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Politecnico di Milano
Facoltà del Design, Corso di Laurea in Disegno Industriale
Toy Design
Appuntamento al buio tra il gioco e la paura
Primo Atlante di giocologia applicata
Rel. Florian Tim Boje
Aut. Joyce Bonafini, 185757
Anno Accademico 2004-2005
Indice dei contenuti
6 � 	 prefazione
	 8 Abstract
	 12 Il metodo
16 � 	 il gioco
	 17 Papà, papà... Gioco cosa significa?
	 22 Teorie ed interpretazioni storiche del gioco
	 33 Perchè si gioca? A cosa serve?
36 � 	 il bambino & il suo sviluppo: ad ogni età il suo gioco
	 37 Lo sviluppo del pensiero
		 37 La teoria Piagetiana | 38 Il periodo sensomotorio | 43 Il periodo preoperazionale |
		 46 Il periodo delle operazioni concrete | 49 Il periodo delle operazioni formali
	 51 La motricità infantile
		 53 Tappe dello sviluppo motorio | 66 Studi sulla coordiazione motoria | 71 La nascita di un movimento
	 76 Lo sviluppo psico–sessuale
		 76 Lo stadio pregenitale | 85 Lo stadio genitale	
	 91 Lo sviluppo dei bisogni ludici
		 91 Da 0 a 1 anno: La nascita | 96 Da 1 a 2 anni: la curiosità | 100 Da 2 a 3 anni: l’autonomia |
		 105 Da 4 a 6 anni: l’esplorazione | 110 Da 6 a 10 anni: la vita sociale | 114 Da 10 a 12 anni: i primi turbamenti
	 114 Bambini e colori
122 � 	 i giocattoli
	 123 Storia dei giocattoli
		 124 L’Antichità | 128 Il Medioevo | 129 Il Rinascimento | 130 Tra Seicento e Settecento | 134 L’Ottocento
		 138 Il Novecento
	 140 Il gioco e i giocattoli... Il giocattolo oggi
		 142 La stuttura | 149 Segmentazione di mercato | 152 Contenuti | 163 Situazioni d’uso |
		 164 Esperienza interiore | 166 Rapporto con gli altri
172 � 	 la paura
	 173 Le emozioni
	 	 173 Lo studio delle emozioni | 174 A cosa servono le emozioni? | 174 Le emozioni fondamentali
	 175 La paura
	 175 Provare paura | 188 La paura come motore dell’apprendimento
	 191 Breve Bestario delle paure infantili
		 191 I primi tre anni | 197 Dai tre ai sei anni | 203 Dai sei ai dieci anni | 210 Le paure adolescenziali
	 211 Sogni e paure
	 214 Affrontare la paura
		 214 Consigli per affrontare la paura | 215 Reagire alla paura | 217 I meccanismi di difesa | 	
		 218 Le strategie per superare la paura | 232 Giocattoli e paure
236 � 	 conclusioni
240 � 	 ipotesi progettuali
	 242 Nannaganga
	 256 Mighty Light
	 272 Little Brite
	 292 Lightbook
302 � 	 fonti e risorse
		 303 Bibliografia | 308 Link | 311 Tesi consultate
Indice degli schemi
10 � enunciato della tesi
13 � schema di funzionamento della metodologia triz
15 � schema dello svolgimento della tesi
19 � contrari messi in atto nel gioco
28-29 � interpretazioni del gioco date da diverse discipline
40-41 | 44-45 | 48-49 � lo sviluppo del pensiero (la teoria piagetiana)
58-59 | 60-61 | 62-63 |64-65 � sviluppo motorio da 0 a 12 anni
72 � la genesi dei movimenti
74 � elaborazione dei compiti motori richiesti partendo da differenti modalità
75 � conoscenze necessarie ad attuare un movimento
80-81 | 82-83 | 88 � sviluppo sessuale
94-95 | 96-97 | 100-101 | 108-109 | 110-111 | 114 � sviluppo dei bisogni ludici
170-171 � tipologie e classi di analisi dei giocattoli
179 � provare paura
181 � reagire alla paura
187 � generi di paure
204-205 � evoluzione delle paure infantili
230-231 � affrontare le paure
Prefazione
Scegliere di svolgere una tesi una tesi nell’ambito del gioco per bambini non è stato facile.
Molti hanno cercato di dirottarmi verso ambiti progettuali più tradizionali mettendomi in
guardia sulle tante insidie che questo tipo di ricerca nasconde e sullo scarso riconoscimento
concesso a questa attività (in ambito istituzionale e non).
Dando un occhiata alle tesi del CEDAR sull’argomento “Gioco” queste ipotesi tragiche mi
sono sembrate piuttosto ben fondate. Ho cercato così di analizzare questi elaborati cercando
di individuarne punti diforza e debolezze ponendomi come proposito quello di evitare di com-
mettere gli stessi errori. A mio parere le analisi svolte muovevano prevalentemente sul piano
filosofico senza considerare l’evoluzione storica e oggettuale dei giocattoli e anche le buone
idee spesso si sono tradotte, purtroppo, in progetti di livello piuttosto basso poco legati alla
quotidianità del bambino e soprattutto completamente distaccati dalla contemporaneità
in cui viviamo. Non sono riuscita a spiegarmi il perché di questo rapporto difficile tra le tesi e
il toydesign se non constatando che il gioco e il giocattolo sono ambiti progettuali molto dif-
ficili nei quali spesso bisogna commettere molti errori prima di giungere ad una buona idea.
Tuttavia, come ogni volta, ho voluto fare di testa mia e provare comunque ponendomi come
punto di partenza l’elaborazione di un metodo progettuale personale da applicare al design
del giocattoli mixandolo con un pizzico di creatività.
Mi sono serviti diversi mesi di indagine prima di individuare un percorso di lettura personale.
Spesso mi sono trovata smarrita ai confini dell’universo del “gioco” tra filosofia, psicologia,
marketing e ricordi d’infanzia. Quello del gioco è un ambito sconfinato ricco di spunti interes-
santi da approfondire e, nonostante questo curiosare mi abbia fatto perdere un po’ di tempo,
devo riconoscere che perdermici è stato divertente e istruttivo.
Nel frattempo ho avuto modo di familiarizzare con la progettazione di giocattoli durante il
mio periodo di stage presso lo studio Gioforma (trasformatosi poi in un lavoro a tempo pieno)
dove ho cominciato a riflettere sul valore che può avere il gioco nella pazza società in cui
viviamo e su come siano cambiati bambini e giocattoli negli ultimi trenta anni.
Dopo svariate false partenze e vicoli cechi ho scelto una chiave di lettura che mi aiutasse a
limitare il campo di ricerca (avendo accettato l’ipotesi di non riuscire scrivere un’enciclopedia
completa e onnicomprensiva sul gioco e sui giocattoli).
Con la mia tesi ho deciso quindi di indagare i punti di contatto tra due ambiti apparentemen-
te molto lontani tra loro: quello del gioco e quello della paura. Credo che l’osservazione delle
influenze reciproche di questi due campi possa essere utile nella ricerca di spunti progettuali.
Molto più spesso di quanto si crede infatti il gioco nasce e viene influenzato dalla paura così
come la paura può essere allontanata e talvolta vinta giocando. Un esempio per tutti è il
sonaglio; questo oggetto, che è tra l’altro il primo giocattolo di tutti i tempi, veniva usato in
principio come strumento rituale e il suo rumore serviva a tenere lontani gli spiriti maligni
dai neonati.
Mi è sembrato interessante esplorare il mondo della paura, una delle emozioni più signi-
ficative in rapporto allo sviluppo del pensiero e della crescita personale; questa scelta mi
sembrava oltre perfettamente in linea con i risultati di molte recenti ricerche che sottolinea-
no l’importanza a partire dalla prima infanzia di una corretta educazione emotiva. La paura
è considerata una delle emozioni umane fondamentali a fianco di gioia, rabbia, tristezza e
disgusto (l’elenco completo varia da studio a studio ma questi stati d’animo compaiono come
costanti universali e facilmente riconoscibili). Sapere affrontare le paure, anche da bambini,
è fondamentale per crescere sani e fiduciosi in se stessi e nel futuro. Parlare di paura tocca la
parte più sensibile ed emotiva di ciascuno di noi specialmente in un momento storico delicato
e difficile come quello che stiamo vivendo.
La paura è un tema estremamente attuale e credo che sia giusto, anche da parte dei designer,
cercare di trattarla in modo propositivo suggerendo progetti che sappiano fare leva su questa
emozione così violenta trasformandola in un motore di crescita: domare una forza solita-
mente distruttiva incanalandone l’energia in un’attività ludica e produttiva.
Abstract
È davvero molto difficile cercare di definire in modo univoco cosa significhi
giocare. Sotto la definizione di GIOCO fanno capolino le infinite manife-
stazioni di questo fenomeno così diffuso. Ognuno di noi potrebbe cercare
di spiegare il gioco suggerendo alcuni esempi di ciò che intende per gioca-
re e sarebbero sicuramente tutti differenti e allo stesso tempo esatti (per
qualcuno gioco sarà calciare un pallone, per altri vincerà il ricordo di una
bambola da accarezzare, altri ancora penseranno alle corse in un prato o
alla vertigine di un altalena, sicuramente ci sarà chi è patito della playsta-
tion e chi malato di superenalotto, ma ognuno di noi, anche chi come me
è capace di perdere ore con un cubo di Rubik, conosce il significato del ter-
mine giocare). L’analisi del lavoro svolto da numerosi studiosi che si sono
confrontati con questo tema mi ha convinto che definire il gioco è impresa
probabilmente impossibile e forse anche inutile: per dirlo con le parole del
filosofo Immanuel Kant, il mondo delle idee (che lui chiama noumeni) è una
realtà inconoscibile ed indescrivibile che, in qualche modo, si trova“al fon-
do”, dietro, al di là dell’apparenza che conosciamo, oltre ai fenomeni percebili
che ben conosciamo e riconosciamo. Il fenomeno è infatti ciò che in una
cosa appare ai sensi e alla coscienza; è l’aspetto percepito di un qualcosa che
si manifesta alla percezione, sia essa fisica che psichica. Se dunque l’essenza
del gioco non può che sfuggire, nel suo allegro cambiar di forma e nascon-
dersi, la fenomenologia del gioco, il suo divenire, è chiara ed evidente a tutti
e le manifestazioni del gioco sono facilmente identificabili. Il più delle volte
bastano pochi secondi per riuscire a capire se una persona, adulto o bambi-
no che sia, sta giocando. Il gioco è, in una certa misura, innegabile: per la
gioia che procura, per l’attenzione costante e serena che impegna il gioca-
tore, per le emozioni suscitate e facilmente leggibili, per la vitalità espres-
sa nelle azioni e soprattutto per la natura di alcuni gesti ben conosciuti da
ciascuno di noi. Vi è inoltre nel gioco una costante presenza di movimento
e vita. Spostando l’attenzione dallo studio del gioco all’analisi di giochi e
giocattoli emerge che il gioco in effetti possiede alcune caratteristiche e ge-
sti costanti riscontrabili sin dall’antichità e tutt’oggi presenti sulla terra ad
ogni latitudine e longitudine prescindendo dal livello di sviluppo economi-
co e sociale del paese in cui si manifestano. Alcuni giochi, e con essi alcuni
giocattoli, possono essere considerati universali e nascono evidentemente
in risposta a bisogni fisici e psicologici legati alla crescita del bambino di cui
spesso sono promotori. In una cera misura possiamo considerare il fenome-
no gioco (inteso in senso fisico piuttosto che filosofico) come effetto di mo-
dificazioni interne al bambino che seguono un andamento piuttosto stan-
dardizzato. Mi piace l’idea di riuscire a leggere la fenomenologia del gioco
come un susseguirsi di gesti e giochi legati da rapporti di causa–effetto in
cui si incontrano pulsioni interne ed esperienze esterne. Il gioco è espressio-
ne e superamento di una dinamica di crescita attualmente in atto. Sebbene
credo non sia possibile riuscire a immaginare un“giocattolo perfetto” credo
che cominciare un progetto ponendosi di fronte agli obiettivi da raggiunge-
re e alle scoperte già conquistate dal bambino sia un buon punto di partenza
per cercare di progettare giocattoli stimolanti e soprattutto divertenti. Par-
tendo da questo presupposto, ho cercato di indagare il mondo dell’infanzia
costruendo una base imprescindibile sulla quale elaborare e valutare nuovi
concept di gioco; ovviamente i primi aspetti considerati sono stati quelli
universali, legati allo sviluppo nell’area motoria, psichica e affettiva. Si
aggiunge a queste anche l’area dello sviluppo ludico in cui si intrecciano
diversi fattori ed emergono le tipologie di giochi e giocattoli più adatte ai
diversi momenti della crescita. Mi stimolava l’idea di cercare di leggere il
gioco come un fenomeno che si manifesta in un preciso momento a partire
10
dalla necessità di acquisire alcune capacità specifiche e continua divertendo
il bambino fintantoché quella abilità non è stata assimilata (il divertimento
del bambino si accompagna sempre alla crescita o all’acquisizione di nuove
conoscenze–abilità). Lo scopo della mia ricerca è di leggere in quest’ottica le
manifestazioni del gioco infantile cercando, su questa base logico–analiti-
ca, di costruire una serie di tabelle/mappe che si possano porre alla base di
una nuova metodologia di progetto, applicabile ai prodotti per l’infanzia.
Per rendere questo materiale utilizzabile ho cercato di sintetizzarlo in map-
pe concettuali di facile consultazione, aspirando alla costruzione negli anni
a venire di un vero e proprio “Atlante di Giocologia”. Lo sviluppo psicofisico
del bambino non è certo l’unica chiave di lettura del toy–design. Se il gioco
è un vettore di sviluppo indispensabile per superare i momenti più critici
della crescita fisica, intellettuale e affettiva, probabilmente si può pensare
di invertire i termini in gioco: progettare giochi partendo da problematiche
reali da superare (nel rispetto dei vincoli posti dallo sviluppo stesso).
Partendo di volta in volta da problematiche differenti, reali e sentite, non
solo si risponde alle esigenze più profonde del bambino ma si riesce ad evi-
tare di cadere nel facile errore del lasciarsi condizionare troppo da un siste-
ma progettuale (che può portare ad irrigidirsi troppo su alcuni passaggi o
soluzioni già sperimentate). Ogni nuovo problema da affrontare può essere
combattuto attraverso un gioco studiato per la situazione specifica, così un
gioco può guidare l’acquisizione di una nuova abilità (e può essere pensato a
partire proprio dai contenuti che vuole trasmettere).
Con la mia tesi vorrei provare ad avvicinarmi ad una tematica molto seria e
attuale: il rapporto tra i bambini e la paura affrontandola attraverso il gioco
cercando di incanalarne la forza in un’attività ludica. Oggi il sentimento
della paura, un’emozione fondamentale e particolarmente importante ai
fini della crescita e della sopravvivenza, tro-
va terreno fertile in cui crescere e svilupparsi
spesso oltre i limiti della normalità. La vita
frenetica e solitaria delle metropoli, le vicissi-
tudini internazionali non certo incoraggianti,
l’allarmismo diffuso a gran voce dai mass–me-
dia e i fantasmi del terrorismo certamente non
aiutano i bambini a crescere in un mondo se-
reno. Troppo spesso oggi anche gli adulti sono
vittima di fobie e forti stati di paura; aumenta
infatti di anno in anno nel mondo occidenta-
le il numero delle persone afflitte da patologie
legate all’ansia e dalla sindrome da attacchi di
� enunciato della tesi:
questo schema cerca di illustrare
il ragionamento logico dal quale
nasce l’ipotesi della mia tesi. Se
consideriamo valida l’ipotesi che
il gioco si manifesti in risposta a
specifiche esigenze del bambino
legate allo sviluppo e a particolari
problemi da affrontare possiamo
considerare la possibilità di
progettare giochi partendo
dall’analisi dei fattori di crescita
e dei problemi legati allìinfanzia
cercando di indagare su come
questi possano essere tradotti in
giocattoli.
idea di gioco
non
indagabile
indagabile
fenomeno
del gioco
TOY
DESIGN
giocatore
-bambino-
divertimento + crescita
gioco o
giocattolo
crescita
gioco come
causa
Essere
Divenire
Noumeni: il mondo delle
essenze è inconoscibile e
indescrivibile.
Fenomeni: la realtà che
conosciamo attraverso
i sensi è riconoscibile
e identificabile
relazione
Il gioco è per il bambino
un fattore di crescita
determinante
gioco come
effetto
Lo stadio di sviluppo in
cui si trova il bambino
determina la scelta dei
giochi con i quali si
intrattiene
giocando
si impara
il gioco
cresce con
il bambino
sviluppo
motorio
sviluppo
psichico
sviluppo
affettivo
altre aree
di crescita
educazione
12
panico. Credo che oggi più che mai possa essere utile cercare di proporre gio-
chi che aiutino il bambino ad imparare a affrontare la paura; è importante
cominciare a confrontarsi con questo sentimento a partire dalla più tenera
età. La ricerca tratta il tema della paura inquadrandola dapprima in un ot-
tica generale (lo studio delle emozioni e la funzione evolutiva della paura);
focalizzandosi poi, in modo più specifico sulle paure infantili più diffuse
proponendo alcune strategie con le quali affrontarle. Per concludere ho
deciso di affrontare la parte progettuale della tesi concentrandomi su una
paura specifica: per il suo carattere universale e per la grande diffusione
ho deciso di cominciare ad applicare i risultati della ricerca a partire dalla
paura del buio. In proposito ho sviluppato alcuni progetti; ognuno dei quali
corrisponde ad una specifica strategia per affrontare la paura. Le strategie
prese in considerazione sono state: l’approccio cognitivo, ovvero la spiega-
zione analitico–razionale degli eventi o l’evidenza dei fatti, sviluppato nel
progetto NANNA–GANGA; la ritualità, ovvero la creazione di amuleti, riti
e la rappresentazione, punto di partenza per MIGHTY–LIGHT; l’esperienza,
come esperienza reale vissuta in prima persona o fruita attraverso la narra-
zione, che hanno ispirato il progetto di LITTLE–BRITE e di LIGHT–BOOK.
Il metodo
Nelle pagine di questa tesi è possibile incontrare molti grafici e tabelle rias-
suntive che rendono i contenuti evidenti anche a chi sfoglia questo volume
per la prima volta.
L’idea di schematizzare i risultati della mia indagine in mappe-tabelle al
fine di rendere questo materiale utilizzabile in fase di progetto è stata ispira-
ta dall’incontro con l’affascinante metodologia“triz”: un geniale approccio
al “creative problem solving”. Questo metodo molto interessante nacque a
partire dal 1946 ad opera del celebre ingegniere sovietico Genrich Altshul-
ler. L’obiettivo del Triz (acronimo di “Teoriya Resheniya Izobreatatelskikh
Zadatch”, traducibile in “Teoria per la Soluzione di Problemi Creativi”) è di
riuscire a catturare e schematizzare sia il processo creativo che quello tecni-
co, rendendo così questi processi ripetibili ed applicabili ai problemi futuri.
Il mio lavoro ovviamente non pretende di analizzare un campo d’indagine
così ampio; mi piacerebbe però riuscire a cogliere qualche meccanismo in-
13
teressante che possa rivelarsi utile per cercare di portare
un po’ di innovazione costruttiva nel campo del toy de-
sign. Altshuller, il padre della metodologia “triz”, lavo-
rava nell’ufficio brevetti della Marina Militare Sovietica
e decise di analizzare le innovazioni con cui aveva a che
fare per cercare di dedurne delle costanti. Altshuller stu-
diò più di 200.000 brevetti ed arrivò, attraverso un este-
nuante lavoro di schematizzazione e astrazione, ad indi-
viduare alcuni schemi comuni che si ripetevano nei diversi ambiti fornendo
“regole generali” (patterns of technological evolution) per l’evoluzione dei
sistemi tecnici, e dei “principi” (inventive principles) che caratterizzano le
modalità con cui i problemi, ovvero le contraddizioni tecniche, vengono ri-
solte. Uno dei concetti alla base della metodologia TRIZ è il “risultato finale
ideale”(Ideal Final Result). Secondo questo concetto, i sistemi tendono ad
evolvere verso una sempre maggiore idealità, dove questo termine è da in-
tendersi come il rapporto fra la somma di tutti i fattori utili (la funzione
primaria del sistema e tutte le funzioni ausiliarie che aiutano a realizzare la
funzione primaria) e la somma dei fattori inutili ed indesiderabili. La riso-
luzione innovativa delle contraddizioni che ogni progetto tenta di risolvere
(come ad esempio il tentativo di conciliare alta qualità con bassi costi di pro-
duzione) è per Altshuller la vera chiave di lettura della creatività. Cercando
di applicare al mio studio sul gioco il concetto dell’idealità (come incontro
tra funzioni primarie del gioco e problemi da superare) ho posto alla base
del mio sistema personale l’ipotesi che la funzione primaria del gioco sia la
crescita (da intendersi in tutte le possibili sfumature e in larga misura da
problema concreto
da risolvere
soluzione concreta
-PROGETTO-
astrazione
del problema
metodologia
triz
-Contraddizioni -Idealtità
-Principi ideativi -Soluzioni standard
astrazione
della soluzione
� schema concettuale della
metodologia triz: Il TRIZ è un metodo per
il problem solving di problemni creativi. La sua
struttura è molto interessante e i risultati che
si pone l’obiettivo di raggiungere (innovazione,
generazione di nuove idee, diminuzione e
superamento dei fattori critici) sono simili a
quelli che mi piacerebbe raggiungere un giorno
elaborando un mio metodo progettaule.
14
considerarsi come universale) e i problemi con cui la crescita si scontra po-
tessero essere i più svariati (o semplicemente dei momenti particolarmente
delicati del processo evolutivo stesso). La lista dei fattori indesiderabili è in
effetti molto lunga e di difficile analisi ma a mio avviso può essere scissa in
due grandi famiglie di problemi: i problemi relativi alla vita dei bambini di
oggi (la solitudine, l’obesità, la paura, il rapporto con i media, lo scontro
tra un modello di crescita ideale e una realtà contemporanea spesso troppo
difficile da capire ed accettare anche per un adulto) e i problemi specifici
che affliggono il mondo del giocattolo (come l’appiattimento dell’offerta,
la globalizzazione, la violenza dei contenuti, l’alienazione legata alle for-
me ludiche più diffuse, la mole di materiale ludico che invade le case dei
bambini abituati a consumare in modo bulimico fin dalla più tenera età,
ecc.). In questo primo step dello sviluppo del mio“Atlante di giocologia” ho
deciso di concentrarmi solo su uno di questi aspetti critici e in particolare ho
desiderato approfondire il tema della paura che considero particolarmente
interessante. Per Altshuller ogni problema-soluzione per essere analizzato
deve essere ricondotto, attraverso una astrazione, ad un modello generale
al quale applicare un “principio risolutivo”. L’analisi effettuata sui brevetti
sovietici aveva convinto lo studioso che i principi risolutivi prendessero le
mosse da un numero finito di schemi risolutivi base da declinare di volta
in volta adattandoli al problema specifico. Allo stesso modo ho cercato, nel
mio piccolo, di riuscire ad individuare quelli che potessero essere nel toy
design i modelli più ricorrenti e i principi risolutivi adottati (schematizzan-
doli in una mappa del giocattolo che ne pondera diversi aspetti costitutivi
e funzionali). Devo riconoscere che l’idea di riuscire a costruire qualcosa di
simile al triz, un sistema tanto complesso ed ingegnoso, è molto ambiziosa
e sicuramente non può essere realizzata in pochi mesi (e nemmeno in un
paio d’anni). Con questa tesi ho cercato di gettare le fondamenta di questa
ricerca forse utopistica che spero di riuscire a portare avanti nel mio futuro
professionale. Per il momento l’analisi si è mossa principalmente nell’am-
bito delle funzioni primarie che il gioco svolge all’interno del sistema di cre-
scita del bambino, ha analizzato alcuni giochi attualmente in commercio
evidenziandone i contenuti ludici e la loro correttezza rispetto al sistema di
riferimento (il bambino) e ha indagato il ruolo
e la funzione che il sentimento della paura ri-
veste oggi nell’ottica di come questo possa esse-
re affrontato attraverso il gioco.
� schema concettuale
della tesi: in questo schema
sono riportati i temi che andrò
a toccare nella ricerca facendo
particolarmente attenzione ai
contenuti delle diverse sezioni
della tesi e agli schei concettuali
che sono stati realizzati.
il gioco
Definizione
Funzioni
Teorie ed interpretazioni
Definizione
Manifestazioni
Tipologie e differenze
Le paure infantili
Strategie per affrontarla
Storia
Tipologie e funzioni
contraddizioni del gioco
interpretazioni e funzioni
Sviluppo psichico
Sviluppo fisico
Sviluppo sessuale
Sviluppo dei bisogni ludici
Classificazioni e specie
Paurometro
Reagire alla paura
Tipologie di paura
Evoluzione delle paure infantili
Strategie per affrontarla
il bambino
temicontenuti schemi
il giocattolo
scenari-ipotesi
di progetto
la paura
+
+
+
=
Sviluppo psichico
Sviluppo fisico
Sviluppo sessuale
Sviluppo dei bisogni ludici
Il Gioco
17
Papà.papà...Gioco cosa significa?
È davvero difficile cominciare parlare di un argomento smisurato e insidioso
come il gioco. Il linguaggio comune chiama giochi una serie di attività mol-
to diverse tra loro, come costruire una torre con dei cubi, agitare un campa-
nello, giocare a carte, rincorrere un amico, fingere di volare, dondolarsi su
un’altalena, spalmarsi un po’ di omogeneizzato tra i capelli, premere alcuni
tasti di un computer, saltellare su numeri disegnati a terra, accarezzare un
coniglio di pezza e persino acquistare un tagliandino del lotto in tabacche-
ria. I giochi possibili sono praticamente infiniti e ogni attività può essere
fatta“per gioco”.
L’analisi dei comportamenti che si mettono in atto giocando non spiega as-
solutamente l’intensità dell’esperienza ludica né il perché della “tensione”
e del “desiderio” che si provano giocando. La stessa sequenza dei gesti non
dice nulla sul perché delle grida di piacere dei bambini che giocano, sulla
passione dei giocatori incalliti, del delirio delle folle di sportivi rapiti da una
competizione.
Forse è una follia cercare di arginare il fiume di definizioni relative al verbo
giocare ed alla parola gioco quali sono emerse ne corso dei secoli ed anche
raccogliendole e ordinandole si potrebbero riempire decine e decine di pagi-
ne senza riuscire poi a sviscerarne l’essenza.
Persino il dizionario, piuttosto che chiarire le idee, riesce in un certo modo
a complicare la definizione e ad offuscare l’immagine più o meno chiara che
ognuno di noi inevitabilmente ha del gioco. Questo viene definito ora come
“esercizio compiuto da bambini o adulti per svago, divertimento o sviluppo di qualità fisiche
e intellettuali” ora come “gara tra più persone, svolta secondo regole prestabilite”. Se da
un lato il gioco si fa “Gioco da ragazzi, cosa molto facile” poche righe dopo si tra-
sforma in “Attività intricata e rischiosa: il vostro è un gioco pericoloso” o anche “Scherzo,
beffa: Per gioco, scherzosamente; Farsi, prendersi gioco di qualcuno”. Esso inoltre può
essere un oggetto, vuoi un “Insieme di carte, pezzi o altro necessari per un gioco: gioco
degli scacchi”, vuoi un’azione “Azione: Il gioco della fortuna; Combinazione di effetti, in
fenomeni fisici: giochi d’acqua e di luce; Gioco di parole, bisticcio, doppio senso”.
Forse ha ragione Marco Battacchi ( docente di Psicologia dell’età evolutiva
dell’Università di Bologna ) quando afferma che: “La più semplice ed esatta de-
finizione del gioco è tautologica: il gioco è il gioco. Il gioco in effetti è tutto un paradosso. È
liberatorio ma insieme regolato, unisce ma insieme separa il reale dall’immaginario in uno
18
spazio transizionale in cui le cose sono ciò che non sono pur rimanendo quello che sono, è di-
vertimento ma insieme bisogna prenderlo sul serio per divertirsi, non è lavoro ma insieme è
indispensabile per l’attività produttiva.”
1
È proprio nella paradossalità del gioco che risiede il suo fascino, il suo va-
lore, ma anche il suo pericolo. Se da una parte il gioco si collega alla creati-
vità, alla logica e alla pedagogia dall’altra ammicca al sogno, alla fantasia,
al delirio; col gioco si trascende il dato, ci si fa complici, si inganna e si è
ingannati, si delude e si è delusi: “..con il ludico si allude, ma anche si collude, illude
e delude”.
La scandalosità del gioco sta forse nel cercare di definirlo, comprenderlo ed
usarlo, come ha detto Huizinga: “…cercanodidefinirelanaturaeilsignificatodelgio-
co e di assegnargli il suo posto nell’ordine della vita.Tutte queste spiegazioni hanno in comune
la supposizione che il gioco avvenga in funzione di un’altra cosa, che serva ad una data utilità
biologica. Ci si chiede: perché e a che fine si gioca? E le conseguenti risposte non si escludono
affatto. […] Ne consegue che tutte sono soltanto spiegazioni parziali […] La maggior parte di
questi tentativi d’interpretazione si occupa solo in un secondo tempo della domanda che cosa
sia il gioco in se, che significhi per i giocatori stessi.”
2
Se per un adulto il gioco rappresenta un momento di svago e ricreazione per
riprendersi dalla giornata di lavoro da cosa dovrebbe riprendersi un bambi-
no? “I giochi dei bambini non sono dei giochi, bisogna invece valutarli come le loro azioni più
serie” scrive Montagne.
Spesso il gioco infantile viene visto come una modalità di essere del bambi-
no e viene definito “il mestiere del bambino” che trasforma l’ambiente in
una serie complessa ed avvolgente di giocattoli educativi.
Con questo non intendo negare le numerose teorie che vedono
nel gioco l’attività caratteristica del bambino, con il quale si svi-
luppano ed esercitano le funzioni e le abilità necessarie alla vita
adulta, ma piuttosto vorrei sottolineare come si possa continuare
a giocare tutta la vita anche quando le strutture fisiche e mentali
sembrano perfettamente acquisite e funzionanti. Giocare è indub-
biamente un’attività infantile ma, a dirla tutta, rimanere bambi-
ni è importante quanto crescere e diventare grandi. Spesso alcune
attività adulte vengono paragonate, per lo spirito con cui vengono
intraprese, al gioco infantile. Per potere creare, capire e crescere è
necessario prendersi la libertà di fermare il tempo e rimescolare le
proprie idee sporcandosi le mani e dimenticando tutto; come in un
grande gioco intellettuale si intrecciano la capacità logica–combi-
natoria e la capacità di immaginare il teoricamente possibile, dan-
do libero sfogo alla fantasia senza dimenticare i vincoli logici. Con
questo intendo dire che la creatività in parte è gioco e che, come
Cosa hanno in comune le bolle
di sapone, il bingo, un flipper, la
play–station e una girandola?
1 Marco Battacchi, Il
gioco nella formazione
della personalità, estratto
da Aa.Vv., Il gioco, la
nuova Italia, Scandicci
1986.
2 Johan Huizinga, Homo
Ludens, Il Saggiatore,
Milano, 1964.
competitività
facile
casualità
fantasia
immaginazione
collaborazione
difficile
abilità
realtà
libertà regole
Vs
Vs
Vs
Vs
Vs
Contrari messi in atto nel gioco
20
insegnano li studiosi del “genio creativo” ( De Bono, Goleman ecc ), i campi
di applicazione sono i più svariati. In fondo, come sostiene Schiller,“…l’uo-
mo è pienamente tale solo quando gioca”.
Proseguiamo quindi con la ricerca. Nella coscienza comune il gioco si op-
pone al concetto di serietà, ma anche in questo caso la definizione non è
pienamente accettabile. Il gioco può essere preso molto sul serio ( provate a
interrompere un bambino piccolo che gioca ) e nell’associare il gioco ad una
certa non–serietà si rischierebbe di vederlo come un’attività necessariamen-
te divertente, qualcosa con cui ridere. Un gioco di parole può sì fare ridere,
ma una partita di scacchi decisamente no.
È possibile affermare che ogni gioco è un atto libero; è libertà. Il gioco a
comando non è gioco. Si può essere esortati o guidati ma l’espressione del-
la libertà individuale nel decidere di giocare e nello sviluppo dell’azione è
innegabile. C’è chi obietta che per i bambini e i per i cuccioli il gioco nasca
da un istinto naturale che lo rende necessario annullando così la libertà di
scelta.
Per gli adulti sicuramente il discorso è valido ed è evidente che il gioco in
questo caso è qualcosa di superfluo che si potrebbe tralasciare se non fosse
per il desiderio stesso di farlo. Tuttavia il dibattito sul rapporto tra gioco
e libertà è ancora aperto e nel corso dei secoli ha appassionato numerosi
scienziati e pensatori come il celebre Gregory Bateson che proprio a questo
argomento ha dedicato un libro molto interessante intitolato “Questo è un
gioco. Perché non si può mai dire a qualcuno gioca”.
Un’ulteriore diatriba legata alla definizione del concetto di gioco nasce dalla
molteplicità dei termini con i quali nelle diverse lingue ci si riferisce a que-
sta attività.
Nel linguaggio comune ognuno è in grado di capire subito che parlando di
gioco ci riferiamo ad un’azione volontaria compiuta entro determinati limi-
ti di spazio e di tempo, secondo una serie di regole volontariamente assunte,
che impegna in maniera assoluta, che ha fine in se stessa e si accompagna
ad un senso di gioia e alla consapevolezza di essere in uno stato diverso dalla
“vita ordinaria”.
La lingua italiana accoglie sotto la definizione di gioco un numero immenso
di varianti mentre in altre lingue non esiste un concetto generale al quale
ricondurre le diverse forme ludiche.
Mi sembra interessante sottolineare questi aspetti linguistici in quanto la
nostra definizione “universalizzata” non mette in luce chiaramente alcune
differenze tra i diversi giochi.
Il greco antico ad esempio per parlare del gioco, che era una componente
fondamentale anche della vita adulta, utilizzava non meno di tre termini.
21
Presentava una desinenza unica, — inda, per indicare il gioco infantile ( gio-
care alla palla —sfairinda, al tiro alla fune —helkusinda, ecc.. ).
Il greco utilizzava innanzitutto la parola Paidìa per indicare la maggior parte
dei significati della parola gioco, in particolare se inteso nelle sue accezioni
allegre e spensierate come il gioco dei bambini e quant’altro venisse con-
siderato non–serio. Tuttavia dalla definizione di Paidìa rimaneva escluso il
campo delle giostre e delle gare per i quali veniva utilizzato il termine Agòn.
In questo termine l’aspetto ludico ( inteso qui come svago e divertimento )
viene posto in secondo piano mentre l’attenzione si sposta sul concetto di
regole e di competizione portando questo gioco ad occupare una postazione
di grande rilievo nella cultura ellenica.
Il sanscrito usava quattro termini per esprimere il concetto di gioco.
Il vocabolo più utilizzato era kridati, utilizzato per il gioco di bambini, adul-
ti ed animali. La parola si riferisce ad un’idea di movimento, di saltelli e
danze, ma talvolta viene utilizzata anche per descrivere il movimento delle
onde e di ciò che viene mosso dal vento. Ricadevano in questa area che le
danze e le rappresentazioni. Con il termine divyati veniva indicato prima di
tutti il gioco dei dadi ma anche in generale il concetto di scherzare, canzo-
nare, trastullarsi. Il sostantivo lila indicava l’elemento arioso, spensierato e
insignificante del gioco. Per ultimo il termine vilasa era legato al concetto di
gioco ma forse significava più che altro“avere un’occupazione”.
In cinese troviamo il termine wan che indica il gioco dei bambini e le mani-
festazioni ludiche scherzose e di movimento. Questo termine non è adatto
per il gioco di abilità, né per la gara ( cheng ), né per la rappresentazione e
nemmeno per i dadi e gli altri giochi legati al caso.
Il giapponese al contrario utilizza un termine unico per esprimere i diversi
concetti.
Allo stesso mondo anche nel latino troviamo un termine unico per esprime-
re tutto il dominio del gioco e del giocare: ludus e ludere. Anche se esiste iocus
con l’accezione più specifica di scherzo o burla, il significato di “ludus” è
praticamente onnicomprensivo e si riferisce al gioco dei bambini, alle gare,
alle rappresentazioni liturgiche e sceniche, al gioco d’azzardo o alla danza.
Si arriva a trasformare in ludi i giochi olimpici e ludus ha pure il senso di scuo-
la, probabilmente a partire dal concetto di esercizio.
È molto interessante il caso della lingua inglese in cui troviamo la contrap-
posizione tra i termini game e play.
Il verbo inglese to play, così come il tedesco pflegen significa gioco, e giocare
e si lega qui a concetti di movimento come battere le mani, eseguire movi-
menti veloci, suonare uno strumento e anche recitare. Questo significato è
legato perlopiù ad azioni concrete ma anticamente includeva senza dubbio
22
valenze cerimoniali come è riscontrabile nei “Plays” didascalici aventi per
soggetto i Miracoli che furono a lungo le uniche rappresentazioni teatrali
pensabili del Medio Evo.
Possiamo affermare che nella lingua inglese il game sia essenzialmente il
gioco strutturato mentre play sia anche il giocherellare fine a se stesso. Il
game è la partita, di solito competitiva o – come nei videogiochi – una sor-
ta di sfida a superare se stessi, caratterizzata da regole consensualmente
accettate e spesso imposte dall’esterno o dalla situazione. Questa parola,
che si giustifica in vari settori, è ancora e da sempre usata nella caccia che
si esprime attraverso codici, regole e le finalità funzionali. La vittima – o la
preda del gioco coordinato o individuale portato avanti dai cacciatori – viene
definita essa stessa game.
Teorie edinterpretazioni storiche del gioco
Fatta questa inevitabile premessa sull’impossibilità di definire in modo
esauriente il gioco mi sento libera di riportare alcune teorie sul gioco e di
esprimere alcune opinioni in proposito.
Ogni definizione, per quanto limitata, mette in luce un particolare aspetto
della spinosa questione, aggiungendo un minuscolo tassello all’idea astrat-
ta che ognuno di noi si è fatto del gioco.
La complessità che si incontra parlando di giochi è proporzionale alla com-
plessità del ragionamento necessario a pensarlo: si dovrebbe quindi proce-
dere su diversi livelli come l’estensione del fenomeno, la varietà delle forme
in cui si presenta ai nostri occhi e per finire anche la mutevolezza dei punti
di vista possibili poiché il numero delle discipline che si sono occupate e si
occupano di studiare il fenomeno–gioco si allunga di giorno in giorno.
Prima di ogni altra cosa è impressionante considerare l’estensione del fe-
nomeno; il gioco non è una prerogativa infantile ma è riscontrabile anche
nell’adulto e, come emerge sin dai primi studi etologici sull’argomento, è
ampiamente diffuso anche nel mondo animale ( in diverse forme che spa-
ziano dalla lotta tra cuccioli alle danze rituali di accoppiamento ). Vi è in
esso qualcosa di universale che lo fa comparire ad ogni distanza spazio–tem-
porale e che fa ricadere sotto questa definizione una varietà di comporta-
menti fortemente diversificata. Ogni essere pensante è in grado di giocare
23
e ciascuno è in grado di creare una rappresentazione mentale dell’idea di
gioco. Il gioco è innegabile.
“Si possono negare quasi tutte le astrazioni: la giustizia, la bellezza, la verità, la bontà, lo
spirito, Dio. Si può negare la serietà. Ma non il gioco.” — Huizinga
Per parlare delle teorie sul gioco è forse necessario partire da una breve sin-
tesi storica per cercare di definire quando e come il gioco cominciò a entrare
tra i campi di indagine umana.
L’interesse umano per il gioco nasce con l’uomo stesso; già Platone ( 427–348
a.c. ) se ne interessò vedendo nel gioco una delle attività umane fondamen-
tali e sottolineandone l’utilità e la funzione educativa. Egli considerava il
gioco come un esercizio preparatorio ai compiti della vita: il bambino che
gioca, attraverso la manipolazione di piccoli oggetti e la finzione apprende
e sperimenta i gesti che compirà in futuro proiettandosi, attraverso il gioco
dei mestieri, nei suoi futuri possibili.
Anche Aristotele ( 324–322 a.c. ) è dell’idea che la maggior parte dei giochi
nasca dall’imitazione delle occupazioni dell’età adulta e che svolga una fun-
zione propedeutica: il bambino, stando a questa teoria, deve essere incorag-
giato a giocare a quel tipo di attività che vorrebbe fare da grande.
È facile notare come la nozione di gioco fosse nell’antichità legata solo alla
sfera prelavorativa ( nella sua componente positiva da incoraggiare ). Non
veniva ancora contemplata e apprezzata la valenza intrinseca del gioco
come attività dilettevole non finalizzata al raggiungimento di un risultato;
il bambino veniva esortato a giocare esclusivamente per imparare.
Tommaso d’Aquino ( 1266–1274 ) considera il gioco come un bene in se stesso:
“il divertimento certo non è ordinato a un fine estrinseco, è però ordinato al bene di chi si diver-
te, in quanto è cosa piacevole e riposante”.
Lo studio delle successive teorie sul gioco credo debba partire dall’analisi di
due correnti di pensiero tanto importanti da essere comunemente conside-
rate le basi per ogni ulteriore teoria.Si tratta degli studi di Johan Huizinga e
Roger Caillois che affrontano il tema della significazione del gioco all’inter-
no di diverse società considerandolo il prodotto culturale per eccellenza.
Per Huizinga il gioco permea ogni attività umana. La sua visione filosofi-
ca parte dall’idea che la giusta definizione dell’uomo non sia homo faber
o homo sapiens ma piuttosto homo ludens in quanto proprio il concetto di
gioco permette alla cultura e alla società di nascere e svilupparsi. Seguendo
questa interpretazione ogni produzione umana viene letta come manifesta-
zione di gioco. Linguaggio, mito, culti religiosi e ogni altra manifestazione
culturale vengono letti come un gioco. La società stessa è un gioco al quale
bisogna partecipare, essendo costituita da un insieme di regole da rispetta-
re e di compiti da svolgere.
24
Diversa è la posizione di Groos per il quale l’attività ludica è sì manifesta-
zione della cultura, ma nel senso che ne costituisce una degenerazione. In
altri termini, il fenomeno del gioco si determina come critica della cultura
dogmatica, colta, e delle istituzioni, è quindi un otium che richiama l’altra
polarità del negotium, in una prospettiva già classica, possiamo dire.
Huizinga si sofferma in particolare sull’analisi della società rinascimentale
nella quale gli aspetti ludici conoscono uno dei periodi di maggiore splendo-
re. Partendo da questa prospettiva prosegue supponendo che un massimo di
civiltà sociale significhi un massimo di presenza di gioco in essa e la sua tesi
è supportata anche dal ruolo non secondario che questo ebbe nelle grandi
civiltà del passato, come quella greca e romana. Il Rinascimento però resta
sicuramente l’epoca in cui nel mondo occidentale è più evidente la presenza
del gioco. Questa tendenza è documentata da diversi trattati sui giochi, sia
da tavolo come gli scacchi e le carte, sia giochi sportivi che costituiscono
anch’essi testimonianza del modo di vivere di uno dei periodi di maggiore
splendore e attività intellettuale in Europa.
Questo atteggiamento favorevole prende le mosse da una numerosa serie
di concause; una è certamente la necessità di allentare le tensioni interne,
sociali e psicologiche, sublimandole nel gioco; la società rinascimentale ap-
pare agli occhi dello studioso piena di conflitti tanto nella sfera quotidia-
na quanto in quella degli eventi storici. La trasformazione della guerra nei
duelli giocosi ravvisabili nei poemi cavallereschi ne è una prova.
L’attenzione per il gioco inoltre cresce di pari passo con la contrapposizione
tra lo spazio–tempo impegnato per il lavoro e quello dedicato alle attività
ludiche, ovvero dal grande conflitto tra lavoro e riposo, contrasto particolar-
mente sentito anche nelle società occidentali contemporanee. È forse pro-
prio la presenza di grandi conflitti e apparenti contraddizioni a giustificare
anche ai giorni nostri una presenza così forte del gioco.
Con Huizinga ( 1939 ) abbiamo un contributo teorico notevole e molto impor-
tante per la sfera dell’attività ludica. Egli sostiene che il gioco deve essere
visto al di fuori della razionalità e della sfera dell’utile e del bisogni.
“Il gioco è più antico della cultura” continua Huizinga, è anzi la fonte di ogni cul-
tura che ha nelle sue stesse fasi iniziali il carattere di un gioco che conserva
nelle tante sue manifestazioni ( arte, letteratura, teatro, musica, religione,
politica ecc. ). La civiltà, quindi, sorge nel gioco e come gioco.
Huizinga individua, inoltre, alcune caratteristiche dell’attività ludica, de-
scrivendola come:
—	libera: il gioco deve essere spontaneo non obbligato pena lo snatura-
mento del gioco stesso;
—	separata: il gioco deve essere svolto in uno spazio e in un tempo rita-
25
gliati appositamente e anticipatamente;
—	incerta: lo svolgimento del gioco e il suo risultato non possono essere
definiti in anticipo;
—	improduttiva: il gioco non crea ricchezza. Semplicemente provoca un
passaggio di proprietà da un giocatore all’altro tale da ritornare ad
una situazione identica a quella di partenza;
—	regolata: nel gioco sono annullate le regole reali e viene instaurata
una convenzione nuova tra i giocatori;
—	fittizia: nel gioco è annullata la dimensione reale e si viene calati in
una realtà altra.
Huizinga non fa una classificazione né una descrizione dei vari giochi; in-
vece Roger Caillois ( 1967 ) si colloca in un’ottica strutturale e propone una
suddivisione dei giochi in quattro macro categorie:
—	l’Agon: il gioco è caratterizzato dalla competizione;
—	l’Alea: il gioco è caratterizzato dal caso, la fortuna, l’azzardo. Ci si ab-
bandona qui ad una sorta di passività come ad esempio durante le fi-
lastrocche per fare la conta, il testa e croce, le lotterie, il gioco dei dadi
ecc;
—	la Mimicry: il gioco è caratterizzato dalle ricerca della simulazione, del-
la finzione, come nel teatro, nel gioco con la bambola, nel travesti-
mento ecc;
—	l’Ilinx: il gioco è caratterizzato dalla ricerca del rischio, del brivido
come nel dondolare con l’altalena, girare sulla giostra, andare sulle
montagne russe ( vengono anche definiti giochi di vertigine ).
Le quattro categorie descritte sono, inoltre, suddivise da Caillois in Paìdia
( gioco libero, improvvisato, spontaneo ) e Ludus ( gioco regolato, che richiede
uno sforzo o una particolare abilità ), beninteso che la paidia è presente an-
che nelle forme di gioco regolate proprie dell’età adulta.
Callois, come Huizinga, vede il gioco come sintesi della cultura di un epoca.
Caillois afferma che è possibile ricostruire le diversità tra società differenti
sulla base dei giochi che in essa predominano. Egli pone anche l’accento sul
gioco inteso come sistema di regole; questo determina una lettura integrale
dei vari giochi, sia di carattere socio–motorio sia di tipo intellettuale tout
court. Abbiamo visto finora come il gioco, nel corso del tempo, abbia svolto la
funzione di rivelatore dell’intima natura delle diverse civiltà. Affrontiamo
ora il discorso ponendo al centro dell’attenzione il bambino e facendo riferi-
mento alle teorie in merito elaborate nel settecento a partire dalle opere di
Rousseau.
Jean–Jacques Rousseau ( Ginevra, 1712 – Ermenonville, 1778 ) partì da un atto
di accusa nei confronti della società che degrada la natura umana propo-
26
nendo di salvaguardare il bambino dai pericoli della contami-
nazione limitandolo nelle sue possibilità di espressione. È la
prima volta che l’infanzia trova una collocazione effettiva nella
vita degli adulti differenziandosi da essa. È a partire da questo momento
che l’infanzia comincia ad essere considerata come una realtà diversa dal-
la vita adulta e sottoposta a meccanismi e regole differenti. I bambini non
vengono più considerati come uomini e donne in miniatura ( o omuncoli )
ma semplicemente come bambini che stanno affrontando un percorso di
formazione.
Nel pensiero di Rousseau troviamo, quale nota dominante, il tentativo di
ritorno alla genuina spontaneità della natura: affinché un individuo possa
esprimersi secondo ciò che è realmente, è necessario che sin da piccolo sia
libero di giocare, di scoprire il piacere dell’attività ludica. Viene così valoriz-
zata l’iniziativa personale, l’attività ludica, individuale o di gruppo, intesa
come bisogno espansionistico e come motivo educativo. Non bisogna quindi
mai pretendere di vedere nel fanciullo l’uomo, bensì limitarsi ad asseconda-
re e a favorire la maturazione di quelle facoltà conoscitive e pratiche cui la
natura stessa ha predisposto l’essere umano secondo un certo ordine e una
certa gradualità.
...nel pensiero di Rousseau troviamo, quale
nota dominante, il tentativo di ritorno alla
genuina spontaneità della natura..
27
C’è in Rousseau, e negli uomini del suo tempo, una radicata concezio-
ne della natura come forza promotrice e contemporaneamente come gui-
da dell’educazione: un atteggiamento di rispetto della spontaneità e della
originalità del bambino e un adeguamento alle esigenze psicologiche delle
successive fasi educative. Con il“mito del buon selvaggio” il pedagogo affer-
ma la necessità di permettere al bambino la scoperta della sua naturalezza
e della sua spontaneità come rivelatrici del suo proprio essere: per fare ciò il
bambino ha bisogno di giocare, del gioco come fine a se stesso.
La natura in Rousseau è intesa sia come natura esterna da cui il fanciullo
“dipende” per ricevere stimoli o correzioni sia come natura interiore, l’in-
sieme, cioè, delle sue attitudini, delle tendenze e degli istinti, motivi ori-
ginari e intimi del bambino che lo spingono intensamente ad uno stato di
attivismo personale.
Su questa stessa linea di pensiero si colloca la teoria di Froebel. Egli parte
dal concetto filosofico che in ogni bambino esiste uno spirito divino, una
forza attiva di tensione che nel fanciullo si manifesta proprio sotto forma di
gioco. Secondo Froebel “cifidiamotroppopocodell’energiadelbambino”. Osservando
un bambino che gioca si può notare come accanto alla spiccata capacità di
interiorizzazione ( il desiderio costante di conoscere le cose, gli oggetti, le
dinamiche ), ci sia la volontà di estrinsecare i propri sentimenti tramite la
tendenza al gioco e all’imitazione della vita degli adulti.”Giocare, configurare,
costruire sono i primi teneri fiori della giovinezza”.
Froebel ama paragonare il bambino ad una pianta che cresce in piena libertà
senza che l’adulto possa dirigerne o condizionarne la direzione dei rami.
Non un’infanzia plasmabile dalla società, quindi, ma un giardino in cui il
bambino vuole auto–educarsi e sperimentare le cose da solo, per esternare la
forza divina che è in lui: “…ilgiuocare,ilgiuococostituisceilpiùaltogradodellosviluppo
del bambino poiché è la rappresentazione libera e spontanea dell’interno, la rappresentazione
dell’interno per necessità ed esigenza dell’interno stesso. Il giuoco è la manifestazione più pura
e spirituale del fanciullo e insieme l’immagine e il modello della complessiva vita umana, del-
l’intima, segreta vita naturale nell’uomo e di tutte le cose. Esso procura quindi, gioia, libertà,
contentezza, tranquillità in sé e fuori di sé, pace con il mondo. Le fonti di ogni bene giacciono
in esso, da esso sgorgano”.
3
Nel gioco secondo Froebel confluiscono l’attività cognitiva e l’attività creati-
va del bambino: l’attività ludica gli consente di conoscere la realtà, mentre
la natura con le sue regole,e su questa base, gli permette di sperimentare la
creazione di cose nuove.
Ancora è molto interessante e originale l’interpretazione del fenomeno gio-
co data da alcuni studiosi darwiniani dell’ottocento che vedono in esso un
residuo di funzioni ataviche, secondo cui il soggetto riproduce spontanea-
3. Friedrich Froebel,
L’educazione dell’uomo
e scritti scelti, Cedam,
Padova, 1937.
Interpretazioni del Gioco
30
mente alcune attività dei lontani predecessori che oggi appaiono inutili.
Secondo l’interpretazione di Stanley Hall il soggetto in età evolutiva replica
empiricamente nel fenomeno–gioco il percorso della specie umana. Le fasi
del gioco, infatti, procedono da espressioni non complesse, di carattere sen-
somotorio, alle più mature, collegate ai processi imitativi e sociali.
Buytendijk scorge nell’attività ludica la manifestazione normale dello svi-
luppo dei soggetti più giovani, radicata nelle pulsioni emozionali di attra-
zione e repulsione verso l’ignoto.
Per Herbert Spencer l’attività ludica nasce dal bisogno di liberarsi di forze a
base biologico–istintuale. In altre parole, il gioco è una strategia di simu-
lazione che innesca, – per poi scaricarle – le energie represse. L’analisi del
gioco in Spencer risponde ad una precisa filosofia evoluzionistica, che ne in-
tuisce l’importanza per quanto riguarda le prime fasi dello sviluppo umano
e quindi del percorso evolutivo della personalità.
Per l’antropologo Manhardt si tratta di risalire alle componenti mitologiche
che sottendono alla grande rilevanza che le culture di ogni tempo e paese
hanno attribuito al fenomeno del gioco. Scopo dell’antropologo è di studia-
re presso le società arcaiche e di tipo tradizionale le occorrenze dell’attività
ludica nel suo esercizio quotidiano.
Dumazedier propone un nuovo modello per l’interpretazione in chiave so-
ciologica dell’attività ludica, in stretta correlazione con la scoperta e l’in-
venzione del tempo libero nella Contemporaneità.
Un importante apporto alle teorie sulla funzione del gioco nella vita del
bambino è stato dato dalla pedagogista Rosa Agazzi ( 1866–1951 ) che, sulla
scia del pensiero di Froebel, esalta l’importanza della spontaneità nell’at-
tività ludica e considera il gioco come esperienza integrale e come forma di
conoscenza e comunicazione peculiare per il bambino.”Nella scuola infantile”,
sostiene “tutto deve essere giuoco: dai giuochi propriamente detti al lavoro manuale, dalle
esercitazioni di lingua all’osservazione delle cose, dalle lezioni di morale al canto, dagli orien-
tamenti di socialità all’educazione fisica”.
Lo stesso concetto è il principio fondante sul quale è stato sviluppato il mo-
dello educativo delle scuole per l’infanzia di Reggio Emilia, tra le quali spic-
ca l’asilo Diana, il cui il motto è “nulla senza gioia”.
La Agazzi esalta inoltre “il carattere poetico produttivo”
del gioco, intendendo la possibilità di soddisfare la ca-
pacità creativa del bambino. Quando un bambino co-
struisce, ad esempio, un castello di sabbia, non solo si
vede capace di realizzare qualcosa, ma stimola nel con-
tempo anche il proprio senso estetico. Per la Agazzi è es-
senziale valorizzare l’attività spontanea infantile per la
31
trasformazione della materia in oggetti che siano gradevoli, belli da vedere.
Il bambino ha così la possibilità di valutare le proprie attitudini creative e si
sentirà spronato a mettersi continuamente alla prova.
La completa libertà che Rousseau e Froebel lasciavano al fanciullo per espri-
mersi nel gioco è contemplata secondo un’accezione diversa nel metodo
educativo di un’altra grande pedagogista: Maria Montessori ( 1870–1952 ). Se
per Froebel il bambino è un bambino ludens, per la Montessori è invece un
bambino scout, un’esploratore desideroso di scoprire il mondo. Il bambino
montessoriano è felice perché è messo nelle condizioni di convertire la pro-
pria energia in laboriosità:“aiutetemi a fare da solo” sembra essere il moni-
to che il bambino rivolge all’adulto.
Nell’attività costruttiva la Montessori inserisce il lavoro manuale inteso
come sviluppo delle capacità manipolative e punta alla produzione di og-
getti che educhino alla conoscenza e soprattutto al rispetto della casa e del-
l’ambiente. Affinché il bambino si senta libero di scoprire e sperimentare
è necessario calarlo in un ambiente speciale, fatto a sua misura ( materiali
con proporzioni ridotte, stanze chiare e luminose con finestrine basse, mo-
bili piccoli di ogni forma ecc. ).
È proprio sull’ambiente che, secondo la pedagogista, bisogna intervenire
per liberare le manifestazioni infantili, un ambiente in cui l’adulto deve
adattarsi ai bisogni del bambino ed essere capace di renderlo indipendente
per non essergli di ostacolo.
In questa panoramica, seppur molto limitata, degli studi sul gioco non pos-
siamo tralasciare l’immensa opera di Jean Piaget.
Piaget stabilisce una corrispondenza diretta tra lo sviluppo del gioco e quello
mentale, affermando che il gioco è lo strumento primario per lo studio del
processo cognitivo del bambino. Piaget parte dalla convinzione che il gioco
sia la “più spontanea abitudine del pensiero infantile”. Egli individua nel processo di
crescita intellettivo del fanciullo due stadi: uno di assimilazione e uno di
accomodamento. Il primo serve al bambino per rapportare la realtà al pro-
prio Io, il secondo per adeguare le proprie esigenze ed aspettative alla realtà
circostante. Il gioco, scrive Piaget, “è essenzialmente assimilazione, assimilazione
che domina l’accomodamento”. Il bambino, infatti, con il gioco, cerca di affer-
mare la propria presenza nel mondo, di sottomettere il mondo a se stesso:
“dopo aver appreso ad afferrare, a dondolare, a lanciare ecc. […] si produce presto o tardi […] il
fatto che il bambino afferri per il piacere di afferrare, faccia dondolare per il piacere di riuscire
a far dondolare, ecc., infine ripeta le sue condotte senza nuovo sforzo di apprendimento o di
scoperta, ma per la gioia di dominarle, di offrirsi lo spettacolo della propria potenza e di sot-
tomettervi l’universo”.
4
Se per Piaget il gioco è il mezzo attraverso cui apprende-
re per Wiinnicot è anche strumento di indagine e cura delle psicopatologie
4. Jean Piaget, La
psicologia del bambino,
Einaudi, Torino, 1970.
32
infantili. Per cui Winnicott sostiene che: “il gioco è sempre eccitante […] a causa
della precarietà inerente a esso, perché è sempre sul filo del rasoio tra ciò che è soggettivo e
ciò che è oggettivamente percepito”. Ma, continua Winnicott, esiste una grande
differenza tra “il gioco felice dei bambini e il gioco dei bambini che si eccitano compulsi-
vamente”. Ci sono, infatti, dei casi di bimbi che passano freneticamente da
un gioco all’altro senza riuscire a completarne uno. Altri tendono a fare i
pagliacci e talvolta arrivano ad essere aggressivi: dietro tanta iperattività
si può nascondere una grande ansia. La capacità di un bambino di giocare
con interesse e dedizione è prova di buona salute ( mentale e fisica ). Bisogna
cominciare a preoccuparsi se il piccolo non dimostra curiosità verso gli altri,
né inventiva nel gioco e usa le cose in modo meccanico e disinteressato.
Winnicott concorda nell’attribuire al gioco una forte valenza terapeutica.
Egli lo definisce come una forma di autoguarigione, dal momento che faci-
lita l’espressione del vero Io del bambino: “è nel giocare e soltanto mentre gioca che
l’individuo, bambino o adulto, è in grado di essere creativo e di fare uso dell’intera personalità,
ed è solo nell’essere creativo che l’individuo scopre il sé”.
5
È importante, però sottolineare che nulla va imposto al bambino, che deve
essere piuttosto assecondato per dargli modo di esprimersi senza freni ini-
bitori.
Anche per Melanie Klein la capacità di giocare è indice della sanità mentale
del bambino, come per l’adulto può esserlo la capacità di amare o lavorare.
Può sembrare strano che esistano bambini che non provino il desiderio di
giocare, eppure è un dato esistente e si verifica quando è presente un forte
stato di angoscia che determina una eccessiva inibizione. La Klein considera
le inibizioni al gioco come la spia di una “massiccia rimozione della pulsionalità”:
il bambino, in pratica, convive con dei fantasmi interni così minacciosi che
gli impediscono anche di esorcizzarli simbolicamente attraverso l’attività
ludica. Le manifestazioni di questo disagio vanno dal vero e proprio rifiuto
del gioco, all’avversione ai soli giochi di movimento, dalla resistenza a fare
determinati giochi specifici all’incostanza in qualsiasi gioco. Normalmente
i bambini che non giocano o che non lo fanno spesso, denotano un iper-
controllo delle loro funzioni, un adattamento totale al loro ambiente, una
mancanza di fantasia e creatività. Spesso la loro incapacità di giocare viene
compensata da un assiduo impegno nello studio, determinando un progres-
sivo sviluppo della sfera intellettiva a scapito di quella emotiva. I danni di
questa situazione sono facilmente ravvisabili nella fase adolescenziale. La
Klein sostiene che si possono considerare “…tutte le inibizioni ulteriori – così im-
portanti per la vita e lo sviluppo – un’evoluzione delle primissime inibizioni nel gioco” ( 1923 ).
La Klein ha dato un contributo importante alla teoria del gioco come stru-
mento terapeutico. La studiosa parte dal presupposto che il gioco sia la na-
5. Winnicott D.W., Gioco
e realtà, Roma Armando,
1974 .
33
turale forma di espressione dei bambini, così come per l’adulto è la parola,
ed anche dal fatto che, essendo i più piccoli maggiormente sottoposti alle
pulsioni dell’inconscio, tramite la loro attività ludica si possono leggere
chiaramente i loro meccanismi interiori.
Il gioco dei bambini per la Klein è come il sogno, in quanto rivelatore di fan-
tasie inconsce: pertanto il metodo dell’interpretazione dei giochi infantili è
analogo a quello dell’interpretazione dei sogni degli adulti.
È comunque fondamentale, e su questo insite l’autrice, analizzare anche i
più piccoli aspetti del gioco affinché l’interpretazione diventi efficace. Gli
elementi da considerare sono sicuramente:
—	il materiale utilizzato e soprattutto quello prodotto dal bambino;
—	le modalità di svolgimento dell’attività;
—	il perché dell’eventuale passaggio da un gioco all’altro;
—	i mezzi che scelgono per le loro rappresentazioni.
Perché si gioca? A cosa serve?
Sul perché si giochi sono state formulate molte ipotesi. Per qualcuno si trat-
ta semplicemente di doversi sbarazzare di forze in eccesso impiegandole in
una qualche attività psicofisica. Per altri al contrario è una necessaria pa-
rentesi di relax nel quale reintegrare le proprie forze vitali. Secondo altri an-
cora una palestra di vita in cui imparare i gesti e l’operosità che la vita adul-
ta richiederà ( Froebel, Claparède e Decroly ) o ancora la risposta all’innato
istinto di imitazione della razza umana ( siamo scimmie al 97% in effetti ).
Altri ancora vedono nel gioco la valvola di sfogo di istinti nocivi o violenti
costantemente sedati o la ricerca di appagamento, tramite la finzione, di
desideri non realizzabili. In ultimo c’è chi spiega il gioco con il gioco stesso:
quale migliore motivazione al gioco se non il gioco stesso e il piacere che ne
deriva?
“La natura |…| avrebbe potuto dare alla sua prole tutte quelle funzioni utili di scarico di ener-
gia, di rilassamento, di preparazione, e di compenso, anche nella forma di esercizi e reazioni
puramente meccanici. Invece no, ci dette il Gioco, con la sua tensione, con la gioia, col suo
scherzo” ( Huizinga ).
Il bisogno di gioco, nella sua accezione di distaccamento dalla realtà e di
svago, è insito nell’uomo e nei bambini di tutti i tempi. Esso, infatti, rap-
34
presenta un mondo altro che ha la funzione di semplificare e spesso esorciz-
zare la realtà. È facile supporre che una società che mostra molto interesse
per il gioco sia una società che spesso presenta numerosi e acuti conflitti
interni. Il ritagliarsi, quindi, uno spazio e un tempo per l’attività ludica, è
un modo per scaricare tensioni sia sociali che psicologiche ( pensiamo alla
funzione del Carnevale, in voga fin dal Medioevo ).
Per i bambini, che giocano per divertirsi, non c’è nessuna differenza tra il
gioco e ciò che un adulto potrebbe considerare come una azione, come un
“fare”. Solo più tardi, una volta che giungono ad associare un’attività alla
ricompensa, iniziano a considerare un comportamento mentre lo pongono
in atto in vista di benefici a lungo termine piuttosto che per la gratificazione
immediata a considerarlo cioè un lavoro o un passatempo. Ciò è dovuto allo
sviluppo di abilità cognitive che consentono al bambino di vedere il legame
tra causa ed effetto.
Attraverso il gioco il bambino incomincia a comprendere come funzionano
le cose, ciò che si può o non si può fare con gli oggetti, sperimenta le leggi
del caso e della probabilità, attiva serie concatenate di reazioni causa effetto
e mette in pratica le prime relazioni sociali.
L’esperienza del gioco insegna al bambino ad essere perseverante e ad avere
fiducia nelle proprie capacità; è un processo attraverso il quale diventa con-
sapevole del proprio mondo interiore e di quello esteriore, incominciando
ad accettare le legittime esigenze di queste sue due realtà.
Il gioco è significativo per lo sviluppo intellettivo del bambino. Il bimbo,
quando gioca, sorprende se stesso e nella sorpresa acquisisce nuove modali-
tà per entrare in relazione con il mondo esterno. Nel gioco sviluppa anche le
proprie potenzialità intellettive, affettive e relazionali.
Il gioco non è solo appagamento dell’io ma anche “piacere della funzione”
come dice Bulher.
Sentire il proprio corpo che è attivo, ascoltarlo, agire sul proprio corpo, sono
gli elementi portanti dell’evoluzione del bambino attivati dal gioco corpo-
reo, dal dialogo tonico. In tal senso si sviluppano le prime emozioni, la cu-
riosità lo guida alla scoperta attraverso il gioco e lo stesso gioco gli permette
di interpretare le emozioni che ne derivano.
Secondo dell’età, il bambino nel giocare impara ad essere creativo, a speri-
mentare le sue capacità cognitive, a scoprire se stesso , ad entrare in relazio-
ne con i suoi coetanei: tutto ciò sviluppa l’intera personalità.
A ben vedere nel gioco si intrecciano molti aspetti differenti e un analisi
dettagliata dei bisogni ludici può essere affrontata solo parallelamente ad
un esame delle tappe fondamentali dello sviluppo infantile.
35
Il bambino 
il suo sviluppo
A
dogni età
il suo gioco!
37
Volendo avvicinarmi alla progettazione di giochi per bambini mi sembra indispensabile inda-
gare sia sulle valenze psicologiche del gioco sia sui i bisogni a cui deve rispondere, senza trascu-
rare le tappe fondamentali della crescita fisica e dello sviluppo motorio nel bambino.
Ilgiocosimodificaneglianniinrelazioneaicambiamentifisiciedallivellodisviluppopsichico
raggiunto. Ad ogni età infatti corrispondono determinati comportamenti e abilità fisiche che
un progetto di gioco dovrebbe rispettare proponendo contenuti e movimenti stimolanti adatti
ai bambini delle diverse età.
Questoaccorgimentoeviterebbeilrischiodiannoiareibambiniodifrustrarliconrichiesteina-
deguateal grado di sviluppo psico–fisico in cui si trovano. Allo stesso modo ad ogni tappa della
crescita corrispondono determinati “bisogni ludici” ed esperienze emotive che non possono es-
sere trascurate da un progettista del settore.
Inquestocapitolomipropongodianalizzareinmodoschematicogliaspettifondamentalidel-
lo sviluppo motorio, psichico e affettivo dei bambini dalla nascita all’adolescenza in modo da
avere presenti le conoscenze e le abilità di base per determinare i bisogni ludici e le soluzioni
progettuali più indicate.
Lo sviluppo del pensiero
La teoria piagetiana
Prima di stabilire quali siano i giochi più adatti ai diversi momenti della cre-
scita mi sembra doveroso chiedermi quando, e come, nascano il movimento
e il pensiero nei bambini appena nati.
Per rispondere a questo interrogativo può essere di grande aiuto l’opera di
Piaget, noto studioso della psicologia dello sviluppo, che si è dedicato allo
studio e all’osservazione dell’apprendimento nei primi anni di vita.
La sua teoria ha il merito di aver cercato di delineare la relazione che inter-
corre tra maturazione neurofisiologica e cognitivo–affettiva nel neonato e
nel bambino, sottolineando come ciò avvenga soprattutto attraverso le espe-
rienze di movimento, dal più semplice  (riflesso ) al più complesso ( azione ).
38
Oggi, nonostante gli approfondimenti e le modifiche operate, il lavoro di
questo autore rimane architrave negli studi dei processi di apprendimento.
La stessa definizione di“apprendimento” può derivare dalle sue osservazio-
ni, come inteso ad acquisire concetti, nozioni, elaborazioni, esperienze,
ovvero “prendere qualcosa su di sé”. L’apprendimento è quel processo che
permette di decodificare la realtà, produrre esperienze, operare un bilancio
critico dell’esperienza. È in sostanza la capacità di costruire strutture cono-
scitive ovvero il mezzo per formare la mappa mentale–conoscitiva che ogni
individuo si costruisce a partire dalla prima infanzia elaborando gli stimoli
derivati dall’esperienza. Più saranno forti gli stimoli come basi, più saran-
no grandi , con il passare degli anni, le mappe conoscitive.
Secondo Piaget è possibile individuare cinque fasi di sviluppo intellettivo:
—	il periodo senso–motorio ( 0 – 2 anni );
—	il periodo preoperazionale ( 2 – 7 anni ) diviso a sua volta nella fase pre-
concettuale ( 2 – 4 anni ) e quella intuitiva ( 4 – 7 anni );
—	il periodo delle operazioni concrete ( 7 – 11 anni );
—	il periodo delle operazioni formali ( 11 – 15 anni ).
Periodo senso–motorio ( da zero a due anni )
Durante il periodo senso–motorio, l’infante parte da un livello neonatale
di puro riflesso, caratterizzato dalla completa assenza di differenziazione;
il piccolo non distingue se stesso dalla madre o dal resto del mondo, per
giungere solo in seguito ad una organizzazione relativamente coerente che
lo renda capace di semplici azioni senso–motorie. Questa organizzazione è
esclusivamente pratica e comporta semplici aggiustamenti percettivi e mo-
tori relativi ai fenomeni circostanti, piuttosto che alla loro manipolazione
simbolica. Piaget descrive sei sottostadi principali di questo periodo. Questi
stadi riflettono, evolvendosi impercettibilmente, le transizioni organizzati-
ve che portano progressivamente alla capacità di simbolizzare azioni o even-
ti raggiunta alla fine del periodo senso–motorio.
Il primo stadio, quello dei riflessi ( dalla nascita a un mese ), comporta una
crescente efficienza nel funzionamento dei riflessi innati.
Durante il secondo stadio dello sviluppo senso–motorio ( da due a quattro
mesi ), avvengono le reazioni circolari primarie. Queste sono azioni non
intenzionali e spontanee centrate sul corpo del bambino ( perciò sono sta-
te chiamate primarie ) che vengono ripetute più e più volte ( quindi circo-
lari ) rafforzando e stabilendo l’adattamento. Il comportamento in questo
39
stadio è caratterizzato dalla comparsa della
ripetizione di atti semplici ( assolutamente
inintenzionali e fine a se stessi ). Esempi di
reazione circolare primaria possono essere la
ripetitiva suzione del pollice o l’azione ripe-
tuta di tastare una coperta.
Gli stadi successivi sono caratterizzati da una
crescente intenzionalità da parte del bambi-
no.
Nel terzo stadio ( dai quattro agli otto mesi ) è
di estrema importanza lo sviluppo delle rea-
zioni circolari secondarie. Durante questo stadio si estende la consapevolez-
za dell’ambiente esterno da parte del bambino. Le sue reazioni implicano
ora la manipolazione di eventi o di oggetti dell’ambiente esterno ( vengono
perciò chiamate secondarie ). Le azioni vengono ancora ripetute più e più
volte ma esiste una certa intenzionalità che mira a produrre un effetto di
stimolo creato da qualche attività particolare. È in questa fase che possiamo
collocare le prime manifestazioni di gioco. Dalla ripetizione di queste azio-
ni ( scoperte per caso ) vengono appunto ottenuti risultati interessanti, tali
da spingere alla produzione di nuove alterazioni dell’oggetto o dell’evento
esterno.
Un esempio di reazione circolare secondaria potrebbe essere costituito dal-
l’agitare ripetutamente le braccia allo scopo di imprimere movimento ad un
giocattolo sospeso sopra la sua culla. Cominciano ad attirare l’attenzione
del bambino i giocattoli che producono effetti o suoni facilmente percepibili
come ad esempio sonaglietti e carillon.
Il quarto stadio senso–motorio ( dagli otto ai dodici mesi ) implica la coordi-
nazione delle reazioni secondarie. I mezzi e i fini sono chiaramente differen-
ziati; per la prima volta il comportamento del piccolo è di natura veramente
intenzionale e il bambino comincia a risolvere semplici problemi producen-
do nuovi schemi di comportamento ( uno schema è una risposta generale
usata per risolvere un problema particolare ). Il bimbo applica uno schema
come mezzo per raggiungere uno scopo; un altro schema è impiegato per
instaurare un comportamento nei confronti dello scopo, una volta che que-
sto sia stato raggiunto. Questa nuova coordinazione di reazioni secondarie
è resa possibile grazie alla migliore capacità nel bambino di generalizzare o
di trasferire uno schema usato in una situazione simile a quella nella quale
era stato originariamente utilizzato. Durante il quarto stadio avviene la pro-
gressiva differenziazione tra sé e il mondo. Viene stabilita la permanenza
dell’oggetto. Se il bambino osserva un oggetto che successivamente viene
40
sottratto alla sua vista, arriva a capire che questo oggetto ha ancora
una esistenza obiettiva anche al di fuori del suo campo visivo.
L’esempio seguente può chiarire la marcata intenzionalità delle
azioni e il concetto di permanenza dell’oggetto che caratterizza il
quarto stadio senso–motorio. Immaginiamo un bambino che guar-
da il suo giocattolo preferito e che questo, lentamente, venga rico-
perto con un panno. Piaget afferma che un infante nel terzo stadio
non riconosce ancora in questi casi l’oggettiva esistenza dell’ogget-
to; l’oggetto fuori dalla vista è fuori dalla mente.
Data la stessa semplice situazione, un neonato nel quarto stadio è
sufficientemente capace di comprendere l’esistenza indipendente
del giocattolo. Entrambi possono arrivare a tirare via il panno dal-
l’oggetto: il bambino del terzo stadio probabilmente solo per osser-
vare il movimento del panno ( uno stimolo già in sé interessante ).
Dopo che il panno è stato tirato via, il bambino del terzo stadio può
magari scoprire accidentalmente la nuova esistenza dell’oggetto e
mettere in atto una reazione secondaria cercando di raggiungerlo.
Al contrario, il bambino nel quarto stadio del periodo senso–moto-
rio ha chiaramente in mente il giocattolo dall’inizio e non vi incap-
pa per caso. Il tirare il panno è usato come mezzo per raggiungere
la meta desiderata, il gesto è posto in relazione e coordinato con
l’azione finale di raggiungere l’oggetto.
Questa capacità di combinare unicamente schemi di azione prece-
dentemente non connessi costituisce da parte del bambino la base
di una semplice attività di soluzione dei problemi.
Il bambino passa dalla totale indifferenziazione
ad una prima forma di organizzazione coerente
che gli permette di compiere semplici operazioni.
Migliorano i riflessi innati.
1° stadio (o–1 mese)
MOVIMENTI RIFLESSI
Ripetizione di azioni semplici
non intenzionali centrate sul
corpo del neonato.
2° stadio (2–4 mesi)
REAZIONI CIRCOLARI
PRIMARIE
PERIODO SENSOMOTORIO 0–2
baucette: un piccolo gioco
importante per il bambino
sotto l`anno, che ancora non
concepisce un oggetto fuori dal
suo campo percettivo. L`omino
può sparire del tutto e rimbalzare
fuori sulla molla nascosta che lo
tiene saldato al fondo. In vendita
presso Città del sole.
41
Il concetto di permanenza dell’oggetto non è
ancora pienamente articolato. Il bambino del
quarto stadio incontra considerevoli difficoltà
se i movimenti di un oggetto sono comples-
si o se l’oggetto viene spostato nello spazio
dall’area nella quale era stato inizialmente nascosto. Se un giocattolo vie-
ne ripetutamente nascosto sotto un cuscino, il bambino del quarto stadio
lo cercherà lì; ma se l’oggetto viene nascosto sotto un secondo cuscino, il
bambino lo continuerà a cercare sotto il primo cuscino ( anche se ha visto
chiaramente che il giocattolo veniva nascosto sotto il secondo ). È come se la
posizione associata ai precedenti tentativi felici di scoprire l’oggetto fosse-
ro un attributo dell’oggetto stesso. Il bambino in questo stadio è diventato
capace di compiere numerose operazioni, manipolare oggetti, lanciarli, av-
vicinarli e interagire con loro. Sarà interessato a giochi di diversi materiali,
alle palle, agli specchi, ai giocattoli sonori e a tutti i giochi che rendono pos-
sibile rafforzare la sua nuova consapevolezza della permanenza dell’oggetto
( scatole in cui nascondere i giocattoli, coperte, cuscini ecc ).
Durante il quinto stadio del periodo senso–motorio ( dai dodici ai diciotto
mesi ), il bambino diviene consapevole che un oggetto può essere spostato
nello spazio conservando l’idea della permanenza dello stesso. La costanza
di un oggetto è quindi più saldamente stabilita; la permanenza è ora qual-
cosa di assimilato.
Un altro aspetto saliente del quinto stadio è lo sviluppo delle reazioni circo-
lari terziarie. Queste reazioni sono definite in termini di metodi più con-
creti e avanzati di esplorazione di oggetti nuovi o di eventi ambientali e per
3° stadio (4–8 mesi)
REAZIONI CIRCOLARI
SECONDARIE
4° stadio (8–12 mesi)
coordinazione delle
REAZIONI SECONDARIE
teoriaPIAGETTIANA
I movimenti sono finalmente di natura
intenzionale. Il piccolo comincia a
risolvere semplici problemi producendo
nuovi schemi di comportamento. Viene
stabilita la permanenza dell’oggetto.
Il bambino riesce ad applicare questa
conoscenza solo a casi molto semplici.
Nasce la consapevolezza della
differenziazione del proprio corpo
rispetto al mondo circostante.
Il bambino agisce sugli oggetti e
ricerca i primi contatti con essi.
Nascono le prime forme di gioco.
� schema sullo sviluppo del pensiero: il grafico,
che prosegue nelle pagine seguenti, cerca di sintetizzare le
tappe fondamentali dello sviluppo intellettuale sulla base
della teoria elaborata da Jean Piaget all’inizio del secolo
scorso.
42
mezzo di nuove sperimentazioni. L’interesse per la no-
vità in se stessa è l’attributo primario di una reazione
circolare terziaria.
Attraverso sperimentazioni per prove ed errori, il piccolo
scopre nuovi mezzi per raggiungere i suoi scopi. Se nel
quarto stadio il comportamento che conduceva ad uno
scopo era piuttosto stereotipato, nel quinto il bambino
del cerca attivamente mezzi nuovi per raggiungere un
particolare fine. Non solo si fida delle attività che pre-
cedentemente si sono dimostrate capaci di successo,
ma si accosta al problema per nuove vie: non si limita
a muovere con le mani un cuscino per raggiungere un
giocattolo nascosto, ma tenta nuove strade ( può tenta-
re ad esempio di spingere via il cuscino con un piede o può cercare di farlo
per mezzo di un bastone ). Il piccolo è sempre interessato a nuove varianti
operazionali e vede anche come queste varianti agiscono sull’oggetto o sulla
possibilità di ottenere l’oggetto stesso.Il fine passa quasi in secondo piano.
Il bambino di questo stadio che comincia è molto curioso di tutto ciò che il
mondo ha da offrirgli e ama giocare con svariati oggetti.
Il sesto stadio ( dai diciotto ai ventiquattro mesi ) è caratterizzato dalla tran-
sizione da un’azione evidente ad una rappresentazione mentale nascosta.
Il bambino è in grado di utilizzare simboli mentali per riferirsi ad oggetti
assenti dall’ambiente immediatamente circostante. Durante questo stadio
il bambino è capace di imitazione differita, di riprodurre a memoria cioè il
comportamento di un modello assente: di rappresentare il modello assente
per mezzo di alcune forme simboliche.
Comincia così il gioco del“fare per finta”. Il bambino, in questo stadio finale
dello sviluppo senso–motorio, è capace di sperimentazione interiore che lo
porta ad una esplorazione mentale interiorizzata delle relazioni tra modi e
mezzi. Le soluzioni ai problemi sono considerate in termini di dimensio-
ne mentale piuttosto che fisica. Durante questo ultimo stadio del periodo
sensomotorio il concetto di permanenza dell’oggetto è stabilito in modo più
chiaro. Il bambino ora cercherà un oggetto spostato nello spazio dove questo
è scomparso l’ultima volta riconoscendo che un oggetto può essere spostato
e continuare a mantenere la sua oggettività. Il bambino arrivato a questo
stadio è in grado di compiere svariate attività e i giochi con i quali si intrat-
tiene sono diventati moltissimi. Ama le costruzioni di grandi dimensioni
( cubi, grandi incastri, casette con chiavi ), i giocattoli di grandi dimensioni
( palle, veicoli al traino, cuscini ), sperimenta le prime forme espressive ( ma-
tite, pongo, colori a dita ) e ama giocare con l’acqua.
43
Dai due ai sette anni:il periodo preoperazionale
Dai due ai quattro anni: lo stadio preconcettuale
Evolvendosi dall’ultimo stadio del periodo senso–motorio, la genesi del
pensiero per concetti avviene appunto nel periodo preconcettuale. Durante
questo stadio il bambino sviluppa capacità linguistiche e abilità a costrui-
re simboli; comincia a distinguere tra significanti ( parole e immagini che
significano eventi oggettivi o oggetti ) e significati ( eventi percettivamente
assenti ai quali si riferiscono quelle parole o immagini ). Il bambino è capace
di distinguere «papà che si mette il cappotto» ( significante ) e il concetto del
«papà che si mette il cappotto», riferito all’evento ancora percettivamente
assente del papà che esce ( significato ).
L’apparire della funzione simbolica ( uso dell’immagine mentale, del sim-
bolo, della parola o di un oggetto che significa o rappresenta un evento che
non è immediatamente presente ) libera il bambino dall’agire su fatti fisi-
camente presenti nell’immediato ambiente circostante. La funzione sim-
bolica consente al bambino di applicare l’esperienza passata agli eventi pre-
senti.
Altra fondamentale caratteristica di questo stadio è che l’imitazione si fa
meno esteriore e si rivela maggiormente interiorizzata. Diviene evidente
durante questo periodo la presenza dell’immaginazione; il bambino svilup-
pa la sua abilità nel trattare gli oggetti come simboli di cose diverse da quel-
lo che sono in sé ( può usare una scopa come cavallo immaginario o una sca-
toletta come telefono cellulare ). Durante questo stadio il bambino comincia
a sperimentare sempre più le rappresentazioni mentali del mondo esterno
e delle sue proprie azioni.
Molte caratteristiche del pensiero nello stadio preconcettuale differiscono
ancora dai processi più tardi e più maturi. Il bambino, ad esempio, non è
ancora in grado di formulare regole che gli consentano di includere un og-
getto in una classe specifica di oggetti.
Piaget definisce sincretismo la tendenza a raggruppare eventi e oggetti in
insiemi confusi. Per esempio, invece di usare regole classificatorie di un
insieme ( l’insieme degli oggetti impiegati come utensili per cucinare ) per
definire quali oggetti particolari appartengono alla cucina, il bambino nel-
lo stadio preconcettuale non cerca di determinare attributi particolari che
siano comuni ad una serie di oggetti, ma classifica insieme oggetti che non
44
hanno rapporto tra loro ( biscotti, una donna, un orologio a muro, i fiam-
miferi, ecc., sono raggruppati insieme ed etichettati «cucina» ). Il pensiero
preconcettuale è anche egocentrico: il bambino pensa solo secondo il suo
punto di vista e non possiede la capacità di assumere il ruolo di un altro in-
dividuo. È anche incapace di valutare criticamente i suoi pensieri ( ad esem-
pio, il bambino non pensa ai suoi pensieri né tenta di prendere in conside-
razione le possibili contraddizioni dei suoi processi di pensiero ).
Il pensiero, durante lo stadio concettuale, tende anche ad essere centraliz-
zato: il bambino si concentra su un particolare aspetto o su una dimensione
di una serie di stimoli. Non considera mai simultaneamente le varie dimen-
sioni di un problema: mentre centra un aspetto particolare di un evento,
sorvola o trascura altre sue dimensioni rilevanti. Non combina mai le singo-
le caratteristiche integrandole però in un disegno multidimensionale.
Dai quattro ai sette anni: lo stadio intuitivo
Lo stadio intuitivo è il secondo del periodo preoperazionale e va dai quattro
ai sette anni circa. È un periodo di preparazione allo stadio delle operazioni
concrete. Durante questo stadio vengono costruiti pensieri e immagini più
complessi di quelli del periodo precedente e il bambino sviluppa progressi-
vamente la sua capacità di concettualizzazione. Si stabilisce un rudimentale
concetto di classificazione basato essenzialmente su somiglianze colte me-
diante la percezione piuttosto che su considerazioni logiche o di relazione.
Per esempio, una stella marina non viene classificata in base ad una com-
5° stadio (12-18 mesi)
reazioni circolari
TERZIARIE
6° stadio (18-24 mesi)
la rappresentazione
MENTALE
La permanenza dell’oggetto è un concetto
perfettamente acquisito. Il bambino esplora gli
oggetti e il mondo circostante con modalità più
concrete e avanzate per mezzo di nuove
sperimentazioni. Il bambino non solo riesce ad
ottenere gli scopi prefissati ma si adopera per
scoprire varianti con le quali raggiungere gli
stessi risultati, il periodo risulta caratterizzato
da una grande curiosità.
l bambino è in grado di riferirsi a
oggetti assenti dall’ambiente
immediatamente circostante.
Il piccolo è capace di riprodurre a
memoria il comportamento di un
modello assente per mezzo di forme
simboliche. Comincia il gioco di
finzione.
45
parazione filetica ma può essere classificata come una roccia o una pietra
in base alla sua percepita somiglianza con tali oggetti. Il pensiero, a questo
stadio, è ancora largamente legato al contesto delle esperienze percettive
del bambino. La sua comprensione degli eventi è ancora ampiamente domi-
nata da una certa incapacità di percepire nello stesso momento più di una
dimensione saliente di una situazione.
Un altro aspetto critico del pensiero nel periodo preoperazionale è l’irrever-
sibilità. Il pensiero irreversibile è definito come l’incapacità a considerare
una serie di operazioni inverse che possono reinstaurare una situazione ori-
ginaria. Gli esperimenti classici di Piaget, che dimostrano l’incapacità del
bambino ancora al livello preoperazionale a capire il fenomeno della conser-
vazione ( che cioè la quantità di liquido e la massa o il numero degli oggetti
di un insieme resta invariato anche se vi sono trasformazioni percettive ),
servono a caratterizzare molti dei processi dominanti di pensiero dei bambi-
ni durante questo intero periodo.
Alcune qualità del pensiero preoperazionale rendono impossibile ad un bam-
bino di questo livello riconoscere che una quantità di acqua resta costante
( si conserva ) malgrado la diversità della forma del contenitore in cui l’acqua
è versata. Se l’acqua è versata in due bicchieri identici e raggiunge in tutti e
due lo stesso livello, il bambino capirà prontamente che la quantità d’acqua
nei due bicchieri è la stessa: se l’acqua di un bicchiere viene poi versata in
un bicchiere più alto e più stretto ( in modo che nel nuovo recipiente il livello
dell’acqua sia più alto ) il bambino dello stadio preconcettuale del periodo
preoperazionale insisterà col dire che il bicchiere più alto e più stretto con-
tiene più acqua. Può darsi che il bambino dello stadio preconcettuale difetti
LO STADIO PRECONCETTUALE
(2-4 ANNI)
LO STADIO INTUITIVO
(4-7 ANNI)
PERIODO PREOPERAZIONALE 2-7
Con il miglioramento delle abilità linguistiche e
simboliche il pensiero del bambino comincia a
svilupparsi per concetti.
Inizia a manifestarsi l’immaginazione; anche
l’imitazione viene maggiormente interiorizzata.
Gli eventi e gli ogetti risultano raggrupati in insiemi
confusi (sincretismo), il pensiero in questo stadio
è egocentrico e centralizzato (il bambino
considera i fenomeni solo da un punto di vista e si
concentra su un aspetto specifico e limitato del
problema).
Durante questo periodo il bambino
costruisce un gran numero di pensieri e
immagini piuttosto complessi. Viene stabilito
un rudimentale concetto di classificazione
basato sulle esperienze sensoriali del
bambino piuttosto che su ragionamenti
logici. Il pensiero nel complesso è ancora
centralizzato e irreversibile (non
considera cioè l’insieme delle operazioni
inverse che possono ristabilire la situazione
iniziale).
teoriaPIAGETTIANA
46
dell’idea di conservazione perché si occupa solo di un aspetto sa-
liente del problema ( l’altezza del liquido nelle colonne d’acqua ),
trascurando fatti ugualmente importanti, cioè che il secondo
recipiente differisce dal primo in larghezza, oltre che in altezza.
Dato che procede focalizzando l’attenzione percettiva su una di-
mensione alla volta, il bambino è incapace della coordinazione
simultanea di due o più attributi dimensionali del problema.
Può darsi però che i bambini del secondo stadio ( intuitivo ) del
periodo preoperazionale difettino dell’idea di conservazione
perché la loro capacità di definire concetti astratti, come la
quantità, è limitata agli attributi del problema che possono esse-
re colti attraverso la percezione. Il bambino dello stadio intuitivo può in-
tuitivamente stabilire una uguaglianza tra l’«altezza» e il suo concetto di
quantità (  «di più» ). Così, il livello del liquido nei due recipienti determina
il concetto di quantità del bambino. In ogni caso, il pensiero è marcato dalla
sua irreversibilità. Il bambino del periodo preoperazionale è inconsapevole
del fatto che esista una operazione che possa ripristinare la situazione ori-
ginaria. Non ha la cognizione del fatto che se l’acqua del recipiente più alto
e più stretto viene versata di nuovo nel primo dei recipienti identici, essa
raggiungerà di nuovo la sua altezza originaria. Ovviamente questi proces-
si di pensiero, quali la centralizzazione e l’irreversibilità, sono fortemente
correlati. Ad esempio, un bambino del periodo preoperazionale può vedere
che quando l’acqua è versata di nuovo nel contenitore originale ( operazione
inversa ) raggiunge un’altezza uguale a quella dell’altro identico contenito-
re. Il bambino può allora accorgersi che la quantità d acqua nei due bicchieri
è uguale; tuttavia, quando avviene una nuova trasformazione ( ad esempio
quando l’acqua è versata nel bicchiere alto e stretto ), per una ragione o per
l’altra, il bambino, al livello preoperazionale, perde di vista questa opera-
zione inversa; non la prende in considerazione e continua a fare assegna-
mento sulle caratteristiche percettive più evidenti.
Dai sette agli undici anni:il periodo delle operazioni concrete
A partire dalla nascita, le attività mentali dominanti sono passate dalle azio-
ni evidenti ( nel periodo senso–motorio ) alle percezioni ( nel periodo preope-
razionale ) e quindi alle operazioni intellettuali ( nel periodo delle operazioni
concrete ).
47
Queste operazioni avvengono all’interno della struttura di ciò che Piaget
chiama mobilità del pensiero: la capacità di spiegare la reversibilità, di de-
centrare, di assumere il punto di vista altrui e di concettualizzare le relazio-
ni di classe. Durante il periodo delle operazioni concrete il bambino getta
le basi del pensiero logico, che si identifica col successivo e ultimo periodo
dello sviluppo intellettuale.
Ci sono molte differenze tra il bambino del precedente periodo e quello del
periodo delle operazioni concrete. Per quanto riguarda lo stesso problema
della conservazione, rispetto ai bambini nel periodo preoperazionale, i bam-
bini nel periodo delle operazioni concrete comprendono l’idea che la quanti-
tà resta invariata malgrado le trasformazioni colte attraverso la percezione.
Il pensiero del bambino in questo stadio è caratterizzato dalla comprensio-
ne delle operazioni inverse. Così il bambino può adesso rispondere corretta-
mente a domande sulla conservazione del liquido affermando che la quan-
tità d’acqua ( dopo la trasformazione ) è ancora la stessa, perché la si può
versare nuovamente dal bicchiere stretto e alto in quello di partenza e che il
livello dell’acqua nei due bicchieri identici sarà ancora lo stesso».
Un’altra differenza tra il pensiero preoperazionale e quello del livello delle
operazioni concrete è che il bambino nel periodo delle operazioni concrete
ha sviluppato un concetto chiaramente definito di classe e classificazione.
Lo sviluppo della abilità a pensare simultaneamente a relazioni parte–tutto
è una componente di questa nuova capacità che si è stabilita. Ad esempio,
se ai bambini nello stadio preoperazionale sono mostrate otto caramelle
gialle e quattro marroni e viene loro chiesto: «Ci sono più caramelle gialle o
più caramelle?». Probabilmente essi risponderanno: «Più caramelle gialle».
I bambini al livello delle operazioni concrete probabilmente resteranno per-
plessi di fronte ad una domanda così assurda ed eventualmente risponde-
ranno dicendo: «Ci sono più caramelle ( totali ) che caramelle gialle». La loro
risposta a questa domanda indica una chiara differenziazione tra parti e
tutto, una capacità di ragionare simultaneamente sulle relazioni parte–tut-
to e una conoscenza che sottoclassi di elementi ( caramelle gialle e marroni )
possono essere incluse in categorie più ampie ( caramelle in generale ).
Le altre differenze più notevoli tra periodo preoperazionale e periodo del
pensiero operazionale concreto sono le seguenti:
—	La capacità di utilizzare termini relazionali. Il bambino nello stadio
preoperazionale guarda a espressioni relazionali come «più scuro» o
«più grande» in termini di attributi assoluti di oggetti in opposizione
ad attributi relativi. In questo caso «più scuro» significa «molto scu-
ro», non più scuro di un altro oggetto; «più grande» significa «molto
grande» in contrasto con il concetto relativo di più grande di un secon-
Ci sono più caramelle
gialle o più caramelle?
.
48
do o di un terzo oggetto. Il bambino è in grado, durante il periodo delle
operazioni concrete, di vedere oggetti o avvenimenti in modo relativo.
Dato il problema «se A è più piccolo di B e B è più piccolo di C, A è più
piccolo di C?», il bambino nel periodo delle operazioni concrete ha la
capacità di risolvere il problema considerando i rapporti relativi tra
ciascuno degli oggetti materiali.
—	Il bambino in questo periodo possiede la capacità di ordinare gli ogget-
ti secondo alcune dimensioni qualitative come il peso, la grandezza,
la scala ordinale. Piaget chiama seriazione questa capacità concettua-
le. La seriazione è fondamentale per la comprensione del fatto che la
relazione d’un numero ha con gli altri ed è un requisito preliminare
per lo sviluppo del pensiero matematico.
—	Il bambino nel periodo delle operazioni concrete è anche capace di
utilizzare una rappresentazione mentale di una serie di atti. Il bam-
bino nello stadio precedente può essere in grado dl coprire una breve
distanza per andare a scuola se sa i punti precisi in cui deve voltare a
destra o a sinistra, ma non ha il concetto dell’insieme della strada che
fa quando va a scuola.
	 Il bambino nel periodo delle operazioni concrete è capace di progettare
l’intera serie di operazioni che gli sono necessarie per andare a scuola:
è capace di concettualizzare in anticipo l’itinerario.
Le operazioni concrete sono strutturate e organizzate in termini di fenome-
ni veramente concreti ( eventi che generalmente si verificano nell’immedia-
to presente ). La considerazione della potenzialità ( del modo cioè in cui è
possibile che gli eventi si producano ), o il riferimento a eventi o a situazioni
PERIODO DELLE OPERAZIONI CONCRETE 7–11
Le attività mentali che prevalgono in questo periodo sono le operazioni
intellettuali. Il pensiero ha acquistato notevole mobilità; il bambino è in
grado di decentrare, cambiare il punto di vista, e comprende le operazioni
inverse. I concetti di classi e classificazioni sono ben definiti. Il bambino
usa in modo competente termini relazionali e possiede capacità di
seriazione (è cioè in grado di ordinare insiemi di oggetti cosiderando una
dimensione qualitativa specifica). Il bambino è in grado di rappresentare
mentalmente fenomeni di una certa complessità e valutarli nel loro insieme;
i fenomeni considerati sono però concreti, legati al presente o ad un futuro
immediato.
49
future è piuttosto limitata. È questo approccio concreto alla realtà che diffe-
renzia il periodo delle operazioni concrete dal periodo finale dello sviluppo
intellettuale.
Dagli undici ai quindici anni:il periodo delle operazioni formali
Questo periodo copre l’età dagli undici ai quindici anni. L’attributo più ge-
nerale del pensiero formale è la comprensione che la realtà è solo una di una
serie di infinite possibilità. Il ragionamento dell’adolescente è ipotetico–de-
duttivo; egli comincia con la considerazione di un dato problema in termini
di concettualizzazione di tutte le relazioni che possono verificarsi ( una serie
di ipotesi possibili ). Poi, attraverso un processo di sperimentazione combi-
nato con l’analisi logica, ogni singola ipotesi viene confermata o respinta.
La capacità di produrre tutte le possibili ipotesi risolutive e poi di verificare
la validità d ognuna di esse attraverso una analisi logica è la caratteristica
del periodo delle operazioni formali.
A questo livello il pensiero è soprattutto proposizionale. L’adolescente mani-
pola i dati grezzi nei quali si imbatte in relazioni organizzate o proposizioni
e successivamente elabora connessioni logiche tra di loro. Inoltre il pensiero
operazionale formale è interproposizionale, implica cioè delle relazioni lo-
giche tra le proposizioni formate dai dati grezzi.
Piaget si riferisce a queste operazioni come ad operazioni di secondo ordine,
o operazioni sulle operazioni. L’individuo al livello di pensiero operaziona-
PERIODO DELLE OPERAZIONI FORMALI 11–15
Questo è lo stadio finale dello sviluppo del pensiero. La realtà appare come una serie di infinite
possibilità. Il pensiero in questo stadio è ipotetico-deduttivo (concettualizza un problema e lo
affronta formulando ipotesi possibili da valutare con l’analisi logica), proposizionale (organizza
i dati stabilendo relazioni e connessioni logiche), è in grado di svolgere un’analisi combinato-
ria (valutando l’intero insieme delle possibilità) e di applicare regole semplificanti (utilizzando
il ragionamento senza dovere ricorrere all’esperienza diretta). I ragazzi a questa età manifestano
un particolare interesse nei confronti dei meccanismi del pensiero.
teoriaPIAGETTIANA
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Il gioco 1

  • 1. Politecnico di Milano Facoltà del Design, Corso di Laurea in Disegno Industriale Toy Design Appuntamento al buio tra il gioco e la paura Primo Atlante di giocologia applicata Rel. Florian Tim Boje Aut. Joyce Bonafini, 185757 Anno Accademico 2004-2005
  • 2. Indice dei contenuti 6 � prefazione 8 Abstract 12 Il metodo 16 � il gioco 17 Papà, papà... Gioco cosa significa? 22 Teorie ed interpretazioni storiche del gioco 33 Perchè si gioca? A cosa serve? 36 � il bambino & il suo sviluppo: ad ogni età il suo gioco 37 Lo sviluppo del pensiero 37 La teoria Piagetiana | 38 Il periodo sensomotorio | 43 Il periodo preoperazionale | 46 Il periodo delle operazioni concrete | 49 Il periodo delle operazioni formali 51 La motricità infantile 53 Tappe dello sviluppo motorio | 66 Studi sulla coordiazione motoria | 71 La nascita di un movimento 76 Lo sviluppo psico–sessuale 76 Lo stadio pregenitale | 85 Lo stadio genitale 91 Lo sviluppo dei bisogni ludici 91 Da 0 a 1 anno: La nascita | 96 Da 1 a 2 anni: la curiosità | 100 Da 2 a 3 anni: l’autonomia | 105 Da 4 a 6 anni: l’esplorazione | 110 Da 6 a 10 anni: la vita sociale | 114 Da 10 a 12 anni: i primi turbamenti 114 Bambini e colori 122 � i giocattoli 123 Storia dei giocattoli 124 L’Antichità | 128 Il Medioevo | 129 Il Rinascimento | 130 Tra Seicento e Settecento | 134 L’Ottocento 138 Il Novecento 140 Il gioco e i giocattoli... Il giocattolo oggi 142 La stuttura | 149 Segmentazione di mercato | 152 Contenuti | 163 Situazioni d’uso | 164 Esperienza interiore | 166 Rapporto con gli altri
  • 3. 172 � la paura 173 Le emozioni 173 Lo studio delle emozioni | 174 A cosa servono le emozioni? | 174 Le emozioni fondamentali 175 La paura 175 Provare paura | 188 La paura come motore dell’apprendimento 191 Breve Bestario delle paure infantili 191 I primi tre anni | 197 Dai tre ai sei anni | 203 Dai sei ai dieci anni | 210 Le paure adolescenziali 211 Sogni e paure 214 Affrontare la paura 214 Consigli per affrontare la paura | 215 Reagire alla paura | 217 I meccanismi di difesa | 218 Le strategie per superare la paura | 232 Giocattoli e paure 236 � conclusioni 240 � ipotesi progettuali 242 Nannaganga 256 Mighty Light 272 Little Brite 292 Lightbook 302 � fonti e risorse 303 Bibliografia | 308 Link | 311 Tesi consultate Indice degli schemi 10 � enunciato della tesi 13 � schema di funzionamento della metodologia triz
  • 4. 15 � schema dello svolgimento della tesi 19 � contrari messi in atto nel gioco 28-29 � interpretazioni del gioco date da diverse discipline 40-41 | 44-45 | 48-49 � lo sviluppo del pensiero (la teoria piagetiana) 58-59 | 60-61 | 62-63 |64-65 � sviluppo motorio da 0 a 12 anni 72 � la genesi dei movimenti 74 � elaborazione dei compiti motori richiesti partendo da differenti modalità 75 � conoscenze necessarie ad attuare un movimento 80-81 | 82-83 | 88 � sviluppo sessuale 94-95 | 96-97 | 100-101 | 108-109 | 110-111 | 114 � sviluppo dei bisogni ludici 170-171 � tipologie e classi di analisi dei giocattoli 179 � provare paura 181 � reagire alla paura 187 � generi di paure 204-205 � evoluzione delle paure infantili 230-231 � affrontare le paure
  • 5.
  • 7. Scegliere di svolgere una tesi una tesi nell’ambito del gioco per bambini non è stato facile. Molti hanno cercato di dirottarmi verso ambiti progettuali più tradizionali mettendomi in guardia sulle tante insidie che questo tipo di ricerca nasconde e sullo scarso riconoscimento concesso a questa attività (in ambito istituzionale e non). Dando un occhiata alle tesi del CEDAR sull’argomento “Gioco” queste ipotesi tragiche mi sono sembrate piuttosto ben fondate. Ho cercato così di analizzare questi elaborati cercando di individuarne punti diforza e debolezze ponendomi come proposito quello di evitare di com- mettere gli stessi errori. A mio parere le analisi svolte muovevano prevalentemente sul piano filosofico senza considerare l’evoluzione storica e oggettuale dei giocattoli e anche le buone idee spesso si sono tradotte, purtroppo, in progetti di livello piuttosto basso poco legati alla quotidianità del bambino e soprattutto completamente distaccati dalla contemporaneità in cui viviamo. Non sono riuscita a spiegarmi il perché di questo rapporto difficile tra le tesi e il toydesign se non constatando che il gioco e il giocattolo sono ambiti progettuali molto dif- ficili nei quali spesso bisogna commettere molti errori prima di giungere ad una buona idea. Tuttavia, come ogni volta, ho voluto fare di testa mia e provare comunque ponendomi come punto di partenza l’elaborazione di un metodo progettuale personale da applicare al design del giocattoli mixandolo con un pizzico di creatività. Mi sono serviti diversi mesi di indagine prima di individuare un percorso di lettura personale. Spesso mi sono trovata smarrita ai confini dell’universo del “gioco” tra filosofia, psicologia, marketing e ricordi d’infanzia. Quello del gioco è un ambito sconfinato ricco di spunti interes- santi da approfondire e, nonostante questo curiosare mi abbia fatto perdere un po’ di tempo, devo riconoscere che perdermici è stato divertente e istruttivo. Nel frattempo ho avuto modo di familiarizzare con la progettazione di giocattoli durante il mio periodo di stage presso lo studio Gioforma (trasformatosi poi in un lavoro a tempo pieno) dove ho cominciato a riflettere sul valore che può avere il gioco nella pazza società in cui viviamo e su come siano cambiati bambini e giocattoli negli ultimi trenta anni. Dopo svariate false partenze e vicoli cechi ho scelto una chiave di lettura che mi aiutasse a limitare il campo di ricerca (avendo accettato l’ipotesi di non riuscire scrivere un’enciclopedia completa e onnicomprensiva sul gioco e sui giocattoli). Con la mia tesi ho deciso quindi di indagare i punti di contatto tra due ambiti apparentemen- te molto lontani tra loro: quello del gioco e quello della paura. Credo che l’osservazione delle influenze reciproche di questi due campi possa essere utile nella ricerca di spunti progettuali. Molto più spesso di quanto si crede infatti il gioco nasce e viene influenzato dalla paura così come la paura può essere allontanata e talvolta vinta giocando. Un esempio per tutti è il sonaglio; questo oggetto, che è tra l’altro il primo giocattolo di tutti i tempi, veniva usato in principio come strumento rituale e il suo rumore serviva a tenere lontani gli spiriti maligni dai neonati.
  • 8. Mi è sembrato interessante esplorare il mondo della paura, una delle emozioni più signi- ficative in rapporto allo sviluppo del pensiero e della crescita personale; questa scelta mi sembrava oltre perfettamente in linea con i risultati di molte recenti ricerche che sottolinea- no l’importanza a partire dalla prima infanzia di una corretta educazione emotiva. La paura è considerata una delle emozioni umane fondamentali a fianco di gioia, rabbia, tristezza e disgusto (l’elenco completo varia da studio a studio ma questi stati d’animo compaiono come costanti universali e facilmente riconoscibili). Sapere affrontare le paure, anche da bambini, è fondamentale per crescere sani e fiduciosi in se stessi e nel futuro. Parlare di paura tocca la parte più sensibile ed emotiva di ciascuno di noi specialmente in un momento storico delicato e difficile come quello che stiamo vivendo. La paura è un tema estremamente attuale e credo che sia giusto, anche da parte dei designer, cercare di trattarla in modo propositivo suggerendo progetti che sappiano fare leva su questa emozione così violenta trasformandola in un motore di crescita: domare una forza solita- mente distruttiva incanalandone l’energia in un’attività ludica e produttiva. Abstract È davvero molto difficile cercare di definire in modo univoco cosa significhi giocare. Sotto la definizione di GIOCO fanno capolino le infinite manife- stazioni di questo fenomeno così diffuso. Ognuno di noi potrebbe cercare di spiegare il gioco suggerendo alcuni esempi di ciò che intende per gioca- re e sarebbero sicuramente tutti differenti e allo stesso tempo esatti (per qualcuno gioco sarà calciare un pallone, per altri vincerà il ricordo di una bambola da accarezzare, altri ancora penseranno alle corse in un prato o alla vertigine di un altalena, sicuramente ci sarà chi è patito della playsta- tion e chi malato di superenalotto, ma ognuno di noi, anche chi come me è capace di perdere ore con un cubo di Rubik, conosce il significato del ter- mine giocare). L’analisi del lavoro svolto da numerosi studiosi che si sono confrontati con questo tema mi ha convinto che definire il gioco è impresa probabilmente impossibile e forse anche inutile: per dirlo con le parole del filosofo Immanuel Kant, il mondo delle idee (che lui chiama noumeni) è una
  • 9. realtà inconoscibile ed indescrivibile che, in qualche modo, si trova“al fon- do”, dietro, al di là dell’apparenza che conosciamo, oltre ai fenomeni percebili che ben conosciamo e riconosciamo. Il fenomeno è infatti ciò che in una cosa appare ai sensi e alla coscienza; è l’aspetto percepito di un qualcosa che si manifesta alla percezione, sia essa fisica che psichica. Se dunque l’essenza del gioco non può che sfuggire, nel suo allegro cambiar di forma e nascon- dersi, la fenomenologia del gioco, il suo divenire, è chiara ed evidente a tutti e le manifestazioni del gioco sono facilmente identificabili. Il più delle volte bastano pochi secondi per riuscire a capire se una persona, adulto o bambi- no che sia, sta giocando. Il gioco è, in una certa misura, innegabile: per la gioia che procura, per l’attenzione costante e serena che impegna il gioca- tore, per le emozioni suscitate e facilmente leggibili, per la vitalità espres- sa nelle azioni e soprattutto per la natura di alcuni gesti ben conosciuti da ciascuno di noi. Vi è inoltre nel gioco una costante presenza di movimento e vita. Spostando l’attenzione dallo studio del gioco all’analisi di giochi e giocattoli emerge che il gioco in effetti possiede alcune caratteristiche e ge- sti costanti riscontrabili sin dall’antichità e tutt’oggi presenti sulla terra ad ogni latitudine e longitudine prescindendo dal livello di sviluppo economi- co e sociale del paese in cui si manifestano. Alcuni giochi, e con essi alcuni giocattoli, possono essere considerati universali e nascono evidentemente in risposta a bisogni fisici e psicologici legati alla crescita del bambino di cui spesso sono promotori. In una cera misura possiamo considerare il fenome- no gioco (inteso in senso fisico piuttosto che filosofico) come effetto di mo- dificazioni interne al bambino che seguono un andamento piuttosto stan- dardizzato. Mi piace l’idea di riuscire a leggere la fenomenologia del gioco come un susseguirsi di gesti e giochi legati da rapporti di causa–effetto in cui si incontrano pulsioni interne ed esperienze esterne. Il gioco è espressio- ne e superamento di una dinamica di crescita attualmente in atto. Sebbene credo non sia possibile riuscire a immaginare un“giocattolo perfetto” credo che cominciare un progetto ponendosi di fronte agli obiettivi da raggiunge- re e alle scoperte già conquistate dal bambino sia un buon punto di partenza per cercare di progettare giocattoli stimolanti e soprattutto divertenti. Par- tendo da questo presupposto, ho cercato di indagare il mondo dell’infanzia costruendo una base imprescindibile sulla quale elaborare e valutare nuovi concept di gioco; ovviamente i primi aspetti considerati sono stati quelli universali, legati allo sviluppo nell’area motoria, psichica e affettiva. Si aggiunge a queste anche l’area dello sviluppo ludico in cui si intrecciano diversi fattori ed emergono le tipologie di giochi e giocattoli più adatte ai diversi momenti della crescita. Mi stimolava l’idea di cercare di leggere il gioco come un fenomeno che si manifesta in un preciso momento a partire
  • 10. 10 dalla necessità di acquisire alcune capacità specifiche e continua divertendo il bambino fintantoché quella abilità non è stata assimilata (il divertimento del bambino si accompagna sempre alla crescita o all’acquisizione di nuove conoscenze–abilità). Lo scopo della mia ricerca è di leggere in quest’ottica le manifestazioni del gioco infantile cercando, su questa base logico–analiti- ca, di costruire una serie di tabelle/mappe che si possano porre alla base di una nuova metodologia di progetto, applicabile ai prodotti per l’infanzia. Per rendere questo materiale utilizzabile ho cercato di sintetizzarlo in map- pe concettuali di facile consultazione, aspirando alla costruzione negli anni a venire di un vero e proprio “Atlante di Giocologia”. Lo sviluppo psicofisico del bambino non è certo l’unica chiave di lettura del toy–design. Se il gioco è un vettore di sviluppo indispensabile per superare i momenti più critici della crescita fisica, intellettuale e affettiva, probabilmente si può pensare di invertire i termini in gioco: progettare giochi partendo da problematiche reali da superare (nel rispetto dei vincoli posti dallo sviluppo stesso). Partendo di volta in volta da problematiche differenti, reali e sentite, non solo si risponde alle esigenze più profonde del bambino ma si riesce ad evi- tare di cadere nel facile errore del lasciarsi condizionare troppo da un siste- ma progettuale (che può portare ad irrigidirsi troppo su alcuni passaggi o soluzioni già sperimentate). Ogni nuovo problema da affrontare può essere combattuto attraverso un gioco studiato per la situazione specifica, così un gioco può guidare l’acquisizione di una nuova abilità (e può essere pensato a partire proprio dai contenuti che vuole trasmettere). Con la mia tesi vorrei provare ad avvicinarmi ad una tematica molto seria e attuale: il rapporto tra i bambini e la paura affrontandola attraverso il gioco cercando di incanalarne la forza in un’attività ludica. Oggi il sentimento della paura, un’emozione fondamentale e particolarmente importante ai fini della crescita e della sopravvivenza, tro- va terreno fertile in cui crescere e svilupparsi spesso oltre i limiti della normalità. La vita frenetica e solitaria delle metropoli, le vicissi- tudini internazionali non certo incoraggianti, l’allarmismo diffuso a gran voce dai mass–me- dia e i fantasmi del terrorismo certamente non aiutano i bambini a crescere in un mondo se- reno. Troppo spesso oggi anche gli adulti sono vittima di fobie e forti stati di paura; aumenta infatti di anno in anno nel mondo occidenta- le il numero delle persone afflitte da patologie legate all’ansia e dalla sindrome da attacchi di � enunciato della tesi: questo schema cerca di illustrare il ragionamento logico dal quale nasce l’ipotesi della mia tesi. Se consideriamo valida l’ipotesi che il gioco si manifesti in risposta a specifiche esigenze del bambino legate allo sviluppo e a particolari problemi da affrontare possiamo considerare la possibilità di progettare giochi partendo dall’analisi dei fattori di crescita e dei problemi legati allìinfanzia cercando di indagare su come questi possano essere tradotti in giocattoli.
  • 11. idea di gioco non indagabile indagabile fenomeno del gioco TOY DESIGN giocatore -bambino- divertimento + crescita gioco o giocattolo crescita gioco come causa Essere Divenire Noumeni: il mondo delle essenze è inconoscibile e indescrivibile. Fenomeni: la realtà che conosciamo attraverso i sensi è riconoscibile e identificabile relazione Il gioco è per il bambino un fattore di crescita determinante gioco come effetto Lo stadio di sviluppo in cui si trova il bambino determina la scelta dei giochi con i quali si intrattiene giocando si impara il gioco cresce con il bambino sviluppo motorio sviluppo psichico sviluppo affettivo altre aree di crescita educazione
  • 12. 12 panico. Credo che oggi più che mai possa essere utile cercare di proporre gio- chi che aiutino il bambino ad imparare a affrontare la paura; è importante cominciare a confrontarsi con questo sentimento a partire dalla più tenera età. La ricerca tratta il tema della paura inquadrandola dapprima in un ot- tica generale (lo studio delle emozioni e la funzione evolutiva della paura); focalizzandosi poi, in modo più specifico sulle paure infantili più diffuse proponendo alcune strategie con le quali affrontarle. Per concludere ho deciso di affrontare la parte progettuale della tesi concentrandomi su una paura specifica: per il suo carattere universale e per la grande diffusione ho deciso di cominciare ad applicare i risultati della ricerca a partire dalla paura del buio. In proposito ho sviluppato alcuni progetti; ognuno dei quali corrisponde ad una specifica strategia per affrontare la paura. Le strategie prese in considerazione sono state: l’approccio cognitivo, ovvero la spiega- zione analitico–razionale degli eventi o l’evidenza dei fatti, sviluppato nel progetto NANNA–GANGA; la ritualità, ovvero la creazione di amuleti, riti e la rappresentazione, punto di partenza per MIGHTY–LIGHT; l’esperienza, come esperienza reale vissuta in prima persona o fruita attraverso la narra- zione, che hanno ispirato il progetto di LITTLE–BRITE e di LIGHT–BOOK. Il metodo Nelle pagine di questa tesi è possibile incontrare molti grafici e tabelle rias- suntive che rendono i contenuti evidenti anche a chi sfoglia questo volume per la prima volta. L’idea di schematizzare i risultati della mia indagine in mappe-tabelle al fine di rendere questo materiale utilizzabile in fase di progetto è stata ispira- ta dall’incontro con l’affascinante metodologia“triz”: un geniale approccio al “creative problem solving”. Questo metodo molto interessante nacque a partire dal 1946 ad opera del celebre ingegniere sovietico Genrich Altshul- ler. L’obiettivo del Triz (acronimo di “Teoriya Resheniya Izobreatatelskikh Zadatch”, traducibile in “Teoria per la Soluzione di Problemi Creativi”) è di riuscire a catturare e schematizzare sia il processo creativo che quello tecni- co, rendendo così questi processi ripetibili ed applicabili ai problemi futuri. Il mio lavoro ovviamente non pretende di analizzare un campo d’indagine così ampio; mi piacerebbe però riuscire a cogliere qualche meccanismo in-
  • 13. 13 teressante che possa rivelarsi utile per cercare di portare un po’ di innovazione costruttiva nel campo del toy de- sign. Altshuller, il padre della metodologia “triz”, lavo- rava nell’ufficio brevetti della Marina Militare Sovietica e decise di analizzare le innovazioni con cui aveva a che fare per cercare di dedurne delle costanti. Altshuller stu- diò più di 200.000 brevetti ed arrivò, attraverso un este- nuante lavoro di schematizzazione e astrazione, ad indi- viduare alcuni schemi comuni che si ripetevano nei diversi ambiti fornendo “regole generali” (patterns of technological evolution) per l’evoluzione dei sistemi tecnici, e dei “principi” (inventive principles) che caratterizzano le modalità con cui i problemi, ovvero le contraddizioni tecniche, vengono ri- solte. Uno dei concetti alla base della metodologia TRIZ è il “risultato finale ideale”(Ideal Final Result). Secondo questo concetto, i sistemi tendono ad evolvere verso una sempre maggiore idealità, dove questo termine è da in- tendersi come il rapporto fra la somma di tutti i fattori utili (la funzione primaria del sistema e tutte le funzioni ausiliarie che aiutano a realizzare la funzione primaria) e la somma dei fattori inutili ed indesiderabili. La riso- luzione innovativa delle contraddizioni che ogni progetto tenta di risolvere (come ad esempio il tentativo di conciliare alta qualità con bassi costi di pro- duzione) è per Altshuller la vera chiave di lettura della creatività. Cercando di applicare al mio studio sul gioco il concetto dell’idealità (come incontro tra funzioni primarie del gioco e problemi da superare) ho posto alla base del mio sistema personale l’ipotesi che la funzione primaria del gioco sia la crescita (da intendersi in tutte le possibili sfumature e in larga misura da problema concreto da risolvere soluzione concreta -PROGETTO- astrazione del problema metodologia triz -Contraddizioni -Idealtità -Principi ideativi -Soluzioni standard astrazione della soluzione � schema concettuale della metodologia triz: Il TRIZ è un metodo per il problem solving di problemni creativi. La sua struttura è molto interessante e i risultati che si pone l’obiettivo di raggiungere (innovazione, generazione di nuove idee, diminuzione e superamento dei fattori critici) sono simili a quelli che mi piacerebbe raggiungere un giorno elaborando un mio metodo progettaule.
  • 14. 14 considerarsi come universale) e i problemi con cui la crescita si scontra po- tessero essere i più svariati (o semplicemente dei momenti particolarmente delicati del processo evolutivo stesso). La lista dei fattori indesiderabili è in effetti molto lunga e di difficile analisi ma a mio avviso può essere scissa in due grandi famiglie di problemi: i problemi relativi alla vita dei bambini di oggi (la solitudine, l’obesità, la paura, il rapporto con i media, lo scontro tra un modello di crescita ideale e una realtà contemporanea spesso troppo difficile da capire ed accettare anche per un adulto) e i problemi specifici che affliggono il mondo del giocattolo (come l’appiattimento dell’offerta, la globalizzazione, la violenza dei contenuti, l’alienazione legata alle for- me ludiche più diffuse, la mole di materiale ludico che invade le case dei bambini abituati a consumare in modo bulimico fin dalla più tenera età, ecc.). In questo primo step dello sviluppo del mio“Atlante di giocologia” ho deciso di concentrarmi solo su uno di questi aspetti critici e in particolare ho desiderato approfondire il tema della paura che considero particolarmente interessante. Per Altshuller ogni problema-soluzione per essere analizzato deve essere ricondotto, attraverso una astrazione, ad un modello generale al quale applicare un “principio risolutivo”. L’analisi effettuata sui brevetti sovietici aveva convinto lo studioso che i principi risolutivi prendessero le mosse da un numero finito di schemi risolutivi base da declinare di volta in volta adattandoli al problema specifico. Allo stesso modo ho cercato, nel mio piccolo, di riuscire ad individuare quelli che potessero essere nel toy design i modelli più ricorrenti e i principi risolutivi adottati (schematizzan- doli in una mappa del giocattolo che ne pondera diversi aspetti costitutivi e funzionali). Devo riconoscere che l’idea di riuscire a costruire qualcosa di simile al triz, un sistema tanto complesso ed ingegnoso, è molto ambiziosa e sicuramente non può essere realizzata in pochi mesi (e nemmeno in un paio d’anni). Con questa tesi ho cercato di gettare le fondamenta di questa ricerca forse utopistica che spero di riuscire a portare avanti nel mio futuro professionale. Per il momento l’analisi si è mossa principalmente nell’am- bito delle funzioni primarie che il gioco svolge all’interno del sistema di cre- scita del bambino, ha analizzato alcuni giochi attualmente in commercio evidenziandone i contenuti ludici e la loro correttezza rispetto al sistema di riferimento (il bambino) e ha indagato il ruolo e la funzione che il sentimento della paura ri- veste oggi nell’ottica di come questo possa esse- re affrontato attraverso il gioco. � schema concettuale della tesi: in questo schema sono riportati i temi che andrò a toccare nella ricerca facendo particolarmente attenzione ai contenuti delle diverse sezioni della tesi e agli schei concettuali che sono stati realizzati.
  • 15. il gioco Definizione Funzioni Teorie ed interpretazioni Definizione Manifestazioni Tipologie e differenze Le paure infantili Strategie per affrontarla Storia Tipologie e funzioni contraddizioni del gioco interpretazioni e funzioni Sviluppo psichico Sviluppo fisico Sviluppo sessuale Sviluppo dei bisogni ludici Classificazioni e specie Paurometro Reagire alla paura Tipologie di paura Evoluzione delle paure infantili Strategie per affrontarla il bambino temicontenuti schemi il giocattolo scenari-ipotesi di progetto la paura + + + = Sviluppo psichico Sviluppo fisico Sviluppo sessuale Sviluppo dei bisogni ludici
  • 17. 17 Papà.papà...Gioco cosa significa? È davvero difficile cominciare parlare di un argomento smisurato e insidioso come il gioco. Il linguaggio comune chiama giochi una serie di attività mol- to diverse tra loro, come costruire una torre con dei cubi, agitare un campa- nello, giocare a carte, rincorrere un amico, fingere di volare, dondolarsi su un’altalena, spalmarsi un po’ di omogeneizzato tra i capelli, premere alcuni tasti di un computer, saltellare su numeri disegnati a terra, accarezzare un coniglio di pezza e persino acquistare un tagliandino del lotto in tabacche- ria. I giochi possibili sono praticamente infiniti e ogni attività può essere fatta“per gioco”. L’analisi dei comportamenti che si mettono in atto giocando non spiega as- solutamente l’intensità dell’esperienza ludica né il perché della “tensione” e del “desiderio” che si provano giocando. La stessa sequenza dei gesti non dice nulla sul perché delle grida di piacere dei bambini che giocano, sulla passione dei giocatori incalliti, del delirio delle folle di sportivi rapiti da una competizione. Forse è una follia cercare di arginare il fiume di definizioni relative al verbo giocare ed alla parola gioco quali sono emerse ne corso dei secoli ed anche raccogliendole e ordinandole si potrebbero riempire decine e decine di pagi- ne senza riuscire poi a sviscerarne l’essenza. Persino il dizionario, piuttosto che chiarire le idee, riesce in un certo modo a complicare la definizione e ad offuscare l’immagine più o meno chiara che ognuno di noi inevitabilmente ha del gioco. Questo viene definito ora come “esercizio compiuto da bambini o adulti per svago, divertimento o sviluppo di qualità fisiche e intellettuali” ora come “gara tra più persone, svolta secondo regole prestabilite”. Se da un lato il gioco si fa “Gioco da ragazzi, cosa molto facile” poche righe dopo si tra- sforma in “Attività intricata e rischiosa: il vostro è un gioco pericoloso” o anche “Scherzo, beffa: Per gioco, scherzosamente; Farsi, prendersi gioco di qualcuno”. Esso inoltre può essere un oggetto, vuoi un “Insieme di carte, pezzi o altro necessari per un gioco: gioco degli scacchi”, vuoi un’azione “Azione: Il gioco della fortuna; Combinazione di effetti, in fenomeni fisici: giochi d’acqua e di luce; Gioco di parole, bisticcio, doppio senso”. Forse ha ragione Marco Battacchi ( docente di Psicologia dell’età evolutiva dell’Università di Bologna ) quando afferma che: “La più semplice ed esatta de- finizione del gioco è tautologica: il gioco è il gioco. Il gioco in effetti è tutto un paradosso. È liberatorio ma insieme regolato, unisce ma insieme separa il reale dall’immaginario in uno
  • 18. 18 spazio transizionale in cui le cose sono ciò che non sono pur rimanendo quello che sono, è di- vertimento ma insieme bisogna prenderlo sul serio per divertirsi, non è lavoro ma insieme è indispensabile per l’attività produttiva.” 1 È proprio nella paradossalità del gioco che risiede il suo fascino, il suo va- lore, ma anche il suo pericolo. Se da una parte il gioco si collega alla creati- vità, alla logica e alla pedagogia dall’altra ammicca al sogno, alla fantasia, al delirio; col gioco si trascende il dato, ci si fa complici, si inganna e si è ingannati, si delude e si è delusi: “..con il ludico si allude, ma anche si collude, illude e delude”. La scandalosità del gioco sta forse nel cercare di definirlo, comprenderlo ed usarlo, come ha detto Huizinga: “…cercanodidefinirelanaturaeilsignificatodelgio- co e di assegnargli il suo posto nell’ordine della vita.Tutte queste spiegazioni hanno in comune la supposizione che il gioco avvenga in funzione di un’altra cosa, che serva ad una data utilità biologica. Ci si chiede: perché e a che fine si gioca? E le conseguenti risposte non si escludono affatto. […] Ne consegue che tutte sono soltanto spiegazioni parziali […] La maggior parte di questi tentativi d’interpretazione si occupa solo in un secondo tempo della domanda che cosa sia il gioco in se, che significhi per i giocatori stessi.” 2 Se per un adulto il gioco rappresenta un momento di svago e ricreazione per riprendersi dalla giornata di lavoro da cosa dovrebbe riprendersi un bambi- no? “I giochi dei bambini non sono dei giochi, bisogna invece valutarli come le loro azioni più serie” scrive Montagne. Spesso il gioco infantile viene visto come una modalità di essere del bambi- no e viene definito “il mestiere del bambino” che trasforma l’ambiente in una serie complessa ed avvolgente di giocattoli educativi. Con questo non intendo negare le numerose teorie che vedono nel gioco l’attività caratteristica del bambino, con il quale si svi- luppano ed esercitano le funzioni e le abilità necessarie alla vita adulta, ma piuttosto vorrei sottolineare come si possa continuare a giocare tutta la vita anche quando le strutture fisiche e mentali sembrano perfettamente acquisite e funzionanti. Giocare è indub- biamente un’attività infantile ma, a dirla tutta, rimanere bambi- ni è importante quanto crescere e diventare grandi. Spesso alcune attività adulte vengono paragonate, per lo spirito con cui vengono intraprese, al gioco infantile. Per potere creare, capire e crescere è necessario prendersi la libertà di fermare il tempo e rimescolare le proprie idee sporcandosi le mani e dimenticando tutto; come in un grande gioco intellettuale si intrecciano la capacità logica–combi- natoria e la capacità di immaginare il teoricamente possibile, dan- do libero sfogo alla fantasia senza dimenticare i vincoli logici. Con questo intendo dire che la creatività in parte è gioco e che, come Cosa hanno in comune le bolle di sapone, il bingo, un flipper, la play–station e una girandola? 1 Marco Battacchi, Il gioco nella formazione della personalità, estratto da Aa.Vv., Il gioco, la nuova Italia, Scandicci 1986. 2 Johan Huizinga, Homo Ludens, Il Saggiatore, Milano, 1964.
  • 20. 20 insegnano li studiosi del “genio creativo” ( De Bono, Goleman ecc ), i campi di applicazione sono i più svariati. In fondo, come sostiene Schiller,“…l’uo- mo è pienamente tale solo quando gioca”. Proseguiamo quindi con la ricerca. Nella coscienza comune il gioco si op- pone al concetto di serietà, ma anche in questo caso la definizione non è pienamente accettabile. Il gioco può essere preso molto sul serio ( provate a interrompere un bambino piccolo che gioca ) e nell’associare il gioco ad una certa non–serietà si rischierebbe di vederlo come un’attività necessariamen- te divertente, qualcosa con cui ridere. Un gioco di parole può sì fare ridere, ma una partita di scacchi decisamente no. È possibile affermare che ogni gioco è un atto libero; è libertà. Il gioco a comando non è gioco. Si può essere esortati o guidati ma l’espressione del- la libertà individuale nel decidere di giocare e nello sviluppo dell’azione è innegabile. C’è chi obietta che per i bambini e i per i cuccioli il gioco nasca da un istinto naturale che lo rende necessario annullando così la libertà di scelta. Per gli adulti sicuramente il discorso è valido ed è evidente che il gioco in questo caso è qualcosa di superfluo che si potrebbe tralasciare se non fosse per il desiderio stesso di farlo. Tuttavia il dibattito sul rapporto tra gioco e libertà è ancora aperto e nel corso dei secoli ha appassionato numerosi scienziati e pensatori come il celebre Gregory Bateson che proprio a questo argomento ha dedicato un libro molto interessante intitolato “Questo è un gioco. Perché non si può mai dire a qualcuno gioca”. Un’ulteriore diatriba legata alla definizione del concetto di gioco nasce dalla molteplicità dei termini con i quali nelle diverse lingue ci si riferisce a que- sta attività. Nel linguaggio comune ognuno è in grado di capire subito che parlando di gioco ci riferiamo ad un’azione volontaria compiuta entro determinati limi- ti di spazio e di tempo, secondo una serie di regole volontariamente assunte, che impegna in maniera assoluta, che ha fine in se stessa e si accompagna ad un senso di gioia e alla consapevolezza di essere in uno stato diverso dalla “vita ordinaria”. La lingua italiana accoglie sotto la definizione di gioco un numero immenso di varianti mentre in altre lingue non esiste un concetto generale al quale ricondurre le diverse forme ludiche. Mi sembra interessante sottolineare questi aspetti linguistici in quanto la nostra definizione “universalizzata” non mette in luce chiaramente alcune differenze tra i diversi giochi. Il greco antico ad esempio per parlare del gioco, che era una componente fondamentale anche della vita adulta, utilizzava non meno di tre termini.
  • 21. 21 Presentava una desinenza unica, — inda, per indicare il gioco infantile ( gio- care alla palla —sfairinda, al tiro alla fune —helkusinda, ecc.. ). Il greco utilizzava innanzitutto la parola Paidìa per indicare la maggior parte dei significati della parola gioco, in particolare se inteso nelle sue accezioni allegre e spensierate come il gioco dei bambini e quant’altro venisse con- siderato non–serio. Tuttavia dalla definizione di Paidìa rimaneva escluso il campo delle giostre e delle gare per i quali veniva utilizzato il termine Agòn. In questo termine l’aspetto ludico ( inteso qui come svago e divertimento ) viene posto in secondo piano mentre l’attenzione si sposta sul concetto di regole e di competizione portando questo gioco ad occupare una postazione di grande rilievo nella cultura ellenica. Il sanscrito usava quattro termini per esprimere il concetto di gioco. Il vocabolo più utilizzato era kridati, utilizzato per il gioco di bambini, adul- ti ed animali. La parola si riferisce ad un’idea di movimento, di saltelli e danze, ma talvolta viene utilizzata anche per descrivere il movimento delle onde e di ciò che viene mosso dal vento. Ricadevano in questa area che le danze e le rappresentazioni. Con il termine divyati veniva indicato prima di tutti il gioco dei dadi ma anche in generale il concetto di scherzare, canzo- nare, trastullarsi. Il sostantivo lila indicava l’elemento arioso, spensierato e insignificante del gioco. Per ultimo il termine vilasa era legato al concetto di gioco ma forse significava più che altro“avere un’occupazione”. In cinese troviamo il termine wan che indica il gioco dei bambini e le mani- festazioni ludiche scherzose e di movimento. Questo termine non è adatto per il gioco di abilità, né per la gara ( cheng ), né per la rappresentazione e nemmeno per i dadi e gli altri giochi legati al caso. Il giapponese al contrario utilizza un termine unico per esprimere i diversi concetti. Allo stesso mondo anche nel latino troviamo un termine unico per esprime- re tutto il dominio del gioco e del giocare: ludus e ludere. Anche se esiste iocus con l’accezione più specifica di scherzo o burla, il significato di “ludus” è praticamente onnicomprensivo e si riferisce al gioco dei bambini, alle gare, alle rappresentazioni liturgiche e sceniche, al gioco d’azzardo o alla danza. Si arriva a trasformare in ludi i giochi olimpici e ludus ha pure il senso di scuo- la, probabilmente a partire dal concetto di esercizio. È molto interessante il caso della lingua inglese in cui troviamo la contrap- posizione tra i termini game e play. Il verbo inglese to play, così come il tedesco pflegen significa gioco, e giocare e si lega qui a concetti di movimento come battere le mani, eseguire movi- menti veloci, suonare uno strumento e anche recitare. Questo significato è legato perlopiù ad azioni concrete ma anticamente includeva senza dubbio
  • 22. 22 valenze cerimoniali come è riscontrabile nei “Plays” didascalici aventi per soggetto i Miracoli che furono a lungo le uniche rappresentazioni teatrali pensabili del Medio Evo. Possiamo affermare che nella lingua inglese il game sia essenzialmente il gioco strutturato mentre play sia anche il giocherellare fine a se stesso. Il game è la partita, di solito competitiva o – come nei videogiochi – una sor- ta di sfida a superare se stessi, caratterizzata da regole consensualmente accettate e spesso imposte dall’esterno o dalla situazione. Questa parola, che si giustifica in vari settori, è ancora e da sempre usata nella caccia che si esprime attraverso codici, regole e le finalità funzionali. La vittima – o la preda del gioco coordinato o individuale portato avanti dai cacciatori – viene definita essa stessa game. Teorie edinterpretazioni storiche del gioco Fatta questa inevitabile premessa sull’impossibilità di definire in modo esauriente il gioco mi sento libera di riportare alcune teorie sul gioco e di esprimere alcune opinioni in proposito. Ogni definizione, per quanto limitata, mette in luce un particolare aspetto della spinosa questione, aggiungendo un minuscolo tassello all’idea astrat- ta che ognuno di noi si è fatto del gioco. La complessità che si incontra parlando di giochi è proporzionale alla com- plessità del ragionamento necessario a pensarlo: si dovrebbe quindi proce- dere su diversi livelli come l’estensione del fenomeno, la varietà delle forme in cui si presenta ai nostri occhi e per finire anche la mutevolezza dei punti di vista possibili poiché il numero delle discipline che si sono occupate e si occupano di studiare il fenomeno–gioco si allunga di giorno in giorno. Prima di ogni altra cosa è impressionante considerare l’estensione del fe- nomeno; il gioco non è una prerogativa infantile ma è riscontrabile anche nell’adulto e, come emerge sin dai primi studi etologici sull’argomento, è ampiamente diffuso anche nel mondo animale ( in diverse forme che spa- ziano dalla lotta tra cuccioli alle danze rituali di accoppiamento ). Vi è in esso qualcosa di universale che lo fa comparire ad ogni distanza spazio–tem- porale e che fa ricadere sotto questa definizione una varietà di comporta- menti fortemente diversificata. Ogni essere pensante è in grado di giocare
  • 23. 23 e ciascuno è in grado di creare una rappresentazione mentale dell’idea di gioco. Il gioco è innegabile. “Si possono negare quasi tutte le astrazioni: la giustizia, la bellezza, la verità, la bontà, lo spirito, Dio. Si può negare la serietà. Ma non il gioco.” — Huizinga Per parlare delle teorie sul gioco è forse necessario partire da una breve sin- tesi storica per cercare di definire quando e come il gioco cominciò a entrare tra i campi di indagine umana. L’interesse umano per il gioco nasce con l’uomo stesso; già Platone ( 427–348 a.c. ) se ne interessò vedendo nel gioco una delle attività umane fondamen- tali e sottolineandone l’utilità e la funzione educativa. Egli considerava il gioco come un esercizio preparatorio ai compiti della vita: il bambino che gioca, attraverso la manipolazione di piccoli oggetti e la finzione apprende e sperimenta i gesti che compirà in futuro proiettandosi, attraverso il gioco dei mestieri, nei suoi futuri possibili. Anche Aristotele ( 324–322 a.c. ) è dell’idea che la maggior parte dei giochi nasca dall’imitazione delle occupazioni dell’età adulta e che svolga una fun- zione propedeutica: il bambino, stando a questa teoria, deve essere incorag- giato a giocare a quel tipo di attività che vorrebbe fare da grande. È facile notare come la nozione di gioco fosse nell’antichità legata solo alla sfera prelavorativa ( nella sua componente positiva da incoraggiare ). Non veniva ancora contemplata e apprezzata la valenza intrinseca del gioco come attività dilettevole non finalizzata al raggiungimento di un risultato; il bambino veniva esortato a giocare esclusivamente per imparare. Tommaso d’Aquino ( 1266–1274 ) considera il gioco come un bene in se stesso: “il divertimento certo non è ordinato a un fine estrinseco, è però ordinato al bene di chi si diver- te, in quanto è cosa piacevole e riposante”. Lo studio delle successive teorie sul gioco credo debba partire dall’analisi di due correnti di pensiero tanto importanti da essere comunemente conside- rate le basi per ogni ulteriore teoria.Si tratta degli studi di Johan Huizinga e Roger Caillois che affrontano il tema della significazione del gioco all’inter- no di diverse società considerandolo il prodotto culturale per eccellenza. Per Huizinga il gioco permea ogni attività umana. La sua visione filosofi- ca parte dall’idea che la giusta definizione dell’uomo non sia homo faber o homo sapiens ma piuttosto homo ludens in quanto proprio il concetto di gioco permette alla cultura e alla società di nascere e svilupparsi. Seguendo questa interpretazione ogni produzione umana viene letta come manifesta- zione di gioco. Linguaggio, mito, culti religiosi e ogni altra manifestazione culturale vengono letti come un gioco. La società stessa è un gioco al quale bisogna partecipare, essendo costituita da un insieme di regole da rispetta- re e di compiti da svolgere.
  • 24. 24 Diversa è la posizione di Groos per il quale l’attività ludica è sì manifesta- zione della cultura, ma nel senso che ne costituisce una degenerazione. In altri termini, il fenomeno del gioco si determina come critica della cultura dogmatica, colta, e delle istituzioni, è quindi un otium che richiama l’altra polarità del negotium, in una prospettiva già classica, possiamo dire. Huizinga si sofferma in particolare sull’analisi della società rinascimentale nella quale gli aspetti ludici conoscono uno dei periodi di maggiore splendo- re. Partendo da questa prospettiva prosegue supponendo che un massimo di civiltà sociale significhi un massimo di presenza di gioco in essa e la sua tesi è supportata anche dal ruolo non secondario che questo ebbe nelle grandi civiltà del passato, come quella greca e romana. Il Rinascimento però resta sicuramente l’epoca in cui nel mondo occidentale è più evidente la presenza del gioco. Questa tendenza è documentata da diversi trattati sui giochi, sia da tavolo come gli scacchi e le carte, sia giochi sportivi che costituiscono anch’essi testimonianza del modo di vivere di uno dei periodi di maggiore splendore e attività intellettuale in Europa. Questo atteggiamento favorevole prende le mosse da una numerosa serie di concause; una è certamente la necessità di allentare le tensioni interne, sociali e psicologiche, sublimandole nel gioco; la società rinascimentale ap- pare agli occhi dello studioso piena di conflitti tanto nella sfera quotidia- na quanto in quella degli eventi storici. La trasformazione della guerra nei duelli giocosi ravvisabili nei poemi cavallereschi ne è una prova. L’attenzione per il gioco inoltre cresce di pari passo con la contrapposizione tra lo spazio–tempo impegnato per il lavoro e quello dedicato alle attività ludiche, ovvero dal grande conflitto tra lavoro e riposo, contrasto particolar- mente sentito anche nelle società occidentali contemporanee. È forse pro- prio la presenza di grandi conflitti e apparenti contraddizioni a giustificare anche ai giorni nostri una presenza così forte del gioco. Con Huizinga ( 1939 ) abbiamo un contributo teorico notevole e molto impor- tante per la sfera dell’attività ludica. Egli sostiene che il gioco deve essere visto al di fuori della razionalità e della sfera dell’utile e del bisogni. “Il gioco è più antico della cultura” continua Huizinga, è anzi la fonte di ogni cul- tura che ha nelle sue stesse fasi iniziali il carattere di un gioco che conserva nelle tante sue manifestazioni ( arte, letteratura, teatro, musica, religione, politica ecc. ). La civiltà, quindi, sorge nel gioco e come gioco. Huizinga individua, inoltre, alcune caratteristiche dell’attività ludica, de- scrivendola come: — libera: il gioco deve essere spontaneo non obbligato pena lo snatura- mento del gioco stesso; — separata: il gioco deve essere svolto in uno spazio e in un tempo rita-
  • 25. 25 gliati appositamente e anticipatamente; — incerta: lo svolgimento del gioco e il suo risultato non possono essere definiti in anticipo; — improduttiva: il gioco non crea ricchezza. Semplicemente provoca un passaggio di proprietà da un giocatore all’altro tale da ritornare ad una situazione identica a quella di partenza; — regolata: nel gioco sono annullate le regole reali e viene instaurata una convenzione nuova tra i giocatori; — fittizia: nel gioco è annullata la dimensione reale e si viene calati in una realtà altra. Huizinga non fa una classificazione né una descrizione dei vari giochi; in- vece Roger Caillois ( 1967 ) si colloca in un’ottica strutturale e propone una suddivisione dei giochi in quattro macro categorie: — l’Agon: il gioco è caratterizzato dalla competizione; — l’Alea: il gioco è caratterizzato dal caso, la fortuna, l’azzardo. Ci si ab- bandona qui ad una sorta di passività come ad esempio durante le fi- lastrocche per fare la conta, il testa e croce, le lotterie, il gioco dei dadi ecc; — la Mimicry: il gioco è caratterizzato dalle ricerca della simulazione, del- la finzione, come nel teatro, nel gioco con la bambola, nel travesti- mento ecc; — l’Ilinx: il gioco è caratterizzato dalla ricerca del rischio, del brivido come nel dondolare con l’altalena, girare sulla giostra, andare sulle montagne russe ( vengono anche definiti giochi di vertigine ). Le quattro categorie descritte sono, inoltre, suddivise da Caillois in Paìdia ( gioco libero, improvvisato, spontaneo ) e Ludus ( gioco regolato, che richiede uno sforzo o una particolare abilità ), beninteso che la paidia è presente an- che nelle forme di gioco regolate proprie dell’età adulta. Callois, come Huizinga, vede il gioco come sintesi della cultura di un epoca. Caillois afferma che è possibile ricostruire le diversità tra società differenti sulla base dei giochi che in essa predominano. Egli pone anche l’accento sul gioco inteso come sistema di regole; questo determina una lettura integrale dei vari giochi, sia di carattere socio–motorio sia di tipo intellettuale tout court. Abbiamo visto finora come il gioco, nel corso del tempo, abbia svolto la funzione di rivelatore dell’intima natura delle diverse civiltà. Affrontiamo ora il discorso ponendo al centro dell’attenzione il bambino e facendo riferi- mento alle teorie in merito elaborate nel settecento a partire dalle opere di Rousseau. Jean–Jacques Rousseau ( Ginevra, 1712 – Ermenonville, 1778 ) partì da un atto di accusa nei confronti della società che degrada la natura umana propo-
  • 26. 26 nendo di salvaguardare il bambino dai pericoli della contami- nazione limitandolo nelle sue possibilità di espressione. È la prima volta che l’infanzia trova una collocazione effettiva nella vita degli adulti differenziandosi da essa. È a partire da questo momento che l’infanzia comincia ad essere considerata come una realtà diversa dal- la vita adulta e sottoposta a meccanismi e regole differenti. I bambini non vengono più considerati come uomini e donne in miniatura ( o omuncoli ) ma semplicemente come bambini che stanno affrontando un percorso di formazione. Nel pensiero di Rousseau troviamo, quale nota dominante, il tentativo di ritorno alla genuina spontaneità della natura: affinché un individuo possa esprimersi secondo ciò che è realmente, è necessario che sin da piccolo sia libero di giocare, di scoprire il piacere dell’attività ludica. Viene così valoriz- zata l’iniziativa personale, l’attività ludica, individuale o di gruppo, intesa come bisogno espansionistico e come motivo educativo. Non bisogna quindi mai pretendere di vedere nel fanciullo l’uomo, bensì limitarsi ad asseconda- re e a favorire la maturazione di quelle facoltà conoscitive e pratiche cui la natura stessa ha predisposto l’essere umano secondo un certo ordine e una certa gradualità. ...nel pensiero di Rousseau troviamo, quale nota dominante, il tentativo di ritorno alla genuina spontaneità della natura..
  • 27. 27 C’è in Rousseau, e negli uomini del suo tempo, una radicata concezio- ne della natura come forza promotrice e contemporaneamente come gui- da dell’educazione: un atteggiamento di rispetto della spontaneità e della originalità del bambino e un adeguamento alle esigenze psicologiche delle successive fasi educative. Con il“mito del buon selvaggio” il pedagogo affer- ma la necessità di permettere al bambino la scoperta della sua naturalezza e della sua spontaneità come rivelatrici del suo proprio essere: per fare ciò il bambino ha bisogno di giocare, del gioco come fine a se stesso. La natura in Rousseau è intesa sia come natura esterna da cui il fanciullo “dipende” per ricevere stimoli o correzioni sia come natura interiore, l’in- sieme, cioè, delle sue attitudini, delle tendenze e degli istinti, motivi ori- ginari e intimi del bambino che lo spingono intensamente ad uno stato di attivismo personale. Su questa stessa linea di pensiero si colloca la teoria di Froebel. Egli parte dal concetto filosofico che in ogni bambino esiste uno spirito divino, una forza attiva di tensione che nel fanciullo si manifesta proprio sotto forma di gioco. Secondo Froebel “cifidiamotroppopocodell’energiadelbambino”. Osservando un bambino che gioca si può notare come accanto alla spiccata capacità di interiorizzazione ( il desiderio costante di conoscere le cose, gli oggetti, le dinamiche ), ci sia la volontà di estrinsecare i propri sentimenti tramite la tendenza al gioco e all’imitazione della vita degli adulti.”Giocare, configurare, costruire sono i primi teneri fiori della giovinezza”. Froebel ama paragonare il bambino ad una pianta che cresce in piena libertà senza che l’adulto possa dirigerne o condizionarne la direzione dei rami. Non un’infanzia plasmabile dalla società, quindi, ma un giardino in cui il bambino vuole auto–educarsi e sperimentare le cose da solo, per esternare la forza divina che è in lui: “…ilgiuocare,ilgiuococostituisceilpiùaltogradodellosviluppo del bambino poiché è la rappresentazione libera e spontanea dell’interno, la rappresentazione dell’interno per necessità ed esigenza dell’interno stesso. Il giuoco è la manifestazione più pura e spirituale del fanciullo e insieme l’immagine e il modello della complessiva vita umana, del- l’intima, segreta vita naturale nell’uomo e di tutte le cose. Esso procura quindi, gioia, libertà, contentezza, tranquillità in sé e fuori di sé, pace con il mondo. Le fonti di ogni bene giacciono in esso, da esso sgorgano”. 3 Nel gioco secondo Froebel confluiscono l’attività cognitiva e l’attività creati- va del bambino: l’attività ludica gli consente di conoscere la realtà, mentre la natura con le sue regole,e su questa base, gli permette di sperimentare la creazione di cose nuove. Ancora è molto interessante e originale l’interpretazione del fenomeno gio- co data da alcuni studiosi darwiniani dell’ottocento che vedono in esso un residuo di funzioni ataviche, secondo cui il soggetto riproduce spontanea- 3. Friedrich Froebel, L’educazione dell’uomo e scritti scelti, Cedam, Padova, 1937.
  • 29.
  • 30. 30 mente alcune attività dei lontani predecessori che oggi appaiono inutili. Secondo l’interpretazione di Stanley Hall il soggetto in età evolutiva replica empiricamente nel fenomeno–gioco il percorso della specie umana. Le fasi del gioco, infatti, procedono da espressioni non complesse, di carattere sen- somotorio, alle più mature, collegate ai processi imitativi e sociali. Buytendijk scorge nell’attività ludica la manifestazione normale dello svi- luppo dei soggetti più giovani, radicata nelle pulsioni emozionali di attra- zione e repulsione verso l’ignoto. Per Herbert Spencer l’attività ludica nasce dal bisogno di liberarsi di forze a base biologico–istintuale. In altre parole, il gioco è una strategia di simu- lazione che innesca, – per poi scaricarle – le energie represse. L’analisi del gioco in Spencer risponde ad una precisa filosofia evoluzionistica, che ne in- tuisce l’importanza per quanto riguarda le prime fasi dello sviluppo umano e quindi del percorso evolutivo della personalità. Per l’antropologo Manhardt si tratta di risalire alle componenti mitologiche che sottendono alla grande rilevanza che le culture di ogni tempo e paese hanno attribuito al fenomeno del gioco. Scopo dell’antropologo è di studia- re presso le società arcaiche e di tipo tradizionale le occorrenze dell’attività ludica nel suo esercizio quotidiano. Dumazedier propone un nuovo modello per l’interpretazione in chiave so- ciologica dell’attività ludica, in stretta correlazione con la scoperta e l’in- venzione del tempo libero nella Contemporaneità. Un importante apporto alle teorie sulla funzione del gioco nella vita del bambino è stato dato dalla pedagogista Rosa Agazzi ( 1866–1951 ) che, sulla scia del pensiero di Froebel, esalta l’importanza della spontaneità nell’at- tività ludica e considera il gioco come esperienza integrale e come forma di conoscenza e comunicazione peculiare per il bambino.”Nella scuola infantile”, sostiene “tutto deve essere giuoco: dai giuochi propriamente detti al lavoro manuale, dalle esercitazioni di lingua all’osservazione delle cose, dalle lezioni di morale al canto, dagli orien- tamenti di socialità all’educazione fisica”. Lo stesso concetto è il principio fondante sul quale è stato sviluppato il mo- dello educativo delle scuole per l’infanzia di Reggio Emilia, tra le quali spic- ca l’asilo Diana, il cui il motto è “nulla senza gioia”. La Agazzi esalta inoltre “il carattere poetico produttivo” del gioco, intendendo la possibilità di soddisfare la ca- pacità creativa del bambino. Quando un bambino co- struisce, ad esempio, un castello di sabbia, non solo si vede capace di realizzare qualcosa, ma stimola nel con- tempo anche il proprio senso estetico. Per la Agazzi è es- senziale valorizzare l’attività spontanea infantile per la
  • 31. 31 trasformazione della materia in oggetti che siano gradevoli, belli da vedere. Il bambino ha così la possibilità di valutare le proprie attitudini creative e si sentirà spronato a mettersi continuamente alla prova. La completa libertà che Rousseau e Froebel lasciavano al fanciullo per espri- mersi nel gioco è contemplata secondo un’accezione diversa nel metodo educativo di un’altra grande pedagogista: Maria Montessori ( 1870–1952 ). Se per Froebel il bambino è un bambino ludens, per la Montessori è invece un bambino scout, un’esploratore desideroso di scoprire il mondo. Il bambino montessoriano è felice perché è messo nelle condizioni di convertire la pro- pria energia in laboriosità:“aiutetemi a fare da solo” sembra essere il moni- to che il bambino rivolge all’adulto. Nell’attività costruttiva la Montessori inserisce il lavoro manuale inteso come sviluppo delle capacità manipolative e punta alla produzione di og- getti che educhino alla conoscenza e soprattutto al rispetto della casa e del- l’ambiente. Affinché il bambino si senta libero di scoprire e sperimentare è necessario calarlo in un ambiente speciale, fatto a sua misura ( materiali con proporzioni ridotte, stanze chiare e luminose con finestrine basse, mo- bili piccoli di ogni forma ecc. ). È proprio sull’ambiente che, secondo la pedagogista, bisogna intervenire per liberare le manifestazioni infantili, un ambiente in cui l’adulto deve adattarsi ai bisogni del bambino ed essere capace di renderlo indipendente per non essergli di ostacolo. In questa panoramica, seppur molto limitata, degli studi sul gioco non pos- siamo tralasciare l’immensa opera di Jean Piaget. Piaget stabilisce una corrispondenza diretta tra lo sviluppo del gioco e quello mentale, affermando che il gioco è lo strumento primario per lo studio del processo cognitivo del bambino. Piaget parte dalla convinzione che il gioco sia la “più spontanea abitudine del pensiero infantile”. Egli individua nel processo di crescita intellettivo del fanciullo due stadi: uno di assimilazione e uno di accomodamento. Il primo serve al bambino per rapportare la realtà al pro- prio Io, il secondo per adeguare le proprie esigenze ed aspettative alla realtà circostante. Il gioco, scrive Piaget, “è essenzialmente assimilazione, assimilazione che domina l’accomodamento”. Il bambino, infatti, con il gioco, cerca di affer- mare la propria presenza nel mondo, di sottomettere il mondo a se stesso: “dopo aver appreso ad afferrare, a dondolare, a lanciare ecc. […] si produce presto o tardi […] il fatto che il bambino afferri per il piacere di afferrare, faccia dondolare per il piacere di riuscire a far dondolare, ecc., infine ripeta le sue condotte senza nuovo sforzo di apprendimento o di scoperta, ma per la gioia di dominarle, di offrirsi lo spettacolo della propria potenza e di sot- tomettervi l’universo”. 4 Se per Piaget il gioco è il mezzo attraverso cui apprende- re per Wiinnicot è anche strumento di indagine e cura delle psicopatologie 4. Jean Piaget, La psicologia del bambino, Einaudi, Torino, 1970.
  • 32. 32 infantili. Per cui Winnicott sostiene che: “il gioco è sempre eccitante […] a causa della precarietà inerente a esso, perché è sempre sul filo del rasoio tra ciò che è soggettivo e ciò che è oggettivamente percepito”. Ma, continua Winnicott, esiste una grande differenza tra “il gioco felice dei bambini e il gioco dei bambini che si eccitano compulsi- vamente”. Ci sono, infatti, dei casi di bimbi che passano freneticamente da un gioco all’altro senza riuscire a completarne uno. Altri tendono a fare i pagliacci e talvolta arrivano ad essere aggressivi: dietro tanta iperattività si può nascondere una grande ansia. La capacità di un bambino di giocare con interesse e dedizione è prova di buona salute ( mentale e fisica ). Bisogna cominciare a preoccuparsi se il piccolo non dimostra curiosità verso gli altri, né inventiva nel gioco e usa le cose in modo meccanico e disinteressato. Winnicott concorda nell’attribuire al gioco una forte valenza terapeutica. Egli lo definisce come una forma di autoguarigione, dal momento che faci- lita l’espressione del vero Io del bambino: “è nel giocare e soltanto mentre gioca che l’individuo, bambino o adulto, è in grado di essere creativo e di fare uso dell’intera personalità, ed è solo nell’essere creativo che l’individuo scopre il sé”. 5 È importante, però sottolineare che nulla va imposto al bambino, che deve essere piuttosto assecondato per dargli modo di esprimersi senza freni ini- bitori. Anche per Melanie Klein la capacità di giocare è indice della sanità mentale del bambino, come per l’adulto può esserlo la capacità di amare o lavorare. Può sembrare strano che esistano bambini che non provino il desiderio di giocare, eppure è un dato esistente e si verifica quando è presente un forte stato di angoscia che determina una eccessiva inibizione. La Klein considera le inibizioni al gioco come la spia di una “massiccia rimozione della pulsionalità”: il bambino, in pratica, convive con dei fantasmi interni così minacciosi che gli impediscono anche di esorcizzarli simbolicamente attraverso l’attività ludica. Le manifestazioni di questo disagio vanno dal vero e proprio rifiuto del gioco, all’avversione ai soli giochi di movimento, dalla resistenza a fare determinati giochi specifici all’incostanza in qualsiasi gioco. Normalmente i bambini che non giocano o che non lo fanno spesso, denotano un iper- controllo delle loro funzioni, un adattamento totale al loro ambiente, una mancanza di fantasia e creatività. Spesso la loro incapacità di giocare viene compensata da un assiduo impegno nello studio, determinando un progres- sivo sviluppo della sfera intellettiva a scapito di quella emotiva. I danni di questa situazione sono facilmente ravvisabili nella fase adolescenziale. La Klein sostiene che si possono considerare “…tutte le inibizioni ulteriori – così im- portanti per la vita e lo sviluppo – un’evoluzione delle primissime inibizioni nel gioco” ( 1923 ). La Klein ha dato un contributo importante alla teoria del gioco come stru- mento terapeutico. La studiosa parte dal presupposto che il gioco sia la na- 5. Winnicott D.W., Gioco e realtà, Roma Armando, 1974 .
  • 33. 33 turale forma di espressione dei bambini, così come per l’adulto è la parola, ed anche dal fatto che, essendo i più piccoli maggiormente sottoposti alle pulsioni dell’inconscio, tramite la loro attività ludica si possono leggere chiaramente i loro meccanismi interiori. Il gioco dei bambini per la Klein è come il sogno, in quanto rivelatore di fan- tasie inconsce: pertanto il metodo dell’interpretazione dei giochi infantili è analogo a quello dell’interpretazione dei sogni degli adulti. È comunque fondamentale, e su questo insite l’autrice, analizzare anche i più piccoli aspetti del gioco affinché l’interpretazione diventi efficace. Gli elementi da considerare sono sicuramente: — il materiale utilizzato e soprattutto quello prodotto dal bambino; — le modalità di svolgimento dell’attività; — il perché dell’eventuale passaggio da un gioco all’altro; — i mezzi che scelgono per le loro rappresentazioni. Perché si gioca? A cosa serve? Sul perché si giochi sono state formulate molte ipotesi. Per qualcuno si trat- ta semplicemente di doversi sbarazzare di forze in eccesso impiegandole in una qualche attività psicofisica. Per altri al contrario è una necessaria pa- rentesi di relax nel quale reintegrare le proprie forze vitali. Secondo altri an- cora una palestra di vita in cui imparare i gesti e l’operosità che la vita adul- ta richiederà ( Froebel, Claparède e Decroly ) o ancora la risposta all’innato istinto di imitazione della razza umana ( siamo scimmie al 97% in effetti ). Altri ancora vedono nel gioco la valvola di sfogo di istinti nocivi o violenti costantemente sedati o la ricerca di appagamento, tramite la finzione, di desideri non realizzabili. In ultimo c’è chi spiega il gioco con il gioco stesso: quale migliore motivazione al gioco se non il gioco stesso e il piacere che ne deriva? “La natura |…| avrebbe potuto dare alla sua prole tutte quelle funzioni utili di scarico di ener- gia, di rilassamento, di preparazione, e di compenso, anche nella forma di esercizi e reazioni puramente meccanici. Invece no, ci dette il Gioco, con la sua tensione, con la gioia, col suo scherzo” ( Huizinga ). Il bisogno di gioco, nella sua accezione di distaccamento dalla realtà e di svago, è insito nell’uomo e nei bambini di tutti i tempi. Esso, infatti, rap-
  • 34. 34 presenta un mondo altro che ha la funzione di semplificare e spesso esorciz- zare la realtà. È facile supporre che una società che mostra molto interesse per il gioco sia una società che spesso presenta numerosi e acuti conflitti interni. Il ritagliarsi, quindi, uno spazio e un tempo per l’attività ludica, è un modo per scaricare tensioni sia sociali che psicologiche ( pensiamo alla funzione del Carnevale, in voga fin dal Medioevo ). Per i bambini, che giocano per divertirsi, non c’è nessuna differenza tra il gioco e ciò che un adulto potrebbe considerare come una azione, come un “fare”. Solo più tardi, una volta che giungono ad associare un’attività alla ricompensa, iniziano a considerare un comportamento mentre lo pongono in atto in vista di benefici a lungo termine piuttosto che per la gratificazione immediata a considerarlo cioè un lavoro o un passatempo. Ciò è dovuto allo sviluppo di abilità cognitive che consentono al bambino di vedere il legame tra causa ed effetto. Attraverso il gioco il bambino incomincia a comprendere come funzionano le cose, ciò che si può o non si può fare con gli oggetti, sperimenta le leggi del caso e della probabilità, attiva serie concatenate di reazioni causa effetto e mette in pratica le prime relazioni sociali. L’esperienza del gioco insegna al bambino ad essere perseverante e ad avere fiducia nelle proprie capacità; è un processo attraverso il quale diventa con- sapevole del proprio mondo interiore e di quello esteriore, incominciando ad accettare le legittime esigenze di queste sue due realtà. Il gioco è significativo per lo sviluppo intellettivo del bambino. Il bimbo, quando gioca, sorprende se stesso e nella sorpresa acquisisce nuove modali- tà per entrare in relazione con il mondo esterno. Nel gioco sviluppa anche le proprie potenzialità intellettive, affettive e relazionali. Il gioco non è solo appagamento dell’io ma anche “piacere della funzione” come dice Bulher. Sentire il proprio corpo che è attivo, ascoltarlo, agire sul proprio corpo, sono gli elementi portanti dell’evoluzione del bambino attivati dal gioco corpo- reo, dal dialogo tonico. In tal senso si sviluppano le prime emozioni, la cu- riosità lo guida alla scoperta attraverso il gioco e lo stesso gioco gli permette di interpretare le emozioni che ne derivano. Secondo dell’età, il bambino nel giocare impara ad essere creativo, a speri- mentare le sue capacità cognitive, a scoprire se stesso , ad entrare in relazio- ne con i suoi coetanei: tutto ciò sviluppa l’intera personalità. A ben vedere nel gioco si intrecciano molti aspetti differenti e un analisi dettagliata dei bisogni ludici può essere affrontata solo parallelamente ad un esame delle tappe fondamentali dello sviluppo infantile.
  • 35. 35
  • 36. Il bambino il suo sviluppo A dogni età il suo gioco!
  • 37. 37 Volendo avvicinarmi alla progettazione di giochi per bambini mi sembra indispensabile inda- gare sia sulle valenze psicologiche del gioco sia sui i bisogni a cui deve rispondere, senza trascu- rare le tappe fondamentali della crescita fisica e dello sviluppo motorio nel bambino. Ilgiocosimodificaneglianniinrelazioneaicambiamentifisiciedallivellodisviluppopsichico raggiunto. Ad ogni età infatti corrispondono determinati comportamenti e abilità fisiche che un progetto di gioco dovrebbe rispettare proponendo contenuti e movimenti stimolanti adatti ai bambini delle diverse età. Questoaccorgimentoeviterebbeilrischiodiannoiareibambiniodifrustrarliconrichiesteina- deguateal grado di sviluppo psico–fisico in cui si trovano. Allo stesso modo ad ogni tappa della crescita corrispondono determinati “bisogni ludici” ed esperienze emotive che non possono es- sere trascurate da un progettista del settore. Inquestocapitolomipropongodianalizzareinmodoschematicogliaspettifondamentalidel- lo sviluppo motorio, psichico e affettivo dei bambini dalla nascita all’adolescenza in modo da avere presenti le conoscenze e le abilità di base per determinare i bisogni ludici e le soluzioni progettuali più indicate. Lo sviluppo del pensiero La teoria piagetiana Prima di stabilire quali siano i giochi più adatti ai diversi momenti della cre- scita mi sembra doveroso chiedermi quando, e come, nascano il movimento e il pensiero nei bambini appena nati. Per rispondere a questo interrogativo può essere di grande aiuto l’opera di Piaget, noto studioso della psicologia dello sviluppo, che si è dedicato allo studio e all’osservazione dell’apprendimento nei primi anni di vita. La sua teoria ha il merito di aver cercato di delineare la relazione che inter- corre tra maturazione neurofisiologica e cognitivo–affettiva nel neonato e nel bambino, sottolineando come ciò avvenga soprattutto attraverso le espe- rienze di movimento, dal più semplice  (riflesso ) al più complesso ( azione ).
  • 38. 38 Oggi, nonostante gli approfondimenti e le modifiche operate, il lavoro di questo autore rimane architrave negli studi dei processi di apprendimento. La stessa definizione di“apprendimento” può derivare dalle sue osservazio- ni, come inteso ad acquisire concetti, nozioni, elaborazioni, esperienze, ovvero “prendere qualcosa su di sé”. L’apprendimento è quel processo che permette di decodificare la realtà, produrre esperienze, operare un bilancio critico dell’esperienza. È in sostanza la capacità di costruire strutture cono- scitive ovvero il mezzo per formare la mappa mentale–conoscitiva che ogni individuo si costruisce a partire dalla prima infanzia elaborando gli stimoli derivati dall’esperienza. Più saranno forti gli stimoli come basi, più saran- no grandi , con il passare degli anni, le mappe conoscitive. Secondo Piaget è possibile individuare cinque fasi di sviluppo intellettivo: — il periodo senso–motorio ( 0 – 2 anni ); — il periodo preoperazionale ( 2 – 7 anni ) diviso a sua volta nella fase pre- concettuale ( 2 – 4 anni ) e quella intuitiva ( 4 – 7 anni ); — il periodo delle operazioni concrete ( 7 – 11 anni ); — il periodo delle operazioni formali ( 11 – 15 anni ). Periodo senso–motorio ( da zero a due anni ) Durante il periodo senso–motorio, l’infante parte da un livello neonatale di puro riflesso, caratterizzato dalla completa assenza di differenziazione; il piccolo non distingue se stesso dalla madre o dal resto del mondo, per giungere solo in seguito ad una organizzazione relativamente coerente che lo renda capace di semplici azioni senso–motorie. Questa organizzazione è esclusivamente pratica e comporta semplici aggiustamenti percettivi e mo- tori relativi ai fenomeni circostanti, piuttosto che alla loro manipolazione simbolica. Piaget descrive sei sottostadi principali di questo periodo. Questi stadi riflettono, evolvendosi impercettibilmente, le transizioni organizzati- ve che portano progressivamente alla capacità di simbolizzare azioni o even- ti raggiunta alla fine del periodo senso–motorio. Il primo stadio, quello dei riflessi ( dalla nascita a un mese ), comporta una crescente efficienza nel funzionamento dei riflessi innati. Durante il secondo stadio dello sviluppo senso–motorio ( da due a quattro mesi ), avvengono le reazioni circolari primarie. Queste sono azioni non intenzionali e spontanee centrate sul corpo del bambino ( perciò sono sta- te chiamate primarie ) che vengono ripetute più e più volte ( quindi circo- lari ) rafforzando e stabilendo l’adattamento. Il comportamento in questo
  • 39. 39 stadio è caratterizzato dalla comparsa della ripetizione di atti semplici ( assolutamente inintenzionali e fine a se stessi ). Esempi di reazione circolare primaria possono essere la ripetitiva suzione del pollice o l’azione ripe- tuta di tastare una coperta. Gli stadi successivi sono caratterizzati da una crescente intenzionalità da parte del bambi- no. Nel terzo stadio ( dai quattro agli otto mesi ) è di estrema importanza lo sviluppo delle rea- zioni circolari secondarie. Durante questo stadio si estende la consapevolez- za dell’ambiente esterno da parte del bambino. Le sue reazioni implicano ora la manipolazione di eventi o di oggetti dell’ambiente esterno ( vengono perciò chiamate secondarie ). Le azioni vengono ancora ripetute più e più volte ma esiste una certa intenzionalità che mira a produrre un effetto di stimolo creato da qualche attività particolare. È in questa fase che possiamo collocare le prime manifestazioni di gioco. Dalla ripetizione di queste azio- ni ( scoperte per caso ) vengono appunto ottenuti risultati interessanti, tali da spingere alla produzione di nuove alterazioni dell’oggetto o dell’evento esterno. Un esempio di reazione circolare secondaria potrebbe essere costituito dal- l’agitare ripetutamente le braccia allo scopo di imprimere movimento ad un giocattolo sospeso sopra la sua culla. Cominciano ad attirare l’attenzione del bambino i giocattoli che producono effetti o suoni facilmente percepibili come ad esempio sonaglietti e carillon. Il quarto stadio senso–motorio ( dagli otto ai dodici mesi ) implica la coordi- nazione delle reazioni secondarie. I mezzi e i fini sono chiaramente differen- ziati; per la prima volta il comportamento del piccolo è di natura veramente intenzionale e il bambino comincia a risolvere semplici problemi producen- do nuovi schemi di comportamento ( uno schema è una risposta generale usata per risolvere un problema particolare ). Il bimbo applica uno schema come mezzo per raggiungere uno scopo; un altro schema è impiegato per instaurare un comportamento nei confronti dello scopo, una volta che que- sto sia stato raggiunto. Questa nuova coordinazione di reazioni secondarie è resa possibile grazie alla migliore capacità nel bambino di generalizzare o di trasferire uno schema usato in una situazione simile a quella nella quale era stato originariamente utilizzato. Durante il quarto stadio avviene la pro- gressiva differenziazione tra sé e il mondo. Viene stabilita la permanenza dell’oggetto. Se il bambino osserva un oggetto che successivamente viene
  • 40. 40 sottratto alla sua vista, arriva a capire che questo oggetto ha ancora una esistenza obiettiva anche al di fuori del suo campo visivo. L’esempio seguente può chiarire la marcata intenzionalità delle azioni e il concetto di permanenza dell’oggetto che caratterizza il quarto stadio senso–motorio. Immaginiamo un bambino che guar- da il suo giocattolo preferito e che questo, lentamente, venga rico- perto con un panno. Piaget afferma che un infante nel terzo stadio non riconosce ancora in questi casi l’oggettiva esistenza dell’ogget- to; l’oggetto fuori dalla vista è fuori dalla mente. Data la stessa semplice situazione, un neonato nel quarto stadio è sufficientemente capace di comprendere l’esistenza indipendente del giocattolo. Entrambi possono arrivare a tirare via il panno dal- l’oggetto: il bambino del terzo stadio probabilmente solo per osser- vare il movimento del panno ( uno stimolo già in sé interessante ). Dopo che il panno è stato tirato via, il bambino del terzo stadio può magari scoprire accidentalmente la nuova esistenza dell’oggetto e mettere in atto una reazione secondaria cercando di raggiungerlo. Al contrario, il bambino nel quarto stadio del periodo senso–moto- rio ha chiaramente in mente il giocattolo dall’inizio e non vi incap- pa per caso. Il tirare il panno è usato come mezzo per raggiungere la meta desiderata, il gesto è posto in relazione e coordinato con l’azione finale di raggiungere l’oggetto. Questa capacità di combinare unicamente schemi di azione prece- dentemente non connessi costituisce da parte del bambino la base di una semplice attività di soluzione dei problemi. Il bambino passa dalla totale indifferenziazione ad una prima forma di organizzazione coerente che gli permette di compiere semplici operazioni. Migliorano i riflessi innati. 1° stadio (o–1 mese) MOVIMENTI RIFLESSI Ripetizione di azioni semplici non intenzionali centrate sul corpo del neonato. 2° stadio (2–4 mesi) REAZIONI CIRCOLARI PRIMARIE PERIODO SENSOMOTORIO 0–2 baucette: un piccolo gioco importante per il bambino sotto l`anno, che ancora non concepisce un oggetto fuori dal suo campo percettivo. L`omino può sparire del tutto e rimbalzare fuori sulla molla nascosta che lo tiene saldato al fondo. In vendita presso Città del sole.
  • 41. 41 Il concetto di permanenza dell’oggetto non è ancora pienamente articolato. Il bambino del quarto stadio incontra considerevoli difficoltà se i movimenti di un oggetto sono comples- si o se l’oggetto viene spostato nello spazio dall’area nella quale era stato inizialmente nascosto. Se un giocattolo vie- ne ripetutamente nascosto sotto un cuscino, il bambino del quarto stadio lo cercherà lì; ma se l’oggetto viene nascosto sotto un secondo cuscino, il bambino lo continuerà a cercare sotto il primo cuscino ( anche se ha visto chiaramente che il giocattolo veniva nascosto sotto il secondo ). È come se la posizione associata ai precedenti tentativi felici di scoprire l’oggetto fosse- ro un attributo dell’oggetto stesso. Il bambino in questo stadio è diventato capace di compiere numerose operazioni, manipolare oggetti, lanciarli, av- vicinarli e interagire con loro. Sarà interessato a giochi di diversi materiali, alle palle, agli specchi, ai giocattoli sonori e a tutti i giochi che rendono pos- sibile rafforzare la sua nuova consapevolezza della permanenza dell’oggetto ( scatole in cui nascondere i giocattoli, coperte, cuscini ecc ). Durante il quinto stadio del periodo senso–motorio ( dai dodici ai diciotto mesi ), il bambino diviene consapevole che un oggetto può essere spostato nello spazio conservando l’idea della permanenza dello stesso. La costanza di un oggetto è quindi più saldamente stabilita; la permanenza è ora qual- cosa di assimilato. Un altro aspetto saliente del quinto stadio è lo sviluppo delle reazioni circo- lari terziarie. Queste reazioni sono definite in termini di metodi più con- creti e avanzati di esplorazione di oggetti nuovi o di eventi ambientali e per 3° stadio (4–8 mesi) REAZIONI CIRCOLARI SECONDARIE 4° stadio (8–12 mesi) coordinazione delle REAZIONI SECONDARIE teoriaPIAGETTIANA I movimenti sono finalmente di natura intenzionale. Il piccolo comincia a risolvere semplici problemi producendo nuovi schemi di comportamento. Viene stabilita la permanenza dell’oggetto. Il bambino riesce ad applicare questa conoscenza solo a casi molto semplici. Nasce la consapevolezza della differenziazione del proprio corpo rispetto al mondo circostante. Il bambino agisce sugli oggetti e ricerca i primi contatti con essi. Nascono le prime forme di gioco. � schema sullo sviluppo del pensiero: il grafico, che prosegue nelle pagine seguenti, cerca di sintetizzare le tappe fondamentali dello sviluppo intellettuale sulla base della teoria elaborata da Jean Piaget all’inizio del secolo scorso.
  • 42. 42 mezzo di nuove sperimentazioni. L’interesse per la no- vità in se stessa è l’attributo primario di una reazione circolare terziaria. Attraverso sperimentazioni per prove ed errori, il piccolo scopre nuovi mezzi per raggiungere i suoi scopi. Se nel quarto stadio il comportamento che conduceva ad uno scopo era piuttosto stereotipato, nel quinto il bambino del cerca attivamente mezzi nuovi per raggiungere un particolare fine. Non solo si fida delle attività che pre- cedentemente si sono dimostrate capaci di successo, ma si accosta al problema per nuove vie: non si limita a muovere con le mani un cuscino per raggiungere un giocattolo nascosto, ma tenta nuove strade ( può tenta- re ad esempio di spingere via il cuscino con un piede o può cercare di farlo per mezzo di un bastone ). Il piccolo è sempre interessato a nuove varianti operazionali e vede anche come queste varianti agiscono sull’oggetto o sulla possibilità di ottenere l’oggetto stesso.Il fine passa quasi in secondo piano. Il bambino di questo stadio che comincia è molto curioso di tutto ciò che il mondo ha da offrirgli e ama giocare con svariati oggetti. Il sesto stadio ( dai diciotto ai ventiquattro mesi ) è caratterizzato dalla tran- sizione da un’azione evidente ad una rappresentazione mentale nascosta. Il bambino è in grado di utilizzare simboli mentali per riferirsi ad oggetti assenti dall’ambiente immediatamente circostante. Durante questo stadio il bambino è capace di imitazione differita, di riprodurre a memoria cioè il comportamento di un modello assente: di rappresentare il modello assente per mezzo di alcune forme simboliche. Comincia così il gioco del“fare per finta”. Il bambino, in questo stadio finale dello sviluppo senso–motorio, è capace di sperimentazione interiore che lo porta ad una esplorazione mentale interiorizzata delle relazioni tra modi e mezzi. Le soluzioni ai problemi sono considerate in termini di dimensio- ne mentale piuttosto che fisica. Durante questo ultimo stadio del periodo sensomotorio il concetto di permanenza dell’oggetto è stabilito in modo più chiaro. Il bambino ora cercherà un oggetto spostato nello spazio dove questo è scomparso l’ultima volta riconoscendo che un oggetto può essere spostato e continuare a mantenere la sua oggettività. Il bambino arrivato a questo stadio è in grado di compiere svariate attività e i giochi con i quali si intrat- tiene sono diventati moltissimi. Ama le costruzioni di grandi dimensioni ( cubi, grandi incastri, casette con chiavi ), i giocattoli di grandi dimensioni ( palle, veicoli al traino, cuscini ), sperimenta le prime forme espressive ( ma- tite, pongo, colori a dita ) e ama giocare con l’acqua.
  • 43. 43 Dai due ai sette anni:il periodo preoperazionale Dai due ai quattro anni: lo stadio preconcettuale Evolvendosi dall’ultimo stadio del periodo senso–motorio, la genesi del pensiero per concetti avviene appunto nel periodo preconcettuale. Durante questo stadio il bambino sviluppa capacità linguistiche e abilità a costrui- re simboli; comincia a distinguere tra significanti ( parole e immagini che significano eventi oggettivi o oggetti ) e significati ( eventi percettivamente assenti ai quali si riferiscono quelle parole o immagini ). Il bambino è capace di distinguere «papà che si mette il cappotto» ( significante ) e il concetto del «papà che si mette il cappotto», riferito all’evento ancora percettivamente assente del papà che esce ( significato ). L’apparire della funzione simbolica ( uso dell’immagine mentale, del sim- bolo, della parola o di un oggetto che significa o rappresenta un evento che non è immediatamente presente ) libera il bambino dall’agire su fatti fisi- camente presenti nell’immediato ambiente circostante. La funzione sim- bolica consente al bambino di applicare l’esperienza passata agli eventi pre- senti. Altra fondamentale caratteristica di questo stadio è che l’imitazione si fa meno esteriore e si rivela maggiormente interiorizzata. Diviene evidente durante questo periodo la presenza dell’immaginazione; il bambino svilup- pa la sua abilità nel trattare gli oggetti come simboli di cose diverse da quel- lo che sono in sé ( può usare una scopa come cavallo immaginario o una sca- toletta come telefono cellulare ). Durante questo stadio il bambino comincia a sperimentare sempre più le rappresentazioni mentali del mondo esterno e delle sue proprie azioni. Molte caratteristiche del pensiero nello stadio preconcettuale differiscono ancora dai processi più tardi e più maturi. Il bambino, ad esempio, non è ancora in grado di formulare regole che gli consentano di includere un og- getto in una classe specifica di oggetti. Piaget definisce sincretismo la tendenza a raggruppare eventi e oggetti in insiemi confusi. Per esempio, invece di usare regole classificatorie di un insieme ( l’insieme degli oggetti impiegati come utensili per cucinare ) per definire quali oggetti particolari appartengono alla cucina, il bambino nel- lo stadio preconcettuale non cerca di determinare attributi particolari che siano comuni ad una serie di oggetti, ma classifica insieme oggetti che non
  • 44. 44 hanno rapporto tra loro ( biscotti, una donna, un orologio a muro, i fiam- miferi, ecc., sono raggruppati insieme ed etichettati «cucina» ). Il pensiero preconcettuale è anche egocentrico: il bambino pensa solo secondo il suo punto di vista e non possiede la capacità di assumere il ruolo di un altro in- dividuo. È anche incapace di valutare criticamente i suoi pensieri ( ad esem- pio, il bambino non pensa ai suoi pensieri né tenta di prendere in conside- razione le possibili contraddizioni dei suoi processi di pensiero ). Il pensiero, durante lo stadio concettuale, tende anche ad essere centraliz- zato: il bambino si concentra su un particolare aspetto o su una dimensione di una serie di stimoli. Non considera mai simultaneamente le varie dimen- sioni di un problema: mentre centra un aspetto particolare di un evento, sorvola o trascura altre sue dimensioni rilevanti. Non combina mai le singo- le caratteristiche integrandole però in un disegno multidimensionale. Dai quattro ai sette anni: lo stadio intuitivo Lo stadio intuitivo è il secondo del periodo preoperazionale e va dai quattro ai sette anni circa. È un periodo di preparazione allo stadio delle operazioni concrete. Durante questo stadio vengono costruiti pensieri e immagini più complessi di quelli del periodo precedente e il bambino sviluppa progressi- vamente la sua capacità di concettualizzazione. Si stabilisce un rudimentale concetto di classificazione basato essenzialmente su somiglianze colte me- diante la percezione piuttosto che su considerazioni logiche o di relazione. Per esempio, una stella marina non viene classificata in base ad una com- 5° stadio (12-18 mesi) reazioni circolari TERZIARIE 6° stadio (18-24 mesi) la rappresentazione MENTALE La permanenza dell’oggetto è un concetto perfettamente acquisito. Il bambino esplora gli oggetti e il mondo circostante con modalità più concrete e avanzate per mezzo di nuove sperimentazioni. Il bambino non solo riesce ad ottenere gli scopi prefissati ma si adopera per scoprire varianti con le quali raggiungere gli stessi risultati, il periodo risulta caratterizzato da una grande curiosità. l bambino è in grado di riferirsi a oggetti assenti dall’ambiente immediatamente circostante. Il piccolo è capace di riprodurre a memoria il comportamento di un modello assente per mezzo di forme simboliche. Comincia il gioco di finzione.
  • 45. 45 parazione filetica ma può essere classificata come una roccia o una pietra in base alla sua percepita somiglianza con tali oggetti. Il pensiero, a questo stadio, è ancora largamente legato al contesto delle esperienze percettive del bambino. La sua comprensione degli eventi è ancora ampiamente domi- nata da una certa incapacità di percepire nello stesso momento più di una dimensione saliente di una situazione. Un altro aspetto critico del pensiero nel periodo preoperazionale è l’irrever- sibilità. Il pensiero irreversibile è definito come l’incapacità a considerare una serie di operazioni inverse che possono reinstaurare una situazione ori- ginaria. Gli esperimenti classici di Piaget, che dimostrano l’incapacità del bambino ancora al livello preoperazionale a capire il fenomeno della conser- vazione ( che cioè la quantità di liquido e la massa o il numero degli oggetti di un insieme resta invariato anche se vi sono trasformazioni percettive ), servono a caratterizzare molti dei processi dominanti di pensiero dei bambi- ni durante questo intero periodo. Alcune qualità del pensiero preoperazionale rendono impossibile ad un bam- bino di questo livello riconoscere che una quantità di acqua resta costante ( si conserva ) malgrado la diversità della forma del contenitore in cui l’acqua è versata. Se l’acqua è versata in due bicchieri identici e raggiunge in tutti e due lo stesso livello, il bambino capirà prontamente che la quantità d’acqua nei due bicchieri è la stessa: se l’acqua di un bicchiere viene poi versata in un bicchiere più alto e più stretto ( in modo che nel nuovo recipiente il livello dell’acqua sia più alto ) il bambino dello stadio preconcettuale del periodo preoperazionale insisterà col dire che il bicchiere più alto e più stretto con- tiene più acqua. Può darsi che il bambino dello stadio preconcettuale difetti LO STADIO PRECONCETTUALE (2-4 ANNI) LO STADIO INTUITIVO (4-7 ANNI) PERIODO PREOPERAZIONALE 2-7 Con il miglioramento delle abilità linguistiche e simboliche il pensiero del bambino comincia a svilupparsi per concetti. Inizia a manifestarsi l’immaginazione; anche l’imitazione viene maggiormente interiorizzata. Gli eventi e gli ogetti risultano raggrupati in insiemi confusi (sincretismo), il pensiero in questo stadio è egocentrico e centralizzato (il bambino considera i fenomeni solo da un punto di vista e si concentra su un aspetto specifico e limitato del problema). Durante questo periodo il bambino costruisce un gran numero di pensieri e immagini piuttosto complessi. Viene stabilito un rudimentale concetto di classificazione basato sulle esperienze sensoriali del bambino piuttosto che su ragionamenti logici. Il pensiero nel complesso è ancora centralizzato e irreversibile (non considera cioè l’insieme delle operazioni inverse che possono ristabilire la situazione iniziale). teoriaPIAGETTIANA
  • 46. 46 dell’idea di conservazione perché si occupa solo di un aspetto sa- liente del problema ( l’altezza del liquido nelle colonne d’acqua ), trascurando fatti ugualmente importanti, cioè che il secondo recipiente differisce dal primo in larghezza, oltre che in altezza. Dato che procede focalizzando l’attenzione percettiva su una di- mensione alla volta, il bambino è incapace della coordinazione simultanea di due o più attributi dimensionali del problema. Può darsi però che i bambini del secondo stadio ( intuitivo ) del periodo preoperazionale difettino dell’idea di conservazione perché la loro capacità di definire concetti astratti, come la quantità, è limitata agli attributi del problema che possono esse- re colti attraverso la percezione. Il bambino dello stadio intuitivo può in- tuitivamente stabilire una uguaglianza tra l’«altezza» e il suo concetto di quantità (  «di più» ). Così, il livello del liquido nei due recipienti determina il concetto di quantità del bambino. In ogni caso, il pensiero è marcato dalla sua irreversibilità. Il bambino del periodo preoperazionale è inconsapevole del fatto che esista una operazione che possa ripristinare la situazione ori- ginaria. Non ha la cognizione del fatto che se l’acqua del recipiente più alto e più stretto viene versata di nuovo nel primo dei recipienti identici, essa raggiungerà di nuovo la sua altezza originaria. Ovviamente questi proces- si di pensiero, quali la centralizzazione e l’irreversibilità, sono fortemente correlati. Ad esempio, un bambino del periodo preoperazionale può vedere che quando l’acqua è versata di nuovo nel contenitore originale ( operazione inversa ) raggiunge un’altezza uguale a quella dell’altro identico contenito- re. Il bambino può allora accorgersi che la quantità d acqua nei due bicchieri è uguale; tuttavia, quando avviene una nuova trasformazione ( ad esempio quando l’acqua è versata nel bicchiere alto e stretto ), per una ragione o per l’altra, il bambino, al livello preoperazionale, perde di vista questa opera- zione inversa; non la prende in considerazione e continua a fare assegna- mento sulle caratteristiche percettive più evidenti. Dai sette agli undici anni:il periodo delle operazioni concrete A partire dalla nascita, le attività mentali dominanti sono passate dalle azio- ni evidenti ( nel periodo senso–motorio ) alle percezioni ( nel periodo preope- razionale ) e quindi alle operazioni intellettuali ( nel periodo delle operazioni concrete ).
  • 47. 47 Queste operazioni avvengono all’interno della struttura di ciò che Piaget chiama mobilità del pensiero: la capacità di spiegare la reversibilità, di de- centrare, di assumere il punto di vista altrui e di concettualizzare le relazio- ni di classe. Durante il periodo delle operazioni concrete il bambino getta le basi del pensiero logico, che si identifica col successivo e ultimo periodo dello sviluppo intellettuale. Ci sono molte differenze tra il bambino del precedente periodo e quello del periodo delle operazioni concrete. Per quanto riguarda lo stesso problema della conservazione, rispetto ai bambini nel periodo preoperazionale, i bam- bini nel periodo delle operazioni concrete comprendono l’idea che la quanti- tà resta invariata malgrado le trasformazioni colte attraverso la percezione. Il pensiero del bambino in questo stadio è caratterizzato dalla comprensio- ne delle operazioni inverse. Così il bambino può adesso rispondere corretta- mente a domande sulla conservazione del liquido affermando che la quan- tità d’acqua ( dopo la trasformazione ) è ancora la stessa, perché la si può versare nuovamente dal bicchiere stretto e alto in quello di partenza e che il livello dell’acqua nei due bicchieri identici sarà ancora lo stesso». Un’altra differenza tra il pensiero preoperazionale e quello del livello delle operazioni concrete è che il bambino nel periodo delle operazioni concrete ha sviluppato un concetto chiaramente definito di classe e classificazione. Lo sviluppo della abilità a pensare simultaneamente a relazioni parte–tutto è una componente di questa nuova capacità che si è stabilita. Ad esempio, se ai bambini nello stadio preoperazionale sono mostrate otto caramelle gialle e quattro marroni e viene loro chiesto: «Ci sono più caramelle gialle o più caramelle?». Probabilmente essi risponderanno: «Più caramelle gialle». I bambini al livello delle operazioni concrete probabilmente resteranno per- plessi di fronte ad una domanda così assurda ed eventualmente risponde- ranno dicendo: «Ci sono più caramelle ( totali ) che caramelle gialle». La loro risposta a questa domanda indica una chiara differenziazione tra parti e tutto, una capacità di ragionare simultaneamente sulle relazioni parte–tut- to e una conoscenza che sottoclassi di elementi ( caramelle gialle e marroni ) possono essere incluse in categorie più ampie ( caramelle in generale ). Le altre differenze più notevoli tra periodo preoperazionale e periodo del pensiero operazionale concreto sono le seguenti: — La capacità di utilizzare termini relazionali. Il bambino nello stadio preoperazionale guarda a espressioni relazionali come «più scuro» o «più grande» in termini di attributi assoluti di oggetti in opposizione ad attributi relativi. In questo caso «più scuro» significa «molto scu- ro», non più scuro di un altro oggetto; «più grande» significa «molto grande» in contrasto con il concetto relativo di più grande di un secon- Ci sono più caramelle gialle o più caramelle? .
  • 48. 48 do o di un terzo oggetto. Il bambino è in grado, durante il periodo delle operazioni concrete, di vedere oggetti o avvenimenti in modo relativo. Dato il problema «se A è più piccolo di B e B è più piccolo di C, A è più piccolo di C?», il bambino nel periodo delle operazioni concrete ha la capacità di risolvere il problema considerando i rapporti relativi tra ciascuno degli oggetti materiali. — Il bambino in questo periodo possiede la capacità di ordinare gli ogget- ti secondo alcune dimensioni qualitative come il peso, la grandezza, la scala ordinale. Piaget chiama seriazione questa capacità concettua- le. La seriazione è fondamentale per la comprensione del fatto che la relazione d’un numero ha con gli altri ed è un requisito preliminare per lo sviluppo del pensiero matematico. — Il bambino nel periodo delle operazioni concrete è anche capace di utilizzare una rappresentazione mentale di una serie di atti. Il bam- bino nello stadio precedente può essere in grado dl coprire una breve distanza per andare a scuola se sa i punti precisi in cui deve voltare a destra o a sinistra, ma non ha il concetto dell’insieme della strada che fa quando va a scuola. Il bambino nel periodo delle operazioni concrete è capace di progettare l’intera serie di operazioni che gli sono necessarie per andare a scuola: è capace di concettualizzare in anticipo l’itinerario. Le operazioni concrete sono strutturate e organizzate in termini di fenome- ni veramente concreti ( eventi che generalmente si verificano nell’immedia- to presente ). La considerazione della potenzialità ( del modo cioè in cui è possibile che gli eventi si producano ), o il riferimento a eventi o a situazioni PERIODO DELLE OPERAZIONI CONCRETE 7–11 Le attività mentali che prevalgono in questo periodo sono le operazioni intellettuali. Il pensiero ha acquistato notevole mobilità; il bambino è in grado di decentrare, cambiare il punto di vista, e comprende le operazioni inverse. I concetti di classi e classificazioni sono ben definiti. Il bambino usa in modo competente termini relazionali e possiede capacità di seriazione (è cioè in grado di ordinare insiemi di oggetti cosiderando una dimensione qualitativa specifica). Il bambino è in grado di rappresentare mentalmente fenomeni di una certa complessità e valutarli nel loro insieme; i fenomeni considerati sono però concreti, legati al presente o ad un futuro immediato.
  • 49. 49 future è piuttosto limitata. È questo approccio concreto alla realtà che diffe- renzia il periodo delle operazioni concrete dal periodo finale dello sviluppo intellettuale. Dagli undici ai quindici anni:il periodo delle operazioni formali Questo periodo copre l’età dagli undici ai quindici anni. L’attributo più ge- nerale del pensiero formale è la comprensione che la realtà è solo una di una serie di infinite possibilità. Il ragionamento dell’adolescente è ipotetico–de- duttivo; egli comincia con la considerazione di un dato problema in termini di concettualizzazione di tutte le relazioni che possono verificarsi ( una serie di ipotesi possibili ). Poi, attraverso un processo di sperimentazione combi- nato con l’analisi logica, ogni singola ipotesi viene confermata o respinta. La capacità di produrre tutte le possibili ipotesi risolutive e poi di verificare la validità d ognuna di esse attraverso una analisi logica è la caratteristica del periodo delle operazioni formali. A questo livello il pensiero è soprattutto proposizionale. L’adolescente mani- pola i dati grezzi nei quali si imbatte in relazioni organizzate o proposizioni e successivamente elabora connessioni logiche tra di loro. Inoltre il pensiero operazionale formale è interproposizionale, implica cioè delle relazioni lo- giche tra le proposizioni formate dai dati grezzi. Piaget si riferisce a queste operazioni come ad operazioni di secondo ordine, o operazioni sulle operazioni. L’individuo al livello di pensiero operaziona- PERIODO DELLE OPERAZIONI FORMALI 11–15 Questo è lo stadio finale dello sviluppo del pensiero. La realtà appare come una serie di infinite possibilità. Il pensiero in questo stadio è ipotetico-deduttivo (concettualizza un problema e lo affronta formulando ipotesi possibili da valutare con l’analisi logica), proposizionale (organizza i dati stabilendo relazioni e connessioni logiche), è in grado di svolgere un’analisi combinato- ria (valutando l’intero insieme delle possibilità) e di applicare regole semplificanti (utilizzando il ragionamento senza dovere ricorrere all’esperienza diretta). I ragazzi a questa età manifestano un particolare interesse nei confronti dei meccanismi del pensiero. teoriaPIAGETTIANA