo? sono passati otto anni – presi dei soldi dalla cassa dell’ospedale, e
quando il fatto saltò fuori, fu il finimondo. Uno zio coprì l’ammanco, ma
con la carriera avevo chiuso. Nel frattempo venni a sapere che il governo
olandese assumeva medici per le colonie, offrendo una certa somma come
anticipo. Pensai subito che doveva trattarsi di una bella faccenda davvero,
se ti pagavano un anticipo; sapevo che in quelle piantagioni infestate dalla
malaria le croci nei cimiteri avevano un ritmo di crescita triplo che da noi,
ma quando si è giovani si crede sempre che febbre e morte tocchino
soltanto agli altri. Comunque avevo poca scelta, andai a Rotterdam, firmai
per dieci anni, ricevetti una bella mazzetta di banconote, metà la mandai a
casa allo zio, l’altra metà me la spillò nel quartiere del porto una donna alla
quale mi ero completamente arreso, solo perché somigliava tanto a
quell’altra maledetta femmina. Senza soldi, senza orologio, senza illusioni
presi poi congedo dall’Europa, e quando lasciammo il porto, non ero
particolarmente triste. Me ne stetti quindi seduto sul ponte, come lei, come
tutti gli altri, e vidi la Croce del Sud, vidi i palmizi, e mi si allargò il cuore:
ah, foreste, solitudine, pace sognavo! Be’, quanto a solitudine, ne ebbi certo
abbastanza. Non mi spedirono a Batavia o a Surabaya, in una città piena di
gente, con il club e il golf e i libri e i giornali, ma – il nome non ha alcuna
importanza – in una località distrettuale a due giornate di viaggio dalla città
più vicina. Un paio di funzionari noiosi, rinsecchiti, qualche meticcio erano
tutta la mia frequentazione; per il resto, in lungo e in largo, nient’altro che
foresta, piantagioni, boscaglia e palude.
«All’inizio era ancora sopportabile. Mi dedicavo a ogni sorta di studi; un
giorno, durante un giro d’ispezione, la macchina del viceresidente si era
ribaltata, fratturandogli una gamba, per cui io, senza assistenti, procedetti a
un’operazione della quale si parlò poi molto; collezionavo veleni e armi
degli indigeni, mi occupavo di cento piccole cose per tenermi attivo. Ma
tutto questo funzionò solamente fintanto che agiva ancora in me l’energia
portata dall’Europa; poi mi inaridii. I pochi europei mi tediavano, smisi di
frequentarli, bevevo e sognavo per conto mio. Mi mancavano solo due anni,
poi ero libero e pensionato, potevo tornarmene in Europa, ricominciare una
nuova vita. In fondo non facevo più altro che aspettare, starmene immobile
e aspettare. E così me ne starei tuttora, se non fosse arrivata lei... se non
fosse successa la cosa».
La voce nel buio si spense. Anche la pipa non dava più bagliori. Tale era
il silenzio, che d’un tratto tornai a udire l’acqua frangersi schiumando sulla
prora, e il sordo battito lontano delle macchine. Avrei voluto accendermi
una sigaretta, ma temevo il lampo intenso del fiammifero e il riverbero sulla
faccia di lui. Che seguitava a tacere. Io non sapevo se avesse finito, se
sonnecchiasse o dormisse, tanto sepolcrale era il suo silenzio.
Ed ecco la campana di bordo battere un colpo secco, sonoro: l’una.
L’uomo si riscosse; sentii tintinnare di nuovo il bicchiere. Evidentemente la
sua mano tastava in basso, in cerca del whisky. Una sorsata gorgogliò
sommessa, poi la voce riprese a parlare, ma ora in certo qual modo più tesa,
più passionale.
«Sì, dunque... aspetti... sì, dunque, la cosa andò così. Io me ne stavo nella
mia maledetta rete, immobile da mesi come il ragno nella tela. Era giusto
dopo il periodo delle piogge, per settimane e settimane l’acqua era caduta a
scroscio sul tetto, non si era visto assolutamente nessuno, nessun europeo, e
io lì, un giorno via l’altro, in casa, con le mie donne gialle e il mio buon
whisky. In quel momento ero proprio giù, in pieno mal d’Europa; se in
qualche romanzo leggevo di strade luminose e di donne bianche,
cominciavano a tremarmi le dita. Non riesco a descriverle per bene quello
stato, è una sorta di malattia tropicale, una nostalgia dirompente, febbrile e
tuttavia inerte, che a volte ti piglia. Sicché quel giorno me ne stavo, mi pare,
a contemplare un atlante, sognando non so quali viaggi. Quand’ecco,
bussarono concitati alla porta: fuori c’è il boy e una delle donne, entrambi
con gli occhi sbarrati per la sorpresa. Gesticolano come matti: è arrivata una
signora, una lady, una donna bianca.
«Io salto su. Non ho sentito carrozze o automobili. Una donna bianca lì, a
casa del diavolo?
«Faccio per scendere le scale, ma poi mi ritraggo. Un’occhiata allo
specchio, mi riordino un poco alla svelta. Sono nervoso, inquieto, come
tormentato da un brutto presentimento, non conoscendo nessuno al mondo
disposto a venire da me per amicizia. Finalmente scendo.
«Nell’ingresso mi attende la signora, che mi viene incontro affannata. Un
fitto velo da automobilista le copre il volto. Mi accingo a salutarla, ma lei
mi tronca le parole in bocca. “Buon giorno, dottore” dice in un inglese
sciolto (un po’ troppo, forse, e come se il discorso fosse preparato). “Mi
scusi se la prendo alla sprovvista. Ma eravamo appunto all’ambulatorio, la
nostra macchina è ferma là (ma perché non è venuta con quella fin davanti a
casa? mi passa per la testa in un lampo), e allora mi sono ricordata che lei
abita qui. Ho sentito tanto parlare di lei; con il viceresidente ha compiuto un
vero miracolo, la sua gamba funziona di nuovo alla perfezione, gioca a golf
come prima. Oh sì, tutti ne parlano ancora da noi, e tutti saremmo disposti a
disfarci di quello scorbutico del nostro chirurgo, e degli altri due per giunta,
se lei venisse dalle nostre parti. Insomma, perché non la si vede mai da noi?
Lei vive veramente come un santone yoghin...”.
«E così seguita a chiacchierare, in fretta, sempre più in fretta, senza che
io possa fare motto. C’è qualcosa di nervoso, di isterico in questa verbosità,
e finisce che mi innervosisco anch’io. Perché parla tanto, mi chiedo dentro
di me, perché non si presenta, perché non si toglie il velo? Ha la febbre? È
malata? È pazza? Divento sempre più nervoso, perché avverto il ridicolo
dello starmene così, zitto, di fronte a lei, sommerso dallo scroscio di tanta
loquacità. Finalmente rallenta un po’ il ritmo, e posso pregarla di salire. Lei
fa cenno al boy di starsene lì e mi precede per le scale.
«“Simpatico, qui da lei” dice, mentre si guarda attorno nella mia stanza.
“Ah, quanti bei libri! Mi piacerebbe leggerli tutti!”. Si avvicina allo scaffale
ed esamina i titoli dei volumi. Per la prima volta da quando l’ho vista, tace
per un minuto.
«“Posso offrirle del tè?” le chiedo.
«Lei non si volta e continua a guardare i titoli delle opere. “No, grazie,
dottore... dobbiamo ripartire subito... ho poco tempo... sa, una piccola gita...
Ah, ha anche Flaubert, io lo amo moltissimo... meravigliosa, assolutamente
meravigliosa L’éducation sentimentale... vedo che lei legge anche il
francese... Ma quante cose sa!... Già, i tedeschi, loro a scuola imparano
tutto... Veramente favoloso, conoscere tante lingue!... Il viceresidente è
entusiasta di lei, dice sempre che lei è l’unico con il quale andrebbe sotto i
ferri... il nostro buon chirurgo va bene giusto per il bridge... Sa, oggi, fra
l’altro (e seguitava a non voltarsi), mi è venuto in mente di consultarla
magari anch’io... e siccome si passava di qui, ho pensato... be’, ma ora lei
avrà certo da fare... è meglio che ripassi un’altra volta”.
«Le vuoi scoprire, finalmente, le tue carte? mi venne fatto di pensare. Ma
non lasciai trasparire nulla, anzi le assicurai che per me sarebbe stato
comunque un onore essere a sua disposizione anche subito, o in qualsiasi
momento lei volesse.
«“Non è niente di grave” disse lei, girandosi a metà e sfogliando nel
contempo un libro che aveva preso dallo scaffale, “niente di serio...
sciocchezze... turbe femminili... capogiri, svenimenti. Stamattina presto, in
una curva, all’improvviso sono venuta meno, raide morte... il boy ha
dovuto tirarmi su nella macchina e cercare dell’acqua... sa, forse lo
chauffeur andava troppo in fretta... non crede, dottore?”.
«“Così su due piedi non saprei dirlo. Le capitano spesso questi
svenimenti?”.
«“No... cioè sì... negli ultimi tempi... proprio recentissimamente... sì...
mancamenti e malesseri simili”. È di nuovo davanti alla libreria, infila il
volume, ne estrae un altro e lo sfoglia. Strano, perché continua a sfogliare in
quel modo così... così nervoso, perché non alza gli occhi sotto il velo? Io
non apro bocca di proposito. Provo gusto a tenerla sulla corda. Alla fine lei
riattacca, nel suo tono svagato, ciarliero.
«“Vero, dottore, non è niente di preoccupante? Non è un morbo
tropicale... una cosa pericolosa...”.
«“Dovrei prima vedere se ha la febbre. Permette che le senta il polso?...”.
«Mi avvicino. Lei scarta leggermente di lato.
«“No, no, non ho la febbre... ne sono certa, certissima... ho misurato io
stessa la temperatura ogni giorno da quando... da quando sono cominciati
questi svenimenti. Mai una linea di febbre, sempre a puntino 36,4 esatti.
Anche il mio stomaco è a posto”.
«Io esito un istante. Tutto il tempo già mi formicola dentro un sospetto:
sento che quella donna vuole qualcosa da me; non si va a casa del diavolo
per parlare di Flaubert. La lascio sulle spine per un paio di minuti. “Mi
scusi,” dico poi con franchezza “permette che le faccia qualche domanda
personale?”.
«“Certo, dottore! Lei è medico, no?” risponde, ma intanto mi volta di
nuovo le spalle e si trastulla con i libri.
«“Ha avuto figli?”.
«“Sì, un maschio”.
«“E quella volta... prima... prima del parto, voglio dire... ha avuto turbe
analoghe?”.
«“Sì”.
«Adesso il suo tono di voce è del tutto diverso. Assolutamente chiaro,
deciso, per niente logorroico, per niente nervoso. “E potrebbe essere che
lei... mi perdoni la domanda... che lei ora si trovi in uno stato del genere?”.
«“Sì”.
«Lascia cadere la parola come un coltello affilato e tagliente. Sulla sua
testa voltata non si scompone una linea.
«“In tal caso, gentile signora, sarebbe forse bene che io le facessi una
visita generale... posso chiederle di... di accomodarsi nella stanza accanto?”.
«A quel punto lei si gira di scatto. Attraverso il velo sento uno sguardo
freddo, deciso, puntarmi addosso.
«“No... non è necessario... sono perfettamente certa del mio stato”».
La voce esitò per un istante. Di nuovo brilla nell’oscurità il bicchiere
pieno. «Dunque, mi stia a sentire... ma prima cerchi di afferrare un attimo la
situazione. Uno si sta sfacendo nella sua solitudine, ed ecco che gli piove in
casa una donna, entra nella sua stanza la prima donna bianca da anni... e di
colpo io avverto: c’è qualcosa di perverso nella stanza, un pericolo. Era
come un brivido: provavo orrore per la ferrea determinazione di quella
donna capitata lì con i suoi discorsi a ruota libera, che poi all’improvviso ti
sfodera la sua richiesta come un coltello. Perché io sapevo bene, lo sapevo
da subito, che cosa voleva da me: non era la prima volta che delle donne si
presentavano con simili richieste, solo, lo facevano in altro modo,
imbarazzate o supplichevoli, con lacrime e preghiere. Mentre lì c’era una...
sì, una determinazione ferrea, virile... dal primo istante mi resi conto che
quella donna era più forte di me... che era in grado di piegarmi al suo volere
come le pareva... Ma... ma... anche in me c’era qualcosa di perverso... il
maschio che si ribellava, non so quale risentimento, perché... l’ho già
detto... dal primo istante, anzi, ancor prima di vederla, sentii quella donna
come un nemico.
«Lì per lì non feci motto. Tacevo astioso e caparbio. Sentivo che lei mi
fissava da dietro il velo, secca e imperiosa, che voleva costringermi a
parlare, ma... cercando di svicolare... istintivamente imitai i suoi modi
ciarlieri, svagati. Finsi di non capirla, perché – non so se lei è in grado di
immedesimarsi nel mio stato d’animo – volevo costringerla a diventare
esplicita, non volevo essere io a offrire, ma... essere pregato... proprio da
lei, perché si presentava con tanta spocchia... e perché sapevo che nelle
donne niente è per me più irresistibile di quei modi arroganti e freddi.
«Sicché tergiversavo: non c’era motivo di preoccuparsi, simili svenimenti
rientravano nel normale decorso delle cose, anzi, garantivano in qualche
modo uno sviluppo favorevole. Citai casi da riviste mediche... parlavo e
parlavo, svagatamente lieve, considerando la faccenda una mera banalità
e... sempre in attesa che lei mi interrompesse. Perché ero certo che non lo
avrebbe sopportato.
«E infatti troncò seccamente il discorso, spazzando via, per così dire,
tutte quelle chiacchiere rassicuranti con un gesto della mano.
«“Non è questo, dottore, che mi inquieta. A suo tempo, quando ho avuto
il ragazzino, ero in condizioni migliori... ma ora non sono più allright... ho
problemi di cuore...”.
«“Ah, problemi di cuore,” ripetei io, con finta preoccupazione “allora è
meglio che me ne accerti subito”. E feci il gesto di alzarmi, per prendere lo
stetoscopio. «Ma lei si intromise all’istante. Adesso la sua voce suonò secca
e decisa, come su una piazza d’armi.
«“Io ho problemi di cuore, dottore, e devo pregarla di credere a quanto le
dico. Non vorrei perdere troppo tempo in visite: penso che lei potrebbe
dimostrarmi un po’ più di fiducia. Io almeno ne ho mostrata abbastanza nei
suoi confronti”. «Ormai era battaglia, sfida aperta. E io la accettai.
«“Per la fiducia occorre sincerità, e senza riserve. Parli chiaro, io sono
medico. E soprattutto si tolga il velo, si sieda qui, lasci perdere i libri e i
diversivi. Non si va dal medico con il velo”.
«Lei mi guardò, eretta e fiera. Per un attimo indugiò. Poi si sedette,
alzando il velo. Io vidi un volto esattamente come avevo... temuto, un volto
impenetrabile, duro, sicuro di sé, di una bellezza priva di età, un volto dagli
occhi grigi inglesi, nei quali tutto pareva pacatezza, mentre dietro ci potevi
sognare ogni passionalità. Quella bocca sottile, serrata, non svelava segreti,
se non lo voleva. Per un minuto ci fissammo a vicenda, lei insieme
dispotica e interrogativa, con una ferocia così fredda, così ferrea, che fui
incapace di sopportare quello sguardo, e distolsi gli occhi senza rendermene
conto.
«Batté leggermente sul tavolo con le nocche. Dunque anche lei era
nervosa. Poi all’improvviso disse d’un fiato: “Lo sa, dottore, che cosa
voglio da lei, oppure no?”.
«“Credo di saperlo. Ma è meglio essere del tutto espliciti. Lei intende
mettere fine al suo stato... Lei vuole che io la liberi dagli svenimenti, dai
suoi malesseri, rimuovendone... rimuovendone la causa. È così?”.
«“Sì”.
«La parola piombò come una ghigliottina.
«“Ma lei sa che simili pratiche sono rischiose... per entrambe le parti?...”.
«“Sì”.
«“Che a me è vietato dalla legge?”.
«“Ci sono casi in cui non è vietato, ma anzi doveroso”.
«“Ma per questi ci vuole una motivazione clinica”.
«“E lei la troverà, quella motivazione. Lei è medico”.
«I suoi occhi, intanto, mi guardavano limpidi, fissi, senza battere ciglio.
Era un ordine, e io, essere senza nerbo, ero scosso dall’ammirazione per la
demoniaca imperiosità del suo volere. Ma ancora mi torcevo, non volevo
mostrarmi già schiacciato sotto i piedi. – “Non cedere troppo in fretta!
Trova delle scuse! Costringila a implorare” mi dettava dentro un desiderio
perverso.
«“Non sempre dipende dalla volontà del medico. Ma sono disposto a
parlarne con un collega dell’ospedale...”.
«“Io non voglio il suo collega... sono venuta da lei”.
«“Posso chiederle perché proprio da me?”.
«Mi guardò freddamente.
«“Non ho difficoltà a dirglielo. Perché lei abita fuori mano, perché lei
non mi conosce, perché lei è un bravo medico, e perché lei...” – a questo
punto ebbe per la prima volta una esitazione – “probabilmente non rimarrà
più a lungo da queste parti, specie se... se potrà portarsi a casa una somma
considerevole”.
«Mi vennero i brividi. Quella ferrea lucidità di calcolo da mercante, da
sensale, mi stordiva. Fino allora non aveva aperto le labbra per
un’implorazione, ma calcolato ogni cosa da un pezzo – prima facendomi la
posta e poi stanandomi. Sentivo il demoniaco della sua volontà entrarmi
dentro, ma cercai di difendermi con tutto il mio accanimento. Ancora una
volta mi sforzai di essere distaccato, quasi ironico.
«“E questa somma, lei la metterebbe... la metterebbe a mia
disposizione?”.
«“Per il suo intervento e l’immediata partenza”.
«“Lo sa che in tal caso ci rimetto la pensione?”.
«“Provvederò io a risarcirla”.
«“Lei è molto esplicita... Ma io desidero una chiarezza ancora maggiore.
Quale cifra ha previsto per il mio onorario?”.
«“Dodicimila fiorini, esigibili ad Amsterdam su assegno”.
«Io... fremevo... fremevo dalla rabbia e... anche dall’ammirazione. Aveva
calcolato tutto, la somma e il modo del pagamento, che mi costringeva a
partire, mi aveva valutato e comprato, senza conoscermi, aveva disposto di
me nella consapevolezza del proprio volere. Mi sarebbe piaciuto prenderla a
schiaffi... Ma quando mi alzai tremando – si era alzata anche lei – e le
piantai gli occhi negli occhi, improvvisamente, alla vista di quella bocca
serrata che si rifiutava di implorare, di quella fronte altezzosa che non
voleva piegarsi, mi prese... una... una sorta di bramosia violenta. Lei dovette
averne una qualche percezione, perché inarcò le sopracciglia, come quando
ci si vuole liberare di un importuno: di colpo tra noi fu odio scoperto.
Sapevo che lei mi odiava perché aveva bisogno di me, e io la odiavo
perché... perché non era disposta a implorare. In quell’attimo, in quell’unico
attimo di silenzio ci parlammo per la prima volta con tutta sincerità. Poi
come un rettile mi morse dentro, improvvisa, un’idea, e io le dissi... io le
dissi...
«Ma aspetti, in questo modo lei fraintenderebbe ciò che ho fatto... che ho
detto... devo prima spiegarle come... perché mi è venuta quell’idea folle...».
Ancora una volta nell’oscurità tintinnò lievemente il bicchiere. E la voce
si fece più agitata.
«Non è che io voglia trovare scusanti, giustificazioni, uscirne pulito... Ma
altrimenti lei non capirebbe... Non so se io sono mai stato quello che si dice
una brava persona, però... penso, soccorrevole lo sono stato sempre... Nella
sporca esistenza laggiù era infatti l’unica gioia che uno avesse: poter
conservare il respiro a qualche frammento di vita con quel poco di scienza
che ti eri ficcato in testa... una sorta di soddisfazione da padreterno...
Veramente, erano i miei momenti più belli, quando uno di quei ragazzotti
gialli veniva a cercarmi, pallido e cianotico dallo spavento, un morso di
serpente nel piede tutto gonfio, e già si metteva a urlare che non gli
amputassero la gamba, e io riuscivo in extremis a salvargli la pelle. Ho fatto
percorsi di ore, se qualche donna era nel delirio della febbre, dando anche
una mano nel senso voluto da quell’altra, ancora in Europa, all’ospedale.
Ma almeno sentivi che quella creatura aveva bisogno di te, sapevi di salvare
qualcuno dalla morte o dalla disperazione, e di questo sentimento avevi
bisogno tu stesso per essere di aiuto: che gli altri avessero bisogno di te.
«Ma quella donna – non so se riesco a dargliene l’idea – mi indispettiva,
mi istigava a resistere, a causa della sua spocchia; dal momento in cui era
entrata come per una visita casuale, incitava – come posso dirlo? –, incitava
alla reazione tutto ciò che vi era in me di represso, di nascosto, di cattivo.
Che si atteggiasse a lady, che prospettasse con inaccessibile freddezza una
transazione dove ne andava della vita o della morte, mi stravolgeva il
cervello... E poi... e poi... alla fin fine una non rimane incinta giocando a
golf... sapevo... ossia ero improvvisamente costretto a rammentare con
un’evidenza terribile – ecco, appunto, l’idea a cui accennavo – che quella
donna scostante, altera, fredda, che aggrottava le ciglia sopra i suoi occhi
d’acciaio al solo mio guardarla con diniego... anzi quasi con ripulsa... che
quella donna due o tre mesi prima si era voltolata in calore nel letto con un
uomo, nuda come un animale e forse gemendo nell’orgasmo, i corpi
incollati come labbra... Questa, questa era l’idea bruciante che mi venne,
mentre lei mi guardava con tanta arroganza, con tanta inaccessibile
freddezza, proprio come un ufficiale inglese... e allora, allora tutto in me si
tese allo spasimo... ero ossessionato dal proposito di umiliarla... da
quell’istante vedevo attraverso il vestito il suo corpo nudo... da allora
vivevo solamente nell’idea di possederla, di estorcere alle sue labbra dure
un gemito, di sentire in orgasmo quella donna fredda, spocchiosa, come
quell’altro che non conoscevo. Insomma... ecco ciò che le volevo spiegare.
Mai, per quanto fossi caduto in basso, avevo cercato, come medico, di
approfittare della situazione... Ma ora non era libidine né foia né alcunché
di sessuale, proprio no... se così fosse, lo confesserei... unicamente
bramosia di schiacciare un’alterigia... di schiacciarla in quanto maschio...
Le ho già detto, credo, che le donne arroganti, apparentemente fredde, da
sempre mi tenevano in pugno... ma ora, ora si aggiungeva anche il fatto che
da sette anni io vivevo lì senza possedere una donna bianca, che non
conoscevo resistenze... Perché le ragazze lì, quelle piccole graziose
bestioline cinguettanti, tremano dalla soggezione se un uomo bianco, un
“signore”, le prende... si annullano dalla devozione, sono sempre disponibili
per te, sempre pronte a renderti servizio con il loro riso discreto,
gorgogliante... ma proprio questa supina arrendevolezza, da schiava, ti
guasta tutto il piacere... Comprende ora, lo capisce, perché avesse poi su di
me un effetto dirompente la circostanza che, all’improvviso, si presentasse
una donna piena di spocchia e di odio, chiusa fino alla punta delle dita, ma
nello stesso tempo circonfusa di mistero e carica di passionalità pregressa...
che una donna del genere entrasse senza remore nella gabbia di un uomo
del genere, di una bestia umana così derelitta, così famelica, così
segregata?... Questo... questo ho voluto dire soltanto perché lei potesse
comprendere il resto... quello che accadde dopo. Dunque... invasato da una
bramosia perversa, avvelenato dall’idea di lei, nuda, sensuale, arresa, mi
compattai, per così dire, a riccio simulando indifferenza. Dissi con
freddezza: “Dodicimila fiorini?... No, per una cifra simile non lo farò”.
«Lei mi guardò con un certo pallore. Evidentemente già si rendeva conto
che in quel rifiuto non c’era avidità di denaro. Eppure non si perse d’animo.
«“Allora quanto vuole?”.
«Io non abboccai più a quel tono algido. “Giochiamo a carte scoperte. Io
non sono un uomo d’affari... non sono il povero speziale di Romeo e
Giulietta, che per corrupted gold vende il suo veleno... sono forse l’opposto
di un uomo d’affari... per questa strada lei non vedrà realizzarsi il suo
desiderio”.
«“Sicché non vuole farlo?”.
«“Non in cambio di denaro”.
Per un attimo tra noi il silenzio fu totale. Così assoluto, che per la prima
volta sentivo il respiro di lei.
«“E che altro potrebbe volere?”.
«A quel punto non mi trattenni più.
«“Innanzitutto desidero che lei... che lei non parli con me come a un
bottegaio, ma come a un essere umano. Che lei, se ha bisogno di aiuto,
non... non si avvalga subito del suo immondo denaro... ma preghi... preghi
me, essere umano, di aiutare lei, essere umano... Io non sono soltanto un
medico, non ho soltanto ore di ambulatorio... ho anche ore di altro tipo...
forse lei è arrivata proprio in un’ora del genere...”.
«Per un attimo tace. Poi la bocca le si storce lievemente, trema e dice in
fretta: «“Allora, se io la pregassi... lei lo farebbe?”.
«“Ancora una volta lei vuole concludere un affare: vuole pregarmi, solo
se io prima prometto. Prima deve pregarmi lei: poi io le darò la risposta”.
«Inalbera la testa come un cavallo imbizzarrito. Mi guarda esasperata.
«“No, io non la pregherò. Piuttosto crepo!”.
«Allora mi prese la rabbia, una rabbia cieca, assurda.
«“In tal caso esigerò io, se lei non vuole chiedere debitamente. Penso non
occorra diventare espliciti: lei sa che cosa desidero da lei. Poi, dopo, io
l’aiuterò”.
«Mi guardò fissa un istante. Poi – ah, non so, non riesco a dire quanto
fosse tremendo – i suoi lineamenti si tesero, e poi... d’un tratto rise... mi rise
in faccia con indicibile disprezzo... con un disprezzo che mi polverizzava...
e insieme inebriava... Era come un’esplosione, così subitanea, così
dirompente, con tale potenza era fatta deflagrare da una forza immane,
quella risata di disprezzo, che io... sì, io avrei voluto prostrarmi a terra e
baciarle i piedi. Fu un attimo soltanto... come una saetta, e presi fuoco in
tutto il corpo... mentre lei già si girava, andando rapida verso la porta.
«Istintivamente avrei voluto seguirla... chiederle scusa... implorarla... la
mia forza era del tutto infranta... lei allora si volse verso di me e disse con
voce perentoria:
«“Non si azzardi a seguirmi o a farmi la posta... se ne pentirebbe”.
«E già la porta sbatteva alle sue spalle».
Altra esitazione. Altro silenzio. Di nuovo soltanto quel mormorio, come
se la luce lunare fluisse. E poi, finalmente, riecco la voce.
«La porta si chiuse sbattendo... ma io restai immobile sul posto... ero
come ipnotizzato dal suo ordine... la sentii scendere le scale, chiudere la
porta di casa... sentivo tutto, e ogni mio impulso era teso a inseguirla... per...
che ne so... per chiamarla indietro o picchiarla o strozzarla... era teso
comunque a correrle dietro... dietro... Eppure non ne ero capace. Le mie
membra erano come paralizzate da una scossa elettrica... ero stato colpito,
colpito fin dentro il midollo dal lampo dispotico di quello sguardo... Lo so,
lo so che non si può spiegare, che non si può raccontare... sembrerà
ridicolo, ma io rimasi lì inchiodato... mi ci vollero dei minuti, forse cinque,
forse dieci, prima che riuscissi a staccare un piede da terra...
«Ma come lo feci, ero già su di giri, una scheggia... in un baleno scesi le
scale... Non poteva essersi avviata che verso la civiltà... mi precipito alla
rimessa, per prendere la bicicletta, mi accorgo che ho dimenticato la chiave,
scardino la porta, tra schianti e schegge del bambù... balzo in sella e le corro
dietro all’impazzata... devo... devo raggiungerla, prima che arrivi alla sua
macchina... parlarle... La strada mi sfreccia accanto polverosa... solamente
ora mi rendo conto di quanto devo essere rimasto lassù impietrito... ed
ecco... alla curva del bosco, appena prima dell’ambulatorio, la vedo andare
di fretta con passo rigido, impettito, in compagnia del boy... Ma anche lei
deve avermi scorto, perché parlotta con il boy, che resta indietro, mentre lei
prosegue da sola... Che cosa intende fare? Perché vuole essere sola?...
Vuole parlare con me, senza che quello senta?... Con furia cieca pesto sui
pedali... Quand’ecco, sbucando da un lato, qualcosa mi taglia la strada... il
boy... riesco appena a fare uno scarto con la bicicletta e volo via di
schianto...
«Mi rialzo bestemmiando... agito istintivamente il pugno, per suonarle a
quel deficiente, ma lui salta da parte... Tiro su la bicicletta, per rimettermi in
sella... Ma il manigoldo si fa sotto, la afferra e dice nel suo inglese pietoso:
“You remain here”.
«Lei non ha vissuto nei tropici... non sa quale sfrontatezza sia che un
farabutto giallo del genere osi bloccare la bicicletta a un “signore” bianco e
ordinargli di non muoversi. Per tutta risposta, io gli sparo in faccia un
pugno... lui barcolla, ma non lascia la presa... i suoi occhi, i suoi occhi
stretti, da codardo, sono dilatati, per servile terrore... ma si attacca al
manubrio, con morsa diabolica... “You remain here” balbetta un’altra volta.
Fortuna che non avevo con me il revolver. Altrimenti lo avrei ammazzato.
“Via, canaglia!” mi limito a dire. Lui mi fissa rattratto, ma non molla il
manubrio. Gli do un altro colpo in testa, e quello seguita a non mollare.
Allora mi prende la rabbia... vedo che lei è già sparita, forse mi è già
scappata... e gli appioppo un gancio sotto il mento, secondo le migliori
regole pugilistiche, che lo fa rimbalzare via, steso. Eccomi di nuovo
padrone della bicicletta... ma come mi avvio, si inceppa... nella
colluttazione si è storto un raggio... Cerco di raddrizzarlo con le mani che
mi tremano... Non ci riesco... per cui sbatto la bicicletta in mezzo alla
strada, accanto al mascalzone, che si rialza sanguinante e si fa da parte... E
poi... no, lei non può capire quanto sia ridicola la cosa, se là davanti a tutti
un europeo... insomma, non sapevo più quello che facevo... avevo in testa
un solo pensiero: inseguirla, raggiungerla... e così mi misi a correre, a
correre come un forsennato per la strada, passando di volata davanti alle
capanne, dove la ciurmaglia gialla si affacciava stupita per veder correre un
uomo bianco, il dottore.
«Arrivai all’ambulatorio che ero sudato fradicio... La mia domanda
immediata: dov’è la macchina?... Appena partita... Gli astanti mi guardano
con stupore: devo sembrar loro impazzito appena mi vedono
sopraggiungere tutto bagnato e sudicio, gridando la domanda da lontano,
prima ancora di fermarmi... In fondo alla strada vedo vorticare bianco il
polverone sollevato dall’automobile... ci è riuscita... ci è riuscita, così come
ogni cosa deve riuscire al suo calcolo duro, spietatamente duro.
«Ma la fuga non le serve... Nei tropici non ci sono segreti fra europei...
Tutti conoscono tutti, ogni cosa diviene un evento... Non per niente il suo
chauffeur è rimasto un’ora nel bungalow dell’amministrazione... nel giro di
pochi minuti so tutto... So chi è lei... che abita a... sì, insomma, nella città
dove ha sede il governo, a otto ore di treno da lì... che è, diciamo, la moglie
di un grande commerciante, ricchissima, distinta, un’inglese... so che il
marito è in America da cinque mesi e dovrebbe tornare nel giro di pochi
giorni, per portarla con sé in Europa...
«Ma lei – e l’idea mi brucia nelle vene come un veleno –, lei può essere
in stato interessante da due o tre mesi al massimo...».
«Finora, bene o male, ho potuto renderle comprensibile ogni cosa... forse
soltanto perché sino a quel momento io ero ancora in grado di comprendere
me stesso... fornendomi, in quanto medico, la diagnosi del mio stato. Ma da
allora si scatenò in me come una febbre... persi il controllo... ossia, sapevo
benissimo quanto fosse assurdo quello che facevo; ma non avevo più alcun
potere su di me... non riuscivo più a capirmi... andavo avanti unicamente
nell’ossessione del mio miraggio... Però, aspetti... forse riesco ugualmente a
dargliene un’idea... Lei sa che cos’è l’amok?».
«L’amok?... Mi pare di ricordarlo... una sorta di ebbrezza presso i
malesi...».
«È più che ebbrezza... è una follia rabbiosa, una specie di idrofobia
umana... un accesso di monomania omicida, insensata, non paragonabile a
nessun’altra intossicazione alcolica... io stesso, durante il mio soggiorno, ho
studiato alcuni casi – quando si tratta degli altri, si è sempre molto accorti e
molto distaccati –, senza tuttavia arrivare a scoprire il terribile segreto del
loro scatenarsi... In qualche modo è connesso con il clima, con
quell’atmosfera afosa, soffocante, che pesa sui nervi come un temporale,
finché, prima o poi, saltano... Dunque, l’amok... sì, l’amok è così: un
malese, un uomo molto semplice, assolutamente bonario, si beve il suo
intruglio... se ne sta lì seduto, apatico, indifferente, spento... come me ne
stavo io nella mia stanza... e all’improvviso balza in piedi, afferra il pugnale
e corre in strada... corre sparato come una freccia, sempre diritto, senza
deflettere... senza sapere dove... Chi gli si para davanti, essere umano o
animale, viene trafitto dal suo kris, e l’orgia di sangue non fa che eccitarlo
maggiormente... Mentre corre, ha la schiuma alle labbra e urla come un
forsennato... ma continua a correre e correre, senza guardare né a destra né
a sinistra, corre e basta, con il suo urlo acutissimo, con il suo kris
insanguinato, in quella rettilineità mostruosa... La gente nei villaggi sa che
nessuna forza può fermare un invasato dall’amok... perciò danno l’allarme
in anticipo, quando arriva, e gridano: “Amok! Amok!” e tutti scappano...
ma l’ossesso corre senza sentire, corre senza vedere, pugnala tutto ciò che
gli capita davanti... finché non lo ammazzano a fucilate come un cane
rabbioso, oppure crolla da solo, sbavando...
«Una volta l’ho visto, dalla finestra del mio bungalow... uno spettacolo
orrendo... ma solo avendolo io visto, riesco a capire me stesso in quei
giorni... perché così, esattamente così, con la stessa fissità terribile e
rettilinea dello sguardo, senza guardare né a destra né a sinistra, con la
medesima ossessività, mi lanciai di corsa... dietro a quella donna... Non
ricordo più come ho fatto tutto quanto, mi è passato accanto a ritmo
assolutamente folle, a velocità pazzesca... Dieci, no, cinque, no, due
minuti... dopo aver saputo tutto di quella donna – nome, domicilio, sorte –,
già pedalavo in fretta verso casa su una bicicletta presa in prestito lì per lì;
arrivato, gettai nella valigia un vestito, misi in tasca dei soldi e me ne andai
alla stazione con la mia carrozza... me ne andai senza congedarmi presso il
funzionario distrettuale... senza nominare un sostituto, piantando lì la casa
così com’era, tutta aperta... I servitori mi stavano intorno, le donne,
sbalordite, facevano domande, io non risposi, neanche mi voltai... me ne
andai alla ferrovia, e poi in città con il primo treno... Nel giro di un’ora, da
che quella donna era entrata nella mia stanza, mi ero buttato la vita alle
spalle lanciandomi alla cieca nel furore dell’amok...
«Una corsa rettilinea, dando la testa nel muro... alle sei della sera ero a
destinazione... alle sei e dieci a casa sua, dove mi feci annunciare... Era... lei
lo avrà capito... la cosa più insensata, la cosa più stupida che potessi fare...
ma l’invasato dall’amok corre con gli occhi vuoti, non vede dove sta
correndo... Dopo qualche minuto il servitore tornò... cortese e freddo... la
signora non si sentiva bene e non poteva ricevermi.
«Uscii dalla porta barcollando... Per un’ora seguitai ad aggirarmi intorno
alla casa, nella folle speranza che lei magari mi potesse cercare... poi presi
una stanza all’albergo della spiaggia e due bottiglie di whisky in camera...
che insieme a una doppia dose di veronal fecero il loro effetto... finalmente
mi addormentai... e quel sonno greve, limaccioso, fu l’unica sosta in questa
corsa tra la vita e la morte».
Risuonò la campana di bordo. Due colpi secchi, decisi, che seguitarono a
vibrare nello stagno morbido dell’aria quasi immobile e quindi si spensero
nel sommesso, incessante frusciare che da sotto la prora e tra le pieghe del
passionale discorso si perpetuava tenace. L’uomo nel buio di fronte a me
doveva essere trasalito con sgomento, il suo discorso si inceppò. Di nuovo
udii la mano che a tastoni andava in cerca della bottiglia, di nuovo quel
tracannare smorzato. Poi, come rinfrancatosi, riprese con voce più ferma.
«Non saprei raccontarle le ore a partire da quel momento. Oggi penso che
allora avevo la febbre, certamente ero in uno stato di sovreccitazione che
rasentava la follia: un invasato dall’amok, come le ho detto. Ma non
dimentichi che era la sera del martedì, quando arrivai, e che sabato – come
avevo appreso nel frattempo – doveva arrivare da Yokohama suo marito con
il piroscafo della P. & O., per cui restavano soltanto tre giorni, tre giorni
appena per la decisione e l’intervento. Cerchi di capire: sapevo di doverla
aiutare subito, eppure non avevo modo di parlare con lei. E proprio il
bisogno di giustificare il mio comportamento ridicolo, demenziale, mi
spronava oltre. Sapevo che ogni attimo era prezioso, sapevo che per lei era
questione di vita o di morte, e tuttavia non avevo alcuna possibilità di
arrivare a lei con un bisbiglio, con un cenno, perché la zotica furia del mio
correrle appresso l’aveva spaventata. Era... sì, aspetti... era come se uno
rincorresse un altro per metterlo in guardia da un assassino, e l’altro
scambiasse giusto lui per l’assassino, seguitando così in quella corsa verso
la perdizione... lei in me vedeva soltanto l’invasato dall’amok che la
inseguiva per umiliarla, mentre io... e questo era l’equivoco tremendo... io
neppure ci pensavo più... ero ormai completamente distrutto, volevo solo
aiutarla, servirla... avrei commesso un omicidio, un delitto, pur di aiutarla...
Ma lei, lei non lo capiva. Quando al mattino mi svegliai e corsi subito a
casa sua, sulla porta trovai il boy, quello stesso che avevo pestato in faccia,
e come lui mi vide da lontano – doveva avermi atteso – sgusciò dentro.
Forse lo fece solamente per annunciarmi di nascosto... forse... ah, questa
incertezza, come mi tormenta adesso... forse tutto era già disposto per la
mia visita... ma io, nel vederlo e nel ricordare la mia umiliazione, non ebbi
il coraggio di presentarmi di nuovo... Mi tremavano le ginocchia. A un
passo dalla soglia feci dietrofront e me ne andai... me ne andai, mentre lei
magari mi attendeva con analogo tormento.
«A questo punto non sapevo più che cosa fare in quella città sconosciuta,
che mi bruciava alle calcagna come il fuoco... Di colpo mi venne un’idea,
subito chiamai una carrozza, per andare da quel viceresidente che avevo
curato a suo tempo nel mio ambulatorio, e mi feci annunciare... Nell’aspetto
esteriore doveva esserci in me qualcosa di strano, perché lui mi guardò
come spaventato, e nella sua cortesia si avvertiva una certa apprensione...
forse in me aveva già intuito l’invasato dall’amok... Io gli dissi, deciso e
sbrigativo, che chiedevo il mio trasferimento in città, perché non ce la
facevo a resistere oltre nella mia sistemazione... dovevo cambiare aria
immediatamente... Lui mi guardò... non saprei dirle come mi guardò... ecco,
come un medico guarda un malato... “Un esaurimento nervoso, caro
dottore,” disse poi “posso capirlo sin troppo bene. Sì, in qualche modo si
riuscirà a giostrare la faccenda; ma aspetti... facciamo un mese... devo
prima trovare un sostituto”.
«“Non posso aspettare, neanche un giorno” risposi io. Di nuovo mi puntò
quello sguardo strano. “Lei deve aspettare, dottore,” disse severo “non
possiamo lasciare senza medico l’ambulatorio. Ma le prometto che avvierò
le pratiche oggi stesso”. Io restai immobile, a denti stretti: per la prima volta
ebbi la sensazione netta di essere un uomo venduto, uno schiavo. Già si
stava profilando la rivolta, ma lui abilmente mi prevenne: “Lei si è
disabituato alla frequentazione umana, dottore, e questo alla fine diventa
una malattia. Tutti ci siamo meravigliati che lei non venisse mai qui, non si
prendesse mai una vacanza. Ha bisogno di gente intorno, di stimoli
maggiori. Venga almeno stasera, c’è un ricevimento al palazzo del governo,
ci troverà l’intera colonia, e tanti da un pezzo vorrebbero fare la sua
conoscenza, spesso hanno chiesto di lei, sperando di vederla qui”.
«Le ultime parole mi riscossero. Chiesto di me? Forse era stata lei? D’un
tratto ero un altro: lo ringraziai all’istante con la massima cortesia per
l’invito e assicurai la mia presenza puntuale. E in effetti fui puntuale, troppo
puntuale. Non occorre dirle che io, incalzato dalla mia impazienza, ero il
primo nella grande sala del palazzo del governo; ero attorniato dai servitori
gialli che andavano e venivano in servizio, svelti, con il passo elastico dei
loro piedi scalzi e con risolini di compatimento – così mi pareva nella
mente stravolta – alle mie spalle. Per un quarto d’ora fui l’unico europeo in
mezzo a tutti quei preparativi silenziosi, e a tal punto solo con me stesso da
sentire il ticchettio dell’orologio nella tasca del panciotto. Poi arrivarono
finalmente alcuni funzionari dell’amministrazione con le loro famiglie,
quindi anche il governatore, che mi intrattenne in un colloquio piuttosto
lungo, ottenendo da me risposte appropriate e – credo – abili, finché...
finché all’improvviso, preso da inspiegabile nervosismo, perdetti ogni
scioltezza e mi misi a balbettare. Per quanto volgessi le spalle alla porta del
salone, avvertii in un lampo che lei era entrata, che doveva essere lì: non
saprei dirle perché mi venne quell’improvvisa certezza sconvolgente, ma
mentre ancora parlavo con il governatore e mi giungeva all’orecchio il
suono delle sue parole, sentivo non so dove dietro di me la presenza di lei.
Per fortuna il governatore concluse in breve il colloquio, altrimenti – credo
– mi sarei di colpo girato con poca cortesia, così forte era lo spasmo
misterioso nei miei nervi, così eccitato e bruciante il mio desiderio. E in
effetti, come mi voltai, subito la vidi proprio là dove in maniera inconscia il
mio sentimento l’aveva intuita. Stava chiacchierando in mezzo a un gruppo,
con un abito da sera giallo che dava risalto luminoso, come di avorio
satinato, alle sue spalle esili, levigate. Sorrideva, ma a me parve di notare
nel suo volto un che di teso. Mi avvicinai – lei non poteva o non voleva
vedermi – e contemplai quel sorriso, che aleggiava compiacente e garbato
intorno alle labbra sottili. E quel sorriso mi affascinò di nuovo, perché... sì,
perché sapevo che era mendace, artificio o tecnica, maestria della
simulazione. Oggi è mercoledì, mi passò per la mente, sabato arriva la nave
con il marito... come può sorridere in quel modo, così... così sicura, così
spensierata, e agitare nella mano con tanta disinvoltura il ventaglio, invece
di stringerlo spasmodicamente con angoscia? Io... io, che ero un estraneo...
tremavo da due giorni all’idea di quel momento... io, che ero un estraneo,
vivevo come mia, con tutti gli eccessi del sentimento, la sua angoscia
tremenda... e lei andava al ballo e sorrideva, sorrideva, sorrideva...
«Verso il fondo attaccò la musica. Cominciavano le danze. Un anziano
ufficiale le aveva chiesto un ballo, e lei, scusandosi, lasciò il crocchio e al
braccio del cavaliere si avviò in direzione dell’altra sala, passandomi
accanto. Appena mi vide, il suo volto si contrasse di colpo violentemente,
ma un attimo soltanto, poi con un cortese cenno del capo (prima ancora che
io avessi deciso se salutarla o meno), come a una casuale conoscenza, disse:
“Buona sera, dottore”, e già era passata oltre. Nessuno avrebbe potuto
supporre che cosa si nascondesse in quello sguardo grigioverde, e io, io
stesso non lo sapevo. Perché mi salutava... perché d’un tratto mi
riconosceva?... Era un gesto di difesa, era una mossa di approccio, era solo
l’imbarazzo della sorpresa? Non le so descrivere in quale stato di agitazione
io rimasi lì, tutto dentro di me era sconvolto, compresso in maniera
esplosiva, e mentre la vedevo ballare così, disinvolta, il valzer insieme
all’ufficiale – sulla fronte lo splendore distaccato della spensieratezza –,
sapendo che lei... che lei, come me, pensava soltanto a quello... a quello...
che lì noi due soli avevamo in comune un terribile segreto... e lei seguitava
a ballare... in quegli istanti la mia angoscia, la mia bramosia e ammirazione
divennero passione, grande come non mai. Non so se qualcuno mi avesse
osservato, ma certamente il mio comportamento era assai più rivelatore che
non la maestria di lei nel dissimulare: non mi riusciva proprio di guardare in
un’altra direzione, ero costretto... sì, ero obbligato a fissarla, da lontano
risucchiavo, sì, con violenza traevo a me il suo volto inaccessibile, sperando
di far cadere la maschera per un attimo soltanto. E lei dovette avvertire con
fastidio quello sguardo penetrante. Come ritornò, al braccio del suo
cavaliere, nel lampo di un secondo mi guardò assolutamente dispotica,
quasi per scacciarmi: di nuovo le si contrasse cattiva sulla fronte quella
piccola ruga di collera altezzosa, che mi era nota già da prima.
«Ma... ma... come le ho detto... io ero in preda all’amok, non guardavo né
a destra né a sinistra. La capii immediatamente; quello sguardo significava:
non dare nell’occhio! tieniti a freno! Sapevo che lei... come dire?... che lei
voleva da me discrezione di comportamento lì in sala, di fronte a tutti...
capivo che, se a quel punto me ne fossi andato, il giorno dopo potevo essere
certo che lei mi avrebbe ricevuto... che solo in quel momento, solo in quel
momento voleva evitare di esporsi alla mia plateale confidenza, che temeva
– senz’altro a ragione, del resto – qualche scena per la mia goffaggine...
Come vede... mi rendevo conto di tutto, avevo inteso quello sguardo grigio
imperioso, ma... ma era più forte di me: dovevo parlarle. Sicché mi accostai
vacillante al gruppo in cui lei stava chiacchierando e, sebbene conoscessi
soltanto alcuni dei presenti, mi insinuai nel crocchio informale, per mero
desiderio di sentirla parlare, sempre però timorosamente rattratto, come un
cane bastonato, di fronte al suo sguardo, quando freddo mi sfiorava, quasi
fossi la portiera di lino alla quale stavo addossato, oppure l’aria che lieve la
muoveva. Ma io lì fermo, assetato di una parola che lei mi rivolgesse, di un
cenno di intesa; fermo, immobile, con lo sguardo fisso, come un macigno in
mezzo ai conversari. Senz’altro la cosa doveva essere saltata all’occhio,
senz’altro – dato che nessuno mi diceva una parola, e lei certamente
soffriva per la mia ridicola presenza.
«Non so quanto sarei rimasto lì a quel modo... un’eternità, forse... perché
non ero in grado di affrancarmi da quella fascinazione della volontà. Mi
paralizzava proprio la pervicacia della mia rabbia... Ma lei non lo tollerò più
a lungo... all’improvviso si rivolse ai signori con la splendida leggerezza a
lei connaturata e disse: “Mi sento un po’ stanca... oggi, per una volta, vorrei
andare a letto prima... Buona notte!” e già mi passava accanto con un cenno
della testa mondanamente distaccato... vidi giusto ancora la ruga incisa sulla
fronte e poi soltanto la schiena, bianca, fredda, nuda. Mi ci volle un attimo,
prima di rendermi conto che se ne stava andando... che non avrei più potuto
vederla né parlarle quella sera, l’ultima per la sua salvezza... sicché rimasi
impietrito un istante, fino al momento in cui non me ne resi conto... poi...
poi...
«Ma aspetti... aspetti... altrimenti non capirà l’insensatezza, la stupidità
del mio comportamento... devo prima descriverle per bene l’ambiente... Era
il salone del palazzo del governo, tutto illuminato dalle luci e quasi vuoto,
la sala enorme... le coppie erano andate a ballare, i signori a giocare... solo
negli angoli conversava qualche gruppo... quindi la sala era deserta, ogni
gesto spiccava con evidenza nella luce molto intensa... e lei attraversò quel
vasto salone con passo lento e leggero, le spalle erette, qua e là rispondendo
a un saluto con i suoi modi indescrivibili... con quella stupenda calma
glaciale da regina, che in lei mi affascinava tanto... Io... io, come le ho già
detto, ero rimasto lì, immobile, paralizzato, prima di capire che se ne stava
andando... e quando poi me ne resi conto, lei era già all’altro capo della
sala, a pochi passi dalla porta... Allora... ah, me ne vergogno ancora adesso
al solo pensiero... allora qualcosa mi sopraffece all’improvviso, e mi misi a
correre, sì, ha sentito bene: correvo... non camminavo, correvo – con quel
pestare delle scarpe che rimbombava nella vastità dell’eco – attraverso il
salone, dietro a lei... Sentivo i miei passi, vedevo tutti gli sguardi puntati su
di me con stupore... avrei voluto sprofondare dalla vergogna... mentre
ancora stavo correndo, mi ero già reso conto del mio gesto pazzesco... ma
non potevo... non potevo più tornare indietro... La raggiunsi sulla porta...
Lei si voltò... i suoi occhi mi trafissero come una lama d’acciaio grigia, le
sue narici tremavano dalla rabbia... io stavo giusto cominciando a
farfugliare... ed ecco... ecco che lei scoppiò a ridere di botto e
sonoramente... una risata schietta, spensierata, cordiale, e disse a voce alta...
così forte, che tutti potessero sentirla... “Ah, dottore, soltanto ora le viene in
mente la ricetta per il mio ragazzino... già, lorsignori della scienza...”.
Alcuni, lì vicino a noi, risero bonariamente... io afferrai, sconvolto per la
maestria con cui lei aveva salvato la situazione... misi mano al portafogli e
strappai dal blocco un foglietto in bianco, che lei prese con aria disinvolta,
prima di... andarsene... un’altra volta... con un sorriso freddo di
ringraziamento... Lì per lì mi sentii sollevato... vedevo la mia demenza
neutralizzata dalla sua abilità, la situazione salva... ma ebbi anche
l’immediata percezione che tutto per me era perduto, che per la mia stolidità
focosa quella donna mi odiava... mi odiava più della morte... che ora mi
sarei potuto presentare alla sua porta cento volte e cento volte ancora, e lei
mi avrebbe cacciato via come un cane.
«Attraversai la sala barcollando... sentivo che la gente mi guardava...
dovevo avere un’aria strana... Andai al buffet, bevvi due, tre, quattro cognac
di fila... questo mi salvò dallo stramazzare... i miei nervi non reggevano più,
erano come lacerati... Poi me la svignai per una porta secondaria, di
nascosto come un ladro... Per nessun reame al mondo avrei più potuto
attraversare un’altra volta quella sala, in cui la risata di lei era ancora
appiccicata, stridula, alle pareti... me ne andai... dove, non saprei più dire
esattamente... in un paio di bettole, a sbronzarmi... a sbronzarmi come uno
che voglia cancellare nella sbornia ogni barlume di coscienza... ma... in me
non si realizzò l’ottundimento dei sensi... la risata mi stava dentro, acuta e
cattiva... la risata, quella maledetta risata non riuscivo a stordirla... Poi
vagolai ancora per il porto... avevo lasciato in camera il mio revolver,
altrimenti mi sarei sparato. Non pensavo ad altro, e con quell’idea fissa
andai in albergo... solo con quel pensiero al cassetto di sinistra
nell’armadio, dove stava il mio revolver... con quell’idea soltanto.
«Che poi non mi sia sparato... glielo giuro, non fu vigliaccheria... sarebbe
stata per me una liberazione premere il grilletto freddo già in tensione...
ma... non saprei come spiegarglielo... sentivo ancora in me un dovere... sì,
quel dovere di aiutare, quel maledetto dovere... mi faceva impazzire l’idea
che lei potesse ancora aver bisogno di me, che io le fossi necessario... era
già la mattina del giovedì, quando tornai in albergo, e sabato... come le ho
detto... sabato arrivava la nave, e sapevo che quella donna, quella donna
altera, orgogliosa, non sarebbe sopravvissuta al disonore di fronte al marito,
di fronte al mondo... Ah, quanto mi tormentarono questi pensieri: di aver
perso assurdamente del tempo prezioso, di aver agito con demenziale
precipitazione, vanificando ogni soccorso tempestivo... per ore, sì, per ore,
glielo giuro, mi sono aggirato nella stanza, scervellandomi su come avrei
potuto avvicinarla, sanare ogni cosa, esserle di aiuto... perché ero certo che
lei non mi avrebbe più ammesso in casa sua... la sua risata e il tremito di
rabbia alle narici mi bruciavano ancora in ogni nervo... per ore, davvero, per
ore, sono andato avanti e indietro nei tre metri di quella stanza angusta... era
già giorno ormai, mattina inoltrata...
«E improvvisamente piombai al tavolo... strappai fuori un fascio di fogli
da lettera e cominciai a scriverle... a scriverle tutto... una lettera implorante
come il guaire di un cane, una lettera in cui le chiedevo perdono, in cui mi
davo del mentecatto, del criminale... in cui la supplicavo di affidarsi a me...
Giuravo di scomparire, tempo un’ora, dalla città, dalla colonia, e se lei lo
voleva, dal mondo... purché mi perdonasse e confidasse in me, lasciandosi
soccorrere all’ultimo, ultimissimo momento... Venti pagine riempii con
febbrile eccitazione... deve essere stata una lettera folle, indescrivibile, un
parto delirante, perché quando mi alzai dal tavolo ero in un bagno di
sudore... la stanza ballava, dovetti bere un bicchier d’acqua... Poi cercai di
rileggere lo scritto, ma dopo qualche parola mi prese l’orrore... ripiegai i
fogli tremando, e già afferravo una busta... Ed ecco all’improvviso
l’ispirazione. Di colpo mi venne la parola giusta, decisiva. E di nuovo
strinsi la penna tra le dita e scrissi sull’ultima facciata: “Attendo qui
all’albergo della spiaggia un cenno di perdono. Se non ottengo risposta
entro le sette, mi sparo”.
«Poi presi la lettera e ordinai a un cameriere di recapitarla subito.
Finalmente tutto era detto: tutto!».
Qualcosa rotolò con suono di vetro accanto a noi. Con un movimento
brusco aveva rovesciato la bottiglia del whisky; sentii la sua mano tastare,
cercandola, sul pavimento e poi afferrarla con slancio improvviso: scagliò
in mare a parabola la bottiglia scolata. Per qualche minuto la voce tacque,
poi il medico riprese febbrile, più agitato e concitato di prima.
«Io non sono più un cristiano di salda fede... per me non esiste né il
paradiso né l’inferno... e se anche ci fosse, l’inferno, a me non fa paura,
perché non può essere peggio delle ore che ho passato da quella mattina
fino alla sera... Immagini una piccola stanza, un forno sotto il sole, sempre
più arroventata dal fuoco del meriggio... una stanza angusta: un tavolo, una
sedia, un letto, e basta... E su quel tavolo nient’altro che un orologio e un
revolver, e davanti al tavolo un essere umano... un essere umano intento
unicamente a fissare senza sosta quel tavolo, la lancetta dei secondi... un
essere umano che non mangia e non beve e non fuma e non si muove... che
sempre e soltanto... proprio così: sempre e soltanto... capisce?... per tre ore
filate... guarda fisso il disco bianco del quadrante e la lancetta che percorre
ticchettando il cerchio... Così... così... ho trascorso quella giornata,
solamente aspettando, aspettando, aspettando... ma era un’attesa come...
come, appunto, può farla un invasato dall’amok: assurda, bestiale, con la
stessa folle perseveranza rettilinea.
«Comunque... non le racconterò quelle ore... non si possono descrivere...
io stesso non riesco più a capire come si possa fare un’esperienza del
genere, senza... senza impazzire... Dunque... alle tre e ventidue minuti... lo
so con esattezza, perché fissavo l’orologio... all’improvviso bussano alla
porta... Io salto su... con un balzo, come una tigre scatta sulla preda, volo
attraverso la stanza fino alla porta, spalancandola... fuori c’è un ragazzino
cinese impaurito, con un foglio ripiegato in mano, e mentre io afferro avido
la missiva, lui se la svigna e scompare.
«Spiego con furia il biglietto, faccio per leggerlo... e non ci riesco...
Davanti agli occhi ho una nebbia rossa... si immagini lo strazio: finalmente
lei mi manda un cenno, finalmente... e ora è tutto un tremolio, tutta una
ridda nelle mie pupille... Immergo la testa nell’acqua... e mi sento più
lucido... Riprendo in mano il foglio e leggo: “Troppo tardi! Ma non si
muova dall’albergo. Forse la manderò a chiamare”.
«Nessuna firma sulla carta spiegazzata, lacerto di qualche vecchio
dépliant... tratti a matita frettolosi, confusi, di una scrittura solitamente
senza sbavature... non so perché quel foglio mi sconvolgesse tanto... Aveva
un che di orrido, di misterioso, pareva scritto durante una fuga, in piedi al
davanzale di una finestra, o in un veicolo in moto... Un indescrivibile senso
di angoscia, di fretta, di sgomento emanava da quel biglietto furtivo e mi
riempiva di gelo l’anima... e tuttavia... e tuttavia ero felice: lei mi aveva
scritto, non dovevo ancora morire, potevo esserle di aiuto... forse... potevo...
ah, mi perdevo completamente nelle congetture e speranze più pazzesche...
Cento, mille volte ho riletto, ho baciato quel piccolo foglio... alla ricerca di
una parola sfuggita, non vista... sempre più profonda, più confusa divenne
la mia allucinazione, uno stato fantastico di sogno a occhi aperti... una sorta
di paralisi, un che di torpido e tuttavia agitato, a metà tra il sonno e la
veglia, che forse durò quarti d’ora o forse ore...
«All’improvviso trasalii... Non avevano bussato?... Restai con il fiato
sospeso... per un minuto o due, silenzio assoluto... E poi di nuovo, appena
percettibile, come un rodere di topo, un tamburellare smorzato ma
veemente... Balzai in piedi, ancora stordito, spalancai la porta: fuori c’era il
boy, il suo boy, quello stesso al quale avevo spaccato il muso a cazzotti... la
sua faccia bruna era pallida come un cencio, lo sguardo stravolto
annunciava sventura... Di colpo mi prese il terrore... “Che cosa... che cosa è
successo?” stentai a balbettare. “Come quickly” disse... niente altro... subito
scesi a precipizio le scale, e lui dietro... In basso attendeva un sado, un
carrozzino leggero, montammo... “Che è successo?” gli chiesi... Lui mi
guardò tremando e tacque con le labbra serrate... Tornai a domandare;
seguitò a non proferire motto... Avrei voluto prenderlo di nuovo a pugni in
faccia, ma... proprio la sua supina devozione nei confronti di lei mi
commuoveva... per cui non feci più domande... Il carrozzino procedeva con
tale fretta in mezzo al bailamme che la gente schizzava da parte
bestemmiando, passò dal quartiere europeo della spiaggia alla città bassa e
oltre, nel labirintico frastuono del quartiere cinese... Finalmente arrivammo
in un vicolo angusto, del tutto appartato... il carrozzino si fermò davanti a
una casa bassa... Era sporca e come accucciata su se stessa, sul davanti una
piccola bottega con un lume di sego... una di quelle stamberghe in cui si
celano le fumerie di oppio o i bordelli, un covo di ladri o ricettatori... Il boy
bussò con furia... Dietro la fessura della porta bisbigliò una voce, ponendo
una serie di domande... Non ce la feci più: saltai giù dal sedile, spalancai
con una spinta la porta socchiusa... una vecchia cinese scappò a ritroso con
un piccolo grido... dietro di me era entrato il boy, che mi condusse
attraverso il corridoio... aprì un’altra porta... un’altra porta, di una stanza
buia, maleodorante, un lezzo di acquavite e sangue rappreso... Dentro,
qualcosa gemeva... mi avvicinai a tentoni...».
La voce si inceppò nuovamente. E quello che poi eruppe era più un
singhiozzio che un parlare vero e proprio.
«Io... io mi avvicinai a tentoni... e lì... lì, stesa su una stuoia lercia... si
torceva dal dolore... gemendo, una creatura umana... lei...
«Non riuscivo a scorgere il suo volto nell’oscurità... I miei occhi non
erano ancora assuefatti... per cui tastai alla cieca... la sua mano... scottava...
scottava come il fuoco... febbre, febbre alta... e io rabbrividii... in un lampo
avevo afferrato tutto... si era rifugiata lì, per evitare me... si era fatta
massacrare da una lurida cinese, solo perché lì si aspettava maggiore
discrezione... si era lasciata trucidare da una diabolica mammana, piuttosto
che affidarsi a me... soltanto perché io, mentecatto... perché io non avevo
rispettato il suo orgoglio, non l’avevo aiutata subito... perché, più della
morte, lei temeva me...
«Urlai che facessero più luce. Il boy partì di corsa: l’immonda cinese,
con mani tremanti, portò una lampada a petrolio che dava fumo... dovetti
trattenermi, per non saltare alla gola di quella canaglia gialla... posarono la
lampada sul tavolo... la luce piovve calda e intensa sul corpo martoriato... E
all’improvviso... all’improvviso in me era sparito tutto: ogni stordimento,
ogni rabbia, tutto lo sporco liquame della passione accumulata... ero
soltanto un medico, un essere umano soccorrevole, sensibile, esperto...
dimentico di me stesso... lottavo con mente lucida, pronta, contro l’orribile
sciagura... Sentivo nel corpo nudo, concupito nei miei sogni, solo... come
dire?... solo la materia, l’organismo... non sentivo più lei, ma unicamente la
vita che si ribellava alla morte, la creatura umana che si torceva dallo
strazio atroce... Il suo sangue, il suo sangue caldo, sacro, mi inondava le
mani, ma non lo percepivo con voluttà né con orrore... non ero che un
medico... altro non vedevo se non la sofferenza... e vidi...
«E vidi subito che tutto era perduto, se non accadeva un miracolo... era
sconciata e mezzo dissanguata per colpa della criminale mano inesperta... e
io non avevo niente lì, in quella fetida spelonca, per tamponare il sangue,
nemmeno dell’acqua pulita... tutto ciò che toccavo era pieno di lerciume...
«“Dobbiamo andare immediatamente all’ospedale” dissi. Ma appena ebbi
proferito qualche parola, il corpo martoriato si inalberò in uno spasmo.
“No... no... meglio morire... nessuno saperlo... nessuno saperlo... a casa... a
casa...”.
«Capivo... ormai lottava soltanto per la segretezza, per il suo onore... non
per la vita... E io... io obbedii... Il boy giunse con una lettiga... ve la
coricammo sopra... e così... già simile a un cadavere, spenta e
febbricitante... la portammo attraverso la notte... a casa... scansando la
servitù che domandava sgomenta... come ladri la facemmo entrare nella sua
stanza, sbarrando le porte... E allora... allora cominciò la lotta, la lunga lotta
contro la morte».
All’improvviso la sua mano attanagliò il mio braccio, e per poco non mi
misi a urlare dallo spavento e dal dolore. Nel buio la sua faccia di colpo mi
si parò davanti stravolta, vedevo il bianco dei denti scoperti nello sfogo
subitaneo, gli occhiali che baluginavano nel riflesso smorto della luce
lunare come due enormi pupille di gatto. E ora non parlava più: gridava,
scosso da una rabbia singhiozzante.
«Ma lo sa lei, lei sconosciuto che siede qui comodamente su una sdraio
di coperta, lei che se ne va a passeggio per il mondo, lo sa lei che cosa
succede alla morte di un essere umano? Vi ha mai assistito lei, ha visto il
corpo inarcarsi, le unghie blu artigliare il vuoto, la gola rantolare, le
membra ribellarsi tutte quante, ogni dito impuntarsi contro la sorte atroce, e
l’occhio sbarrarsi in un orrore per il quale non esistono parole? Questo l’ha
mai vissuto lei, lei che se ne sta in ozio, che viaggia per il mondo, che
blatera del dovere di portare aiuto? Io, in quanto medico, l’ho visto spesso
come... caso clinico, come dato di fatto... l’ho per così dire studiato, ma
viverlo, con intima partecipazione, l’ho vissuto una volta sola, soltanto
quella notte sono veramente morto anch’io... quella notte tremenda in cui
ero lì seduto a stillarmi il cervello per escogitare, tirar fuori, inventarmi
qualcosa che potesse fermare il sangue che scorreva e scorreva e scorreva,
per vincere la febbre che la bruciava davanti ai miei occhi... contro la morte
che incalzava sempre più da presso e che io ero incapace di allontanare dal
suo letto. Capisce che cosa significa essere medico, conoscere tutti i rimedi
per tutte le malattie – avere l’obbligo di aiutare, come lei tanto saggiamente
dice – e startene seduto impotente presso una donna che muore, imbottito di
scienza eppure privo di ogni potere... conscio di una sola cosa, atroce: che
non puoi essere di aiuto, neanche squarciandoti ogni vena del corpo...
vedere un corpo amato dissanguarsi miseramente in uno strazio di
sofferenze, sentire un battito che galoppa e insieme si spegne... che ti scorre
via sotto le dita... essere medico e non essere capace di nulla, nulla, nulla...
startene unicamente lì seduto a biascicare una preghiera come una beghina
in chiesa, oppure levando i pugni contro un miserabile dio, del quale sai che
non esiste?... Lo capisce? Lo capisce?... Io... io non capisco una sola cosa...
come... come è possibile che uno non muoia pure lui in quegli istanti... che
il mattino dopo si alzi dal letto e si lavi i denti e si annodi la cravatta... che
si riesca ancora a vivere, avendo provato quello che ho provato io: sentire
quel respiro, quella prima creatura umana per cui lottavo disperatamente,
che volevo tenere in vita con tutte le forze della mia anima... che vedevo
svanirmi sotto le mani... svanire sempre più in fretta verso non so dove,
minuto dopo minuto, mentre io nel mio cervello delirante non trovavo
nessun rimedio per trattenere quell’unica creatura...
«E poi, a raddoppiare diabolicamente il mio strazio, c’era un altro fatto
ancora... Mentre sedevo al suo capezzale – le avevo somministrato della
morfina, per lenire i dolori, e la vedevo giacere con le guance ardenti,
bruciata dalla febbre e pallida –, sì... mentre sedevo lì, sentivo alle mie
spalle due occhi puntati su di me, carichi di una tremenda tensione... Il boy
stava accoccolato sul pavimento e mormorava non so quali preghiere
sommesse... Quando il mio sguardo incrociava il suo... no, non riesco a
descriverlo... un che di implorante, una sorta di... di gratitudine si
accendeva nel suo occhio di cane devoto, e al contempo protendeva le mani
verso di me, come per supplicarmi di salvarla... capisce?... verso di me,
verso di me protendeva le mani, quasi fossi un dio... verso di me...
impotente e inetto, consapevole che tutto era perduto... inutile quanto una
formica che fruscia per terra... Ah, quello sguardo, come mi straziava,
quella speranza fanatica, bestiale, nelle mie arti... avrei voluto investirlo di
improperi e prenderlo a calci, tanto male mi faceva... e tuttavia sentivo che
eravamo entrambi accomunati dall’amore per lei... dal segreto... Come un
animale in agguato, cupo groviglio, sedeva rattratto proprio alle mie
spalle... appena chiedevo una cosa, scattava sui piedi scalzi, silenziosi e me
la porgeva tremando... nella speranza che quella fosse il soccorso... la
salvezza... Sono certo che si sarebbe tagliato le vene, pur di aiutarla... così
era fatta quella donna, tanto potere aveva sulle persone... e io... io non ero
capace di salvarne una misera stilla di sangue... Ah, quella notte, quella
notte terribile, quella notte senza fine tra la vita e la morte!
«Verso mattina si ridestò ancora una volta... aprì gli occhi... adesso non
erano più altezzosi e freddi... vi brillava umida una febbre, mentre, come
assenti, saggiavano la stanza... Poi mi guardò: parve riflettere, volersi
ricordare della mia faccia... e all’improvviso... lo notai... le tornò in mente...
perché un moto di spavento, di difesa... qualcosa... qualcosa di ostile, di
inorridito le contrasse il volto... remigò con le braccia, come per fuggire...
via, via, via da me... vidi che pensava a quello... ai momenti passati allora...
Ma poi ci ripensò... mi guardò più tranquilla, respirando a fatica... sentivo
che voleva parlare, dire qualcosa... Le mani ripresero a contrarsi... voleva
alzarsi, ma era troppo debole... Io cercai di calmarla, chinandomi su di lei...
allora mi fissò con uno sguardo lungo, angosciato... le sue labbra si mossero
quasi senza suono... era soltanto un estremo sospiro fievole il suo dire...
“Non lo saprà nessuno?... Nessuno?”.
«“Mai,” risposi con tutta la forza della convinzione “glielo prometto”.
«Ma il suo occhio era ancora inquieto... «Con labbra febbrili cercò di
articolare parole smozzicate.
«“Mi giuri... nessuno saprà... giuri”.
«Alzai le dita in atto di giuramento. Lei mi guardò... con uno... con uno
sguardo indescrivibile... dolce, caldo, grato... sì, davvero, davvero grato...
Voleva aggiungere ancora qualcosa, ma non ne ebbe più la forza. Giacque a
lungo, completamente stremata dallo sforzo, con gli occhi chiusi. Poi
cominciò la fase atroce... atroce... per un’ora intera, terribile, continuò a
lottare: solo al mattino era finita...».
Tacque per una lunga pausa. Io me ne avvidi soltanto quando dal ponte di
centro la campana ruppe il silenzio, uno, due, tre colpi secchi: le tre. La luce
lunare si era fatta più fioca, ma già un altro chiarore giallo tremolava
incerto nell’aria, e il vento a tratti giungeva lieve come una brezza.
Mezz’ora, un’ora forse, e poi sarebbe stato giorno, e lo strazio dissolto nella
piena luminosità. Adesso scorgevo più distintamente le sue fattezze, dato
che le tenebre non incombevano più così spesse e nere nel nostro angolo: si
era tolto il berretto, e sotto il cranio lustro la sua faccia tormentata pareva
ancora più spaventosa. Ma già le lenti tornavano a volgersi verso di me nel
loro baluginio; si controllò a forza, e la sua voce assunse un tono beffardo,
tagliente.
«Per lei, dunque, era finita: ma non per me. Ero solo con la salma, solo in
una casa altrui, però; solo in una città che non ammetteva segreti, mentre
io... io dovevo custodire il segreto... Sì, cerchi un po’ di calarsi nella
situazione: una donna della migliore società coloniale, perfettamente sana,
che ancora la sera prima ha partecipato al ballo ufficiale, all’improvviso
giace morta nel suo letto... accanto a lei c’è un medico sconosciuto,
chiamato, dicono, dal servitore di lei... nessuno della casa ha visto quando e
da dove costui sia venuto... nottetempo è stata portata lì con una lettiga, poi
hanno sbarrato le porte... e al mattino la donna è morta... soltanto allora
hanno chiamato la servitù, e d’un tratto la casa rintrona di urla laceranti... in
un lampo lo sanno i vicini, tutta la città... e lì c’è uno solo, tenuto a spiegare
ogni cosa... io, l’estraneo, il medico di un ambulatorio a casa del diavolo...
Una situazione piacevole, non è vero?...
«Sapevo che cosa mi attendeva. Fortunatamente mi era accanto il boy, un
bravo ragazzo, che captava ogni cenno dai miei occhi: anche quell’ottuso
animale giallo capiva che lì bisognava ancora combattere una battaglia. Io
gli avevo detto soltanto: “La signora vuole che nessuno sappia quello che è
successo”. Lui mi guardò negli occhi con il suo sguardo umido da cane
devoto e tuttavia deciso. “Yes, sir”: altro non disse. Ma cancellò le tracce di
sangue dal pavimento, mise in ordine per bene ogni cosa, e fu proprio la sua
determinazione a restituirmi la mia.
«Mai nella vita, lo so per certo, ho avuto una carica di energia così
concentrata, né mai più l’avrò. Quando uno ha perso tutto, lotta come un
disperato per l’ultima cosa rimasta – e l’ultima cosa rimasta era l’estrema
sua volontà: il segreto. Ricevetti con assoluta calma le persone, raccontando
a tutti la medesima storia inventata: che il boy, da lei mandato in cerca del
medico, mi aveva incontrato per caso lungo la strada. Ma mentre ero intento
a parlare con apparente tranquillità, stavo in attesa... in continua attesa del
momento decisivo... del necroscopo che doveva venire, prima di poterla
sigillare nella bara insieme al suo segreto... Era, non lo dimentichi, giovedì,
e sabato arrivava il marito...
«Finalmente alle nove mi venne annunciato l’ufficiale sanitario. Lo
avevo fatto chiamare io: era mio superiore gerarchico e, insieme, mio rivale
– quello stesso medico di cui lei a suo tempo mi aveva parlato con tanto
disprezzo – evidentemente già informato della mia richiesta di
trasferimento. A prima vista ebbi la sensazione che mi fosse ostile. Ma
proprio questo mi diede più forza.
«Già in anticamera domandò: “La signora...” fece il nome di lei “...
quando è morta?”.
«“Alle sei del mattino”.
«“Quando ha mandato a chiamarla?”.
«“Alle undici di sera”.
«“Lei sapeva che ero io il suo medico?”.
«“Sì, ma bisognava intervenire d’urgenza... e poi... la defunta aveva
chiesto espressamente di me. Non voleva che si chiamasse un altro
medico”.
«Mi guardò con occhio sbarrato: sul suo volto pallido, grassoccio, si
diffuse un rossore; capii che era irritato. Ma per me era quello che ci
voleva: tutte le mie energie premevano per una decisione rapida, perché
sentivo che i miei nervi non avrebbero più retto a lungo. Stava già per
replicare in modo ostile, ma poi disse con aria di noncuranza: “Se lei ritiene
di poter fare a meno di me, resta comunque mio dovere d’ufficio constatare
il decesso e... le sue cause”.
«Io non risposi e gli diedi la precedenza. Poi mi voltai, chiusi a chiave la
porta e misi la chiave sul tavolo. Lui aggrottò le sopracciglia, sorpreso:
“Che significa questo?”.
«Lo affrontai tranquillo.
«“Qui non si tratta di stabilire la causa della morte, ma... di trovarne
un’altra. Questa donna mi ha chiamato, perché io... perché io rimediassi alle
conseguenze di un intervento finito male... non sono riuscito a salvarla, ma
le ho promesso di salvare il suo onore, e lo farò. E quindi la prego di
aiutarmi!”.
«Gli occhi di lui si erano dilatati dallo stupore. “Non vorrà dirmi, per
caso,” balbettò poi “che io, ufficiale sanitario, dovrei coprire qui un
crimine?”.
«“Sì, è questo che voglio, è questo che devo volere”.
«“E io, per il suo atto delittuoso, dovrei...”.
«“Le ho detto che io non ho toccato questa donna, altrimenti... altrimenti
non sarei qui davanti a lei, altrimenti l’avrei già fatta finita, e da un pezzo...
La sua colpa – se così la vuole chiamare – l’ha pagata, non occorre che il
mondo lo sappia. E io non tollererò che l’onore di questa donna venga
adesso inutilmente infangato”.
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  • 1.
  • 3. Stephan Zweig Amok Traduzione di Emilio Picco Adelphi eBook
  • 4. TITOLO ORIGINALE: Der Amokläufer Quest’opera è protetta dalla legge sul diritto d’autore È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata Prima edizione digitale 2014 © 2004 ADELPHI EDIZIONI S.P.A. MILANO www.adelphi.it ISBN 978-88-459-7393-2
  • 6. Nel marzo dell’anno 1912, mentre nel porto di Napoli erano in corso operazioni di scarico da un grosso transatlantico, si verificò uno strano incidente, di cui i giornali riferirono in modo ampio, ma assai fantasioso. Sebbene io fossi tra i passeggeri dell’Oceania, né a me né agli altri fu possibile assistere allo strano fatto, dato che esso avvenne nottetempo, durante il caricamento del carbone e lo sbarco dei colli, mentre noi, per evitare il trambusto, eravamo tutti scesi a terra, passando poi la serata nei caffè o nei teatri. Comunque, personalmente ritengo che alcune supposizioni da me allora non espresse in pubblico contengano l’effettivo chiarimento di quel caso sconcertante, e la distanza degli anni mi consenta di usare la confidenzialità di un colloquio che precedette immediatamente il singolare episodio. Quando all’agenzia marittima di Calcutta cercai di prenotare un posto sull’Oceania per tornare in Europa, l’impiegato alzò le spalle dispiaciuto. Al momento non era in grado di assicurarmi una cabina: nell’imminenza delle grandi piogge la nave era di norma già al completo dall’Australia, bisognava attendere il telegramma da Singapore. Il giorno dopo, con mio sollievo, mi comunicò che poteva ancora fissarmi un posto, certo si trattava solo di una poco confortevole cabina sotto coperta e al centro della nave. Ero impaziente di tornare a casa, per cui non esitai a lungo e mi feci assegnare il posto. L’impiegato mi aveva informato correttamente. La nave era stracarica, e la cabina pessima: un bugigattolo angusto, rettangolare, vicino alle macchine, illuminato solo dall’occhio tondo e opaco dell’oblò. L’aria stagnante, ispessita, puzzava di nafta e di muffa: neanche per un attimo ci si poteva sottrarre al ventilatore elettrico che ruotava ronzando sopra la fronte come un pipistrello metallico impazzito. Dal basso – al pari di un uomo che ansimando trasporti carbone senza tregua su per la medesima scala – stantuffava e gemeva la caldaia, da sopra invece giungeva incessante l’andirivieni strascicato dei passi sul ponte di passeggio. Sicché, non appena ebbi sistemato il baule nel loculo muffoso di traverse grigie, tornai di volata
  • 7. in coperta e come fosse ambra, emergendo dal profondo, aspirai la brezza morbida, dolciastra, che da terra soffiava sopra le onde. Ma anche il ponte di passeggio era tutto calca e irrequietezza: uno sfarfallio e turbinio di gente che, con il concitato nervosismo dell’inattività coatta, deambulava su e giù tra incessanti conversari. Il cinguettante chiacchiericcio delle donne, il continuo camminare in tondo sulla strettoia della coperta, dove la folla fluiva ciarliera e agitata davanti alle seggiole, per incontrarsi in continuazione, mi davano un certo quale malessere. Avevo visto un mondo nuovo, assorbito a ritmo folle una sequenza di immagini in rapida successione. Ora volevo rifletterci su, analizzare, mettere ordine, configurare con la calma del poi quanto si era accumulato a caldo nello sguardo; ma lì, sulla passeggiata zeppa di gente, non c’era un attimo di requie e di pace. Le righe di un libro si confondevano in presenza delle ombre ballerine di coloro che passavano chiacchierando. Era impossibile restare soli con se stessi su quello struscio navale in pieno sole e in perpetuo movimento. Ci provai per tre giorni, guardando rassegnato la gente, il mare, ma il mare restava sempre identico, azzurro e vuoto, solo al tramonto di colpo cosparso di ogni colore. E la gente la conoscevo a memoria dopo tre volte ventiquattro ore. Ogni faccia mi era nota fino alla nausea, il riso acuto delle donne non mi eccitava più, né più mi seccavano le dispute rumorose di due ufficiali olandesi lì accanto a me. Non rimaneva dunque che la fuga: ma la cabina era un forno e afosa, nel salone fanciulle inglesi imperversavano senza requie, strimpellando al piano valzer sincopati. Alla fine invertii con decisione l’ordine cronologico, calandomi in cabina già nel pomeriggio, dopo essermi stordito con un paio di birre, per saltare nel sonno la cena e la serata danzante. Quando mi svegliai, c’era un buio pesto e soffocante nella piccola bara della mia cabina. Avevo spento il ventilatore, per cui l’aria mi fermentava untuosa e umidiccia sulle tempie. I miei sensi erano come storditi: mi occorsero minuti per orientarmi nuovamente quanto all’ora e al luogo. Mezzanotte, comunque, doveva essere già passata, perché non sentivo né la musica né lo strusciare continuo dei passi: soltanto le macchine, cuore pulsante del leviatano, spingevano oltre, ansimando, lo scafo scricchiolante della nave, verso l’invisibile. Mi avviai a tastoni in coperta. Non c’era nessuno. E appena levai lo sguardo sopra la torre vaporante del fumaiolo e i pennoni lucenti come fantasmi, una magica luminosità mi penetrò d’un tratto negli occhi. Il cielo
  • 8. irradiava. Era buio rispetto alle stelle che vi turbinavano bianche, e tuttavia irradiava; era come se una cortina di velluto occultasse una luce immensa, come se gli astri scintillanti fossero soltanto feritoie e fenditure attraverso le quali filtrasse l’indescrivibile luminosità. Mai avevo visto il cielo come quella notte, così radioso, così duro di un blu acciaio, eppure baluginante, rorido, sonoro, in uno zampillio di luce che pioveva velata dalla luna e dalle stelle e pareva scaturire da un nucleo arcano. Verniciati di bianco, nella luce lunare tutti i profili della nave si stagliavano vividi contro l’oscurità vellutata del mare, i cavi, i pennoni, ogni cosa sottile, tutti i contorni, dissolti in un flusso di splendore: e sospesi nel vuoto parevano i fari in cima agli alberi e più in alto l’occhio tondo della coffa, astri terrestri gialli in mezzo a quelli radiosi del firmamento. Ma proprio sopra la mia testa si dispiegava la magica costellazione, la Croce del Sud, martellata nell’invisibile con adamantini chiodi scintillanti; fluttuava in apparenza, mentre il moto era causato dalla nave che, vibrando lievemente – gigantesco nuotatore dal petto dilatato nel respiro –, avanzava, su e giù, su e giù, attraverso il buio dei flutti. In piedi, levavo lo sguardo al cielo: avevo la sensazione di trovarmi in un bagno dove l’acqua piove calda dall’alto, solo che lì era la luce, bianca e altresì tiepida, a irrorarmi le mani, a inondarmi soave le spalle, il capo, a penetrarmi non so come dentro, giacché ogni tetraggine in me si ritrovò di colpo illuminata. Respiravo libero, purificato, e con subitanea felicità sentivo l’aria sulle labbra come una limpida bevanda: aria morbida, frizzante, che dava un lieve senso d’ebbrezza, commista a un alito di frutti, al profumo di isole lontane. Ora, per la prima volta da che avevo messo piede sulla nave, mi prese la sacra voluttà del sognatore e l’altra, più sensuale ancora, di abbandonare come femmina il mio corpo a quella morbidezza che mi attorniava. Volevo sdraiarmi, lo sguardo rivolto ai geroglifici bianchi là in alto. Ma le sedie a sdraio, le seggiole di coperta, erano state tolte, da nessuna parte sul ponte di passeggio deserto c’era un posto adatto a una sosta trasognata. Sicché proseguii lentamente a tastoni verso prua, del tutto abbagliato dalla luce che sempre più intensa pareva irradiarmi dagli oggetti. Quasi faceva male, quella luce stellare calcinata, abbacinante: desideravo celarmi da qualche parte nell’ombra, disteso su una stuoia, per sentire quel fulgore non su di me, ma soltanto al di sopra di me, riflesso sulle cose, così come si contempla un paesaggio da una stanza in penombra. Finalmente, inciampando nelle gomene e passando accanto agli argani di ferro, arrivai a
  • 9. prua e vidi in basso la prora fendere il nero, e il chiaro di luna dissolto schizzare su a getto, schiumante, dalle due parti della lama. Altalenando, il vomere ora si alzava ora si abbassava nelle zolle nerofluttuanti, e io sentivo tutto lo strazio dell’elemento soggiogato, tutta la libidine dell’energia terrestre in quel gioco balenante. E nella contemplazione perdetti il senso del tempo. Era un’ora che me ne stavo così, oppure solo qualche minuto? Su e giù, la cuna gigantesca della nave mi dondolava fuori dal tempo. Sentivo soltanto sopraggiungere una stanchezza quasi voluttuosa. Volevo dormire, sognare, eppure non allontanarmi da quella magia, non scendere giù nella mia bara. Involontariamente avvertii sotto di me con il piede un ammasso di gomene. Mi sedetti, gli occhi chiusi e tuttavia non pieni di buio, giacché su di essi, su di me, scorreva l’argenteo fulgore. Sotto sentivo sciaguattare i flutti, sopra di me trascorrere con inudibile suono il flusso bianco di questo mondo. E quel sussurro a poco a poco mi entrò nel sangue: avevo perso la percezione di me stesso, non sapevo più se quel respiro fosse il mio oppure il cuore della nave che pulsava in lontananza, fluivo, mi effondevo in quel mormorio incessante del mondo nel mezzo della notte. Un tossicchiare secco, proprio accanto a me, mi fece trasalire. Mi ridestai di colpo dalle mie fantasticherie già quasi deliranti. I miei occhi, abbagliati dalla luce bianca, filtrata attraverso le palpebre abbassate, cercarono confusamente all’intorno: giusto di fronte a me, nell’ombra del parapetto, balenava qualcosa come un riflesso di occhiali, quindi si attizzò una brace spessa, tonda: una pipa accesa. Evidentemente io, assorto nel fissare in basso la schiumante lama della prora e in alto la Croce del Sud, sedendomi non avevo notato quel vicino, che doveva essere rimasto lì immobile tutto il tempo. In modo meccanico, ancora stordito, dissi in tedesco: «Mi scusi!». «Ma le pare...» rispose in tedesco la voce dal buio. Non saprei esprimere quanto bizzarro e orrendo fosse quello starsene seduti in silenzio, uno accanto all’altro nell’oscurità, a un passo da qualcuno che non si vedeva. D’istinto avevo la sensazione che quell’uomo mi guatasse, così come io guatavo lui: ma la luce sopra di noi era talmente intensa nel suo fluire bianco e scintillante, che uno riusciva a captare dell’altro solo la sagoma nell’ombra. Mi pareva di intendere soltanto un respiro e un succhiar la pipa fra continui sbuffi. Il silenzio era insopportabile. Avrei voluto andarmene, ma la cosa poteva sembrare troppo brusca, troppo precipitosa. Nell’imbarazzo cavai di tasca una sigaretta. Il fiammifero si accese sibilando, per un attimo la luce
  • 10. illuminò lo spazio angusto. Scorsi dietro le lenti una faccia sconosciuta, mai vista a bordo, né durante i pasti né in altro luogo, e fosse il fastidio agli occhi per la fiammata improvvisa, oppure un’allucinazione: pareva orrendamente stravolta, fosca e coboldesca. Ma prima che potessi percepire con chiarezza i particolari, il buio inghiottì di nuovo i tratti fugacemente illuminati, vedevo soltanto la sagoma di una persona, scura dentro l’oscurità e, di quando in quando, il cerchio rosso fuoco della pipa nel vuoto. Nessuno parlava, e quel silenzio era soffocante e opprimente come l’atmosfera tropicale. A un certo punto non ce la feci più. Mi alzai e dissi con gentilezza: «Buona notte». «Buona notte» rispose dal buio una voce rauca, dura, arrugginita. Mi avviai a fatica, inciampando nelle attrezzature, lungo le bitte. Ed ecco risuonare alle mie spalle, frettoloso e incerto, un passo. Era il vicino di prima. Istintivamente mi fermai. Non si accostò del tutto, attraverso l’oscurità percepivo nel suo modo di camminare non so quale timore e angoscia. «Mi scusi» disse poi in affanno «se le rivolgo una preghiera. Io... io...» balbettò, incapace, per l’imbarazzo, di continuare senz’altro il discorso «io... io ho motivi personali... del tutto personali di rifugiarmi in questo posto... un lutto... io evito la compagnia a bordo... Non intendo lei... no, no... Vorrei soltanto pregarla... le sarei molto obbligato se non lo dicesse a nessuno a bordo che lei mi ha visto qui... Si tratta... si tratta, per così dire, di motivi personali, che mi impediscono al momento di stare in mezzo alla gente... sì... insomma... sarebbe imbarazzante per me, se lei ne facesse parola, che qualcuno qui di notte... che io...». Tornò a impappinarsi. Io dissolsi in un attimo quello sconcerto, assicurandogli all’istante che avrei esaudito il suo desiderio. Ci stringemmo la mano. Dopo di che tornai nella mia cabina e mi immersi in un sonno greve, stranamente confuso da una ridda di immagini. Mantenni la promessa e non parlai con nessuno a bordo dello strano incontro, sebbene la tentazione fosse non piccola. Perché durante una traversata in mare ogni quisquilia diventa un fatto di rilievo: una vela all’orizzonte, un delfino che balza dai flutti, la scoperta di un nuovo flirt, uno scherzo senza importanza. E intanto mi tormentava la curiosità di
  • 11. saperne di più su quell’insolito passeggero: spulciai la lista di imbarco, in cerca di un nominativo a lui conforme, studiai le persone, per scoprire se avessero qualche rapporto con lui; per tutta la giornata fui in preda a un’impazienza nervosa, e in fondo non feci che attendere la sera, nella speranza di incontrarlo di nuovo. Le situazioni psicologiche misteriose esercitano su di me un fascino addirittura sconvolgente, mi intriga fino al midollo scoprire connessioni, e le persone singolari riescono con la loro sola presenza ad accendere in me un desiderio di conoscerle che è non di molto inferiore a quello del possesso nel caso di una donna. La giornata mi riuscì lunga, e si sbriciolò vuota fra le dita. Mi coricai presto: sapevo che mi sarei svegliato a mezzanotte, vi avrebbe provveduto la cosa stessa. E in effetti mi risvegliai alla medesima ora del giorno prima. Sul quadrante fosforescente dell’orologio le due lancette coincidevano in un segmento luminoso. In fretta, dalla cabina afosa risalii nella notte più afosa ancora. Le stelle splendevano come la sera precedente e inondavano di una luce diffusa la nave vibrante; altissima brillava la Croce del Sud. Tutto era come la sera avanti – nei tropici i giorni e le notti sono più omogenei che alle nostre latitudini –, solo che in me adesso non avvertivo più quella sensazione morbida, fluttuante, trasognata, di essere cullato. Qualcosa mi attirava, mi turbava, e io sapevo dove: all’argano nero di prua, per vedere se il personaggio misterioso fosse di nuovo seduto lì, impietrito. Dall’alto risuonò la campana di bordo, e questo mi spinse oltre. Un passo dopo l’altro, recalcitrante e nondimeno attratto, cedetti a me stesso. Non ero ancora arrivato in punta, quando vi balenò improvviso qualcosa, come un occhio rosso: la pipa. Sicché era là. Istintivamente ebbi uno scarto a ritroso e mi bloccai. L’attimo dopo me ne sarei andato. Lì davanti, però, qualcosa si mosse nell’oscurità, si rialzò, fece alcuni passi, e d’un tratto sentii proprio di fronte a me la sua voce, affabile e angosciata. «Mi scusi,» disse «lei voleva certo tornare al suo posto, e io ho la sensazione che stesse per ritrarsi, dopo avermi visto. La prego, si sieda pure, me ne vado subito». Mi affrettai a rassicurarlo da parte mia: restasse pure, mi ero semplicemente ritratto per non disturbarlo. «Lei non mi disturba,» disse con una certa amarezza «al contrario, sono lieto di non essere, per una volta, solo. Da dieci giorni non ho pronunciato una parola... anzi, da anni veramente... e allora si fa fatica, forse perché ormai si soffoca, a furia di
  • 12. tenersi dentro tutto... Non ce la faccio più a restare in cabina, in quella... in quella bara... non ce la faccio più... e d’altra parte la gente mi è insopportabile, perché ride tutto il giorno... Questo non posso sopportarlo ora... sento le risate fin dentro la cabina e mi tappo le orecchie... certo, quelli non sanno che... sì, non lo sanno proprio, e poi, che cosa può importare agli estranei...». Si interruppe di nuovo. Quindi disse con improvvisa precipitazione: «Ma non voglio disturbarla... perdoni la mia loquacità». Accennò un inchino e fece per andarsene. Ma io negai con insistenza. «Lei non mi disturba affatto. Anch’io sono contento di scambiare qui qualche parola in pace... Posso offrirle una sigaretta?». Ne prese una. Io gliel’accesi. Di nuovo la faccia si stagliò a guizzi contro il nero del parapetto, ora però rivolta a me in pieno: gli occhi dietro le lenti scrutavano il mio viso, avidi e con un’intensità folle. Mi vennero i brividi. Sentivo che quell’uomo voleva parlare, doveva parlare. E sapevo di dover tacere, per aiutarlo. Tornammo a sederci. Aveva accanto un’altra sedia a sdraio, e me la offerse. Le nostre sigarette sfavillavano e, dal modo in cui il cerchio luminoso della sua vibrava inquieto nell’oscurità, notai che gli tremava la mano. Ma tacqui, e altrettanto fece lui. Poi la sua voce all’improvviso domandò piano: «Si sente molto stanco?». «No, per niente». La voce dal buio riprese esitante. «Vorrei chiederle una cosa... cioè, vorrei raccontargliene una. So, so benissimo quanto sia assurdo rivolgermi al primo che incontro, ma... io sono... io mi trovo in uno stato psichico pauroso... sono arrivato a un punto in cui devo assolutamente parlare con qualcuno... altrimenti crepo... Lei di certo comprenderà, se io... sì, se io adesso le racconto... So che lei non mi potrà aiutare... ma io sono come malato a furia di tacere... e un malato è sempre ridicolo per gli altri...». Io lo interruppi e lo pregai di non tormentarsi. Mi raccontasse pure... naturalmente non potevo promettergli nulla – e comunque è doveroso offrire la propria disponibilità. Se si vede qualcuno in una situazione difficile, l’obbligo di aiutarlo è senz’altro un fatto naturale... «Doveroso... offrire la propria disponibilità... doveroso cercare di... Sicché anche lei pensa che vi sia l’obbligo... l’obbligo di offrire la propria disponibilità». Ripeté la frase tre volte. Provavo orrore per quel modo ottuso, accanito, di ripetere. Che fosse pazzo? Oppure ubriaco?
  • 13. Ma, come se avessi espresso a voce alta il mio sospetto, all’improvviso disse in tono del tutto diverso: «Lei magari penserà che io sia pazzo o ubriaco. No, non lo sono – non ancora. Semplicemente mi ha colpito in modo così strano la parola da lei pronunciata... così strano, perché è appunto quello che mi tormenta adesso, vale a dire, se vi sia l’obbligo... l’obbligo...». Ricominciò a tartagliare. Poi si interruppe per un attimo e riprese con un nuovo scatto. «Sa, io sono medico. E allora capitano spesso casi del genere... tragici... sì, diciamo casi limite, in cui uno non sa se ha il dovere... infatti non esiste un solo dovere, ossia quello nei confronti del prossimo, ne esiste uno verso se stessi e uno verso lo Stato e uno verso la scienza... Si è tenuti ad aiutare, certo, si è qui per questo... massime del genere, però, restano sempre e soltanto teoriche... Fino a che punto è doveroso aiutare?... Lei è lì, una persona a me sconosciuta, e io per lei sono altrettanto sconosciuto, e la prego di mantenere il silenzio sul fatto che mi ha visto... bene, lei sta zitto, adempie questo dovere... Io le chiedo di parlare con me, perché sto crepando a furia di tacere... e lei è disposto a darmi ascolto... bene... Ma questo è facile... Se però le chiedessi di prendermi e scaraventarmi in mare... ecco che allora la compiacenza, la disponibilità all’aiuto cesserebbe. A un certo punto finisce... là dove inizia la propria esistenza, la propria responsabilità... a un certo punto deve pur finire... a un certo punto quest’obbligo deve cessare... O forse proprio per il medico non è lecito che venga meno? Ha da essere un Cristo Salvatore, uno che aiuta tutti quanti, soltanto perché possiede un diploma scritto in latino?, è davvero tenuto a buttare l’esistenza, a ridurre ad acqua il proprio sangue, se una tizia... un tizio arriva a pretendere da lui che sia nobile, soccorrevole e buono? Sì, a un certo punto il dovere cessa... là dove uno non ce la fa più, proprio in quel punto...». Tacque di nuovo e si drizzò di scatto. «Mi scusi... se nel parlare appaio esagitato... ma non sono ubriaco... non ancora ubriaco... anche questo, adesso, mi capita di frequente, glielo dico senza remore, in una solitudine così infernale... Consideri che ho passato sette anni quasi esclusivamente in mezzo agli indigeni e agli animali... per cui uno disimpara il discorso pacato. Quando poi si dà la stura, è subito un traboccare... Ma aspetti... sì, lo so... volevo... volevo sottoporle un caso, chiederle se si ha il dovere di aiutare... di aiutare in modo angelico, puro, se
  • 14. cioè... Però temo che la cosa vada per le lunghe. Davvero non si sente stanco?». «No, per nulla». «Io... io la ringrazio... Ne vuole?». Tastò da qualche parte nel buio alle sue spalle. Qualcosa sbatacchiò tintinnando – due o tre bottiglie, parecchie insomma, che si era messe accanto. Mi porse un bicchiere di whisky: lo assaggiai appena, mentre lui tracannò il suo in un sorso. Per un attimo tra noi ci fu silenzio. Suonò la campana: mezzanotte e mezzo. «Dunque... le vorrei raccontare un caso. Supponga un medico in una... in una città piuttosto piccola... o propriamente in campagna... un medico che... un medico che...». Si inceppò di nuovo. Poi d’un colpo trascinò la sedia vicino a me. «Così non va. Devo raccontarle tutto in modo esplicito, dal principio, altrimenti non può capirlo... Non è possibile parlarne sotto forma di esempio, di teoria... devo raccontarle il mio caso. Non c’è pudore né reticenza che tenga... del resto anche davanti a me la gente si denuda e mi mostra la sua tigna, le sue urine e i suoi escrementi... se si vuol essere aiutati non si deve menare il can per l’aia né tacere nulla... Sicché non le racconterò il caso di un medico leggendario... mi metto a nudo e dico: io... ho disimparato a vergognarmi in quella sporca solitudine, in quel paese maledetto che ti divora l’anima e ti succhia il midollo dalle ossa». Dovevo aver accennato qualche gesto, perché si interruppe. «Ah, lei protesta... capisco, lei è entusiasta delle Indie, dei templi e dei palmizi, di tutto il romanticismo che comporta un viaggio di due mesi. Certo, sono affascinanti i tropici, se uno ci passa in treno, in auto, in risciò: anche per me non è stato diverso, quando ci arrivai la prima volta sette anni fa. Quante cose sognavo allora: volevo imparare la lingua e leggere nel testo originale i libri sacri, studiare le malattie, fare ricerche scientifiche, sondare la psiche degli indigeni – si dice così, vero, nel gergo degli europei? –, diventare un missionario dell’umanità, della civiltà. Tutti quelli che arrivano sono accomunati dal medesimo sogno. Ma laggiù, in quell’invisibile serra, ti vengono meno le forze; la febbre – che ti prendi comunque, anche se ti imbottisci di chinino – ti corrode il midollo, diventi fiacco e pigro, molle, una medusa. Come europeo sei in qualche modo avulso dalla tua vera essenza, quando dalle metropoli arrivi in un simile e
  • 15. maledetto posto paludoso: prima o poi a chiunque salta una rotella, certi bevono, altri fumano l’oppio, altri ancora diventano violenti e si trasformano in bestie – ciascuno si becca la sua razione di follia. Ti prende la nostalgia dell’Europa, sogni di tornartene un giorno a camminare per una strada, di sedere in una luminosa stanza in muratura, in mezzo a gente di pelle bianca; per anni coltivi questo sogno, e quando poi arriva il momento in cui potresti disporre delle ferie sei già troppo sfatto per andartene. Sai che in Europa sei dimenticato, un estraneo, una conchiglia nel mare, che chiunque calpesta. Così rimani, e ti abbrutisci e incanaglisci in quelle foreste torride, umide. Maledetto il giorno in cui mi sono venduto per quel buco... «Del resto, non si trattò poi di una scelta tanto volontaria. Avevo studiato in Germania, ero diventato medico con tutti i crismi, anzi un bravo medico, con un posto all’ospedale di Lipsia; in qualche remoto fascicolo dei “Medizinische Blätter” suscitò a suo tempo molto scalpore un nuovo tipo di iniezione che avevo praticato io per primo. Poi ci fu una questione di donne, una tizia da me conosciuta all’ospedale: aveva fatto impazzire a tal punto l’amante, che costui l’aveva ferita a revolverate – e ben presto mi ritrovai non meno pazzo di quell’uomo. Aveva un modo di essere arrogante e fredda che mi stravolgeva il cervello; da sempre le donne imperiose e sfrontate mi tenevano in pugno, ma quella mi conciò in maniera tale da spezzarmi le ossa. Facevo quel che voleva lei, per causa sua – sì, perché non dovrei dirlo? sono passati otto anni – presi dei soldi dalla cassa dell’ospedale, e quando il fatto saltò fuori, fu il finimondo. Uno zio coprì l’ammanco, ma con la carriera avevo chiuso. Nel frattempo venni a sapere che il governo olandese assumeva medici per le colonie, offrendo una certa somma come anticipo. Pensai subito che doveva trattarsi di una bella faccenda davvero, se ti pagavano un anticipo; sapevo che in quelle piantagioni infestate dalla malaria le croci nei cimiteri avevano un ritmo di crescita triplo che da noi, ma quando si è giovani si crede sempre che febbre e morte tocchino soltanto agli altri. Comunque avevo poca scelta, andai a Rotterdam, firmai per dieci anni, ricevetti una bella mazzetta di banconote, metà la mandai a casa allo zio, l’altra metà me la spillò nel quartiere del porto una donna alla quale mi ero completamente arreso, solo perché somigliava tanto a quell’altra maledetta femmina. Senza soldi, senza orologio, senza illusioni presi poi congedo dall’Europa, e quando lasciammo il porto, non ero particolarmente triste. Me ne stetti quindi seduto sul ponte, come lei, come
  • 16. tutti gli altri, e vidi la Croce del Sud, vidi i palmizi, e mi si allargò il cuore: ah, foreste, solitudine, pace sognavo! Be’, quanto a solitudine, ne ebbi certo abbastanza. Non mi spedirono a Batavia o a Surabaya, in una città piena di gente, con il club e il golf e i libri e i giornali, ma – il nome non ha alcuna importanza – in una località distrettuale a due giornate di viaggio dalla città più vicina. Un paio di funzionari noiosi, rinsecchiti, qualche meticcio erano tutta la mia frequentazione; per il resto, in lungo e in largo, nient’altro che foresta, piantagioni, boscaglia e palude. «All’inizio era ancora sopportabile. Mi dedicavo a ogni sorta di studi; un giorno, durante un giro d’ispezione, la macchina del viceresidente si era ribaltata, fratturandogli una gamba, per cui io, senza assistenti, procedetti a un’operazione della quale si parlò poi molto; collezionavo veleni e armi degli indigeni, mi occupavo di cento piccole cose per tenermi attivo. Ma tutto questo funzionò solamente fintanto che agiva ancora in me l’energia portata dall’Europa; poi mi inaridii. I pochi europei mi tediavano, smisi di frequentarli, bevevo e sognavo per conto mio. Mi mancavano solo due anni, poi ero libero e pensionato, potevo tornarmene in Europa, ricominciare una nuova vita. In fondo non facevo più altro che aspettare, starmene immobile e aspettare. E così me ne starei tuttora, se non fosse arrivata lei... se non fosse successa la cosa». La voce nel buio si spense. Anche la pipa non dava più bagliori. Tale era il silenzio, che d’un tratto tornai a udire l’acqua frangersi schiumando sulla prora, e il sordo battito lontano delle macchine. Avrei voluto accendermi una sigaretta, ma temevo il lampo intenso del fiammifero e il riverbero sulla faccia di lui. Che seguitava a tacere. Io non sapevo se avesse finito, se sonnecchiasse o dormisse, tanto sepolcrale era il suo silenzio. Ed ecco la campana di bordo battere un colpo secco, sonoro: l’una. L’uomo si riscosse; sentii tintinnare di nuovo il bicchiere. Evidentemente la sua mano tastava in basso, in cerca del whisky. Una sorsata gorgogliò sommessa, poi la voce riprese a parlare, ma ora in certo qual modo più tesa, più passionale. «Sì, dunque... aspetti... sì, dunque, la cosa andò così. Io me ne stavo nella mia maledetta rete, immobile da mesi come il ragno nella tela. Era giusto dopo il periodo delle piogge, per settimane e settimane l’acqua era caduta a scroscio sul tetto, non si era visto assolutamente nessuno, nessun europeo, e
  • 17. io lì, un giorno via l’altro, in casa, con le mie donne gialle e il mio buon whisky. In quel momento ero proprio giù, in pieno mal d’Europa; se in qualche romanzo leggevo di strade luminose e di donne bianche, cominciavano a tremarmi le dita. Non riesco a descriverle per bene quello stato, è una sorta di malattia tropicale, una nostalgia dirompente, febbrile e tuttavia inerte, che a volte ti piglia. Sicché quel giorno me ne stavo, mi pare, a contemplare un atlante, sognando non so quali viaggi. Quand’ecco, bussarono concitati alla porta: fuori c’è il boy e una delle donne, entrambi con gli occhi sbarrati per la sorpresa. Gesticolano come matti: è arrivata una signora, una lady, una donna bianca. «Io salto su. Non ho sentito carrozze o automobili. Una donna bianca lì, a casa del diavolo? «Faccio per scendere le scale, ma poi mi ritraggo. Un’occhiata allo specchio, mi riordino un poco alla svelta. Sono nervoso, inquieto, come tormentato da un brutto presentimento, non conoscendo nessuno al mondo disposto a venire da me per amicizia. Finalmente scendo. «Nell’ingresso mi attende la signora, che mi viene incontro affannata. Un fitto velo da automobilista le copre il volto. Mi accingo a salutarla, ma lei mi tronca le parole in bocca. “Buon giorno, dottore” dice in un inglese sciolto (un po’ troppo, forse, e come se il discorso fosse preparato). “Mi scusi se la prendo alla sprovvista. Ma eravamo appunto all’ambulatorio, la nostra macchina è ferma là (ma perché non è venuta con quella fin davanti a casa? mi passa per la testa in un lampo), e allora mi sono ricordata che lei abita qui. Ho sentito tanto parlare di lei; con il viceresidente ha compiuto un vero miracolo, la sua gamba funziona di nuovo alla perfezione, gioca a golf come prima. Oh sì, tutti ne parlano ancora da noi, e tutti saremmo disposti a disfarci di quello scorbutico del nostro chirurgo, e degli altri due per giunta, se lei venisse dalle nostre parti. Insomma, perché non la si vede mai da noi? Lei vive veramente come un santone yoghin...”. «E così seguita a chiacchierare, in fretta, sempre più in fretta, senza che io possa fare motto. C’è qualcosa di nervoso, di isterico in questa verbosità, e finisce che mi innervosisco anch’io. Perché parla tanto, mi chiedo dentro di me, perché non si presenta, perché non si toglie il velo? Ha la febbre? È malata? È pazza? Divento sempre più nervoso, perché avverto il ridicolo dello starmene così, zitto, di fronte a lei, sommerso dallo scroscio di tanta loquacità. Finalmente rallenta un po’ il ritmo, e posso pregarla di salire. Lei fa cenno al boy di starsene lì e mi precede per le scale.
  • 18. «“Simpatico, qui da lei” dice, mentre si guarda attorno nella mia stanza. “Ah, quanti bei libri! Mi piacerebbe leggerli tutti!”. Si avvicina allo scaffale ed esamina i titoli dei volumi. Per la prima volta da quando l’ho vista, tace per un minuto. «“Posso offrirle del tè?” le chiedo. «Lei non si volta e continua a guardare i titoli delle opere. “No, grazie, dottore... dobbiamo ripartire subito... ho poco tempo... sa, una piccola gita... Ah, ha anche Flaubert, io lo amo moltissimo... meravigliosa, assolutamente meravigliosa L’éducation sentimentale... vedo che lei legge anche il francese... Ma quante cose sa!... Già, i tedeschi, loro a scuola imparano tutto... Veramente favoloso, conoscere tante lingue!... Il viceresidente è entusiasta di lei, dice sempre che lei è l’unico con il quale andrebbe sotto i ferri... il nostro buon chirurgo va bene giusto per il bridge... Sa, oggi, fra l’altro (e seguitava a non voltarsi), mi è venuto in mente di consultarla magari anch’io... e siccome si passava di qui, ho pensato... be’, ma ora lei avrà certo da fare... è meglio che ripassi un’altra volta”. «Le vuoi scoprire, finalmente, le tue carte? mi venne fatto di pensare. Ma non lasciai trasparire nulla, anzi le assicurai che per me sarebbe stato comunque un onore essere a sua disposizione anche subito, o in qualsiasi momento lei volesse. «“Non è niente di grave” disse lei, girandosi a metà e sfogliando nel contempo un libro che aveva preso dallo scaffale, “niente di serio... sciocchezze... turbe femminili... capogiri, svenimenti. Stamattina presto, in una curva, all’improvviso sono venuta meno, raide morte... il boy ha dovuto tirarmi su nella macchina e cercare dell’acqua... sa, forse lo chauffeur andava troppo in fretta... non crede, dottore?”. «“Così su due piedi non saprei dirlo. Le capitano spesso questi svenimenti?”. «“No... cioè sì... negli ultimi tempi... proprio recentissimamente... sì... mancamenti e malesseri simili”. È di nuovo davanti alla libreria, infila il volume, ne estrae un altro e lo sfoglia. Strano, perché continua a sfogliare in quel modo così... così nervoso, perché non alza gli occhi sotto il velo? Io non apro bocca di proposito. Provo gusto a tenerla sulla corda. Alla fine lei riattacca, nel suo tono svagato, ciarliero. «“Vero, dottore, non è niente di preoccupante? Non è un morbo tropicale... una cosa pericolosa...”. «“Dovrei prima vedere se ha la febbre. Permette che le senta il polso?...”.
  • 19. «Mi avvicino. Lei scarta leggermente di lato. «“No, no, non ho la febbre... ne sono certa, certissima... ho misurato io stessa la temperatura ogni giorno da quando... da quando sono cominciati questi svenimenti. Mai una linea di febbre, sempre a puntino 36,4 esatti. Anche il mio stomaco è a posto”. «Io esito un istante. Tutto il tempo già mi formicola dentro un sospetto: sento che quella donna vuole qualcosa da me; non si va a casa del diavolo per parlare di Flaubert. La lascio sulle spine per un paio di minuti. “Mi scusi,” dico poi con franchezza “permette che le faccia qualche domanda personale?”. «“Certo, dottore! Lei è medico, no?” risponde, ma intanto mi volta di nuovo le spalle e si trastulla con i libri. «“Ha avuto figli?”. «“Sì, un maschio”. «“E quella volta... prima... prima del parto, voglio dire... ha avuto turbe analoghe?”. «“Sì”. «Adesso il suo tono di voce è del tutto diverso. Assolutamente chiaro, deciso, per niente logorroico, per niente nervoso. “E potrebbe essere che lei... mi perdoni la domanda... che lei ora si trovi in uno stato del genere?”. «“Sì”. «Lascia cadere la parola come un coltello affilato e tagliente. Sulla sua testa voltata non si scompone una linea. «“In tal caso, gentile signora, sarebbe forse bene che io le facessi una visita generale... posso chiederle di... di accomodarsi nella stanza accanto?”. «A quel punto lei si gira di scatto. Attraverso il velo sento uno sguardo freddo, deciso, puntarmi addosso. «“No... non è necessario... sono perfettamente certa del mio stato”». La voce esitò per un istante. Di nuovo brilla nell’oscurità il bicchiere pieno. «Dunque, mi stia a sentire... ma prima cerchi di afferrare un attimo la situazione. Uno si sta sfacendo nella sua solitudine, ed ecco che gli piove in casa una donna, entra nella sua stanza la prima donna bianca da anni... e di colpo io avverto: c’è qualcosa di perverso nella stanza, un pericolo. Era come un brivido: provavo orrore per la ferrea determinazione di quella donna capitata lì con i suoi discorsi a ruota libera, che poi all’improvviso ti sfodera la sua richiesta come un coltello. Perché io sapevo bene, lo sapevo
  • 20. da subito, che cosa voleva da me: non era la prima volta che delle donne si presentavano con simili richieste, solo, lo facevano in altro modo, imbarazzate o supplichevoli, con lacrime e preghiere. Mentre lì c’era una... sì, una determinazione ferrea, virile... dal primo istante mi resi conto che quella donna era più forte di me... che era in grado di piegarmi al suo volere come le pareva... Ma... ma... anche in me c’era qualcosa di perverso... il maschio che si ribellava, non so quale risentimento, perché... l’ho già detto... dal primo istante, anzi, ancor prima di vederla, sentii quella donna come un nemico. «Lì per lì non feci motto. Tacevo astioso e caparbio. Sentivo che lei mi fissava da dietro il velo, secca e imperiosa, che voleva costringermi a parlare, ma... cercando di svicolare... istintivamente imitai i suoi modi ciarlieri, svagati. Finsi di non capirla, perché – non so se lei è in grado di immedesimarsi nel mio stato d’animo – volevo costringerla a diventare esplicita, non volevo essere io a offrire, ma... essere pregato... proprio da lei, perché si presentava con tanta spocchia... e perché sapevo che nelle donne niente è per me più irresistibile di quei modi arroganti e freddi. «Sicché tergiversavo: non c’era motivo di preoccuparsi, simili svenimenti rientravano nel normale decorso delle cose, anzi, garantivano in qualche modo uno sviluppo favorevole. Citai casi da riviste mediche... parlavo e parlavo, svagatamente lieve, considerando la faccenda una mera banalità e... sempre in attesa che lei mi interrompesse. Perché ero certo che non lo avrebbe sopportato. «E infatti troncò seccamente il discorso, spazzando via, per così dire, tutte quelle chiacchiere rassicuranti con un gesto della mano. «“Non è questo, dottore, che mi inquieta. A suo tempo, quando ho avuto il ragazzino, ero in condizioni migliori... ma ora non sono più allright... ho problemi di cuore...”. «“Ah, problemi di cuore,” ripetei io, con finta preoccupazione “allora è meglio che me ne accerti subito”. E feci il gesto di alzarmi, per prendere lo stetoscopio. «Ma lei si intromise all’istante. Adesso la sua voce suonò secca e decisa, come su una piazza d’armi. «“Io ho problemi di cuore, dottore, e devo pregarla di credere a quanto le dico. Non vorrei perdere troppo tempo in visite: penso che lei potrebbe dimostrarmi un po’ più di fiducia. Io almeno ne ho mostrata abbastanza nei suoi confronti”. «Ormai era battaglia, sfida aperta. E io la accettai.
  • 21. «“Per la fiducia occorre sincerità, e senza riserve. Parli chiaro, io sono medico. E soprattutto si tolga il velo, si sieda qui, lasci perdere i libri e i diversivi. Non si va dal medico con il velo”. «Lei mi guardò, eretta e fiera. Per un attimo indugiò. Poi si sedette, alzando il velo. Io vidi un volto esattamente come avevo... temuto, un volto impenetrabile, duro, sicuro di sé, di una bellezza priva di età, un volto dagli occhi grigi inglesi, nei quali tutto pareva pacatezza, mentre dietro ci potevi sognare ogni passionalità. Quella bocca sottile, serrata, non svelava segreti, se non lo voleva. Per un minuto ci fissammo a vicenda, lei insieme dispotica e interrogativa, con una ferocia così fredda, così ferrea, che fui incapace di sopportare quello sguardo, e distolsi gli occhi senza rendermene conto. «Batté leggermente sul tavolo con le nocche. Dunque anche lei era nervosa. Poi all’improvviso disse d’un fiato: “Lo sa, dottore, che cosa voglio da lei, oppure no?”. «“Credo di saperlo. Ma è meglio essere del tutto espliciti. Lei intende mettere fine al suo stato... Lei vuole che io la liberi dagli svenimenti, dai suoi malesseri, rimuovendone... rimuovendone la causa. È così?”. «“Sì”. «La parola piombò come una ghigliottina. «“Ma lei sa che simili pratiche sono rischiose... per entrambe le parti?...”. «“Sì”. «“Che a me è vietato dalla legge?”. «“Ci sono casi in cui non è vietato, ma anzi doveroso”. «“Ma per questi ci vuole una motivazione clinica”. «“E lei la troverà, quella motivazione. Lei è medico”. «I suoi occhi, intanto, mi guardavano limpidi, fissi, senza battere ciglio. Era un ordine, e io, essere senza nerbo, ero scosso dall’ammirazione per la demoniaca imperiosità del suo volere. Ma ancora mi torcevo, non volevo mostrarmi già schiacciato sotto i piedi. – “Non cedere troppo in fretta! Trova delle scuse! Costringila a implorare” mi dettava dentro un desiderio perverso. «“Non sempre dipende dalla volontà del medico. Ma sono disposto a parlarne con un collega dell’ospedale...”. «“Io non voglio il suo collega... sono venuta da lei”. «“Posso chiederle perché proprio da me?”. «Mi guardò freddamente.
  • 22. «“Non ho difficoltà a dirglielo. Perché lei abita fuori mano, perché lei non mi conosce, perché lei è un bravo medico, e perché lei...” – a questo punto ebbe per la prima volta una esitazione – “probabilmente non rimarrà più a lungo da queste parti, specie se... se potrà portarsi a casa una somma considerevole”. «Mi vennero i brividi. Quella ferrea lucidità di calcolo da mercante, da sensale, mi stordiva. Fino allora non aveva aperto le labbra per un’implorazione, ma calcolato ogni cosa da un pezzo – prima facendomi la posta e poi stanandomi. Sentivo il demoniaco della sua volontà entrarmi dentro, ma cercai di difendermi con tutto il mio accanimento. Ancora una volta mi sforzai di essere distaccato, quasi ironico. «“E questa somma, lei la metterebbe... la metterebbe a mia disposizione?”. «“Per il suo intervento e l’immediata partenza”. «“Lo sa che in tal caso ci rimetto la pensione?”. «“Provvederò io a risarcirla”. «“Lei è molto esplicita... Ma io desidero una chiarezza ancora maggiore. Quale cifra ha previsto per il mio onorario?”. «“Dodicimila fiorini, esigibili ad Amsterdam su assegno”. «Io... fremevo... fremevo dalla rabbia e... anche dall’ammirazione. Aveva calcolato tutto, la somma e il modo del pagamento, che mi costringeva a partire, mi aveva valutato e comprato, senza conoscermi, aveva disposto di me nella consapevolezza del proprio volere. Mi sarebbe piaciuto prenderla a schiaffi... Ma quando mi alzai tremando – si era alzata anche lei – e le piantai gli occhi negli occhi, improvvisamente, alla vista di quella bocca serrata che si rifiutava di implorare, di quella fronte altezzosa che non voleva piegarsi, mi prese... una... una sorta di bramosia violenta. Lei dovette averne una qualche percezione, perché inarcò le sopracciglia, come quando ci si vuole liberare di un importuno: di colpo tra noi fu odio scoperto. Sapevo che lei mi odiava perché aveva bisogno di me, e io la odiavo perché... perché non era disposta a implorare. In quell’attimo, in quell’unico attimo di silenzio ci parlammo per la prima volta con tutta sincerità. Poi come un rettile mi morse dentro, improvvisa, un’idea, e io le dissi... io le dissi... «Ma aspetti, in questo modo lei fraintenderebbe ciò che ho fatto... che ho detto... devo prima spiegarle come... perché mi è venuta quell’idea folle...».
  • 23. Ancora una volta nell’oscurità tintinnò lievemente il bicchiere. E la voce si fece più agitata. «Non è che io voglia trovare scusanti, giustificazioni, uscirne pulito... Ma altrimenti lei non capirebbe... Non so se io sono mai stato quello che si dice una brava persona, però... penso, soccorrevole lo sono stato sempre... Nella sporca esistenza laggiù era infatti l’unica gioia che uno avesse: poter conservare il respiro a qualche frammento di vita con quel poco di scienza che ti eri ficcato in testa... una sorta di soddisfazione da padreterno... Veramente, erano i miei momenti più belli, quando uno di quei ragazzotti gialli veniva a cercarmi, pallido e cianotico dallo spavento, un morso di serpente nel piede tutto gonfio, e già si metteva a urlare che non gli amputassero la gamba, e io riuscivo in extremis a salvargli la pelle. Ho fatto percorsi di ore, se qualche donna era nel delirio della febbre, dando anche una mano nel senso voluto da quell’altra, ancora in Europa, all’ospedale. Ma almeno sentivi che quella creatura aveva bisogno di te, sapevi di salvare qualcuno dalla morte o dalla disperazione, e di questo sentimento avevi bisogno tu stesso per essere di aiuto: che gli altri avessero bisogno di te. «Ma quella donna – non so se riesco a dargliene l’idea – mi indispettiva, mi istigava a resistere, a causa della sua spocchia; dal momento in cui era entrata come per una visita casuale, incitava – come posso dirlo? –, incitava alla reazione tutto ciò che vi era in me di represso, di nascosto, di cattivo. Che si atteggiasse a lady, che prospettasse con inaccessibile freddezza una transazione dove ne andava della vita o della morte, mi stravolgeva il cervello... E poi... e poi... alla fin fine una non rimane incinta giocando a golf... sapevo... ossia ero improvvisamente costretto a rammentare con un’evidenza terribile – ecco, appunto, l’idea a cui accennavo – che quella donna scostante, altera, fredda, che aggrottava le ciglia sopra i suoi occhi d’acciaio al solo mio guardarla con diniego... anzi quasi con ripulsa... che quella donna due o tre mesi prima si era voltolata in calore nel letto con un uomo, nuda come un animale e forse gemendo nell’orgasmo, i corpi incollati come labbra... Questa, questa era l’idea bruciante che mi venne, mentre lei mi guardava con tanta arroganza, con tanta inaccessibile freddezza, proprio come un ufficiale inglese... e allora, allora tutto in me si tese allo spasimo... ero ossessionato dal proposito di umiliarla... da quell’istante vedevo attraverso il vestito il suo corpo nudo... da allora vivevo solamente nell’idea di possederla, di estorcere alle sue labbra dure un gemito, di sentire in orgasmo quella donna fredda, spocchiosa, come
  • 24. quell’altro che non conoscevo. Insomma... ecco ciò che le volevo spiegare. Mai, per quanto fossi caduto in basso, avevo cercato, come medico, di approfittare della situazione... Ma ora non era libidine né foia né alcunché di sessuale, proprio no... se così fosse, lo confesserei... unicamente bramosia di schiacciare un’alterigia... di schiacciarla in quanto maschio... Le ho già detto, credo, che le donne arroganti, apparentemente fredde, da sempre mi tenevano in pugno... ma ora, ora si aggiungeva anche il fatto che da sette anni io vivevo lì senza possedere una donna bianca, che non conoscevo resistenze... Perché le ragazze lì, quelle piccole graziose bestioline cinguettanti, tremano dalla soggezione se un uomo bianco, un “signore”, le prende... si annullano dalla devozione, sono sempre disponibili per te, sempre pronte a renderti servizio con il loro riso discreto, gorgogliante... ma proprio questa supina arrendevolezza, da schiava, ti guasta tutto il piacere... Comprende ora, lo capisce, perché avesse poi su di me un effetto dirompente la circostanza che, all’improvviso, si presentasse una donna piena di spocchia e di odio, chiusa fino alla punta delle dita, ma nello stesso tempo circonfusa di mistero e carica di passionalità pregressa... che una donna del genere entrasse senza remore nella gabbia di un uomo del genere, di una bestia umana così derelitta, così famelica, così segregata?... Questo... questo ho voluto dire soltanto perché lei potesse comprendere il resto... quello che accadde dopo. Dunque... invasato da una bramosia perversa, avvelenato dall’idea di lei, nuda, sensuale, arresa, mi compattai, per così dire, a riccio simulando indifferenza. Dissi con freddezza: “Dodicimila fiorini?... No, per una cifra simile non lo farò”. «Lei mi guardò con un certo pallore. Evidentemente già si rendeva conto che in quel rifiuto non c’era avidità di denaro. Eppure non si perse d’animo. «“Allora quanto vuole?”. «Io non abboccai più a quel tono algido. “Giochiamo a carte scoperte. Io non sono un uomo d’affari... non sono il povero speziale di Romeo e Giulietta, che per corrupted gold vende il suo veleno... sono forse l’opposto di un uomo d’affari... per questa strada lei non vedrà realizzarsi il suo desiderio”. «“Sicché non vuole farlo?”. «“Non in cambio di denaro”. Per un attimo tra noi il silenzio fu totale. Così assoluto, che per la prima volta sentivo il respiro di lei. «“E che altro potrebbe volere?”.
  • 25. «A quel punto non mi trattenni più. «“Innanzitutto desidero che lei... che lei non parli con me come a un bottegaio, ma come a un essere umano. Che lei, se ha bisogno di aiuto, non... non si avvalga subito del suo immondo denaro... ma preghi... preghi me, essere umano, di aiutare lei, essere umano... Io non sono soltanto un medico, non ho soltanto ore di ambulatorio... ho anche ore di altro tipo... forse lei è arrivata proprio in un’ora del genere...”. «Per un attimo tace. Poi la bocca le si storce lievemente, trema e dice in fretta: «“Allora, se io la pregassi... lei lo farebbe?”. «“Ancora una volta lei vuole concludere un affare: vuole pregarmi, solo se io prima prometto. Prima deve pregarmi lei: poi io le darò la risposta”. «Inalbera la testa come un cavallo imbizzarrito. Mi guarda esasperata. «“No, io non la pregherò. Piuttosto crepo!”. «Allora mi prese la rabbia, una rabbia cieca, assurda. «“In tal caso esigerò io, se lei non vuole chiedere debitamente. Penso non occorra diventare espliciti: lei sa che cosa desidero da lei. Poi, dopo, io l’aiuterò”. «Mi guardò fissa un istante. Poi – ah, non so, non riesco a dire quanto fosse tremendo – i suoi lineamenti si tesero, e poi... d’un tratto rise... mi rise in faccia con indicibile disprezzo... con un disprezzo che mi polverizzava... e insieme inebriava... Era come un’esplosione, così subitanea, così dirompente, con tale potenza era fatta deflagrare da una forza immane, quella risata di disprezzo, che io... sì, io avrei voluto prostrarmi a terra e baciarle i piedi. Fu un attimo soltanto... come una saetta, e presi fuoco in tutto il corpo... mentre lei già si girava, andando rapida verso la porta. «Istintivamente avrei voluto seguirla... chiederle scusa... implorarla... la mia forza era del tutto infranta... lei allora si volse verso di me e disse con voce perentoria: «“Non si azzardi a seguirmi o a farmi la posta... se ne pentirebbe”. «E già la porta sbatteva alle sue spalle». Altra esitazione. Altro silenzio. Di nuovo soltanto quel mormorio, come se la luce lunare fluisse. E poi, finalmente, riecco la voce. «La porta si chiuse sbattendo... ma io restai immobile sul posto... ero come ipnotizzato dal suo ordine... la sentii scendere le scale, chiudere la porta di casa... sentivo tutto, e ogni mio impulso era teso a inseguirla... per... che ne so... per chiamarla indietro o picchiarla o strozzarla... era teso
  • 26. comunque a correrle dietro... dietro... Eppure non ne ero capace. Le mie membra erano come paralizzate da una scossa elettrica... ero stato colpito, colpito fin dentro il midollo dal lampo dispotico di quello sguardo... Lo so, lo so che non si può spiegare, che non si può raccontare... sembrerà ridicolo, ma io rimasi lì inchiodato... mi ci vollero dei minuti, forse cinque, forse dieci, prima che riuscissi a staccare un piede da terra... «Ma come lo feci, ero già su di giri, una scheggia... in un baleno scesi le scale... Non poteva essersi avviata che verso la civiltà... mi precipito alla rimessa, per prendere la bicicletta, mi accorgo che ho dimenticato la chiave, scardino la porta, tra schianti e schegge del bambù... balzo in sella e le corro dietro all’impazzata... devo... devo raggiungerla, prima che arrivi alla sua macchina... parlarle... La strada mi sfreccia accanto polverosa... solamente ora mi rendo conto di quanto devo essere rimasto lassù impietrito... ed ecco... alla curva del bosco, appena prima dell’ambulatorio, la vedo andare di fretta con passo rigido, impettito, in compagnia del boy... Ma anche lei deve avermi scorto, perché parlotta con il boy, che resta indietro, mentre lei prosegue da sola... Che cosa intende fare? Perché vuole essere sola?... Vuole parlare con me, senza che quello senta?... Con furia cieca pesto sui pedali... Quand’ecco, sbucando da un lato, qualcosa mi taglia la strada... il boy... riesco appena a fare uno scarto con la bicicletta e volo via di schianto... «Mi rialzo bestemmiando... agito istintivamente il pugno, per suonarle a quel deficiente, ma lui salta da parte... Tiro su la bicicletta, per rimettermi in sella... Ma il manigoldo si fa sotto, la afferra e dice nel suo inglese pietoso: “You remain here”. «Lei non ha vissuto nei tropici... non sa quale sfrontatezza sia che un farabutto giallo del genere osi bloccare la bicicletta a un “signore” bianco e ordinargli di non muoversi. Per tutta risposta, io gli sparo in faccia un pugno... lui barcolla, ma non lascia la presa... i suoi occhi, i suoi occhi stretti, da codardo, sono dilatati, per servile terrore... ma si attacca al manubrio, con morsa diabolica... “You remain here” balbetta un’altra volta. Fortuna che non avevo con me il revolver. Altrimenti lo avrei ammazzato. “Via, canaglia!” mi limito a dire. Lui mi fissa rattratto, ma non molla il manubrio. Gli do un altro colpo in testa, e quello seguita a non mollare. Allora mi prende la rabbia... vedo che lei è già sparita, forse mi è già scappata... e gli appioppo un gancio sotto il mento, secondo le migliori regole pugilistiche, che lo fa rimbalzare via, steso. Eccomi di nuovo
  • 27. padrone della bicicletta... ma come mi avvio, si inceppa... nella colluttazione si è storto un raggio... Cerco di raddrizzarlo con le mani che mi tremano... Non ci riesco... per cui sbatto la bicicletta in mezzo alla strada, accanto al mascalzone, che si rialza sanguinante e si fa da parte... E poi... no, lei non può capire quanto sia ridicola la cosa, se là davanti a tutti un europeo... insomma, non sapevo più quello che facevo... avevo in testa un solo pensiero: inseguirla, raggiungerla... e così mi misi a correre, a correre come un forsennato per la strada, passando di volata davanti alle capanne, dove la ciurmaglia gialla si affacciava stupita per veder correre un uomo bianco, il dottore. «Arrivai all’ambulatorio che ero sudato fradicio... La mia domanda immediata: dov’è la macchina?... Appena partita... Gli astanti mi guardano con stupore: devo sembrar loro impazzito appena mi vedono sopraggiungere tutto bagnato e sudicio, gridando la domanda da lontano, prima ancora di fermarmi... In fondo alla strada vedo vorticare bianco il polverone sollevato dall’automobile... ci è riuscita... ci è riuscita, così come ogni cosa deve riuscire al suo calcolo duro, spietatamente duro. «Ma la fuga non le serve... Nei tropici non ci sono segreti fra europei... Tutti conoscono tutti, ogni cosa diviene un evento... Non per niente il suo chauffeur è rimasto un’ora nel bungalow dell’amministrazione... nel giro di pochi minuti so tutto... So chi è lei... che abita a... sì, insomma, nella città dove ha sede il governo, a otto ore di treno da lì... che è, diciamo, la moglie di un grande commerciante, ricchissima, distinta, un’inglese... so che il marito è in America da cinque mesi e dovrebbe tornare nel giro di pochi giorni, per portarla con sé in Europa... «Ma lei – e l’idea mi brucia nelle vene come un veleno –, lei può essere in stato interessante da due o tre mesi al massimo...». «Finora, bene o male, ho potuto renderle comprensibile ogni cosa... forse soltanto perché sino a quel momento io ero ancora in grado di comprendere me stesso... fornendomi, in quanto medico, la diagnosi del mio stato. Ma da allora si scatenò in me come una febbre... persi il controllo... ossia, sapevo benissimo quanto fosse assurdo quello che facevo; ma non avevo più alcun potere su di me... non riuscivo più a capirmi... andavo avanti unicamente nell’ossessione del mio miraggio... Però, aspetti... forse riesco ugualmente a dargliene un’idea... Lei sa che cos’è l’amok?».
  • 28. «L’amok?... Mi pare di ricordarlo... una sorta di ebbrezza presso i malesi...». «È più che ebbrezza... è una follia rabbiosa, una specie di idrofobia umana... un accesso di monomania omicida, insensata, non paragonabile a nessun’altra intossicazione alcolica... io stesso, durante il mio soggiorno, ho studiato alcuni casi – quando si tratta degli altri, si è sempre molto accorti e molto distaccati –, senza tuttavia arrivare a scoprire il terribile segreto del loro scatenarsi... In qualche modo è connesso con il clima, con quell’atmosfera afosa, soffocante, che pesa sui nervi come un temporale, finché, prima o poi, saltano... Dunque, l’amok... sì, l’amok è così: un malese, un uomo molto semplice, assolutamente bonario, si beve il suo intruglio... se ne sta lì seduto, apatico, indifferente, spento... come me ne stavo io nella mia stanza... e all’improvviso balza in piedi, afferra il pugnale e corre in strada... corre sparato come una freccia, sempre diritto, senza deflettere... senza sapere dove... Chi gli si para davanti, essere umano o animale, viene trafitto dal suo kris, e l’orgia di sangue non fa che eccitarlo maggiormente... Mentre corre, ha la schiuma alle labbra e urla come un forsennato... ma continua a correre e correre, senza guardare né a destra né a sinistra, corre e basta, con il suo urlo acutissimo, con il suo kris insanguinato, in quella rettilineità mostruosa... La gente nei villaggi sa che nessuna forza può fermare un invasato dall’amok... perciò danno l’allarme in anticipo, quando arriva, e gridano: “Amok! Amok!” e tutti scappano... ma l’ossesso corre senza sentire, corre senza vedere, pugnala tutto ciò che gli capita davanti... finché non lo ammazzano a fucilate come un cane rabbioso, oppure crolla da solo, sbavando... «Una volta l’ho visto, dalla finestra del mio bungalow... uno spettacolo orrendo... ma solo avendolo io visto, riesco a capire me stesso in quei giorni... perché così, esattamente così, con la stessa fissità terribile e rettilinea dello sguardo, senza guardare né a destra né a sinistra, con la medesima ossessività, mi lanciai di corsa... dietro a quella donna... Non ricordo più come ho fatto tutto quanto, mi è passato accanto a ritmo assolutamente folle, a velocità pazzesca... Dieci, no, cinque, no, due minuti... dopo aver saputo tutto di quella donna – nome, domicilio, sorte –, già pedalavo in fretta verso casa su una bicicletta presa in prestito lì per lì; arrivato, gettai nella valigia un vestito, misi in tasca dei soldi e me ne andai alla stazione con la mia carrozza... me ne andai senza congedarmi presso il funzionario distrettuale... senza nominare un sostituto, piantando lì la casa
  • 29. così com’era, tutta aperta... I servitori mi stavano intorno, le donne, sbalordite, facevano domande, io non risposi, neanche mi voltai... me ne andai alla ferrovia, e poi in città con il primo treno... Nel giro di un’ora, da che quella donna era entrata nella mia stanza, mi ero buttato la vita alle spalle lanciandomi alla cieca nel furore dell’amok... «Una corsa rettilinea, dando la testa nel muro... alle sei della sera ero a destinazione... alle sei e dieci a casa sua, dove mi feci annunciare... Era... lei lo avrà capito... la cosa più insensata, la cosa più stupida che potessi fare... ma l’invasato dall’amok corre con gli occhi vuoti, non vede dove sta correndo... Dopo qualche minuto il servitore tornò... cortese e freddo... la signora non si sentiva bene e non poteva ricevermi. «Uscii dalla porta barcollando... Per un’ora seguitai ad aggirarmi intorno alla casa, nella folle speranza che lei magari mi potesse cercare... poi presi una stanza all’albergo della spiaggia e due bottiglie di whisky in camera... che insieme a una doppia dose di veronal fecero il loro effetto... finalmente mi addormentai... e quel sonno greve, limaccioso, fu l’unica sosta in questa corsa tra la vita e la morte». Risuonò la campana di bordo. Due colpi secchi, decisi, che seguitarono a vibrare nello stagno morbido dell’aria quasi immobile e quindi si spensero nel sommesso, incessante frusciare che da sotto la prora e tra le pieghe del passionale discorso si perpetuava tenace. L’uomo nel buio di fronte a me doveva essere trasalito con sgomento, il suo discorso si inceppò. Di nuovo udii la mano che a tastoni andava in cerca della bottiglia, di nuovo quel tracannare smorzato. Poi, come rinfrancatosi, riprese con voce più ferma. «Non saprei raccontarle le ore a partire da quel momento. Oggi penso che allora avevo la febbre, certamente ero in uno stato di sovreccitazione che rasentava la follia: un invasato dall’amok, come le ho detto. Ma non dimentichi che era la sera del martedì, quando arrivai, e che sabato – come avevo appreso nel frattempo – doveva arrivare da Yokohama suo marito con il piroscafo della P. & O., per cui restavano soltanto tre giorni, tre giorni appena per la decisione e l’intervento. Cerchi di capire: sapevo di doverla aiutare subito, eppure non avevo modo di parlare con lei. E proprio il bisogno di giustificare il mio comportamento ridicolo, demenziale, mi spronava oltre. Sapevo che ogni attimo era prezioso, sapevo che per lei era questione di vita o di morte, e tuttavia non avevo alcuna possibilità di arrivare a lei con un bisbiglio, con un cenno, perché la zotica furia del mio
  • 30. correrle appresso l’aveva spaventata. Era... sì, aspetti... era come se uno rincorresse un altro per metterlo in guardia da un assassino, e l’altro scambiasse giusto lui per l’assassino, seguitando così in quella corsa verso la perdizione... lei in me vedeva soltanto l’invasato dall’amok che la inseguiva per umiliarla, mentre io... e questo era l’equivoco tremendo... io neppure ci pensavo più... ero ormai completamente distrutto, volevo solo aiutarla, servirla... avrei commesso un omicidio, un delitto, pur di aiutarla... Ma lei, lei non lo capiva. Quando al mattino mi svegliai e corsi subito a casa sua, sulla porta trovai il boy, quello stesso che avevo pestato in faccia, e come lui mi vide da lontano – doveva avermi atteso – sgusciò dentro. Forse lo fece solamente per annunciarmi di nascosto... forse... ah, questa incertezza, come mi tormenta adesso... forse tutto era già disposto per la mia visita... ma io, nel vederlo e nel ricordare la mia umiliazione, non ebbi il coraggio di presentarmi di nuovo... Mi tremavano le ginocchia. A un passo dalla soglia feci dietrofront e me ne andai... me ne andai, mentre lei magari mi attendeva con analogo tormento. «A questo punto non sapevo più che cosa fare in quella città sconosciuta, che mi bruciava alle calcagna come il fuoco... Di colpo mi venne un’idea, subito chiamai una carrozza, per andare da quel viceresidente che avevo curato a suo tempo nel mio ambulatorio, e mi feci annunciare... Nell’aspetto esteriore doveva esserci in me qualcosa di strano, perché lui mi guardò come spaventato, e nella sua cortesia si avvertiva una certa apprensione... forse in me aveva già intuito l’invasato dall’amok... Io gli dissi, deciso e sbrigativo, che chiedevo il mio trasferimento in città, perché non ce la facevo a resistere oltre nella mia sistemazione... dovevo cambiare aria immediatamente... Lui mi guardò... non saprei dirle come mi guardò... ecco, come un medico guarda un malato... “Un esaurimento nervoso, caro dottore,” disse poi “posso capirlo sin troppo bene. Sì, in qualche modo si riuscirà a giostrare la faccenda; ma aspetti... facciamo un mese... devo prima trovare un sostituto”. «“Non posso aspettare, neanche un giorno” risposi io. Di nuovo mi puntò quello sguardo strano. “Lei deve aspettare, dottore,” disse severo “non possiamo lasciare senza medico l’ambulatorio. Ma le prometto che avvierò le pratiche oggi stesso”. Io restai immobile, a denti stretti: per la prima volta ebbi la sensazione netta di essere un uomo venduto, uno schiavo. Già si stava profilando la rivolta, ma lui abilmente mi prevenne: “Lei si è disabituato alla frequentazione umana, dottore, e questo alla fine diventa
  • 31. una malattia. Tutti ci siamo meravigliati che lei non venisse mai qui, non si prendesse mai una vacanza. Ha bisogno di gente intorno, di stimoli maggiori. Venga almeno stasera, c’è un ricevimento al palazzo del governo, ci troverà l’intera colonia, e tanti da un pezzo vorrebbero fare la sua conoscenza, spesso hanno chiesto di lei, sperando di vederla qui”. «Le ultime parole mi riscossero. Chiesto di me? Forse era stata lei? D’un tratto ero un altro: lo ringraziai all’istante con la massima cortesia per l’invito e assicurai la mia presenza puntuale. E in effetti fui puntuale, troppo puntuale. Non occorre dirle che io, incalzato dalla mia impazienza, ero il primo nella grande sala del palazzo del governo; ero attorniato dai servitori gialli che andavano e venivano in servizio, svelti, con il passo elastico dei loro piedi scalzi e con risolini di compatimento – così mi pareva nella mente stravolta – alle mie spalle. Per un quarto d’ora fui l’unico europeo in mezzo a tutti quei preparativi silenziosi, e a tal punto solo con me stesso da sentire il ticchettio dell’orologio nella tasca del panciotto. Poi arrivarono finalmente alcuni funzionari dell’amministrazione con le loro famiglie, quindi anche il governatore, che mi intrattenne in un colloquio piuttosto lungo, ottenendo da me risposte appropriate e – credo – abili, finché... finché all’improvviso, preso da inspiegabile nervosismo, perdetti ogni scioltezza e mi misi a balbettare. Per quanto volgessi le spalle alla porta del salone, avvertii in un lampo che lei era entrata, che doveva essere lì: non saprei dirle perché mi venne quell’improvvisa certezza sconvolgente, ma mentre ancora parlavo con il governatore e mi giungeva all’orecchio il suono delle sue parole, sentivo non so dove dietro di me la presenza di lei. Per fortuna il governatore concluse in breve il colloquio, altrimenti – credo – mi sarei di colpo girato con poca cortesia, così forte era lo spasmo misterioso nei miei nervi, così eccitato e bruciante il mio desiderio. E in effetti, come mi voltai, subito la vidi proprio là dove in maniera inconscia il mio sentimento l’aveva intuita. Stava chiacchierando in mezzo a un gruppo, con un abito da sera giallo che dava risalto luminoso, come di avorio satinato, alle sue spalle esili, levigate. Sorrideva, ma a me parve di notare nel suo volto un che di teso. Mi avvicinai – lei non poteva o non voleva vedermi – e contemplai quel sorriso, che aleggiava compiacente e garbato intorno alle labbra sottili. E quel sorriso mi affascinò di nuovo, perché... sì, perché sapevo che era mendace, artificio o tecnica, maestria della simulazione. Oggi è mercoledì, mi passò per la mente, sabato arriva la nave con il marito... come può sorridere in quel modo, così... così sicura, così
  • 32. spensierata, e agitare nella mano con tanta disinvoltura il ventaglio, invece di stringerlo spasmodicamente con angoscia? Io... io, che ero un estraneo... tremavo da due giorni all’idea di quel momento... io, che ero un estraneo, vivevo come mia, con tutti gli eccessi del sentimento, la sua angoscia tremenda... e lei andava al ballo e sorrideva, sorrideva, sorrideva... «Verso il fondo attaccò la musica. Cominciavano le danze. Un anziano ufficiale le aveva chiesto un ballo, e lei, scusandosi, lasciò il crocchio e al braccio del cavaliere si avviò in direzione dell’altra sala, passandomi accanto. Appena mi vide, il suo volto si contrasse di colpo violentemente, ma un attimo soltanto, poi con un cortese cenno del capo (prima ancora che io avessi deciso se salutarla o meno), come a una casuale conoscenza, disse: “Buona sera, dottore”, e già era passata oltre. Nessuno avrebbe potuto supporre che cosa si nascondesse in quello sguardo grigioverde, e io, io stesso non lo sapevo. Perché mi salutava... perché d’un tratto mi riconosceva?... Era un gesto di difesa, era una mossa di approccio, era solo l’imbarazzo della sorpresa? Non le so descrivere in quale stato di agitazione io rimasi lì, tutto dentro di me era sconvolto, compresso in maniera esplosiva, e mentre la vedevo ballare così, disinvolta, il valzer insieme all’ufficiale – sulla fronte lo splendore distaccato della spensieratezza –, sapendo che lei... che lei, come me, pensava soltanto a quello... a quello... che lì noi due soli avevamo in comune un terribile segreto... e lei seguitava a ballare... in quegli istanti la mia angoscia, la mia bramosia e ammirazione divennero passione, grande come non mai. Non so se qualcuno mi avesse osservato, ma certamente il mio comportamento era assai più rivelatore che non la maestria di lei nel dissimulare: non mi riusciva proprio di guardare in un’altra direzione, ero costretto... sì, ero obbligato a fissarla, da lontano risucchiavo, sì, con violenza traevo a me il suo volto inaccessibile, sperando di far cadere la maschera per un attimo soltanto. E lei dovette avvertire con fastidio quello sguardo penetrante. Come ritornò, al braccio del suo cavaliere, nel lampo di un secondo mi guardò assolutamente dispotica, quasi per scacciarmi: di nuovo le si contrasse cattiva sulla fronte quella piccola ruga di collera altezzosa, che mi era nota già da prima. «Ma... ma... come le ho detto... io ero in preda all’amok, non guardavo né a destra né a sinistra. La capii immediatamente; quello sguardo significava: non dare nell’occhio! tieniti a freno! Sapevo che lei... come dire?... che lei voleva da me discrezione di comportamento lì in sala, di fronte a tutti... capivo che, se a quel punto me ne fossi andato, il giorno dopo potevo essere
  • 33. certo che lei mi avrebbe ricevuto... che solo in quel momento, solo in quel momento voleva evitare di esporsi alla mia plateale confidenza, che temeva – senz’altro a ragione, del resto – qualche scena per la mia goffaggine... Come vede... mi rendevo conto di tutto, avevo inteso quello sguardo grigio imperioso, ma... ma era più forte di me: dovevo parlarle. Sicché mi accostai vacillante al gruppo in cui lei stava chiacchierando e, sebbene conoscessi soltanto alcuni dei presenti, mi insinuai nel crocchio informale, per mero desiderio di sentirla parlare, sempre però timorosamente rattratto, come un cane bastonato, di fronte al suo sguardo, quando freddo mi sfiorava, quasi fossi la portiera di lino alla quale stavo addossato, oppure l’aria che lieve la muoveva. Ma io lì fermo, assetato di una parola che lei mi rivolgesse, di un cenno di intesa; fermo, immobile, con lo sguardo fisso, come un macigno in mezzo ai conversari. Senz’altro la cosa doveva essere saltata all’occhio, senz’altro – dato che nessuno mi diceva una parola, e lei certamente soffriva per la mia ridicola presenza. «Non so quanto sarei rimasto lì a quel modo... un’eternità, forse... perché non ero in grado di affrancarmi da quella fascinazione della volontà. Mi paralizzava proprio la pervicacia della mia rabbia... Ma lei non lo tollerò più a lungo... all’improvviso si rivolse ai signori con la splendida leggerezza a lei connaturata e disse: “Mi sento un po’ stanca... oggi, per una volta, vorrei andare a letto prima... Buona notte!” e già mi passava accanto con un cenno della testa mondanamente distaccato... vidi giusto ancora la ruga incisa sulla fronte e poi soltanto la schiena, bianca, fredda, nuda. Mi ci volle un attimo, prima di rendermi conto che se ne stava andando... che non avrei più potuto vederla né parlarle quella sera, l’ultima per la sua salvezza... sicché rimasi impietrito un istante, fino al momento in cui non me ne resi conto... poi... poi... «Ma aspetti... aspetti... altrimenti non capirà l’insensatezza, la stupidità del mio comportamento... devo prima descriverle per bene l’ambiente... Era il salone del palazzo del governo, tutto illuminato dalle luci e quasi vuoto, la sala enorme... le coppie erano andate a ballare, i signori a giocare... solo negli angoli conversava qualche gruppo... quindi la sala era deserta, ogni gesto spiccava con evidenza nella luce molto intensa... e lei attraversò quel vasto salone con passo lento e leggero, le spalle erette, qua e là rispondendo a un saluto con i suoi modi indescrivibili... con quella stupenda calma glaciale da regina, che in lei mi affascinava tanto... Io... io, come le ho già detto, ero rimasto lì, immobile, paralizzato, prima di capire che se ne stava
  • 34. andando... e quando poi me ne resi conto, lei era già all’altro capo della sala, a pochi passi dalla porta... Allora... ah, me ne vergogno ancora adesso al solo pensiero... allora qualcosa mi sopraffece all’improvviso, e mi misi a correre, sì, ha sentito bene: correvo... non camminavo, correvo – con quel pestare delle scarpe che rimbombava nella vastità dell’eco – attraverso il salone, dietro a lei... Sentivo i miei passi, vedevo tutti gli sguardi puntati su di me con stupore... avrei voluto sprofondare dalla vergogna... mentre ancora stavo correndo, mi ero già reso conto del mio gesto pazzesco... ma non potevo... non potevo più tornare indietro... La raggiunsi sulla porta... Lei si voltò... i suoi occhi mi trafissero come una lama d’acciaio grigia, le sue narici tremavano dalla rabbia... io stavo giusto cominciando a farfugliare... ed ecco... ecco che lei scoppiò a ridere di botto e sonoramente... una risata schietta, spensierata, cordiale, e disse a voce alta... così forte, che tutti potessero sentirla... “Ah, dottore, soltanto ora le viene in mente la ricetta per il mio ragazzino... già, lorsignori della scienza...”. Alcuni, lì vicino a noi, risero bonariamente... io afferrai, sconvolto per la maestria con cui lei aveva salvato la situazione... misi mano al portafogli e strappai dal blocco un foglietto in bianco, che lei prese con aria disinvolta, prima di... andarsene... un’altra volta... con un sorriso freddo di ringraziamento... Lì per lì mi sentii sollevato... vedevo la mia demenza neutralizzata dalla sua abilità, la situazione salva... ma ebbi anche l’immediata percezione che tutto per me era perduto, che per la mia stolidità focosa quella donna mi odiava... mi odiava più della morte... che ora mi sarei potuto presentare alla sua porta cento volte e cento volte ancora, e lei mi avrebbe cacciato via come un cane. «Attraversai la sala barcollando... sentivo che la gente mi guardava... dovevo avere un’aria strana... Andai al buffet, bevvi due, tre, quattro cognac di fila... questo mi salvò dallo stramazzare... i miei nervi non reggevano più, erano come lacerati... Poi me la svignai per una porta secondaria, di nascosto come un ladro... Per nessun reame al mondo avrei più potuto attraversare un’altra volta quella sala, in cui la risata di lei era ancora appiccicata, stridula, alle pareti... me ne andai... dove, non saprei più dire esattamente... in un paio di bettole, a sbronzarmi... a sbronzarmi come uno che voglia cancellare nella sbornia ogni barlume di coscienza... ma... in me non si realizzò l’ottundimento dei sensi... la risata mi stava dentro, acuta e cattiva... la risata, quella maledetta risata non riuscivo a stordirla... Poi vagolai ancora per il porto... avevo lasciato in camera il mio revolver,
  • 35. altrimenti mi sarei sparato. Non pensavo ad altro, e con quell’idea fissa andai in albergo... solo con quel pensiero al cassetto di sinistra nell’armadio, dove stava il mio revolver... con quell’idea soltanto. «Che poi non mi sia sparato... glielo giuro, non fu vigliaccheria... sarebbe stata per me una liberazione premere il grilletto freddo già in tensione... ma... non saprei come spiegarglielo... sentivo ancora in me un dovere... sì, quel dovere di aiutare, quel maledetto dovere... mi faceva impazzire l’idea che lei potesse ancora aver bisogno di me, che io le fossi necessario... era già la mattina del giovedì, quando tornai in albergo, e sabato... come le ho detto... sabato arrivava la nave, e sapevo che quella donna, quella donna altera, orgogliosa, non sarebbe sopravvissuta al disonore di fronte al marito, di fronte al mondo... Ah, quanto mi tormentarono questi pensieri: di aver perso assurdamente del tempo prezioso, di aver agito con demenziale precipitazione, vanificando ogni soccorso tempestivo... per ore, sì, per ore, glielo giuro, mi sono aggirato nella stanza, scervellandomi su come avrei potuto avvicinarla, sanare ogni cosa, esserle di aiuto... perché ero certo che lei non mi avrebbe più ammesso in casa sua... la sua risata e il tremito di rabbia alle narici mi bruciavano ancora in ogni nervo... per ore, davvero, per ore, sono andato avanti e indietro nei tre metri di quella stanza angusta... era già giorno ormai, mattina inoltrata... «E improvvisamente piombai al tavolo... strappai fuori un fascio di fogli da lettera e cominciai a scriverle... a scriverle tutto... una lettera implorante come il guaire di un cane, una lettera in cui le chiedevo perdono, in cui mi davo del mentecatto, del criminale... in cui la supplicavo di affidarsi a me... Giuravo di scomparire, tempo un’ora, dalla città, dalla colonia, e se lei lo voleva, dal mondo... purché mi perdonasse e confidasse in me, lasciandosi soccorrere all’ultimo, ultimissimo momento... Venti pagine riempii con febbrile eccitazione... deve essere stata una lettera folle, indescrivibile, un parto delirante, perché quando mi alzai dal tavolo ero in un bagno di sudore... la stanza ballava, dovetti bere un bicchier d’acqua... Poi cercai di rileggere lo scritto, ma dopo qualche parola mi prese l’orrore... ripiegai i fogli tremando, e già afferravo una busta... Ed ecco all’improvviso l’ispirazione. Di colpo mi venne la parola giusta, decisiva. E di nuovo strinsi la penna tra le dita e scrissi sull’ultima facciata: “Attendo qui all’albergo della spiaggia un cenno di perdono. Se non ottengo risposta entro le sette, mi sparo”.
  • 36. «Poi presi la lettera e ordinai a un cameriere di recapitarla subito. Finalmente tutto era detto: tutto!». Qualcosa rotolò con suono di vetro accanto a noi. Con un movimento brusco aveva rovesciato la bottiglia del whisky; sentii la sua mano tastare, cercandola, sul pavimento e poi afferrarla con slancio improvviso: scagliò in mare a parabola la bottiglia scolata. Per qualche minuto la voce tacque, poi il medico riprese febbrile, più agitato e concitato di prima. «Io non sono più un cristiano di salda fede... per me non esiste né il paradiso né l’inferno... e se anche ci fosse, l’inferno, a me non fa paura, perché non può essere peggio delle ore che ho passato da quella mattina fino alla sera... Immagini una piccola stanza, un forno sotto il sole, sempre più arroventata dal fuoco del meriggio... una stanza angusta: un tavolo, una sedia, un letto, e basta... E su quel tavolo nient’altro che un orologio e un revolver, e davanti al tavolo un essere umano... un essere umano intento unicamente a fissare senza sosta quel tavolo, la lancetta dei secondi... un essere umano che non mangia e non beve e non fuma e non si muove... che sempre e soltanto... proprio così: sempre e soltanto... capisce?... per tre ore filate... guarda fisso il disco bianco del quadrante e la lancetta che percorre ticchettando il cerchio... Così... così... ho trascorso quella giornata, solamente aspettando, aspettando, aspettando... ma era un’attesa come... come, appunto, può farla un invasato dall’amok: assurda, bestiale, con la stessa folle perseveranza rettilinea. «Comunque... non le racconterò quelle ore... non si possono descrivere... io stesso non riesco più a capire come si possa fare un’esperienza del genere, senza... senza impazzire... Dunque... alle tre e ventidue minuti... lo so con esattezza, perché fissavo l’orologio... all’improvviso bussano alla porta... Io salto su... con un balzo, come una tigre scatta sulla preda, volo attraverso la stanza fino alla porta, spalancandola... fuori c’è un ragazzino cinese impaurito, con un foglio ripiegato in mano, e mentre io afferro avido la missiva, lui se la svigna e scompare. «Spiego con furia il biglietto, faccio per leggerlo... e non ci riesco... Davanti agli occhi ho una nebbia rossa... si immagini lo strazio: finalmente lei mi manda un cenno, finalmente... e ora è tutto un tremolio, tutta una ridda nelle mie pupille... Immergo la testa nell’acqua... e mi sento più lucido... Riprendo in mano il foglio e leggo: “Troppo tardi! Ma non si muova dall’albergo. Forse la manderò a chiamare”.
  • 37. «Nessuna firma sulla carta spiegazzata, lacerto di qualche vecchio dépliant... tratti a matita frettolosi, confusi, di una scrittura solitamente senza sbavature... non so perché quel foglio mi sconvolgesse tanto... Aveva un che di orrido, di misterioso, pareva scritto durante una fuga, in piedi al davanzale di una finestra, o in un veicolo in moto... Un indescrivibile senso di angoscia, di fretta, di sgomento emanava da quel biglietto furtivo e mi riempiva di gelo l’anima... e tuttavia... e tuttavia ero felice: lei mi aveva scritto, non dovevo ancora morire, potevo esserle di aiuto... forse... potevo... ah, mi perdevo completamente nelle congetture e speranze più pazzesche... Cento, mille volte ho riletto, ho baciato quel piccolo foglio... alla ricerca di una parola sfuggita, non vista... sempre più profonda, più confusa divenne la mia allucinazione, uno stato fantastico di sogno a occhi aperti... una sorta di paralisi, un che di torpido e tuttavia agitato, a metà tra il sonno e la veglia, che forse durò quarti d’ora o forse ore... «All’improvviso trasalii... Non avevano bussato?... Restai con il fiato sospeso... per un minuto o due, silenzio assoluto... E poi di nuovo, appena percettibile, come un rodere di topo, un tamburellare smorzato ma veemente... Balzai in piedi, ancora stordito, spalancai la porta: fuori c’era il boy, il suo boy, quello stesso al quale avevo spaccato il muso a cazzotti... la sua faccia bruna era pallida come un cencio, lo sguardo stravolto annunciava sventura... Di colpo mi prese il terrore... “Che cosa... che cosa è successo?” stentai a balbettare. “Come quickly” disse... niente altro... subito scesi a precipizio le scale, e lui dietro... In basso attendeva un sado, un carrozzino leggero, montammo... “Che è successo?” gli chiesi... Lui mi guardò tremando e tacque con le labbra serrate... Tornai a domandare; seguitò a non proferire motto... Avrei voluto prenderlo di nuovo a pugni in faccia, ma... proprio la sua supina devozione nei confronti di lei mi commuoveva... per cui non feci più domande... Il carrozzino procedeva con tale fretta in mezzo al bailamme che la gente schizzava da parte bestemmiando, passò dal quartiere europeo della spiaggia alla città bassa e oltre, nel labirintico frastuono del quartiere cinese... Finalmente arrivammo in un vicolo angusto, del tutto appartato... il carrozzino si fermò davanti a una casa bassa... Era sporca e come accucciata su se stessa, sul davanti una piccola bottega con un lume di sego... una di quelle stamberghe in cui si celano le fumerie di oppio o i bordelli, un covo di ladri o ricettatori... Il boy bussò con furia... Dietro la fessura della porta bisbigliò una voce, ponendo una serie di domande... Non ce la feci più: saltai giù dal sedile, spalancai
  • 38. con una spinta la porta socchiusa... una vecchia cinese scappò a ritroso con un piccolo grido... dietro di me era entrato il boy, che mi condusse attraverso il corridoio... aprì un’altra porta... un’altra porta, di una stanza buia, maleodorante, un lezzo di acquavite e sangue rappreso... Dentro, qualcosa gemeva... mi avvicinai a tentoni...». La voce si inceppò nuovamente. E quello che poi eruppe era più un singhiozzio che un parlare vero e proprio. «Io... io mi avvicinai a tentoni... e lì... lì, stesa su una stuoia lercia... si torceva dal dolore... gemendo, una creatura umana... lei... «Non riuscivo a scorgere il suo volto nell’oscurità... I miei occhi non erano ancora assuefatti... per cui tastai alla cieca... la sua mano... scottava... scottava come il fuoco... febbre, febbre alta... e io rabbrividii... in un lampo avevo afferrato tutto... si era rifugiata lì, per evitare me... si era fatta massacrare da una lurida cinese, solo perché lì si aspettava maggiore discrezione... si era lasciata trucidare da una diabolica mammana, piuttosto che affidarsi a me... soltanto perché io, mentecatto... perché io non avevo rispettato il suo orgoglio, non l’avevo aiutata subito... perché, più della morte, lei temeva me... «Urlai che facessero più luce. Il boy partì di corsa: l’immonda cinese, con mani tremanti, portò una lampada a petrolio che dava fumo... dovetti trattenermi, per non saltare alla gola di quella canaglia gialla... posarono la lampada sul tavolo... la luce piovve calda e intensa sul corpo martoriato... E all’improvviso... all’improvviso in me era sparito tutto: ogni stordimento, ogni rabbia, tutto lo sporco liquame della passione accumulata... ero soltanto un medico, un essere umano soccorrevole, sensibile, esperto... dimentico di me stesso... lottavo con mente lucida, pronta, contro l’orribile sciagura... Sentivo nel corpo nudo, concupito nei miei sogni, solo... come dire?... solo la materia, l’organismo... non sentivo più lei, ma unicamente la vita che si ribellava alla morte, la creatura umana che si torceva dallo strazio atroce... Il suo sangue, il suo sangue caldo, sacro, mi inondava le mani, ma non lo percepivo con voluttà né con orrore... non ero che un medico... altro non vedevo se non la sofferenza... e vidi... «E vidi subito che tutto era perduto, se non accadeva un miracolo... era sconciata e mezzo dissanguata per colpa della criminale mano inesperta... e io non avevo niente lì, in quella fetida spelonca, per tamponare il sangue, nemmeno dell’acqua pulita... tutto ciò che toccavo era pieno di lerciume...
  • 39. «“Dobbiamo andare immediatamente all’ospedale” dissi. Ma appena ebbi proferito qualche parola, il corpo martoriato si inalberò in uno spasmo. “No... no... meglio morire... nessuno saperlo... nessuno saperlo... a casa... a casa...”. «Capivo... ormai lottava soltanto per la segretezza, per il suo onore... non per la vita... E io... io obbedii... Il boy giunse con una lettiga... ve la coricammo sopra... e così... già simile a un cadavere, spenta e febbricitante... la portammo attraverso la notte... a casa... scansando la servitù che domandava sgomenta... come ladri la facemmo entrare nella sua stanza, sbarrando le porte... E allora... allora cominciò la lotta, la lunga lotta contro la morte». All’improvviso la sua mano attanagliò il mio braccio, e per poco non mi misi a urlare dallo spavento e dal dolore. Nel buio la sua faccia di colpo mi si parò davanti stravolta, vedevo il bianco dei denti scoperti nello sfogo subitaneo, gli occhiali che baluginavano nel riflesso smorto della luce lunare come due enormi pupille di gatto. E ora non parlava più: gridava, scosso da una rabbia singhiozzante. «Ma lo sa lei, lei sconosciuto che siede qui comodamente su una sdraio di coperta, lei che se ne va a passeggio per il mondo, lo sa lei che cosa succede alla morte di un essere umano? Vi ha mai assistito lei, ha visto il corpo inarcarsi, le unghie blu artigliare il vuoto, la gola rantolare, le membra ribellarsi tutte quante, ogni dito impuntarsi contro la sorte atroce, e l’occhio sbarrarsi in un orrore per il quale non esistono parole? Questo l’ha mai vissuto lei, lei che se ne sta in ozio, che viaggia per il mondo, che blatera del dovere di portare aiuto? Io, in quanto medico, l’ho visto spesso come... caso clinico, come dato di fatto... l’ho per così dire studiato, ma viverlo, con intima partecipazione, l’ho vissuto una volta sola, soltanto quella notte sono veramente morto anch’io... quella notte tremenda in cui ero lì seduto a stillarmi il cervello per escogitare, tirar fuori, inventarmi qualcosa che potesse fermare il sangue che scorreva e scorreva e scorreva, per vincere la febbre che la bruciava davanti ai miei occhi... contro la morte che incalzava sempre più da presso e che io ero incapace di allontanare dal suo letto. Capisce che cosa significa essere medico, conoscere tutti i rimedi per tutte le malattie – avere l’obbligo di aiutare, come lei tanto saggiamente dice – e startene seduto impotente presso una donna che muore, imbottito di scienza eppure privo di ogni potere... conscio di una sola cosa, atroce: che
  • 40. non puoi essere di aiuto, neanche squarciandoti ogni vena del corpo... vedere un corpo amato dissanguarsi miseramente in uno strazio di sofferenze, sentire un battito che galoppa e insieme si spegne... che ti scorre via sotto le dita... essere medico e non essere capace di nulla, nulla, nulla... startene unicamente lì seduto a biascicare una preghiera come una beghina in chiesa, oppure levando i pugni contro un miserabile dio, del quale sai che non esiste?... Lo capisce? Lo capisce?... Io... io non capisco una sola cosa... come... come è possibile che uno non muoia pure lui in quegli istanti... che il mattino dopo si alzi dal letto e si lavi i denti e si annodi la cravatta... che si riesca ancora a vivere, avendo provato quello che ho provato io: sentire quel respiro, quella prima creatura umana per cui lottavo disperatamente, che volevo tenere in vita con tutte le forze della mia anima... che vedevo svanirmi sotto le mani... svanire sempre più in fretta verso non so dove, minuto dopo minuto, mentre io nel mio cervello delirante non trovavo nessun rimedio per trattenere quell’unica creatura... «E poi, a raddoppiare diabolicamente il mio strazio, c’era un altro fatto ancora... Mentre sedevo al suo capezzale – le avevo somministrato della morfina, per lenire i dolori, e la vedevo giacere con le guance ardenti, bruciata dalla febbre e pallida –, sì... mentre sedevo lì, sentivo alle mie spalle due occhi puntati su di me, carichi di una tremenda tensione... Il boy stava accoccolato sul pavimento e mormorava non so quali preghiere sommesse... Quando il mio sguardo incrociava il suo... no, non riesco a descriverlo... un che di implorante, una sorta di... di gratitudine si accendeva nel suo occhio di cane devoto, e al contempo protendeva le mani verso di me, come per supplicarmi di salvarla... capisce?... verso di me, verso di me protendeva le mani, quasi fossi un dio... verso di me... impotente e inetto, consapevole che tutto era perduto... inutile quanto una formica che fruscia per terra... Ah, quello sguardo, come mi straziava, quella speranza fanatica, bestiale, nelle mie arti... avrei voluto investirlo di improperi e prenderlo a calci, tanto male mi faceva... e tuttavia sentivo che eravamo entrambi accomunati dall’amore per lei... dal segreto... Come un animale in agguato, cupo groviglio, sedeva rattratto proprio alle mie spalle... appena chiedevo una cosa, scattava sui piedi scalzi, silenziosi e me la porgeva tremando... nella speranza che quella fosse il soccorso... la salvezza... Sono certo che si sarebbe tagliato le vene, pur di aiutarla... così era fatta quella donna, tanto potere aveva sulle persone... e io... io non ero
  • 41. capace di salvarne una misera stilla di sangue... Ah, quella notte, quella notte terribile, quella notte senza fine tra la vita e la morte! «Verso mattina si ridestò ancora una volta... aprì gli occhi... adesso non erano più altezzosi e freddi... vi brillava umida una febbre, mentre, come assenti, saggiavano la stanza... Poi mi guardò: parve riflettere, volersi ricordare della mia faccia... e all’improvviso... lo notai... le tornò in mente... perché un moto di spavento, di difesa... qualcosa... qualcosa di ostile, di inorridito le contrasse il volto... remigò con le braccia, come per fuggire... via, via, via da me... vidi che pensava a quello... ai momenti passati allora... Ma poi ci ripensò... mi guardò più tranquilla, respirando a fatica... sentivo che voleva parlare, dire qualcosa... Le mani ripresero a contrarsi... voleva alzarsi, ma era troppo debole... Io cercai di calmarla, chinandomi su di lei... allora mi fissò con uno sguardo lungo, angosciato... le sue labbra si mossero quasi senza suono... era soltanto un estremo sospiro fievole il suo dire... “Non lo saprà nessuno?... Nessuno?”. «“Mai,” risposi con tutta la forza della convinzione “glielo prometto”. «Ma il suo occhio era ancora inquieto... «Con labbra febbrili cercò di articolare parole smozzicate. «“Mi giuri... nessuno saprà... giuri”. «Alzai le dita in atto di giuramento. Lei mi guardò... con uno... con uno sguardo indescrivibile... dolce, caldo, grato... sì, davvero, davvero grato... Voleva aggiungere ancora qualcosa, ma non ne ebbe più la forza. Giacque a lungo, completamente stremata dallo sforzo, con gli occhi chiusi. Poi cominciò la fase atroce... atroce... per un’ora intera, terribile, continuò a lottare: solo al mattino era finita...». Tacque per una lunga pausa. Io me ne avvidi soltanto quando dal ponte di centro la campana ruppe il silenzio, uno, due, tre colpi secchi: le tre. La luce lunare si era fatta più fioca, ma già un altro chiarore giallo tremolava incerto nell’aria, e il vento a tratti giungeva lieve come una brezza. Mezz’ora, un’ora forse, e poi sarebbe stato giorno, e lo strazio dissolto nella piena luminosità. Adesso scorgevo più distintamente le sue fattezze, dato che le tenebre non incombevano più così spesse e nere nel nostro angolo: si era tolto il berretto, e sotto il cranio lustro la sua faccia tormentata pareva ancora più spaventosa. Ma già le lenti tornavano a volgersi verso di me nel
  • 42. loro baluginio; si controllò a forza, e la sua voce assunse un tono beffardo, tagliente. «Per lei, dunque, era finita: ma non per me. Ero solo con la salma, solo in una casa altrui, però; solo in una città che non ammetteva segreti, mentre io... io dovevo custodire il segreto... Sì, cerchi un po’ di calarsi nella situazione: una donna della migliore società coloniale, perfettamente sana, che ancora la sera prima ha partecipato al ballo ufficiale, all’improvviso giace morta nel suo letto... accanto a lei c’è un medico sconosciuto, chiamato, dicono, dal servitore di lei... nessuno della casa ha visto quando e da dove costui sia venuto... nottetempo è stata portata lì con una lettiga, poi hanno sbarrato le porte... e al mattino la donna è morta... soltanto allora hanno chiamato la servitù, e d’un tratto la casa rintrona di urla laceranti... in un lampo lo sanno i vicini, tutta la città... e lì c’è uno solo, tenuto a spiegare ogni cosa... io, l’estraneo, il medico di un ambulatorio a casa del diavolo... Una situazione piacevole, non è vero?... «Sapevo che cosa mi attendeva. Fortunatamente mi era accanto il boy, un bravo ragazzo, che captava ogni cenno dai miei occhi: anche quell’ottuso animale giallo capiva che lì bisognava ancora combattere una battaglia. Io gli avevo detto soltanto: “La signora vuole che nessuno sappia quello che è successo”. Lui mi guardò negli occhi con il suo sguardo umido da cane devoto e tuttavia deciso. “Yes, sir”: altro non disse. Ma cancellò le tracce di sangue dal pavimento, mise in ordine per bene ogni cosa, e fu proprio la sua determinazione a restituirmi la mia. «Mai nella vita, lo so per certo, ho avuto una carica di energia così concentrata, né mai più l’avrò. Quando uno ha perso tutto, lotta come un disperato per l’ultima cosa rimasta – e l’ultima cosa rimasta era l’estrema sua volontà: il segreto. Ricevetti con assoluta calma le persone, raccontando a tutti la medesima storia inventata: che il boy, da lei mandato in cerca del medico, mi aveva incontrato per caso lungo la strada. Ma mentre ero intento a parlare con apparente tranquillità, stavo in attesa... in continua attesa del momento decisivo... del necroscopo che doveva venire, prima di poterla sigillare nella bara insieme al suo segreto... Era, non lo dimentichi, giovedì, e sabato arrivava il marito... «Finalmente alle nove mi venne annunciato l’ufficiale sanitario. Lo avevo fatto chiamare io: era mio superiore gerarchico e, insieme, mio rivale – quello stesso medico di cui lei a suo tempo mi aveva parlato con tanto disprezzo – evidentemente già informato della mia richiesta di
  • 43. trasferimento. A prima vista ebbi la sensazione che mi fosse ostile. Ma proprio questo mi diede più forza. «Già in anticamera domandò: “La signora...” fece il nome di lei “... quando è morta?”. «“Alle sei del mattino”. «“Quando ha mandato a chiamarla?”. «“Alle undici di sera”. «“Lei sapeva che ero io il suo medico?”. «“Sì, ma bisognava intervenire d’urgenza... e poi... la defunta aveva chiesto espressamente di me. Non voleva che si chiamasse un altro medico”. «Mi guardò con occhio sbarrato: sul suo volto pallido, grassoccio, si diffuse un rossore; capii che era irritato. Ma per me era quello che ci voleva: tutte le mie energie premevano per una decisione rapida, perché sentivo che i miei nervi non avrebbero più retto a lungo. Stava già per replicare in modo ostile, ma poi disse con aria di noncuranza: “Se lei ritiene di poter fare a meno di me, resta comunque mio dovere d’ufficio constatare il decesso e... le sue cause”. «Io non risposi e gli diedi la precedenza. Poi mi voltai, chiusi a chiave la porta e misi la chiave sul tavolo. Lui aggrottò le sopracciglia, sorpreso: “Che significa questo?”. «Lo affrontai tranquillo. «“Qui non si tratta di stabilire la causa della morte, ma... di trovarne un’altra. Questa donna mi ha chiamato, perché io... perché io rimediassi alle conseguenze di un intervento finito male... non sono riuscito a salvarla, ma le ho promesso di salvare il suo onore, e lo farò. E quindi la prego di aiutarmi!”. «Gli occhi di lui si erano dilatati dallo stupore. “Non vorrà dirmi, per caso,” balbettò poi “che io, ufficiale sanitario, dovrei coprire qui un crimine?”. «“Sì, è questo che voglio, è questo che devo volere”. «“E io, per il suo atto delittuoso, dovrei...”. «“Le ho detto che io non ho toccato questa donna, altrimenti... altrimenti non sarei qui davanti a lei, altrimenti l’avrei già fatta finita, e da un pezzo... La sua colpa – se così la vuole chiamare – l’ha pagata, non occorre che il mondo lo sappia. E io non tollererò che l’onore di questa donna venga adesso inutilmente infangato”.