SlideShare a Scribd company logo
1 of 19
Download to read offline
DIDATTICA DEL GIOCO NELL’ ATTIVITA’ MOTORIA
prof. Angela Capuzzo
A.A. 2006/2007
__________________________________________________________________
Lezione on line n. 2
______________________________________________
“Non guardare al passato con rabbia
o al futuro con ansia,
ma guardati intorno con attenzione”
James Thurber
“I Can Tell You Right Now That Isn’t Going to Work”
by James Thurber
Approfondendo il tema delle funzioni che il gioco assume nel processo evolutivo
della persona proviamo ad operare una analisi delle possibili classificazioni del gioco
proposte all’interno dei vari campi di studio. Individuare e analizzare la struttura del
gioco ci permetterà poi di evidenziare la presenza di azioni che sollecitano
l’attivazione di dinamiche tra i soggetti in gioco e le possibili funzioni esercitate
nell’azione. Con l’intento che il gioco giocato, vissuto, sperimentato, osservato,
ripensato, re-inventato… divenga davvero strumento efficace e competenza
spendibile per muoverci come corpo-docente nella nostra professione.
Le funzioni del gioco
1. La funzione del gioco nella vita psico-fisica
Sono molteplici le teorie che definiscono il gioco in rapporto allo sviluppo dell’uomo
e che evidenziano il suo ruolo fondamentale nella strutturazione della personalità.
Molti elementi di tali teorie confermano non solo che questo costituisce una
componente primaria nello sviluppo evolutivo del bambino, ma che caratterizza
anche tutta l’esistenza dell’uomo. Tra i diverse approcci sia psicologici che biologici
che hanno cercato di spiegarne la ragione emergono alcuni comuni punti di lettura:
a) il gioco visto come superfluo di energia, teoria secondo la quale il soggetto
dispone di un'eccessiva carica energetica che necessita di scaricare, facendo
qualunque tipo di gioco. Rispetto a questo approccio alcuni autori hanno osservato
come a volte il bambino che sia interessato all’attività che sta agendo, continui a
giocare anche dopo l'insorgere della stanchezza; altra osservazione riguarda il fatto
che con questa teoria non è possibile spiegare il motivo per cui un bambino sceglie
un gioco piuttosto che un altro.
b) il gioco come residuo di funzioni ataviche, teoria secondo la quale il soggetto
riproduce spontaneamente alcune attività che caratterizzavano la vita dei nostri
progenitori, attività che possono oggi apparirci inutili. Un esempio di ciò lo
ritroviamo nei giochi di lotta che sembrerebbero assolvere nel bambino un bisogno
di tipo ancestrale; attuando questi tipi di giochi il soggetto si libera, in quanto
considera l'avversario un partner indispensabile. Giocare molto da bambini, in un
gruppo di pari assieme ad altri bambini, significa avere più probabilità di
socializzazione da adulti. Questa teoria è comunque strettamente legata alla legge
bio-genetica di Haeckel, secondo cui lo sviluppo dell'individuo è speculare
all’evoluzione della specie (bambino = uomo primitivo…). Questa teoria però, se
può spiegare giochi come la lotta, la corsa, l'inseguimento, la caccia..., non da
senso a molti altri giochi frutto di azioni imitative che il bambino agisce rispetto a
comportamenti dell’adulto.
c) il gioco come funzione e conservazione dello sviluppo, teoria che sostiene
come il gioco da un lato sviluppa e permette di conservare le funzioni utili alla vita
adulta mentre, dall'altro, agisce come valvola di sicurezza per poter scaricare
l'energia legata ad alcune tendenze antisociali presenti nell'individuo fin dalla
nascita. Questa teoria però non da spiegazione del gioco negli adulti. In particolare
Claparède (1909) attraverso la «théorie de la catharsis», sostiene che il gioco ha la
funzione di dirigere le tendenze inconsce dell’uomo verso la loro sublimazione.
Avviene cosi che gli istinti brutali dell’uomo possano tradursi in forme d’arte. E lo
stesso Freud (1929) afferma che il bambino ricorre al gioco per dominare le ansie,
le frustrazioni e gli eventi traumatizzanti e, che tali dinamiche ludiche, continuano
ad esistere anche nell’adulto.
d) il gioco come esercizio preparatorio, secondo cui l'attività ludica ha il compito
di esercitare alcune delle funzioni biologiche che saranno poi utilizzate nella vita
adulta (ad esempio il gattino salta sul gomitolo che gli rotola davanti e lo addenta,
come in seguito farà col topo). Questa teoria è stata accettata da pedagogisti come
Groos Froebel, Claparède e Decroly. J.S. Bruner (1981-1987) considera il gioco
come uno strumento capace di fare uscire il bambino dall’immaturità che lo
accompagna nelle varie fasi dello sviluppo. Lo studio delle teorie etologiche inoltre
lo porta a sostenere che la diversità e la durata del gioco nell’uomo rispetto
all’animale, è una differenza qualitativa connessa con lo sviluppo del linguaggio.
1.1 Una classificazione genetica del gioco
Piaget (1964-1972) presenta una teoria del gioco come «assimilazione»
(incorporazione degli eventi, delle cose, delle persone nelle strutture psichiche
esistenti) e «accomodamento» (fase di riorganizzazione delle strutture mentali sulla
base di nuove esperienze e nuovi materiali) con la realtà. Il gioco dunque, secondo
Piaget, ha la funzione di soddisfare l’«io», trasformando la realtà secondo i suoi
propri desideri.
Osserviamo più da vicino la classificazione proposta da Piaget che descrive tre tipi
di gioco secondo le varie fasi dello sviluppo evolutivo del bambino: i giochi di
esercizio, i giochi simbolici e i giochi di regole.
1) I giochi di esercizio: si presentano prevalentemente nei primi 18 mesi di vita.
Sono giochi fatti per il solo gusto di esercitarsi e per verificare le proprie capacità;
dapprima l'attenzione è verso il proprio corpo, poi si sposta verso gli oggetti. In
questa fase il bambino segue degli schemi di azione: ogni oggetto che egli scopre
viene gettato per terra in tutte le direzioni per sperimentare ed analizzarne le
cadute e le traiettorie. Sul piano linguistico è interessante osservare che non
appena il bambino comincia ad emettere dei suoni gioca con la lingua cosi come
prima giocava con gli oggetti che lo circondavano. R. Weir ed altri specialisti
sostengono che questi giochi hanno anche lo scopo di dominare e controllare lo
strumento linguistico.
2) I giochi simbolici: si presentano circa dall’età di 2 anni e introducono il
bambino nel mondo ludico dell’immaginazione, del «come se», che è tipico
dell’essere umano e prende origine dall’azione. Il gioco, in questo momento, deve
essere interpretato come la realizzazione immaginaria e illusoria di desideri
irrealizzabili: la scopa che diventa un destriero, il peluche che rappresenta la
mamma… Attraverso l'immaginazione e l'imitazione, il bambino rappresenta un
oggetto-persona-situazione che non sono presenti, ma che fanno parte della sua
esperienza; il bambino può così drammatizzare il mondo interiore della fantasia per
mantenere un suo equilibrio psichico; gli oggetti vengono usati non solo per le loro
proprietà funzionali e materiali, ma anche per quelle simboliche, che il bambino
attribuisce loro. In questa fase le azioni possono essere rappresentate in diversi
modi e il linguaggio verbale costituisce solo uno tra i modi possibili.
3) I giochi di regole: la nozione di regola porta con sé il concetto di
socializzazione e cioè di integrazione del bambino in una collettività retta appunto
da particolari regole. Attraverso questi giochi infatti i bambini, superando
l’egocentrismo infantile che caratterizzava in modo predominante le età precedenti,
cominciano a comprendere ed accettare la realtà degli altri, la realtà della
collettività alla quale appartengono. Questi giochi si presentano a partire dai 6 anni
e subentrano quando il bambino acquisisce una sua capacità di socializzazione, cioè
dopo che egli ha raggiunto un certo grado di adattamento alla realtà e di tolleranza
alle frustrazioni (in questi giochi infatti deve accettare la sconfitta e non infierire
sull'avversario in caso di vittoria). Le regole possono essere tradizionali (quelle
tramandate) o frutto di accordi momentanei: l'importanza del loro rispetto è
fondamentale per la riuscita di questi giochi.
Alcuni autori considerano anche una quarta categoria di gioco che è quella degli hobby (a partire dai 6
anni). Vengono intrapresi per puro piacere, ma sono sottoposti alla realizzazione consapevole di uno
scopo, che a volte può durare anche tutta la vita, se le gratificazioni ch'essi forniscono si fanno col tempo
sempre più considerevoli (ad es. gli scacchi o la raccolta dei francobolli). Si pongono quindi in una
posizione intermedia fra il gioco e il lavoro.
2. Forme e funzioni del gioco: il punto di vista etologico
Gli studi condotti in campo etologico sui primati ed il significativo aumento di
conoscenze sul mondo infantile unitamente ad un cambiamento in senso edonistico
e più permissivo dei modelli di vita adottati nelle società moderne, hanno portato
ad un maturato interesse relativo al ‘comportamento-gioco’ sia nel mondo animale
che in quello umano. A partire da uno studio condotto da Bruner (1976) sui primati
si è giunti a leggere il fenomeno gioco come portatore di importanti funzioni: una
volta analizzata adeguatamente la sua struttura, si constatò che il gioco non é
affatto un fenomeno casuale e mutevole come si era pensato prima. Ciò induce a
pensare che, nell’evoluzione dei primati, sia stata di importanza cruciale proprio la
selezione di una capacità ludica durante quegli stessi anni e ad ipotizzare
l’eventualità di un ruolo centrale del gioco nell’evoluzione.
Il comportamento ludico rappresenta dunque qualcosa in più: una delle
manifestazioni filogeneticamente ed ontogeneticamente piu significative nella storia
evolutiva degli animali e dell’uomo!
Gli etologi hanno posto l’accento soprattutto sulla funzionalità del gioco
definendolo come sistema di trame motorie espressive, che il comportamento rende
manifeste, funzionali alla struttura organismica nel suo rapporto di adattamento
all’ambiente ecologico circostante, e studiandone quindi scientificamente i fattori
ambientali, esterni, interni e costituzionali, che lo influenzano in modo significativo,
e in diverse specie, con dichiarati scopi comparatistici (Bertacchini, 1985).
Numerosi studi ed osservazioni sulle attività ludiche tra gruppi di primati hanno
portato ad osservare che poiché nel gioco si verifica la possibilità di montare e
rimontare sequenze di comportamento volte a conseguire destrezza nell’azione, il
gioco avrebbe una importante funzione, quella di rendere possibile l’esercizio ludico
di modalità iterative del comportamento stesso, destinate a combinarsi più tardi in
modo tale da risultare utili alla risoluzione di problemi effettivi (Bruner, 1976), e, di
conseguenza, avrebbe la funzione di incoraggiare la ripetizione di trame motorie e
di sperimentare nuovi comportamenti in modo da facilitare l’attuazione di trame di
comportamento adattivo sempre più adeguato al rapporto con l’ambiente e
pertanto essenziale alle sopravvivenze delle specie (Bertacchini, 1985). In ciò
consiste, in ultima analisi, una delle più importanti funzioni filogenetiche del gioco.
La caratteristica principale del gioco, e la sua vera sostanza, é il prevalere dei mezzi
sui fini, che fa si che il gioco liberi l’organismo dalle necessità immediate imposte
dal compito e di conseguenza riduca o neutralizzi la tensione al positivo
compimento di un atto. Questo non vuol dire che il gioco sia privo di scopi significa
solo che, nell’ambito del gioco, il procedimento è più importante del risultato.
Bruner descrive un bambino che gioca con una tazza, adattando l’oggetto ad una
varietà di programmi di azioni: la porta alle labbra, la sbatte sul tavolo e poi la fa
cadere.
La prima caratteristica del gioco osservata da Bruner e quella di essere, sia
nell’uomo che nell’animale, un esercizio che consiste nel collegare segmenti
di comportamento (o mezzi) derivati da modi non propri del gioco in
sequenze inusuali.
La seconda caratteristica, che consegue direttamente alla prima, è la
riduzione del rischio d’insuccesso. Poiché i comportamenti nell’ambito del
gioco sono così spesso derivati da sequenze che non gli sono proprie questo
fatto produce la diminuzione o l’eliminazione del rischio d’insuccesso.
Una terza caratteristica del gioco per l’autore è la sospensione temporanea
della frustrazione che esso offre a chi lo pratica. Poiché il procedimento ha la
preminenza sul risultato, un ostacolo, che sarebbe d’intralcio se venisse
incontrato nel corso della soluzione di un problema, durante il gioco viene
affrontato con serenità e perfino con allegria. Il gioco offre anche un altro
tipo di libertà, cioè un atteggiamento di disponibilità nei confronti del mondo
che lo circonda.
La quarta caratteristica evidenziata nelle azioni di gioco, è il suo invito alle
possibilità inerenti alle cose e agli avvenimenti. E la libertà di notare un
dettaglio apparentemente irrilevante.
La quinta caratteristica del gioco infine, per Bruner, che è alla base di tutte
le altre, é la sua natura volontaria. Chi gioca é libero da minacce ambientali
e da necessità urgenti. Il comportamento nel gioco ha origine per iniziativa
del soggetto stesso.
I frutti del gioco derivano, quindi, secondo Bruner, da queste sue caratteristiche. La
persona o l’animale che gioca con oggetti e con azioni, acquista abilità nel
connetterli fra loro in modi insoliti. Dal momento che la natura di "basso rischio" del
gioco gli consente di fare esperimenti e riduce la frustrazione, chi gioca protrae la
propria attività per un lungo periodo di tempo nei suoi primi anni di immaturità: il
successo della sua futura vita adulta dipenderà in larga misura dall’intensità e dalla
varietà delle sue esperienze ludiche. Inoltre, poiché il gioco ha l’importante funzione
di ridurre la tensione al positivo compimento di un atto, esso rappresenta una
buona occasione per tentare nuove combinazioni comportamentali che,
diversamente, sotto pressione funzionale, non potrebbero essere sperimentate, e
altresì per produrre quella flessibilità che rende possibile la padronanza dell’uso di
strumenti complessi (Bruner, 1976).
Un’altra ricerca, condotta da Bruner e alcuni collaboratori, prende in esame le
relazioni esistenti fra il gioco e la risoluzione dei problemi meccanici e prova come i
bambini piccoli imparino progressivamente a risolvere problemi posti dall’uso di
quei materiali con cui abbiano in precedenza giocato. La ricerca ha coinvolto piccoli
gruppi di bambini in età compresa fra i tre e i cinque anni. Il loro compito
consisteva nel pescare un premio da un contenitore pieno di liquido, collocato fuori
della loro portata. Per farlo bisognava incastrare l’uno nell’altro due bastoni.
Venivano presentate ai bambini varie tecniche di addestramento, compresa la
dimostrazione del principio di giunzione dei due bastoni, oppure del modo di
incastro degli stessi, singolarmente presi, o ancora offerta l’opportunità di osservare
lo sperimentatore mentre svolgeva il compito. C’era, infine, un gruppo di bambini,
cui si consentiva di giocare semplicemente con i materiali. Quest’ultimo gruppo si
rivelò, nella risoluzione del problema, altrettanto abile quanto quello cui era stata
data la dimostrazione del principio di incastro dei bastoni, e addirittura più abile di
alcuni degli altri gruppi. Di fatto colpì nel ‘gruppo-gioco’ la tenacia con la quale si
cimentava nell’impresa, per cui, pur privo di ausilio nell’approccio iniziale, finì per
risolvere il problema, e in particolare la capacità di resistere alla frustrazione e alla
tentazione di rinunciare. Ciò perché stava giocando. Dunque per Bruner il maggior
vantaggio che si ricava dal gioco consiste nella più ricca articolazione combinatoria
che esso conferisce al comportamento, la quale permette la padronanza delle
abitudini che vengono a costituirsi in modo estremamente significativo.
Anche K. Groos (1898) pone l’accento sulla funzionalità del gioco e mette in
evidenza il reale significato biologico del gioco. Secondo questo autore il periodo
giovanile, che si manifesta soltanto negli animali superiori, ha il compito di dare
all’animale il tempo di adattarsi ai complicati compiti della propria vita, per i quali
gli istinti non sono sufficienti. Egli sostiene che l’utilità del gioco é incalcolabile:
questa utilità consiste nella pratica e nell’esercizio che esso fornisce in relazione ad
alcuni dei più importanti compiti che l’animale si trova a fronteggiare nel corso della
sua vita, dato che la selezione tende ad indebolire e diminuire la cieca forza
dell’istinto, e a favorire sempre più lo sviluppo dell’intelligenza libera ed
indipendente. La selezione favorisce quegli individui nei quali gli istinti appaiono
prima in forme meno elaborate: essa sarà a favore degli animali che giocano.
In linea con questa teoria è anche la posizione di K. Lorenz il quale sostiene che il
gioco avrebbe la funzione di mantenere flessibili i comportamenti delle specie
filogeneticamente più avanzate, cambiando secondo modalità non rigide e
stereotipe sequenze di comportamenti già noti. Secondo Lorenz, l’uomo ha bisogno,
durante la giovinezza, di un lungo periodo in cui esercitare la sua curiosità. Ma la
curiosità non é sufficiente: devono esserci anche l’esplorazione, e il gioco, cioè
quell’ esercizio attraverso il quale si sperimentano cose nuove in nuovi contesti.
Interessante la posizione di Lorenz sulla ricerca scientifica. Per questo autore tutta
la ricerca materiale condotta da uno scienziato umano é puro comportamento
esploratorio. In questo senso, esso é comportamento di gioco. Tutta la conoscenza
scientifica alla quale l’uomo deve il suo ruolo di padrone del mondo, é sorta da
attività ludiche condotte in un campo libero ed interamente per il gusto dell’azione
stessa. La progressiva transizione nel corso dell’attività di ricerca dal gioco infantile
di tipo indagatorio al lavoro della vita dello scienziato testimonia sulla fondamentale
identità fra gioco e ricerca.
Il gioco, poi, é uno dei fattori più importanti nello stabilire delle relazioni sociali.
L’attività di gioco, dunque, considerata nel suo insieme, é anche quella che rende
possibile l’inevitabile consapevolezza della gerarchia e favorisce la strutturazione
della gerarchia sociale e l’inserimento dei piccoli nel gruppo.
(E. Bilotta, Cit., 1997)
La struttura del gioco
Il percorso fin qui illustrato ci aiuta a mettere in evidenza le caratteristiche fondanti
e costitutive dello strumento GIOCO, strumento-comportamento che riveste un
ruolo fondamentale nel processo evolutivo della specie, funzionale al suo
mantenimento, alla sua capacità di evolvere in un contesto ed in un’ottica di tipo
ecologico, utilizzando curiosità e capacità creativa per agire nel confronti della
realtà.
Proviamo dunque ad andare a “smontare” il gioco, nell’intento di leggerne i
significati e di imparare ad utilizzarne in modo efficace le dinamiche sociali ad esso
sottese e le funzioni che attraverso esso è possibile sperimentare.
Per questa analisi utilizzeremo gli strumenti di lettura proposti nell’ipotesi di
classificazione e di lettura del gioco presentata nelle linee introduttive di “Progetto
Gioco” (vedi Zocca E., Cit., 2002)
o Analisi e classificazione struttura del gioco:
dinamiche sociali attivate (Zocca E., 2002)
Se il giocare può dunque essere osservato come indicatore delle competenze sociali
del soggetto che lo pratica, le azioni manifeste, che i protagonisti attivano durante il
gioco, rivelano la loro "competenza sociale" e "culturale".
Questa considerazione non ci deve portare a considerare l’attività individuale di
gioco forma semplice di giocare, per reputare complessa solo l’attività all’interno di
un gruppo o di una squadra.
Vedremo infatti come il comprendere tutte le azioni dei giocatori utilizzando il punto
di vista delle osservazioni delle dinamiche sociali che manifestano, può servirci ad
un duplice scopo:
ci permette di descrivere i vari modi di praticare il gioco
fornisce un concreto strumento di lettura del livello sociale dei partecipanti
Il bambino piccolo non sa praticare il gioco di squadra, non perché non è in grado di
eseguire l’azione tecnica, per esempio del calciare la palla, quello lo sa fare ben
presto; ciò che non conosce e non sa praticare sono le azioni del calciare nella
situazione delle dinamiche sociali attive del gioco di squadra, variabile molto più
complessa della singola azione elementare del calciare.
Nelle dinamiche del gioco di squadra si richiede, oltre e in più, al saper
padroneggiare la singola azione fondamentale, una serie molto ampia di variabili
nel trattare e usare l’oggetto palla.
Si richiede di saper comportarsi produttivamente e trattare in modo competente “gli
oggetti” in campo: tecniche, regole, tattiche e dinamiche sociali comprese. Il
bambino piccolo non possiede ancora le padronanze per agire produttivamente
all’interno di un contesto strutturato e delimitato rigidamente da regole.
Nel gioco di squadra si chiede al bambino di esercitarsi in comportamenti che non
procedono dalle sue conoscenze e competenze sociali, conoscenze e competenze
che sono tutte presenti e costitutive del gioco di squadra.
L’ipotesi di classificazione e di lettura delle azioni di gioco che qui di seguito si
presenta, può aiutare e facilitare la nostra comprensione del gioco strutturato nelle
sue implicazioni dinamiche. I giochi di gruppo o di squadra, rivelano sempre iniziali
o fondamentali azioni competenti dei singoli: esecuzioni semplici o complesse,
padronanze nell’uso di oggetti o di particolari tecniche, competenze nel rapportarsi
efficacemente nella collaborazione con le altre persone.
Grazie a questo strumento, possiamo “smontare” parzialmente questi giochi
strutturati e ricomporli, poi, in un insieme significativo secondo una sequenza che
indica livelli e soglie di competenza.
Non potendo, infine, ridurre la complessità del giocare, che rimane, in ogni caso,
immutata, questo “punto di vista” che osserva e tiene conto delle dinamiche sociali
implicate risulta essere un modo concreto e semplice di interpretare il gioco e le
azioni dei giocatori.
Questa proposta ha come padre autorevole L.S. Vygotskij, il quale nel contesto dei
suoi studi sul comportamento osservava:
“Il bambino vede l’attività degli adulti che lo circondano, la imita e la trasferisce nel
gioco ed è con il gioco che s’impadronisce dei fondamentali rapporti sociali.
…In questo modo il gioco è fatto uscire dal contesto di uno sviluppo puramente
funzionale e di uno sviluppo di singoli processi psichici per entrare nel contesto della
formazione della personalità sociale”.
Il passo da qui risulta agevole: i giochi possono essere interpretati classificandoli
secondo criteri di osservazione e comparsa delle dinamiche sociali attive.
Si tratta di interpretare i vari giochi dal punto di vista delle dinamiche implicate e
rapportarle alle competenze dei giocatori a progettare e gestire attivamente queste
dinamiche sociali. Da una parte possiamo classificare i vari giochi che conosciamo,
dall’altra ci è possibile individuare a quale stadio di sviluppo sociale si colloca il
nostro giocatore osservato. Questo ci permette di costruire un modello sintetico di
riferimento di interpretazione del gioco.
Sono due gli aspetti elementari (fondamentali) che possiamo osservare, che ci
consentono di trattare con la complessità di questo oggetto del nostro interesse: le
dinamiche sociali attivate e le funzioni esercitate.
Le dinamiche sociali osservate nelle azioni di gioco e nei giochi possono essere
quindi descritte dai termini:
DINAMICA SOCIALE ATTIVATA (per semplicità si indicano sette livelli)
1. individuale: non è implicata dinamica o un'attività con altre persone,
l’esperienza è vissuta come esperienza rigorosamente personale o in
solitudine
2. in coppia: non è implicata dinamica o un'attività sociale elaborata o
strutturata dai componenti, con altre parole si può dire che la coppia
non elabora progetti comuni, pur comparendo, a volte, lo scambio delle
scoperte e delle produzioni: i risultati e i processi individuali non
modificano l’azione dell’altro
3. di coppia: si osservano forme strutturate di scambio e di progettazioni
condivise, le varie attività sono legate da una comune progettazione,
realizzazione e verifica dei processi e dei risultati; l’attività individuale è
coordinata e condiziona l’azione dell’altro componente della coppia, si
perseguono obiettivi di coppia
4. in gruppo: non è implicata un'attività dinamica sociale elaborata o
strutturata dai componenti, prevale l’azione individuale, processi e
risultati non condizionano l’azione dei componenti
5. di gruppo: è implicata un'ampia attività dinamica sociale elaborata o
strutturata dai componenti, prevale l’azione collettiva e ruolo nel
gruppo, l’azione individuale condiziona processi e risultati del gruppo, si
perseguono obiettivi di gruppo
6. in squadra: non è implicata un'attività dinamica sociale elaborata o
strutturata dai componenti, le attività si svolgono all’interno di un
gruppo che contrasta o persegue obiettivi comuni o in competizione ad
un altro gruppo, l’azione individuale provoca una reazione individuale
nell’altro gruppo
7. di squadra: è implicata un'ampia attività dinamica sociale elaborata o
strutturata dai componenti; le attività si svolgono all’interno di un
gruppo che contrasta o persegue obiettivi comuni o in competizione con
un altro gruppo, l’azione collettiva provoca una reazione collettiva
dell’altro gruppo, prevale l’azione collettiva e ruolo nel gruppo, l’azione
individuale condiziona processi e risultati del gruppo, si perseguono
obiettivi di gruppo.
Osservare il gioco, o le azioni di gioco e, da questo punto di vista, le dinamiche
sociali, ci permette di individuare in modo chiaro la complessità delle relazioni in
campo. L’altro elemento che compare, e che ci può interessare, riguarda la nostra
possibilità di osservare il livello di competenza alla relazione del gruppo dei
soggetti presi in considerazione.
Il passaggio da una dinamica all’altra, in termini di competenza alla relazione,
contiene numerose variabili: le competenze personali, le altre persone e le nostre
padronanze nell’usare gli oggetti, tra i quali, la stessa realtà del gioco scelto.
L’elemento significativo semmai riguarda la necessaria conquista di un livello
elementare, iniziale, per passare, “a pieno titolo” al livello successivo.
È poi chiaro che ogni situazione ed ogni esperienza di gioco si può esprimere in
forme semplificate e che possono vedere giochi strutturati per attività di squadra,
essere praticati all’interno di dinamiche più semplici, come quelle delle attività in
gruppo. Per esempio giocare a calcio “tutti contro tutti”, che richiama le tecniche
del gioco del calcio, ma non compaiono tattiche e strategie del gioco di squadra.
In ogni gioco occorre confrontarsi con i tre elementi della relazione: il sé, le proprie
competenze personali “messe in gioco”, le altre persone, che si relazionano con noi
e gli oggetti che usiamo, individualmente o in relazione ad altri.
Diversa cosa è usare la palla individualmente o contesa da altri, la situazione si
complica, le competenze sono altre.
Per esemplificare ancora, si pensi al “gioco del tiro in porta” o all’ “andare a
canestro” o al citato “tutti contro tutti”. Si tratta di giochi che rivelano la ripetizione
dell’azione presente nel calcio e nel basket ma nei quali non compare attività
“condivisa” d’attacco e difesa, si gioca, spesso, su una parte sola del campo e non è
presente una dinamica di strategie e iniziative comuni tra i componenti del gruppo,
come nel gioco di squadra. Si tratta di giochi in gruppo dove è manifesta
l’intenzione di sviluppare competenze personali e nell’uso di oggetti (tecniche e
controllo della palla) alla pratica del gioco più complesso, ma non si è in condizione
o non si desidera praticarlo, anche semplicemente perché non si è in numero
sufficiente per farlo.
In questa immagine è
rappresentata una
scala esemplificativa
di una progressione e
dei livelli crescenti di
complessità delle
dinamiche attive che
si possono osservare
all’interno di un gioco.
L’attività procede
dall’individuale alla
coppia, dalla coppia al
piccolo gruppo e dal
piccolo gruppo alla
squadra.
La conquista delle
padronanze di un
livello sono elementi
per il mantenimento
delle strutture delle
dinamiche sociale
delle tappe
successive. Le esperienze “preparatorie” al gioco di coppia possono essere
sperimentate e realizzate prima da solo (per esempio imparo e miglioro il mio
controllo di un oggetto, della palla, in numerose e variabili situazioni) poi
approfondisco e codifico altre competenze nell’interagire con un compagno di gioco
(le sue risposte mi consentono di ampliare ancora e migliorare le mie possibilità
operative). Le competenze personali, consolidate e strutturate nella relazione di
coppia, possono consentirmi di affrontare altre attività all’interno di un piccolo
gruppo e poi di trasferire queste all’interno di una dinamica più ampia, che implica
altre competenze relazionali, come il saper agire in ruoli e funzioni specifiche del
gruppo, come nelle dinamiche del gioco di squadra, dove due gruppi agiscono
all’interno di una struttura normalizzata di regole e tecniche di gioco. Procedura
coerente e consigliata per lo sviluppo delle attività:
individuale coppia piccolo gruppo squadra.
o Analisi e classificazione struttura del gioco:
funzioni esercitate (Zocca E., 2002)
Le funzioni esercitate nelle attività motorie e nelle attività di gioco possono essere
descritte e semplificate dai concetti:
esplorare, esercitarsi, organizzare o costruire, usare simboli, praticare
norme e usare regole.
Nel momento esplorativo si osserva una funzione iniziale con caratteristiche
esploratorie e una successiva con caratteristiche intenzionali e mirate: l’attività
esplorativa.
Queste funzioni ripercorrono i processi cognitivi descritti da Jakobson, uno studioso
delle funzioni del linguaggio scritto: saper riprodurre, saper organizzare e
riorganizzare e dell’inventare il nuovo, attività che corrisponde all’azione creativa.
Gioco
o esploratorio i risultati sono casuali
o esplorativo i risultati sono ricercati intenzionalmente
o esercitativo le azioni sono orientate e controllate
o simbolico l'oggetto è distinto dall'azione
o di costruzione le produzioni sono strutturate
o a regole i risultati e le azioni sono inserite in una dinamica di scambi
sociali
Tuttavia anche questa semplificazione non può rivelarci distintamente e ancora la
dimensione e la qualità del gioco nella nostra cultura.
Infatti, ogni semplificazione e’ sempre una forma di perdita, di cesura (taglio) di
alcuni significati e di
alcune condizioni.
La consapevolezza di
questo comportamento
“strano” che è il giocare
risulta tuttavia un
processo, siamo ancora
in cammino, insieme e
verso, una conoscenza
più ampia del significato
di quest’espressione
dell'uomo.
L'uso del gioco nei
processi educativi o l’idea
di condizionare i
comportamenti,
attraverso il gioco, sono
realtà concrete, come lo
è la costante evoluzione delle forme che assume il gioco. Lo rivelano i palinsesti
delle programmazioni delle varie televisioni e delle attività riservate al tempo libero,
come le forme di animazione e le cosiddette programmazioni delle “vacanze
intelligenti”.
É pur vero che nella nostra società si usa molto il gioco nelle sue forme o
espressioni sociali, ma non sempre sembra emergere una competenza al gioco o
una consapevolezza delle forme socializzanti del gioco nelle sue componenti: spesso
il gioco sembra essere usato funzionalmente ad altro.
Il “far finta di” non sempre descrive la condizione del gioco, le funzioni e gli scopi
del gioco sono molto più articolate e complesse.
FUNZIONI ESERCITATE NEL GIOCO
Codici convenzionali proposti per descrivere le funzioni di gioco, osservo giocare e
mi è possibile individuare le funzioni esercitate.
E = la funzione esploratoria si rivela nel gioco ESPLORATORIO;
[codice convenzionale proposto: E]
E = a Esperienza fondamentale non orientata (PERCEZIONE SENSORIALE)
e = la funzione esplorativa si rivela nel gioco ESPLORATIVO;
[codice convenzionale proposto: e]
e = a esperienza fondamentale orientata. (PRESA DI COSCIENZA)
∞ = la funzione esercitativa si rivela nel gioco ESERCITATIVO;
[codice convenzionale proposto: ∞].
∞ = a esperienza esercitativa, ripetizione orientata (CONSAPEVOLEZZA)
C = la funzione organizzativa e produttiva si traduce nei giochi di
COSTRUZIONE/ORGANIZZAZIONE;
[codice convenzionale proposto: C].
C = a esperienza di Costruzione, organizzazione, riorganizzazione.
S = la funzione simbolica si rivela nel gioco SIMBOLICO;
[codice convenzionale proposto: S].
S = a esperienza Simbolica, con uso di Segni. (LINGUAGGIO)
R = la funzione adattiva si rivela nel gioco A REGOLE;
[codice convenzionale proposto: R].
R = a esperienza con Regole condivise . (SOCIALIZZAZIONE)
A! = il comportamento aggressivo e violento si rivela nel gioco PROFONDO.
[codice convenzionale proposto: A o A!].
A o A! = a esperienza con situazioni ansiogene, A! attenzione.
(Ansia ≠ Violenza, come Competizione ≠ Conflitto o Aggressività ≠ Agonismo)
o Comportamento ludico come competenza
(Zocca E., 2002)
Il gioco insegnante
Un gioco per imparare, il gioco per ricrearsi, giocare per sperimentare, per
conoscere… osservare un gioco, valutare, smontare, descrivere un gioco… il gioco
insegna?
La relazione educativa non comprende sempre il gioco, il gioco “compromette”
sempre, nelle sue dinamiche, il processo educativo.
Nel gioco è presente l’imparare, la comunicazione, il movimento, il linguaggio, le
regole e le tecnologie. Il gioco è osservato, raccontato, chiacchierato e misurato da
molti, da diversificati e spesso distanti punti di vista, a volte è anche praticato.
La prima risposta è che il gioco non è uno stato, io sono del Milan, io sono un
gigante, un nano, l’orso, l’uomo nero… Probabilmente il gioco è un processo: posso
essere del Milan, ma non giocare a calcio, posso credermi un gigante per
compensare la mia paura, …giocare a fare il nano, l’orso, essere pienamente
consapevole che la mia …è una finta. Domani posso imparare a giocare in un modo
diverso.
Ognuno di noi ha una sua esperienza del gioco, è stato educato ad una cultura di
gioco. Questa informa il suo modo di intendere la pratica del giocare e può
“orientare”, se non limitare la sua possibilità di comprendere in un certo modo, a
volte, più ampio, forse più significativo, alcune opportunità che gli può offrire il
gioco. Il gioco procede da forme naturali per poi trasformarsi in qualche cosa di più
strutturato che esprime o rivela gli strumenti della cultura dalla quale proveniamo e
dove ci muoviamo.
“Comprendiamo il senso delle cose attraverso il fare concreto”
Se quest’affermazione è vera, per il bambino che cresce lo è in modo decisivo: la
sua esperienza diventa però competenza quando incontra la sfera della
comprensione e nel fare esperienze concrete, non solo quelle che prendono le
mosse dalla percezione (solo visiva o tattile per esempio).
Non s’impara ad andare in bicicletta, infatti, se non si prova ad usare questo
mezzo, anche se si sono visti i più significativi filmati sull’uso della bicicletta o le
cronache delle manifestazioni più importanti con la bicicletta o si conoscesse a
memoria la sequenza meccanica delle azioni del pedalare e tutte le implicazioni
tecnologiche che quest’operazione comporta. Per saper fare è ancora
indispensabile, anche di questi tempi, provare, non come sinonimo di incontrare o
sentire, ma di praticare e poi saper rievocare e riattuare, due processi ben distinti
della nostra memoria: il cognitivo e il motorio (K.Popper, J.Eccles, 1985). Il gioco
come processo dinamico, non stato, non condizione, interessa il mondo delle
produzioni umane, come, per esempio i linguaggi e le tecnologie. Strumenti questi
che contengono essi stessi elementi non materiali.
Se io imparo ad usare parole, giochi e tecnologie, non mi approprio solo di
strumenti, ma mi impadronisco anche di competenze, altre attività umane che
vanno a comporre nuovi modi di essere e di comportarmi con la realtà.
Questi strumenti diverranno ben presto più e qualche cosa di diverso dal mezzo.
Strumenti questi che, all’interno di questa logica, sono dinamici e in mutamento: la
parola, il gioco, la tecnologia. L’oggetto usato è trasformato dal soggetto in una
nuova possibilità di espressione di sé, come persona-in-relazione.
L’uso di un oggetto, mi porta a vivere anche competenze non materiali.
E’ possibile saper fare senza conoscere, conoscere qualche cosa senza saper, di
quella cosa anche saper fare, a livelli diversi e distinti dalla “sola fantasia”, di quella
cosa? Forse il pensiero e le nostre azione sono indisgiunti, i pensieri seguono altri
orientamenti, altre idee, dalle azioni che esercitiamo? Solo attraverso le esperienze
io posso costruire le mie competenze e questa distinzione tra sperimentare e
conoscere, tra fare e pensare è perlomeno ingenua, mutilante, negando una parte
di me nega la mia integrità, nega me stesso, la mia opera.
A condizionare il nostro modo di imparare e di relazionarci con la realtà è ciò che
sperimentiamo, il processo di apprendimento è condizionato da ciò che conosciamo;
ciò che non abbiamo mai sperimentato e non conosciamo non può costruire i nostri
modi di essere. Per questo anche il gioco è insegnante.
La seconda risposta è quindi: ciò che condiziona il proprio modo di imparare è ciò
che si vive nella relazione educativa. A condizionare il procedere delle esperienze è
ciò che si conosce, non certo ciò che non si conosce.
PER APPROFONDIMENTI SUI TEMI TRATTATI NEL MODULO:
Zocca Edo [2002], “Forme naturali e culturali del gioco”, in Progetto gioco,
Comune di Verona_Ufficio Educazione Fisica e Sportiva di Verona_MIUR
Bilotta E. [1997], “Il gioco nell’etologia e nell’ Intelligenza Artificiale”,
Dipartimento di Scienze dell’Educazione, Centro Interdipartimentale della
Comunicazione, Università della Calabria
APPROFONDIMENTI IN RETE:
1. Interessante articolo a cura della d.ssa Carmen Pericola pubblicato
sul sito www.psiconline.it (Psicologa clinica, psicologia infantile)
La relazione con il bambino è una relazione molto delicata e coinvolgente, giacché è
sempre, prima di tutto, una relazione tra due universi emozionali. Il bambino,
infatti, è un sensibilissimo radar delle nostre emozioni, dei nostri stati d’animo,
molto abile nel leggere con chiarezza dentro di noi e vederci per come realmente
siamo. Questo perché è in grado di indovinare in maniera infallibile ogni nostra
reazione emotiva, a prescindere dal significato delle parole che pronunciamo,
leggendo il linguaggio del corpo, le variazioni di tonalità e d’intensità della voce.
Non possiamo mentire a un bambino né possiamo impedirgli di mettersi in
risonanza con il nostro universo emotivo.
Con i bambini, quindi, non hanno effetto tutti quegli accorgimenti e quei
meccanismi di negoziazione della nostra immagine che di solito utilizziamo
all'interno delle relazioni tra adulti.
Inoltre, i bambini riattivano in noi emozioni e conflitti, magari sedimentati, ma
sempre vivi, che abbiamo nei confronti della nostra infanzia e di cui spesso non
siamo nemmeno consapevoli, col rischio di ridestare in noi remote angosce, rabbie
infantili, paure mai confessate.
E questo a volte può metterci in difficoltà, specialmente se ci consegna
un’immagine di noi che non ci piace, che non assomiglia all’immagine che negli anni
ci siamo fatti di noi stessi, se ci mostra dei lati di noi che non vorremmo vedere,
che non apprezziamo, che non sapevamo nemmeno di avere.
L’infanzia che abbiamo avuto, ma più di tutto i ricordi che di quella infanzia
conserviamo dentro di noi, determinano la qualità delle relazioni che da adulti
siamo in grado di avere con i bambini.
Così la relazione con i bambini richiesta dal nostro intervento professionale può
attivare in noi emozioni, conflitti e desideri relativi alla nostra infanzia, che possono
essere rimasti nascosti nel nostro inconscio. E come accade in ogni relazione i
conflitti inconsci attivati da quella stessa relazione possono produrre risultati anche
molto lontani da quelli che avremmo immaginato, scatenando risposte aggressive,
ansiose o depressive.
E’ per questo motivo che il lavoro psicologico ed educativo con i bambini reclama
costantemente la nostra capacità di metterci in gioco. E’ importante che gli
educatori e tutti coloro che sono impegnati in relazioni di aiuto con i bambini
possano valutare la disponibilità personale a identificare e tradurre in parola il
proprio universo emozionale in generale e le emozioni e i conflitti attivati dalla
relazione con il bambino in particolare, per imparare a governare quelle stesse
emozioni senza la necessità di negarle o di rimuoverle e, allo stesso tempo,
riuscendo a non lasciarsi travolgere da esse: per sapere cosa vede il bambino
quando ci guarda e cosa vediamo noi quando guardiamo lui.
Possiamo comunicare serenamente con i bambini, parlare il loro linguaggio,
soltanto se quello è un linguaggio che ci piace, che rievoca in noi ricordi piacevoli e
non fantasmi con cui non abbiamo ancora fatto i conti.
Ebbene, nessuno è tenuto a fare i conti con i propri fantasmi. Può anche decidere di
vivere una vita difendendo strenuamente le proprie difese. Ma se vogliamo lavorare
con i bambini dobbiamo farlo. Per i bambini che incontriamo, ma prima di tutto per
noi stessi. Per non permettere al dolore di quei bambini, alle loro angosce, alle loro
paure, di invaderci e di distruggere il nostro equilibrio psichico. Anche perché, forse,
se, nonostante la nostra infanzia difficile, ci siamo avvicinati professionalmente
all’universo infantile, stiamo cercando un modo di riparare alla nostra perdita, di
confrontarci con essa.
Molti di noi sono adulti infelici che hanno perso la propria infanzia e che vivono
soffrendo per questa perdita, ma l’infanzia perduta può essere ritrovata.
Possiamo recuperare noi stessi, la nostra parte infantile, imparare oggi a essere
bambini.
Tutto ciò costituisce il punto di partenza per riuscire ad apprendere il linguaggio dei
bambini e per predisporsi a un ascolto vero, empatico.
Il bambino ci parla con una lingua che dobbiamo essere in grado di tradurre. E
soprattutto il bambino non parla alla nostra parla razionale, perché parla con la
voce dell’istinto. E per ascoltarlo veramente dobbiamo ascoltarlo con la nostra parte
istintiva. Non capiremo mai davvero un bambino, non sapremo mai interpretare i
suo messaggi (bisogni, desideri, richieste di aiuto) se non lasceremo libera la nostra
parte istintiva, se continueremo a pensare che il bambino “ragiona” come noi,
conosce e, soprattutto, è in grado di adeguarsi alle nostre convenzioni sociali,
padroneggia, come noi, i suoi bisogni ed è in grado di procrastinarli, ha delle
categorie mentali ben strutturate entro le quali incasellare la realtà.
L’ascolto è un’attività delicata, molto più difficile di quanto possa sembrare. E’ già
molto delicata se riguarda un altro che parla il nostro stesso linguaggio, che utilizza
le nostre convenzioni e le nostre categorie. Diventa arduo con un “altro” che parla
un’altra lingua e adotta schemi mentali diversi dai nostri. Ed è questo il caso
dell’ascolto di un bambino da parte dell’adulto.
Comunicare con un bambino è molto più difficile di quanto possa sembrare. Non
bastano le buone intenzioni. Anzi, un po’ provocatoriamente potremmo affermare
che le buone intenzioni non solo non bastano ma, a volte, non servono.
La comunicazione vera con il bambino è una comunicazione tra due parti istintive,
quindi non è mediata neanche dalle intenzioni.
Posso trovarmi davanti a un bambino e non avere alcuna intenzione di interessarmi
ai suoi problemi, posso essere distratto da altri pensieri, ma se quel bambino ha su
di sé i segni nascosti di una esperienza che in qualche modo richiama la mia
infanzia, io riconoscerò quei segni, anche senza prenderne coscienza e ne resterò
turbato, senza magari riuscire a capire cosa mi ha turbato.
L’ascolto autentico richiede soprattutto che chi desidera ascoltare sappia prima
ascoltare se stesso, riconoscendo il proprio universo emozionale e i conflitti che la
relazione d’aiuto con i bambini può attivare in lui.
Possiamo davvero ascoltare un bambino, comprendere i suoi bisogni, riuscire a
tenere nella nostra mente la sua sofferenza, solo se abbiamo effettuato un
impegnativo percorso di maturazione personale e abbiamo accettato di guardare in
faccia il bambino che siamo stati.
Solo riconoscendo le nostre emozioni e la nostra sofferenza riusciremo davvero a
mettere in gioco noi stessi e ad avere una relazione autentica con i bambini che
incontreremo lungo la nostra strada professionale e personale.
[http://www.psiconline.it/article.php?sid=2286]
2. E per chi non lo avesse ancora letto... ecco qui l’intervento di
Galimberti su Istruzione e ludicità (confronta www.repubblica.it)
Giocatori in cattedra - L'istruzione sia ludica
di UMBERTO GALIMBERTI
Una delle ragioni per cui la scuola non funziona e i nostri ragazzi ci vanno
malvolentieri è che a scuola non si gioca. Sono di questo parere Pier Aldo Rovatti e
Davide Zoletto che hanno scritto per i Tascabili Bompiani un piccolo libro, denso e
istruttivo, che ha per titolo “La scuola dei giochi”. Non si tratta di una scuola per
bambini, ma della "scuola" in generale, dalle elementari all'università, dove si
dovrebbe imparare giocando, e dove il gioco non è una pausa, un intervallo, un
momento di svago e di libertà, ma fa tutt’uno con l'apprendimento stesso.
Naturalmente per accedervi è necessario sapere che cos' è un gioco e fuoriuscire da
quel luogo comune che ritiene il gioco una faccenda per bambini che si contrappone
alla serietà della vita adulta. Questo pregiudizio si fonda su due fraintendimenti. Il
primo assimila il gioco allo spazio della libertà, della creatività, dell'evasione dalla
realtà, dell'assenza di regole, il secondo fa coincidere la serietà con l'aderenza alla
realtà, l'assiduità, la buona volontà non esente da sacrificio, l'impegno, la
costrizione. Tutte cose spiacevoli, da cui i ragazzi generalmente rifuggono.
In realtà le cose non stanno così, perché il gioco prevede delle regole che, non
osservate, mettono subito il giocatore "fuori gioco". Se così non si facesse, tutti gli
altri giocatori non saprebbero più "a che gioco si gioca". Senza regole, infatti, il
gioco non si costituisce e nessuno si divertirebbe. Quindi il gioco ha una sua serietà
e non è l'antecedente della serietà, non è un'attività tipica della fase infantile da cui
ci si congeda quando si diventa adulti. Il problema semmai è un altro: "Non si può
insegnare a giocare".
Si possono insegnare le regole del gioco, queste regole possono essere apprese da
tutti, ma poi non è detto che uno "si metta in gioco", che voglia mostrare agli altri
le sue attitudini o le sue inettitudini, che voglia "giocarsi" la faccia, e allora si
dispone ai bordi del campo a vedere gli altri che giocano. A questo punto è possibile
chiedersi: quanti insegnanti si mettono in gioco e quanti studenti sono in gioco e
non invece ai bordi del campo?
C'è una domanda che Bruce Chatwin si poneva ogni tanto nel suo ininterrotto
peregrinare: "Che ci faccio io qui?". Anche se non se la pongono così
esplicitamente, non faccio fatica a immaginare questa domanda come il
retropensiero di molti insegnanti e di molti studenti quando ogni mattina entrano in
classe. Sono tutti uno di fronte o di fianco all'altro, ma non "fanno classe" perché,
per "fare classe", non basta il suono della campanella e neppure le programmazioni
o i metodi didattici. Per "fare classe", per arrivare a quella sintonia operativa che
permette di rispondere a quella domanda: "Che ci faccio io qui?" è necessario che
tra insegnanti e studenti si crei una sorta di "collusione".
Il termine, dal latino "col-ludere", significa "giocare insieme". E siccome nessuno
può colludere da solo, è necessario che tutti, insegnanti e studenti "stiano al gioco",
un gioco che, come tutti i giochi, ha le sue regole, un suo ordine, ed entro il quale
ciascuno assume, in modo meno passivo di quanto potremmo credere, i ruoli
istituzionali di insegnanti e allievi.
Perché diciamo "in modo meno passivo"? Perché l'insegnante diventa davvero tale
non quando ha ricevuto l'autenticazione del suo ruolo da un'istanza "fuori gioco",
quale può essere un concorso o una sanatoria dopo anni di precariato, ma quando,
dandosi da fare, riesce a ottenere la cooperazione degli allievi, che sono i soli che
hanno il potere di rendere quel ruolo riconosciuto e riconoscibile.
Come ci insegna Foucault, infatti, il gioco non esclude i "giochi di potere", anzi è
l'unica dimensione in grado di ospitarli. Con una differenza: che là dove non si
gioca, il potere viene conferito dall'autorità, mentre nella scuola dei giochi, dove c'
è collusione perché si gioca insieme, il potere e quindi il riconoscimento di ruolo
dell'insegnante viene conferito da tutti coloro che "sono in gioco", quindi dagli
studenti, dai colleghi, dai genitori. Nella scuola dei giochi non basta "entrare in
ruolo" per avere un ruolo, questo ruolo, come in ogni gioco, lo si guadagna
giocando. E se lo si perde, bisogna riguadagnarselo, per non essere messi "fuori
gioco".
Anche l'insegnante che non riesce a "tenere la classe" è in gioco, solo che quella
classe, invece di una "classe" è una "fiera". E anche la "fiera" è frutto di una
collusione tra insegnanti e allievi, anche se probabilmente non piace a nessuno dei
due. Qui è inutile cercare le cause fuori dal gioco (nel degrado del contesto sociale,
nella famiglia di provenienza, nella pregressa impreparazione degli studenti,
nell'eccessiva rigidità di altri colleghi, nell'ottusità dei dirigenti).
La domanda da porsi è un'altra: che tipo di classe insegnanti e allievi stanno
facendo, che tipo di gioco stanno giocando? Al gioco della "fiera" o al gioco della
"scuola"? Dalla parte degli allievi a scuola ci sono sempre quelli che non resistono a
dimostrare che sono i più bravi, anzi vengono a scuola sostanzialmente per questo.
Non per giocare con gli altri, ma per primeggiare sugli altri.
Niente di male, il gioco è anche questo e la competizione fa parte del gioco, ma nel
gioco della scuola bisogna evitare che la competizione produca effetti di esclusione,
perché, se lo fa, la scuola sta giocando un gioco che non è il suo, e quelli che si
sentono "fuori gioco" non possono evitare di chiedersi: "Che ci facciamo qui?".
Quelli che a scuola faticano, che non riescono mai a portare a casa una sufficienza
si sentono un po' "handicappati", termine che ricorre di frequente nella scuola a
prescindere dal riferimento specifico dei "portatori di handicap".
La scuola dei giochi conosce l'handicap perché è un termine coniato nel lessico dei
giochi, in riferimento al vantaggio che, per esempio, il corridore più forte concede al
rivale più lento perché la gara non perda subito interesse. L'handicap è una regola
del gioco, per cui chi è svantaggiato nella vita per condizioni sociali, familiari,
culturali, viene avvantaggiato a scuola. In questo modo l'handicap cessa di essere
uno stigma sub specie aeternitatis, ma è uno svantaggio che, opportunamente
avvantaggiato ad esempio con l'assegnazione di un sostegno, si traduce in un
vantaggio per tutti i giocatori che non perdono interesse al gioco.
Ma qual è il gioco che si gioca a scuola? Oltre ai "giochi di potere", che sono giochi
collusivi in cui gli insegnanti cercano di determinare il gioco degli allievi, i quali
rispondono o cercando di non lasciar determinare interamente la loro condotta dagli
insegnanti o tentando addirittura di determinare a loro volta la condotta degli
insegnanti, nella scuola si giocano anche "giochi di verità".
I due giochi non sono sconnessi, perché l'insegnante guadagna il suo "potere"
mostrando di "sapere" qualcosa che gli allievi non sanno, perché è il sapere che
conferisce all'insegnante un certo peso nella classe come gioco di potere. Che
l'insegnante sappia più dell'allievo e quindi eserciti su di lui un certo potere è una
"regola del gioco".
Il problema sorge quando il sapere dell'insegnante si irrigidisce e si cristallizza in un
dominio di verità in cui non c' è più possibilità di giocare. Quando noi chiediamo a
qualcuno qualcosa che non sappiamo, l'indicazione di una strada ad esempio, se
anche l'interlocutore non è in grado di darci una risposta, lo ringraziamo comunque
e siamo gentili con lui. Quando invece l'insegnante fa una domanda all'allievo (nel
gioco si direbbe: "Fa la sua mossa") l'insegnante sa qual è la risposta, e, quando
non arriva, di solito si altera.
Mettiamoci ora dalla parte dell'allievo e vediamo le sue possibili mosse: o dà la
risposta giusta e allora tutto va bene perché si è soddisfatto il "gioco di verità",
oppure la dà sbagliata o addirittura fa "scena muta". In questi due ultimi casi la
mossa dello studente non dà all'insegnante un'informazione sulla materia, non
soddisfa il "gioco di verità", ma dà un'informazione su di sé: sul tipo di giocatore,
sul modo in cui gioca, sul fatto che è dentro o fuori dal gioco. A questo punto la
sequenza si conclude con una contromossa dell'insegnante che commenterà la
risposta dell'allievo in termini di verità ("giusto", "sbagliato") o di potere ("bravo"
piuttosto che "ancora non ci siamo", "ci sei o ci fai?", come vedete sto usando
espressioni molto delicate rispetto a quelle che abitualmente si usano a scuola). Qui
il "gioco di potere" si salda col "gioco di verità" e diventa "gioco di dominio". Lo
studente si blocca, si demotiva, e il gioco finisce. Finisce per tutti: insegnanti e
allievi.
Eppure, nella scuola dei giochi, l'insegnante più disporre di un'altra mossa e
modificare la regola che fa finire il gioco. Può farsi ricercatore più esperto fra altri
ricercatori (gli allievi) e, senza perdere il suo ruolo nella classe nel "gioco di potere",
può cambiarlo nel "gioco di verità" mutando il suo rapporto col sapere, dal
momento che in una "ricerca" non si sa a priori come si concluderà il gioco, come
finirà la partita. In questo modo si aprono i "giochi di libertà" dove insegnanti e
allievi, non gli uni contro gli altri, ma tutti insieme, cambiano le "regole del gioco".
E' possibile una "scuola dei giochi"? Rovatti e Zoletto, gli autori del libro, lo
auspicano, ma ne dubitano. Eppure solo così la scuola può diventare "maestra di
vita", non tanto per i contenuti che trasmette, ma perché tante volte la vita ci
obbliga a cambiare le "regole del gioco".
Chiediamoci allora perché questa capacità di cambiamento non la si può imparare
proprio a scuola, se è vero quel che scrive Freud: "La scuola non deve mai
dimenticare di avere a che fare con individui ancora immaturi, ai quali non è lecito
negare il diritto di indugiare in determinate fasi, seppur sgradevoli, dello sviluppo.
Essa non deve assumere la prerogativa di inesorabilità, propria della vita, non deve
voler essere più che un gioco di vita".
(U. Galimberti, 19 aprile 2005)

More Related Content

Similar to didattica_gioco_attivita'_motoria

Metodologia del gioco
Metodologia del giocoMetodologia del gioco
Metodologia del giocoimartini
 
Metodologia del gioco
Metodologia del giocoMetodologia del gioco
Metodologia del giocoimartini
 
Funzione del gioco
Funzione del giocoFunzione del gioco
Funzione del giocoimartini
 
Relazioni in gioco approcci
Relazioni in gioco approcciRelazioni in gioco approcci
Relazioni in gioco approcciimartini
 
Le funzioni s
Le funzioni s Le funzioni s
Le funzioni s imartini
 
F3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8b7e
F3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8b7eF3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8b7e
F3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8b7eimartini
 
F3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8b7e
F3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8b7eF3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8b7e
F3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8b7eiva martini
 
F3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8b7e
F3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8b7eF3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8b7e
F3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8b7eimartini
 
F3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8b7e
F3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8b7eF3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8b7e
F3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8b7eimartini
 
F3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8b7e
F3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8b7eF3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8b7e
F3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8b7eimartini
 
F3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8b7e
F3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8b7eF3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8b7e
F3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8b7eimartini
 
F3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8b7e
F3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8b7eF3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8b7e
F3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8b7eimartini
 
Bruner, gardner et ali
Bruner, gardner et aliBruner, gardner et ali
Bruner, gardner et aliimartini
 
F3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8b7e
F3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8b7eF3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8b7e
F3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8b7eimartini
 
F3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8b7e
F3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8b7eF3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8b7e
F3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8b7eimartini
 
F3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8b7
F3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8b7F3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8b7
F3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8b7imartini
 
F3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8b7
F3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8b7F3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8b7
F3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8b7imartini
 
F3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8b
F3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8bF3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8b
F3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8bimartini
 

Similar to didattica_gioco_attivita'_motoria (20)

Metodologia del gioco
Metodologia del giocoMetodologia del gioco
Metodologia del gioco
 
Metodologia del gioco
Metodologia del giocoMetodologia del gioco
Metodologia del gioco
 
Funzione del gioco
Funzione del giocoFunzione del gioco
Funzione del gioco
 
Relazioni in gioco approcci
Relazioni in gioco approcciRelazioni in gioco approcci
Relazioni in gioco approcci
 
Le funzioni s
Le funzioni s Le funzioni s
Le funzioni s
 
F3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8b7e
F3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8b7eF3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8b7e
F3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8b7e
 
F3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8b7e
F3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8b7eF3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8b7e
F3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8b7e
 
F3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8b7e
F3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8b7eF3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8b7e
F3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8b7e
 
F3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8b7e
F3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8b7eF3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8b7e
F3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8b7e
 
F3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8b7e
F3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8b7eF3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8b7e
F3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8b7e
 
F3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8b7e
F3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8b7eF3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8b7e
F3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8b7e
 
F3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8b7e
F3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8b7eF3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8b7e
F3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8b7e
 
Bruner, gardner et ali
Bruner, gardner et aliBruner, gardner et ali
Bruner, gardner et ali
 
F3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8b7e
F3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8b7eF3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8b7e
F3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8b7e
 
Il gioco
Il giocoIl gioco
Il gioco
 
F3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8b7e
F3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8b7eF3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8b7e
F3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8b7e
 
Il gioco
Il giocoIl gioco
Il gioco
 
F3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8b7
F3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8b7F3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8b7
F3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8b7
 
F3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8b7
F3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8b7F3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8b7
F3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8b7
 
F3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8b
F3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8bF3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8b
F3961100 b3c6-4017-825c-0237a8de8b
 

More from imartini

2 parliamo e discutiamo del bullismo
2 parliamo e discutiamo del bullismo2 parliamo e discutiamo del bullismo
2 parliamo e discutiamo del bullismoimartini
 
Scheda bambino
Scheda bambinoScheda bambino
Scheda bambinoimartini
 
Subitizing
SubitizingSubitizing
Subitizingimartini
 
intelligenza emotiva
intelligenza emotivaintelligenza emotiva
intelligenza emotivaimartini
 
Il quaderno delle_regole_di_matematica
Il quaderno delle_regole_di_matematicaIl quaderno delle_regole_di_matematica
Il quaderno delle_regole_di_matematicaimartini
 
comunicazione_non_verbale
 comunicazione_non_verbale comunicazione_non_verbale
comunicazione_non_verbaleimartini
 
osservazione fattoei di rischio dsa
osservazione fattoei  di rischio dsaosservazione fattoei  di rischio dsa
osservazione fattoei di rischio dsaimartini
 
Prerequisiti
Prerequisiti Prerequisiti
Prerequisiti imartini
 
Per sito-prerequisiti-letto-scrittura
Per sito-prerequisiti-letto-scrittura Per sito-prerequisiti-letto-scrittura
Per sito-prerequisiti-letto-scrittura imartini
 
Dispensa dsa
Dispensa  dsaDispensa  dsa
Dispensa dsaimartini
 
Dentro ai dsa n
Dentro ai dsa nDentro ai dsa n
Dentro ai dsa nimartini
 
stili di apprendimento
stili di apprendimentostili di apprendimento
stili di apprendimentoimartini
 
Dsa fasce eta
Dsa  fasce etaDsa  fasce eta
Dsa fasce etaimartini
 
Sviluppo percettivomotorio
Sviluppo percettivomotorio Sviluppo percettivomotorio
Sviluppo percettivomotorio imartini
 
prerequisiti della scrittura
prerequisiti della scritturaprerequisiti della scrittura
prerequisiti della scritturaimartini
 

More from imartini (20)

2 parliamo e discutiamo del bullismo
2 parliamo e discutiamo del bullismo2 parliamo e discutiamo del bullismo
2 parliamo e discutiamo del bullismo
 
Scheda bambino
Scheda bambinoScheda bambino
Scheda bambino
 
Subitizing
SubitizingSubitizing
Subitizing
 
intelligenza emotiva
intelligenza emotivaintelligenza emotiva
intelligenza emotiva
 
Il quaderno delle_regole_di_matematica
Il quaderno delle_regole_di_matematicaIl quaderno delle_regole_di_matematica
Il quaderno delle_regole_di_matematica
 
comunicazione_non_verbale
 comunicazione_non_verbale comunicazione_non_verbale
comunicazione_non_verbale
 
Adhd u
Adhd uAdhd u
Adhd u
 
DSA
DSADSA
DSA
 
osservazione fattoei di rischio dsa
osservazione fattoei  di rischio dsaosservazione fattoei  di rischio dsa
osservazione fattoei di rischio dsa
 
Prerequisiti
Prerequisiti Prerequisiti
Prerequisiti
 
Per sito-prerequisiti-letto-scrittura
Per sito-prerequisiti-letto-scrittura Per sito-prerequisiti-letto-scrittura
Per sito-prerequisiti-letto-scrittura
 
scrittura
scritturascrittura
scrittura
 
Dispensa dsa
Dispensa  dsaDispensa  dsa
Dispensa dsa
 
Dentro ai dsa n
Dentro ai dsa nDentro ai dsa n
Dentro ai dsa n
 
dislessia
dislessiadislessia
dislessia
 
stili di apprendimento
stili di apprendimentostili di apprendimento
stili di apprendimento
 
DSA
DSADSA
DSA
 
Dsa fasce eta
Dsa  fasce etaDsa  fasce eta
Dsa fasce eta
 
Sviluppo percettivomotorio
Sviluppo percettivomotorio Sviluppo percettivomotorio
Sviluppo percettivomotorio
 
prerequisiti della scrittura
prerequisiti della scritturaprerequisiti della scrittura
prerequisiti della scrittura
 

didattica_gioco_attivita'_motoria

  • 1. DIDATTICA DEL GIOCO NELL’ ATTIVITA’ MOTORIA prof. Angela Capuzzo A.A. 2006/2007 __________________________________________________________________ Lezione on line n. 2 ______________________________________________ “Non guardare al passato con rabbia o al futuro con ansia, ma guardati intorno con attenzione” James Thurber “I Can Tell You Right Now That Isn’t Going to Work” by James Thurber Approfondendo il tema delle funzioni che il gioco assume nel processo evolutivo della persona proviamo ad operare una analisi delle possibili classificazioni del gioco proposte all’interno dei vari campi di studio. Individuare e analizzare la struttura del gioco ci permetterà poi di evidenziare la presenza di azioni che sollecitano l’attivazione di dinamiche tra i soggetti in gioco e le possibili funzioni esercitate nell’azione. Con l’intento che il gioco giocato, vissuto, sperimentato, osservato, ripensato, re-inventato… divenga davvero strumento efficace e competenza spendibile per muoverci come corpo-docente nella nostra professione.
  • 2. Le funzioni del gioco 1. La funzione del gioco nella vita psico-fisica Sono molteplici le teorie che definiscono il gioco in rapporto allo sviluppo dell’uomo e che evidenziano il suo ruolo fondamentale nella strutturazione della personalità. Molti elementi di tali teorie confermano non solo che questo costituisce una componente primaria nello sviluppo evolutivo del bambino, ma che caratterizza anche tutta l’esistenza dell’uomo. Tra i diverse approcci sia psicologici che biologici che hanno cercato di spiegarne la ragione emergono alcuni comuni punti di lettura: a) il gioco visto come superfluo di energia, teoria secondo la quale il soggetto dispone di un'eccessiva carica energetica che necessita di scaricare, facendo qualunque tipo di gioco. Rispetto a questo approccio alcuni autori hanno osservato come a volte il bambino che sia interessato all’attività che sta agendo, continui a giocare anche dopo l'insorgere della stanchezza; altra osservazione riguarda il fatto che con questa teoria non è possibile spiegare il motivo per cui un bambino sceglie un gioco piuttosto che un altro. b) il gioco come residuo di funzioni ataviche, teoria secondo la quale il soggetto riproduce spontaneamente alcune attività che caratterizzavano la vita dei nostri progenitori, attività che possono oggi apparirci inutili. Un esempio di ciò lo ritroviamo nei giochi di lotta che sembrerebbero assolvere nel bambino un bisogno di tipo ancestrale; attuando questi tipi di giochi il soggetto si libera, in quanto considera l'avversario un partner indispensabile. Giocare molto da bambini, in un gruppo di pari assieme ad altri bambini, significa avere più probabilità di socializzazione da adulti. Questa teoria è comunque strettamente legata alla legge bio-genetica di Haeckel, secondo cui lo sviluppo dell'individuo è speculare all’evoluzione della specie (bambino = uomo primitivo…). Questa teoria però, se può spiegare giochi come la lotta, la corsa, l'inseguimento, la caccia..., non da senso a molti altri giochi frutto di azioni imitative che il bambino agisce rispetto a comportamenti dell’adulto. c) il gioco come funzione e conservazione dello sviluppo, teoria che sostiene come il gioco da un lato sviluppa e permette di conservare le funzioni utili alla vita adulta mentre, dall'altro, agisce come valvola di sicurezza per poter scaricare l'energia legata ad alcune tendenze antisociali presenti nell'individuo fin dalla nascita. Questa teoria però non da spiegazione del gioco negli adulti. In particolare Claparède (1909) attraverso la «théorie de la catharsis», sostiene che il gioco ha la funzione di dirigere le tendenze inconsce dell’uomo verso la loro sublimazione. Avviene cosi che gli istinti brutali dell’uomo possano tradursi in forme d’arte. E lo stesso Freud (1929) afferma che il bambino ricorre al gioco per dominare le ansie,
  • 3. le frustrazioni e gli eventi traumatizzanti e, che tali dinamiche ludiche, continuano ad esistere anche nell’adulto. d) il gioco come esercizio preparatorio, secondo cui l'attività ludica ha il compito di esercitare alcune delle funzioni biologiche che saranno poi utilizzate nella vita adulta (ad esempio il gattino salta sul gomitolo che gli rotola davanti e lo addenta, come in seguito farà col topo). Questa teoria è stata accettata da pedagogisti come Groos Froebel, Claparède e Decroly. J.S. Bruner (1981-1987) considera il gioco come uno strumento capace di fare uscire il bambino dall’immaturità che lo accompagna nelle varie fasi dello sviluppo. Lo studio delle teorie etologiche inoltre lo porta a sostenere che la diversità e la durata del gioco nell’uomo rispetto all’animale, è una differenza qualitativa connessa con lo sviluppo del linguaggio. 1.1 Una classificazione genetica del gioco Piaget (1964-1972) presenta una teoria del gioco come «assimilazione» (incorporazione degli eventi, delle cose, delle persone nelle strutture psichiche esistenti) e «accomodamento» (fase di riorganizzazione delle strutture mentali sulla base di nuove esperienze e nuovi materiali) con la realtà. Il gioco dunque, secondo Piaget, ha la funzione di soddisfare l’«io», trasformando la realtà secondo i suoi propri desideri. Osserviamo più da vicino la classificazione proposta da Piaget che descrive tre tipi di gioco secondo le varie fasi dello sviluppo evolutivo del bambino: i giochi di esercizio, i giochi simbolici e i giochi di regole. 1) I giochi di esercizio: si presentano prevalentemente nei primi 18 mesi di vita. Sono giochi fatti per il solo gusto di esercitarsi e per verificare le proprie capacità; dapprima l'attenzione è verso il proprio corpo, poi si sposta verso gli oggetti. In questa fase il bambino segue degli schemi di azione: ogni oggetto che egli scopre viene gettato per terra in tutte le direzioni per sperimentare ed analizzarne le cadute e le traiettorie. Sul piano linguistico è interessante osservare che non appena il bambino comincia ad emettere dei suoni gioca con la lingua cosi come prima giocava con gli oggetti che lo circondavano. R. Weir ed altri specialisti sostengono che questi giochi hanno anche lo scopo di dominare e controllare lo strumento linguistico. 2) I giochi simbolici: si presentano circa dall’età di 2 anni e introducono il bambino nel mondo ludico dell’immaginazione, del «come se», che è tipico dell’essere umano e prende origine dall’azione. Il gioco, in questo momento, deve essere interpretato come la realizzazione immaginaria e illusoria di desideri irrealizzabili: la scopa che diventa un destriero, il peluche che rappresenta la mamma… Attraverso l'immaginazione e l'imitazione, il bambino rappresenta un oggetto-persona-situazione che non sono presenti, ma che fanno parte della sua esperienza; il bambino può così drammatizzare il mondo interiore della fantasia per mantenere un suo equilibrio psichico; gli oggetti vengono usati non solo per le loro proprietà funzionali e materiali, ma anche per quelle simboliche, che il bambino attribuisce loro. In questa fase le azioni possono essere rappresentate in diversi modi e il linguaggio verbale costituisce solo uno tra i modi possibili. 3) I giochi di regole: la nozione di regola porta con sé il concetto di socializzazione e cioè di integrazione del bambino in una collettività retta appunto da particolari regole. Attraverso questi giochi infatti i bambini, superando
  • 4. l’egocentrismo infantile che caratterizzava in modo predominante le età precedenti, cominciano a comprendere ed accettare la realtà degli altri, la realtà della collettività alla quale appartengono. Questi giochi si presentano a partire dai 6 anni e subentrano quando il bambino acquisisce una sua capacità di socializzazione, cioè dopo che egli ha raggiunto un certo grado di adattamento alla realtà e di tolleranza alle frustrazioni (in questi giochi infatti deve accettare la sconfitta e non infierire sull'avversario in caso di vittoria). Le regole possono essere tradizionali (quelle tramandate) o frutto di accordi momentanei: l'importanza del loro rispetto è fondamentale per la riuscita di questi giochi. Alcuni autori considerano anche una quarta categoria di gioco che è quella degli hobby (a partire dai 6 anni). Vengono intrapresi per puro piacere, ma sono sottoposti alla realizzazione consapevole di uno scopo, che a volte può durare anche tutta la vita, se le gratificazioni ch'essi forniscono si fanno col tempo sempre più considerevoli (ad es. gli scacchi o la raccolta dei francobolli). Si pongono quindi in una posizione intermedia fra il gioco e il lavoro. 2. Forme e funzioni del gioco: il punto di vista etologico Gli studi condotti in campo etologico sui primati ed il significativo aumento di conoscenze sul mondo infantile unitamente ad un cambiamento in senso edonistico e più permissivo dei modelli di vita adottati nelle società moderne, hanno portato ad un maturato interesse relativo al ‘comportamento-gioco’ sia nel mondo animale che in quello umano. A partire da uno studio condotto da Bruner (1976) sui primati si è giunti a leggere il fenomeno gioco come portatore di importanti funzioni: una volta analizzata adeguatamente la sua struttura, si constatò che il gioco non é affatto un fenomeno casuale e mutevole come si era pensato prima. Ciò induce a pensare che, nell’evoluzione dei primati, sia stata di importanza cruciale proprio la selezione di una capacità ludica durante quegli stessi anni e ad ipotizzare l’eventualità di un ruolo centrale del gioco nell’evoluzione. Il comportamento ludico rappresenta dunque qualcosa in più: una delle manifestazioni filogeneticamente ed ontogeneticamente piu significative nella storia evolutiva degli animali e dell’uomo! Gli etologi hanno posto l’accento soprattutto sulla funzionalità del gioco definendolo come sistema di trame motorie espressive, che il comportamento rende manifeste, funzionali alla struttura organismica nel suo rapporto di adattamento all’ambiente ecologico circostante, e studiandone quindi scientificamente i fattori ambientali, esterni, interni e costituzionali, che lo influenzano in modo significativo, e in diverse specie, con dichiarati scopi comparatistici (Bertacchini, 1985). Numerosi studi ed osservazioni sulle attività ludiche tra gruppi di primati hanno portato ad osservare che poiché nel gioco si verifica la possibilità di montare e rimontare sequenze di comportamento volte a conseguire destrezza nell’azione, il gioco avrebbe una importante funzione, quella di rendere possibile l’esercizio ludico di modalità iterative del comportamento stesso, destinate a combinarsi più tardi in modo tale da risultare utili alla risoluzione di problemi effettivi (Bruner, 1976), e, di conseguenza, avrebbe la funzione di incoraggiare la ripetizione di trame motorie e di sperimentare nuovi comportamenti in modo da facilitare l’attuazione di trame di comportamento adattivo sempre più adeguato al rapporto con l’ambiente e
  • 5. pertanto essenziale alle sopravvivenze delle specie (Bertacchini, 1985). In ciò consiste, in ultima analisi, una delle più importanti funzioni filogenetiche del gioco. La caratteristica principale del gioco, e la sua vera sostanza, é il prevalere dei mezzi sui fini, che fa si che il gioco liberi l’organismo dalle necessità immediate imposte dal compito e di conseguenza riduca o neutralizzi la tensione al positivo compimento di un atto. Questo non vuol dire che il gioco sia privo di scopi significa solo che, nell’ambito del gioco, il procedimento è più importante del risultato. Bruner descrive un bambino che gioca con una tazza, adattando l’oggetto ad una varietà di programmi di azioni: la porta alle labbra, la sbatte sul tavolo e poi la fa cadere. La prima caratteristica del gioco osservata da Bruner e quella di essere, sia nell’uomo che nell’animale, un esercizio che consiste nel collegare segmenti di comportamento (o mezzi) derivati da modi non propri del gioco in sequenze inusuali. La seconda caratteristica, che consegue direttamente alla prima, è la riduzione del rischio d’insuccesso. Poiché i comportamenti nell’ambito del gioco sono così spesso derivati da sequenze che non gli sono proprie questo fatto produce la diminuzione o l’eliminazione del rischio d’insuccesso. Una terza caratteristica del gioco per l’autore è la sospensione temporanea della frustrazione che esso offre a chi lo pratica. Poiché il procedimento ha la preminenza sul risultato, un ostacolo, che sarebbe d’intralcio se venisse incontrato nel corso della soluzione di un problema, durante il gioco viene affrontato con serenità e perfino con allegria. Il gioco offre anche un altro tipo di libertà, cioè un atteggiamento di disponibilità nei confronti del mondo che lo circonda. La quarta caratteristica evidenziata nelle azioni di gioco, è il suo invito alle possibilità inerenti alle cose e agli avvenimenti. E la libertà di notare un dettaglio apparentemente irrilevante. La quinta caratteristica del gioco infine, per Bruner, che è alla base di tutte le altre, é la sua natura volontaria. Chi gioca é libero da minacce ambientali e da necessità urgenti. Il comportamento nel gioco ha origine per iniziativa del soggetto stesso. I frutti del gioco derivano, quindi, secondo Bruner, da queste sue caratteristiche. La persona o l’animale che gioca con oggetti e con azioni, acquista abilità nel connetterli fra loro in modi insoliti. Dal momento che la natura di "basso rischio" del gioco gli consente di fare esperimenti e riduce la frustrazione, chi gioca protrae la propria attività per un lungo periodo di tempo nei suoi primi anni di immaturità: il successo della sua futura vita adulta dipenderà in larga misura dall’intensità e dalla varietà delle sue esperienze ludiche. Inoltre, poiché il gioco ha l’importante funzione di ridurre la tensione al positivo compimento di un atto, esso rappresenta una buona occasione per tentare nuove combinazioni comportamentali che, diversamente, sotto pressione funzionale, non potrebbero essere sperimentate, e altresì per produrre quella flessibilità che rende possibile la padronanza dell’uso di strumenti complessi (Bruner, 1976). Un’altra ricerca, condotta da Bruner e alcuni collaboratori, prende in esame le relazioni esistenti fra il gioco e la risoluzione dei problemi meccanici e prova come i bambini piccoli imparino progressivamente a risolvere problemi posti dall’uso di quei materiali con cui abbiano in precedenza giocato. La ricerca ha coinvolto piccoli gruppi di bambini in età compresa fra i tre e i cinque anni. Il loro compito consisteva nel pescare un premio da un contenitore pieno di liquido, collocato fuori della loro portata. Per farlo bisognava incastrare l’uno nell’altro due bastoni. Venivano presentate ai bambini varie tecniche di addestramento, compresa la
  • 6. dimostrazione del principio di giunzione dei due bastoni, oppure del modo di incastro degli stessi, singolarmente presi, o ancora offerta l’opportunità di osservare lo sperimentatore mentre svolgeva il compito. C’era, infine, un gruppo di bambini, cui si consentiva di giocare semplicemente con i materiali. Quest’ultimo gruppo si rivelò, nella risoluzione del problema, altrettanto abile quanto quello cui era stata data la dimostrazione del principio di incastro dei bastoni, e addirittura più abile di alcuni degli altri gruppi. Di fatto colpì nel ‘gruppo-gioco’ la tenacia con la quale si cimentava nell’impresa, per cui, pur privo di ausilio nell’approccio iniziale, finì per risolvere il problema, e in particolare la capacità di resistere alla frustrazione e alla tentazione di rinunciare. Ciò perché stava giocando. Dunque per Bruner il maggior vantaggio che si ricava dal gioco consiste nella più ricca articolazione combinatoria che esso conferisce al comportamento, la quale permette la padronanza delle abitudini che vengono a costituirsi in modo estremamente significativo. Anche K. Groos (1898) pone l’accento sulla funzionalità del gioco e mette in evidenza il reale significato biologico del gioco. Secondo questo autore il periodo giovanile, che si manifesta soltanto negli animali superiori, ha il compito di dare all’animale il tempo di adattarsi ai complicati compiti della propria vita, per i quali gli istinti non sono sufficienti. Egli sostiene che l’utilità del gioco é incalcolabile: questa utilità consiste nella pratica e nell’esercizio che esso fornisce in relazione ad alcuni dei più importanti compiti che l’animale si trova a fronteggiare nel corso della sua vita, dato che la selezione tende ad indebolire e diminuire la cieca forza dell’istinto, e a favorire sempre più lo sviluppo dell’intelligenza libera ed indipendente. La selezione favorisce quegli individui nei quali gli istinti appaiono prima in forme meno elaborate: essa sarà a favore degli animali che giocano. In linea con questa teoria è anche la posizione di K. Lorenz il quale sostiene che il gioco avrebbe la funzione di mantenere flessibili i comportamenti delle specie filogeneticamente più avanzate, cambiando secondo modalità non rigide e stereotipe sequenze di comportamenti già noti. Secondo Lorenz, l’uomo ha bisogno, durante la giovinezza, di un lungo periodo in cui esercitare la sua curiosità. Ma la curiosità non é sufficiente: devono esserci anche l’esplorazione, e il gioco, cioè quell’ esercizio attraverso il quale si sperimentano cose nuove in nuovi contesti. Interessante la posizione di Lorenz sulla ricerca scientifica. Per questo autore tutta la ricerca materiale condotta da uno scienziato umano é puro comportamento esploratorio. In questo senso, esso é comportamento di gioco. Tutta la conoscenza scientifica alla quale l’uomo deve il suo ruolo di padrone del mondo, é sorta da attività ludiche condotte in un campo libero ed interamente per il gusto dell’azione stessa. La progressiva transizione nel corso dell’attività di ricerca dal gioco infantile di tipo indagatorio al lavoro della vita dello scienziato testimonia sulla fondamentale identità fra gioco e ricerca. Il gioco, poi, é uno dei fattori più importanti nello stabilire delle relazioni sociali. L’attività di gioco, dunque, considerata nel suo insieme, é anche quella che rende possibile l’inevitabile consapevolezza della gerarchia e favorisce la strutturazione della gerarchia sociale e l’inserimento dei piccoli nel gruppo. (E. Bilotta, Cit., 1997)
  • 7. La struttura del gioco Il percorso fin qui illustrato ci aiuta a mettere in evidenza le caratteristiche fondanti e costitutive dello strumento GIOCO, strumento-comportamento che riveste un ruolo fondamentale nel processo evolutivo della specie, funzionale al suo mantenimento, alla sua capacità di evolvere in un contesto ed in un’ottica di tipo ecologico, utilizzando curiosità e capacità creativa per agire nel confronti della realtà. Proviamo dunque ad andare a “smontare” il gioco, nell’intento di leggerne i significati e di imparare ad utilizzarne in modo efficace le dinamiche sociali ad esso sottese e le funzioni che attraverso esso è possibile sperimentare. Per questa analisi utilizzeremo gli strumenti di lettura proposti nell’ipotesi di classificazione e di lettura del gioco presentata nelle linee introduttive di “Progetto Gioco” (vedi Zocca E., Cit., 2002) o Analisi e classificazione struttura del gioco: dinamiche sociali attivate (Zocca E., 2002) Se il giocare può dunque essere osservato come indicatore delle competenze sociali del soggetto che lo pratica, le azioni manifeste, che i protagonisti attivano durante il gioco, rivelano la loro "competenza sociale" e "culturale". Questa considerazione non ci deve portare a considerare l’attività individuale di gioco forma semplice di giocare, per reputare complessa solo l’attività all’interno di un gruppo o di una squadra. Vedremo infatti come il comprendere tutte le azioni dei giocatori utilizzando il punto di vista delle osservazioni delle dinamiche sociali che manifestano, può servirci ad un duplice scopo: ci permette di descrivere i vari modi di praticare il gioco fornisce un concreto strumento di lettura del livello sociale dei partecipanti Il bambino piccolo non sa praticare il gioco di squadra, non perché non è in grado di eseguire l’azione tecnica, per esempio del calciare la palla, quello lo sa fare ben presto; ciò che non conosce e non sa praticare sono le azioni del calciare nella situazione delle dinamiche sociali attive del gioco di squadra, variabile molto più complessa della singola azione elementare del calciare. Nelle dinamiche del gioco di squadra si richiede, oltre e in più, al saper padroneggiare la singola azione fondamentale, una serie molto ampia di variabili nel trattare e usare l’oggetto palla. Si richiede di saper comportarsi produttivamente e trattare in modo competente “gli oggetti” in campo: tecniche, regole, tattiche e dinamiche sociali comprese. Il bambino piccolo non possiede ancora le padronanze per agire produttivamente all’interno di un contesto strutturato e delimitato rigidamente da regole. Nel gioco di squadra si chiede al bambino di esercitarsi in comportamenti che non procedono dalle sue conoscenze e competenze sociali, conoscenze e competenze che sono tutte presenti e costitutive del gioco di squadra.
  • 8. L’ipotesi di classificazione e di lettura delle azioni di gioco che qui di seguito si presenta, può aiutare e facilitare la nostra comprensione del gioco strutturato nelle sue implicazioni dinamiche. I giochi di gruppo o di squadra, rivelano sempre iniziali o fondamentali azioni competenti dei singoli: esecuzioni semplici o complesse, padronanze nell’uso di oggetti o di particolari tecniche, competenze nel rapportarsi efficacemente nella collaborazione con le altre persone. Grazie a questo strumento, possiamo “smontare” parzialmente questi giochi strutturati e ricomporli, poi, in un insieme significativo secondo una sequenza che indica livelli e soglie di competenza. Non potendo, infine, ridurre la complessità del giocare, che rimane, in ogni caso, immutata, questo “punto di vista” che osserva e tiene conto delle dinamiche sociali implicate risulta essere un modo concreto e semplice di interpretare il gioco e le azioni dei giocatori. Questa proposta ha come padre autorevole L.S. Vygotskij, il quale nel contesto dei suoi studi sul comportamento osservava: “Il bambino vede l’attività degli adulti che lo circondano, la imita e la trasferisce nel gioco ed è con il gioco che s’impadronisce dei fondamentali rapporti sociali. …In questo modo il gioco è fatto uscire dal contesto di uno sviluppo puramente funzionale e di uno sviluppo di singoli processi psichici per entrare nel contesto della formazione della personalità sociale”. Il passo da qui risulta agevole: i giochi possono essere interpretati classificandoli secondo criteri di osservazione e comparsa delle dinamiche sociali attive. Si tratta di interpretare i vari giochi dal punto di vista delle dinamiche implicate e rapportarle alle competenze dei giocatori a progettare e gestire attivamente queste dinamiche sociali. Da una parte possiamo classificare i vari giochi che conosciamo, dall’altra ci è possibile individuare a quale stadio di sviluppo sociale si colloca il nostro giocatore osservato. Questo ci permette di costruire un modello sintetico di riferimento di interpretazione del gioco. Sono due gli aspetti elementari (fondamentali) che possiamo osservare, che ci consentono di trattare con la complessità di questo oggetto del nostro interesse: le dinamiche sociali attivate e le funzioni esercitate.
  • 9. Le dinamiche sociali osservate nelle azioni di gioco e nei giochi possono essere quindi descritte dai termini: DINAMICA SOCIALE ATTIVATA (per semplicità si indicano sette livelli) 1. individuale: non è implicata dinamica o un'attività con altre persone, l’esperienza è vissuta come esperienza rigorosamente personale o in solitudine 2. in coppia: non è implicata dinamica o un'attività sociale elaborata o strutturata dai componenti, con altre parole si può dire che la coppia non elabora progetti comuni, pur comparendo, a volte, lo scambio delle scoperte e delle produzioni: i risultati e i processi individuali non modificano l’azione dell’altro 3. di coppia: si osservano forme strutturate di scambio e di progettazioni condivise, le varie attività sono legate da una comune progettazione, realizzazione e verifica dei processi e dei risultati; l’attività individuale è coordinata e condiziona l’azione dell’altro componente della coppia, si perseguono obiettivi di coppia 4. in gruppo: non è implicata un'attività dinamica sociale elaborata o strutturata dai componenti, prevale l’azione individuale, processi e risultati non condizionano l’azione dei componenti 5. di gruppo: è implicata un'ampia attività dinamica sociale elaborata o strutturata dai componenti, prevale l’azione collettiva e ruolo nel gruppo, l’azione individuale condiziona processi e risultati del gruppo, si perseguono obiettivi di gruppo 6. in squadra: non è implicata un'attività dinamica sociale elaborata o strutturata dai componenti, le attività si svolgono all’interno di un gruppo che contrasta o persegue obiettivi comuni o in competizione ad un altro gruppo, l’azione individuale provoca una reazione individuale nell’altro gruppo 7. di squadra: è implicata un'ampia attività dinamica sociale elaborata o strutturata dai componenti; le attività si svolgono all’interno di un gruppo che contrasta o persegue obiettivi comuni o in competizione con un altro gruppo, l’azione collettiva provoca una reazione collettiva dell’altro gruppo, prevale l’azione collettiva e ruolo nel gruppo, l’azione individuale condiziona processi e risultati del gruppo, si perseguono obiettivi di gruppo. Osservare il gioco, o le azioni di gioco e, da questo punto di vista, le dinamiche sociali, ci permette di individuare in modo chiaro la complessità delle relazioni in campo. L’altro elemento che compare, e che ci può interessare, riguarda la nostra possibilità di osservare il livello di competenza alla relazione del gruppo dei soggetti presi in considerazione. Il passaggio da una dinamica all’altra, in termini di competenza alla relazione, contiene numerose variabili: le competenze personali, le altre persone e le nostre padronanze nell’usare gli oggetti, tra i quali, la stessa realtà del gioco scelto. L’elemento significativo semmai riguarda la necessaria conquista di un livello elementare, iniziale, per passare, “a pieno titolo” al livello successivo. È poi chiaro che ogni situazione ed ogni esperienza di gioco si può esprimere in forme semplificate e che possono vedere giochi strutturati per attività di squadra,
  • 10. essere praticati all’interno di dinamiche più semplici, come quelle delle attività in gruppo. Per esempio giocare a calcio “tutti contro tutti”, che richiama le tecniche del gioco del calcio, ma non compaiono tattiche e strategie del gioco di squadra. In ogni gioco occorre confrontarsi con i tre elementi della relazione: il sé, le proprie competenze personali “messe in gioco”, le altre persone, che si relazionano con noi e gli oggetti che usiamo, individualmente o in relazione ad altri. Diversa cosa è usare la palla individualmente o contesa da altri, la situazione si complica, le competenze sono altre. Per esemplificare ancora, si pensi al “gioco del tiro in porta” o all’ “andare a canestro” o al citato “tutti contro tutti”. Si tratta di giochi che rivelano la ripetizione dell’azione presente nel calcio e nel basket ma nei quali non compare attività “condivisa” d’attacco e difesa, si gioca, spesso, su una parte sola del campo e non è presente una dinamica di strategie e iniziative comuni tra i componenti del gruppo, come nel gioco di squadra. Si tratta di giochi in gruppo dove è manifesta l’intenzione di sviluppare competenze personali e nell’uso di oggetti (tecniche e controllo della palla) alla pratica del gioco più complesso, ma non si è in condizione o non si desidera praticarlo, anche semplicemente perché non si è in numero sufficiente per farlo. In questa immagine è rappresentata una scala esemplificativa di una progressione e dei livelli crescenti di complessità delle dinamiche attive che si possono osservare all’interno di un gioco. L’attività procede dall’individuale alla coppia, dalla coppia al piccolo gruppo e dal piccolo gruppo alla squadra. La conquista delle padronanze di un livello sono elementi per il mantenimento delle strutture delle dinamiche sociale delle tappe successive. Le esperienze “preparatorie” al gioco di coppia possono essere sperimentate e realizzate prima da solo (per esempio imparo e miglioro il mio controllo di un oggetto, della palla, in numerose e variabili situazioni) poi approfondisco e codifico altre competenze nell’interagire con un compagno di gioco (le sue risposte mi consentono di ampliare ancora e migliorare le mie possibilità operative). Le competenze personali, consolidate e strutturate nella relazione di coppia, possono consentirmi di affrontare altre attività all’interno di un piccolo gruppo e poi di trasferire queste all’interno di una dinamica più ampia, che implica altre competenze relazionali, come il saper agire in ruoli e funzioni specifiche del gruppo, come nelle dinamiche del gioco di squadra, dove due gruppi agiscono all’interno di una struttura normalizzata di regole e tecniche di gioco. Procedura coerente e consigliata per lo sviluppo delle attività:
  • 11. individuale coppia piccolo gruppo squadra. o Analisi e classificazione struttura del gioco: funzioni esercitate (Zocca E., 2002) Le funzioni esercitate nelle attività motorie e nelle attività di gioco possono essere descritte e semplificate dai concetti: esplorare, esercitarsi, organizzare o costruire, usare simboli, praticare norme e usare regole. Nel momento esplorativo si osserva una funzione iniziale con caratteristiche esploratorie e una successiva con caratteristiche intenzionali e mirate: l’attività esplorativa. Queste funzioni ripercorrono i processi cognitivi descritti da Jakobson, uno studioso delle funzioni del linguaggio scritto: saper riprodurre, saper organizzare e riorganizzare e dell’inventare il nuovo, attività che corrisponde all’azione creativa. Gioco o esploratorio i risultati sono casuali o esplorativo i risultati sono ricercati intenzionalmente o esercitativo le azioni sono orientate e controllate o simbolico l'oggetto è distinto dall'azione o di costruzione le produzioni sono strutturate o a regole i risultati e le azioni sono inserite in una dinamica di scambi sociali
  • 12. Tuttavia anche questa semplificazione non può rivelarci distintamente e ancora la dimensione e la qualità del gioco nella nostra cultura. Infatti, ogni semplificazione e’ sempre una forma di perdita, di cesura (taglio) di alcuni significati e di alcune condizioni. La consapevolezza di questo comportamento “strano” che è il giocare risulta tuttavia un processo, siamo ancora in cammino, insieme e verso, una conoscenza più ampia del significato di quest’espressione dell'uomo. L'uso del gioco nei processi educativi o l’idea di condizionare i comportamenti, attraverso il gioco, sono realtà concrete, come lo è la costante evoluzione delle forme che assume il gioco. Lo rivelano i palinsesti delle programmazioni delle varie televisioni e delle attività riservate al tempo libero, come le forme di animazione e le cosiddette programmazioni delle “vacanze intelligenti”. É pur vero che nella nostra società si usa molto il gioco nelle sue forme o espressioni sociali, ma non sempre sembra emergere una competenza al gioco o una consapevolezza delle forme socializzanti del gioco nelle sue componenti: spesso il gioco sembra essere usato funzionalmente ad altro. Il “far finta di” non sempre descrive la condizione del gioco, le funzioni e gli scopi del gioco sono molto più articolate e complesse.
  • 13. FUNZIONI ESERCITATE NEL GIOCO Codici convenzionali proposti per descrivere le funzioni di gioco, osservo giocare e mi è possibile individuare le funzioni esercitate. E = la funzione esploratoria si rivela nel gioco ESPLORATORIO; [codice convenzionale proposto: E] E = a Esperienza fondamentale non orientata (PERCEZIONE SENSORIALE) e = la funzione esplorativa si rivela nel gioco ESPLORATIVO; [codice convenzionale proposto: e] e = a esperienza fondamentale orientata. (PRESA DI COSCIENZA) ∞ = la funzione esercitativa si rivela nel gioco ESERCITATIVO; [codice convenzionale proposto: ∞]. ∞ = a esperienza esercitativa, ripetizione orientata (CONSAPEVOLEZZA) C = la funzione organizzativa e produttiva si traduce nei giochi di COSTRUZIONE/ORGANIZZAZIONE; [codice convenzionale proposto: C]. C = a esperienza di Costruzione, organizzazione, riorganizzazione. S = la funzione simbolica si rivela nel gioco SIMBOLICO; [codice convenzionale proposto: S]. S = a esperienza Simbolica, con uso di Segni. (LINGUAGGIO) R = la funzione adattiva si rivela nel gioco A REGOLE; [codice convenzionale proposto: R]. R = a esperienza con Regole condivise . (SOCIALIZZAZIONE) A! = il comportamento aggressivo e violento si rivela nel gioco PROFONDO. [codice convenzionale proposto: A o A!]. A o A! = a esperienza con situazioni ansiogene, A! attenzione. (Ansia ≠ Violenza, come Competizione ≠ Conflitto o Aggressività ≠ Agonismo) o Comportamento ludico come competenza (Zocca E., 2002) Il gioco insegnante Un gioco per imparare, il gioco per ricrearsi, giocare per sperimentare, per conoscere… osservare un gioco, valutare, smontare, descrivere un gioco… il gioco insegna? La relazione educativa non comprende sempre il gioco, il gioco “compromette” sempre, nelle sue dinamiche, il processo educativo.
  • 14. Nel gioco è presente l’imparare, la comunicazione, il movimento, il linguaggio, le regole e le tecnologie. Il gioco è osservato, raccontato, chiacchierato e misurato da molti, da diversificati e spesso distanti punti di vista, a volte è anche praticato. La prima risposta è che il gioco non è uno stato, io sono del Milan, io sono un gigante, un nano, l’orso, l’uomo nero… Probabilmente il gioco è un processo: posso essere del Milan, ma non giocare a calcio, posso credermi un gigante per compensare la mia paura, …giocare a fare il nano, l’orso, essere pienamente consapevole che la mia …è una finta. Domani posso imparare a giocare in un modo diverso. Ognuno di noi ha una sua esperienza del gioco, è stato educato ad una cultura di gioco. Questa informa il suo modo di intendere la pratica del giocare e può “orientare”, se non limitare la sua possibilità di comprendere in un certo modo, a volte, più ampio, forse più significativo, alcune opportunità che gli può offrire il gioco. Il gioco procede da forme naturali per poi trasformarsi in qualche cosa di più strutturato che esprime o rivela gli strumenti della cultura dalla quale proveniamo e dove ci muoviamo. “Comprendiamo il senso delle cose attraverso il fare concreto” Se quest’affermazione è vera, per il bambino che cresce lo è in modo decisivo: la sua esperienza diventa però competenza quando incontra la sfera della comprensione e nel fare esperienze concrete, non solo quelle che prendono le mosse dalla percezione (solo visiva o tattile per esempio). Non s’impara ad andare in bicicletta, infatti, se non si prova ad usare questo mezzo, anche se si sono visti i più significativi filmati sull’uso della bicicletta o le cronache delle manifestazioni più importanti con la bicicletta o si conoscesse a memoria la sequenza meccanica delle azioni del pedalare e tutte le implicazioni tecnologiche che quest’operazione comporta. Per saper fare è ancora indispensabile, anche di questi tempi, provare, non come sinonimo di incontrare o sentire, ma di praticare e poi saper rievocare e riattuare, due processi ben distinti della nostra memoria: il cognitivo e il motorio (K.Popper, J.Eccles, 1985). Il gioco come processo dinamico, non stato, non condizione, interessa il mondo delle produzioni umane, come, per esempio i linguaggi e le tecnologie. Strumenti questi che contengono essi stessi elementi non materiali. Se io imparo ad usare parole, giochi e tecnologie, non mi approprio solo di strumenti, ma mi impadronisco anche di competenze, altre attività umane che vanno a comporre nuovi modi di essere e di comportarmi con la realtà. Questi strumenti diverranno ben presto più e qualche cosa di diverso dal mezzo. Strumenti questi che, all’interno di questa logica, sono dinamici e in mutamento: la parola, il gioco, la tecnologia. L’oggetto usato è trasformato dal soggetto in una nuova possibilità di espressione di sé, come persona-in-relazione. L’uso di un oggetto, mi porta a vivere anche competenze non materiali. E’ possibile saper fare senza conoscere, conoscere qualche cosa senza saper, di quella cosa anche saper fare, a livelli diversi e distinti dalla “sola fantasia”, di quella cosa? Forse il pensiero e le nostre azione sono indisgiunti, i pensieri seguono altri orientamenti, altre idee, dalle azioni che esercitiamo? Solo attraverso le esperienze io posso costruire le mie competenze e questa distinzione tra sperimentare e conoscere, tra fare e pensare è perlomeno ingenua, mutilante, negando una parte di me nega la mia integrità, nega me stesso, la mia opera. A condizionare il nostro modo di imparare e di relazionarci con la realtà è ciò che sperimentiamo, il processo di apprendimento è condizionato da ciò che conosciamo; ciò che non abbiamo mai sperimentato e non conosciamo non può costruire i nostri modi di essere. Per questo anche il gioco è insegnante.
  • 15. La seconda risposta è quindi: ciò che condiziona il proprio modo di imparare è ciò che si vive nella relazione educativa. A condizionare il procedere delle esperienze è ciò che si conosce, non certo ciò che non si conosce. PER APPROFONDIMENTI SUI TEMI TRATTATI NEL MODULO: Zocca Edo [2002], “Forme naturali e culturali del gioco”, in Progetto gioco, Comune di Verona_Ufficio Educazione Fisica e Sportiva di Verona_MIUR Bilotta E. [1997], “Il gioco nell’etologia e nell’ Intelligenza Artificiale”, Dipartimento di Scienze dell’Educazione, Centro Interdipartimentale della Comunicazione, Università della Calabria APPROFONDIMENTI IN RETE: 1. Interessante articolo a cura della d.ssa Carmen Pericola pubblicato sul sito www.psiconline.it (Psicologa clinica, psicologia infantile) La relazione con il bambino è una relazione molto delicata e coinvolgente, giacché è sempre, prima di tutto, una relazione tra due universi emozionali. Il bambino, infatti, è un sensibilissimo radar delle nostre emozioni, dei nostri stati d’animo, molto abile nel leggere con chiarezza dentro di noi e vederci per come realmente siamo. Questo perché è in grado di indovinare in maniera infallibile ogni nostra reazione emotiva, a prescindere dal significato delle parole che pronunciamo, leggendo il linguaggio del corpo, le variazioni di tonalità e d’intensità della voce. Non possiamo mentire a un bambino né possiamo impedirgli di mettersi in risonanza con il nostro universo emotivo. Con i bambini, quindi, non hanno effetto tutti quegli accorgimenti e quei meccanismi di negoziazione della nostra immagine che di solito utilizziamo all'interno delle relazioni tra adulti. Inoltre, i bambini riattivano in noi emozioni e conflitti, magari sedimentati, ma sempre vivi, che abbiamo nei confronti della nostra infanzia e di cui spesso non siamo nemmeno consapevoli, col rischio di ridestare in noi remote angosce, rabbie infantili, paure mai confessate. E questo a volte può metterci in difficoltà, specialmente se ci consegna un’immagine di noi che non ci piace, che non assomiglia all’immagine che negli anni ci siamo fatti di noi stessi, se ci mostra dei lati di noi che non vorremmo vedere, che non apprezziamo, che non sapevamo nemmeno di avere. L’infanzia che abbiamo avuto, ma più di tutto i ricordi che di quella infanzia conserviamo dentro di noi, determinano la qualità delle relazioni che da adulti siamo in grado di avere con i bambini. Così la relazione con i bambini richiesta dal nostro intervento professionale può attivare in noi emozioni, conflitti e desideri relativi alla nostra infanzia, che possono essere rimasti nascosti nel nostro inconscio. E come accade in ogni relazione i conflitti inconsci attivati da quella stessa relazione possono produrre risultati anche
  • 16. molto lontani da quelli che avremmo immaginato, scatenando risposte aggressive, ansiose o depressive. E’ per questo motivo che il lavoro psicologico ed educativo con i bambini reclama costantemente la nostra capacità di metterci in gioco. E’ importante che gli educatori e tutti coloro che sono impegnati in relazioni di aiuto con i bambini possano valutare la disponibilità personale a identificare e tradurre in parola il proprio universo emozionale in generale e le emozioni e i conflitti attivati dalla relazione con il bambino in particolare, per imparare a governare quelle stesse emozioni senza la necessità di negarle o di rimuoverle e, allo stesso tempo, riuscendo a non lasciarsi travolgere da esse: per sapere cosa vede il bambino quando ci guarda e cosa vediamo noi quando guardiamo lui. Possiamo comunicare serenamente con i bambini, parlare il loro linguaggio, soltanto se quello è un linguaggio che ci piace, che rievoca in noi ricordi piacevoli e non fantasmi con cui non abbiamo ancora fatto i conti. Ebbene, nessuno è tenuto a fare i conti con i propri fantasmi. Può anche decidere di vivere una vita difendendo strenuamente le proprie difese. Ma se vogliamo lavorare con i bambini dobbiamo farlo. Per i bambini che incontriamo, ma prima di tutto per noi stessi. Per non permettere al dolore di quei bambini, alle loro angosce, alle loro paure, di invaderci e di distruggere il nostro equilibrio psichico. Anche perché, forse, se, nonostante la nostra infanzia difficile, ci siamo avvicinati professionalmente all’universo infantile, stiamo cercando un modo di riparare alla nostra perdita, di confrontarci con essa. Molti di noi sono adulti infelici che hanno perso la propria infanzia e che vivono soffrendo per questa perdita, ma l’infanzia perduta può essere ritrovata. Possiamo recuperare noi stessi, la nostra parte infantile, imparare oggi a essere bambini. Tutto ciò costituisce il punto di partenza per riuscire ad apprendere il linguaggio dei bambini e per predisporsi a un ascolto vero, empatico. Il bambino ci parla con una lingua che dobbiamo essere in grado di tradurre. E soprattutto il bambino non parla alla nostra parla razionale, perché parla con la voce dell’istinto. E per ascoltarlo veramente dobbiamo ascoltarlo con la nostra parte istintiva. Non capiremo mai davvero un bambino, non sapremo mai interpretare i suo messaggi (bisogni, desideri, richieste di aiuto) se non lasceremo libera la nostra parte istintiva, se continueremo a pensare che il bambino “ragiona” come noi, conosce e, soprattutto, è in grado di adeguarsi alle nostre convenzioni sociali, padroneggia, come noi, i suoi bisogni ed è in grado di procrastinarli, ha delle categorie mentali ben strutturate entro le quali incasellare la realtà. L’ascolto è un’attività delicata, molto più difficile di quanto possa sembrare. E’ già molto delicata se riguarda un altro che parla il nostro stesso linguaggio, che utilizza le nostre convenzioni e le nostre categorie. Diventa arduo con un “altro” che parla un’altra lingua e adotta schemi mentali diversi dai nostri. Ed è questo il caso dell’ascolto di un bambino da parte dell’adulto. Comunicare con un bambino è molto più difficile di quanto possa sembrare. Non bastano le buone intenzioni. Anzi, un po’ provocatoriamente potremmo affermare che le buone intenzioni non solo non bastano ma, a volte, non servono. La comunicazione vera con il bambino è una comunicazione tra due parti istintive, quindi non è mediata neanche dalle intenzioni. Posso trovarmi davanti a un bambino e non avere alcuna intenzione di interessarmi ai suoi problemi, posso essere distratto da altri pensieri, ma se quel bambino ha su di sé i segni nascosti di una esperienza che in qualche modo richiama la mia infanzia, io riconoscerò quei segni, anche senza prenderne coscienza e ne resterò turbato, senza magari riuscire a capire cosa mi ha turbato. L’ascolto autentico richiede soprattutto che chi desidera ascoltare sappia prima ascoltare se stesso, riconoscendo il proprio universo emozionale e i conflitti che la relazione d’aiuto con i bambini può attivare in lui.
  • 17. Possiamo davvero ascoltare un bambino, comprendere i suoi bisogni, riuscire a tenere nella nostra mente la sua sofferenza, solo se abbiamo effettuato un impegnativo percorso di maturazione personale e abbiamo accettato di guardare in faccia il bambino che siamo stati. Solo riconoscendo le nostre emozioni e la nostra sofferenza riusciremo davvero a mettere in gioco noi stessi e ad avere una relazione autentica con i bambini che incontreremo lungo la nostra strada professionale e personale. [http://www.psiconline.it/article.php?sid=2286] 2. E per chi non lo avesse ancora letto... ecco qui l’intervento di Galimberti su Istruzione e ludicità (confronta www.repubblica.it) Giocatori in cattedra - L'istruzione sia ludica di UMBERTO GALIMBERTI Una delle ragioni per cui la scuola non funziona e i nostri ragazzi ci vanno malvolentieri è che a scuola non si gioca. Sono di questo parere Pier Aldo Rovatti e Davide Zoletto che hanno scritto per i Tascabili Bompiani un piccolo libro, denso e istruttivo, che ha per titolo “La scuola dei giochi”. Non si tratta di una scuola per bambini, ma della "scuola" in generale, dalle elementari all'università, dove si dovrebbe imparare giocando, e dove il gioco non è una pausa, un intervallo, un momento di svago e di libertà, ma fa tutt’uno con l'apprendimento stesso. Naturalmente per accedervi è necessario sapere che cos' è un gioco e fuoriuscire da quel luogo comune che ritiene il gioco una faccenda per bambini che si contrappone alla serietà della vita adulta. Questo pregiudizio si fonda su due fraintendimenti. Il primo assimila il gioco allo spazio della libertà, della creatività, dell'evasione dalla realtà, dell'assenza di regole, il secondo fa coincidere la serietà con l'aderenza alla realtà, l'assiduità, la buona volontà non esente da sacrificio, l'impegno, la costrizione. Tutte cose spiacevoli, da cui i ragazzi generalmente rifuggono. In realtà le cose non stanno così, perché il gioco prevede delle regole che, non osservate, mettono subito il giocatore "fuori gioco". Se così non si facesse, tutti gli altri giocatori non saprebbero più "a che gioco si gioca". Senza regole, infatti, il gioco non si costituisce e nessuno si divertirebbe. Quindi il gioco ha una sua serietà e non è l'antecedente della serietà, non è un'attività tipica della fase infantile da cui ci si congeda quando si diventa adulti. Il problema semmai è un altro: "Non si può insegnare a giocare". Si possono insegnare le regole del gioco, queste regole possono essere apprese da tutti, ma poi non è detto che uno "si metta in gioco", che voglia mostrare agli altri le sue attitudini o le sue inettitudini, che voglia "giocarsi" la faccia, e allora si dispone ai bordi del campo a vedere gli altri che giocano. A questo punto è possibile chiedersi: quanti insegnanti si mettono in gioco e quanti studenti sono in gioco e non invece ai bordi del campo? C'è una domanda che Bruce Chatwin si poneva ogni tanto nel suo ininterrotto peregrinare: "Che ci faccio io qui?". Anche se non se la pongono così esplicitamente, non faccio fatica a immaginare questa domanda come il retropensiero di molti insegnanti e di molti studenti quando ogni mattina entrano in classe. Sono tutti uno di fronte o di fianco all'altro, ma non "fanno classe" perché, per "fare classe", non basta il suono della campanella e neppure le programmazioni
  • 18. o i metodi didattici. Per "fare classe", per arrivare a quella sintonia operativa che permette di rispondere a quella domanda: "Che ci faccio io qui?" è necessario che tra insegnanti e studenti si crei una sorta di "collusione". Il termine, dal latino "col-ludere", significa "giocare insieme". E siccome nessuno può colludere da solo, è necessario che tutti, insegnanti e studenti "stiano al gioco", un gioco che, come tutti i giochi, ha le sue regole, un suo ordine, ed entro il quale ciascuno assume, in modo meno passivo di quanto potremmo credere, i ruoli istituzionali di insegnanti e allievi. Perché diciamo "in modo meno passivo"? Perché l'insegnante diventa davvero tale non quando ha ricevuto l'autenticazione del suo ruolo da un'istanza "fuori gioco", quale può essere un concorso o una sanatoria dopo anni di precariato, ma quando, dandosi da fare, riesce a ottenere la cooperazione degli allievi, che sono i soli che hanno il potere di rendere quel ruolo riconosciuto e riconoscibile. Come ci insegna Foucault, infatti, il gioco non esclude i "giochi di potere", anzi è l'unica dimensione in grado di ospitarli. Con una differenza: che là dove non si gioca, il potere viene conferito dall'autorità, mentre nella scuola dei giochi, dove c' è collusione perché si gioca insieme, il potere e quindi il riconoscimento di ruolo dell'insegnante viene conferito da tutti coloro che "sono in gioco", quindi dagli studenti, dai colleghi, dai genitori. Nella scuola dei giochi non basta "entrare in ruolo" per avere un ruolo, questo ruolo, come in ogni gioco, lo si guadagna giocando. E se lo si perde, bisogna riguadagnarselo, per non essere messi "fuori gioco". Anche l'insegnante che non riesce a "tenere la classe" è in gioco, solo che quella classe, invece di una "classe" è una "fiera". E anche la "fiera" è frutto di una collusione tra insegnanti e allievi, anche se probabilmente non piace a nessuno dei due. Qui è inutile cercare le cause fuori dal gioco (nel degrado del contesto sociale, nella famiglia di provenienza, nella pregressa impreparazione degli studenti, nell'eccessiva rigidità di altri colleghi, nell'ottusità dei dirigenti). La domanda da porsi è un'altra: che tipo di classe insegnanti e allievi stanno facendo, che tipo di gioco stanno giocando? Al gioco della "fiera" o al gioco della "scuola"? Dalla parte degli allievi a scuola ci sono sempre quelli che non resistono a dimostrare che sono i più bravi, anzi vengono a scuola sostanzialmente per questo. Non per giocare con gli altri, ma per primeggiare sugli altri. Niente di male, il gioco è anche questo e la competizione fa parte del gioco, ma nel gioco della scuola bisogna evitare che la competizione produca effetti di esclusione, perché, se lo fa, la scuola sta giocando un gioco che non è il suo, e quelli che si sentono "fuori gioco" non possono evitare di chiedersi: "Che ci facciamo qui?". Quelli che a scuola faticano, che non riescono mai a portare a casa una sufficienza si sentono un po' "handicappati", termine che ricorre di frequente nella scuola a prescindere dal riferimento specifico dei "portatori di handicap". La scuola dei giochi conosce l'handicap perché è un termine coniato nel lessico dei giochi, in riferimento al vantaggio che, per esempio, il corridore più forte concede al rivale più lento perché la gara non perda subito interesse. L'handicap è una regola del gioco, per cui chi è svantaggiato nella vita per condizioni sociali, familiari, culturali, viene avvantaggiato a scuola. In questo modo l'handicap cessa di essere uno stigma sub specie aeternitatis, ma è uno svantaggio che, opportunamente avvantaggiato ad esempio con l'assegnazione di un sostegno, si traduce in un vantaggio per tutti i giocatori che non perdono interesse al gioco.
  • 19. Ma qual è il gioco che si gioca a scuola? Oltre ai "giochi di potere", che sono giochi collusivi in cui gli insegnanti cercano di determinare il gioco degli allievi, i quali rispondono o cercando di non lasciar determinare interamente la loro condotta dagli insegnanti o tentando addirittura di determinare a loro volta la condotta degli insegnanti, nella scuola si giocano anche "giochi di verità". I due giochi non sono sconnessi, perché l'insegnante guadagna il suo "potere" mostrando di "sapere" qualcosa che gli allievi non sanno, perché è il sapere che conferisce all'insegnante un certo peso nella classe come gioco di potere. Che l'insegnante sappia più dell'allievo e quindi eserciti su di lui un certo potere è una "regola del gioco". Il problema sorge quando il sapere dell'insegnante si irrigidisce e si cristallizza in un dominio di verità in cui non c' è più possibilità di giocare. Quando noi chiediamo a qualcuno qualcosa che non sappiamo, l'indicazione di una strada ad esempio, se anche l'interlocutore non è in grado di darci una risposta, lo ringraziamo comunque e siamo gentili con lui. Quando invece l'insegnante fa una domanda all'allievo (nel gioco si direbbe: "Fa la sua mossa") l'insegnante sa qual è la risposta, e, quando non arriva, di solito si altera. Mettiamoci ora dalla parte dell'allievo e vediamo le sue possibili mosse: o dà la risposta giusta e allora tutto va bene perché si è soddisfatto il "gioco di verità", oppure la dà sbagliata o addirittura fa "scena muta". In questi due ultimi casi la mossa dello studente non dà all'insegnante un'informazione sulla materia, non soddisfa il "gioco di verità", ma dà un'informazione su di sé: sul tipo di giocatore, sul modo in cui gioca, sul fatto che è dentro o fuori dal gioco. A questo punto la sequenza si conclude con una contromossa dell'insegnante che commenterà la risposta dell'allievo in termini di verità ("giusto", "sbagliato") o di potere ("bravo" piuttosto che "ancora non ci siamo", "ci sei o ci fai?", come vedete sto usando espressioni molto delicate rispetto a quelle che abitualmente si usano a scuola). Qui il "gioco di potere" si salda col "gioco di verità" e diventa "gioco di dominio". Lo studente si blocca, si demotiva, e il gioco finisce. Finisce per tutti: insegnanti e allievi. Eppure, nella scuola dei giochi, l'insegnante più disporre di un'altra mossa e modificare la regola che fa finire il gioco. Può farsi ricercatore più esperto fra altri ricercatori (gli allievi) e, senza perdere il suo ruolo nella classe nel "gioco di potere", può cambiarlo nel "gioco di verità" mutando il suo rapporto col sapere, dal momento che in una "ricerca" non si sa a priori come si concluderà il gioco, come finirà la partita. In questo modo si aprono i "giochi di libertà" dove insegnanti e allievi, non gli uni contro gli altri, ma tutti insieme, cambiano le "regole del gioco". E' possibile una "scuola dei giochi"? Rovatti e Zoletto, gli autori del libro, lo auspicano, ma ne dubitano. Eppure solo così la scuola può diventare "maestra di vita", non tanto per i contenuti che trasmette, ma perché tante volte la vita ci obbliga a cambiare le "regole del gioco". Chiediamoci allora perché questa capacità di cambiamento non la si può imparare proprio a scuola, se è vero quel che scrive Freud: "La scuola non deve mai dimenticare di avere a che fare con individui ancora immaturi, ai quali non è lecito negare il diritto di indugiare in determinate fasi, seppur sgradevoli, dello sviluppo. Essa non deve assumere la prerogativa di inesorabilità, propria della vita, non deve voler essere più che un gioco di vita". (U. Galimberti, 19 aprile 2005)