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b) L’influenza della “logica bio-medica”.
L’International ClassificationofImpairments,
Disabilities and Handicaps (ICIDH), elaborata
dall’OMS nel 1980, ha fatto sentire profondamente i
suoi effetti sulla Legge-quadro del 1992 (Legge-
quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i
diritti delle persone handicappate). Ciò è ben visibile
già a partire dal termine impiegato per riferirsi alla
persona disabile: handicappata51.
Per la verità la parola handicap/handicappato è ormai
anacronistica e la stessa Organizzazione Mondiale della
Sanità non la utilizza più in quanto è connessa ad una
logica che punta l’attenzione sulla malattia e fa quindi
riferimento all’ “epistemologia del danno”, tipica
dell’ICIDH e non dell’ICF52. Nell’ICIDH da una
menomazione (danno biologico) seguiva la disabilità
(incapacità personale di svolgere le normali attività della
vita quotidiana) e da queste derivava l’handicap inteso
come condizione di svantaggio sociale (conseguenze
sociali di menomazione/disabilità).
Col tempo, nel linguaggio comune il concetto di handicap ha
cominciato ad indicare la condizione della persona
(handicappato) e non la condizione di svantaggio sociale. Il
modello ICIDH presentava, secondo uno schema lineare, la
disabilità e l’handicap come conseguenza di un danno biologico
in seguito ad una malattia, un disturbo, un evento traumatico.
L’handicap di conseguenza manifestava gli effetti derivanti dalla
presenza della disabilità ed in ultima analisi di una
menomazione, considerata la causa di tutto. Alla luce di questo
quadro, si trattava di minimizzare, di curare o addirittura di
cercare di eliminare la causa del problema.
E quando ciò non era possibile le persone con
menomazioni erano viste come non “normali”.
Dato che una persona era malata/menomata
era anche “anormale”, perché era distante dalla
“norma” e faceva emergere uno “scarto”, una
diversità appunto, rispetto ai soggetti “normali”.
La persona disabile, quindi, faceva parte di una
minoranza a cui bisognava cercare di dare
opportunità uguali a quelle degli altri.
Nelle scuole italiane tutto questo non
poneva problemi particolari, dato che da un
punto di vista didattico il paradigma
curricolare, vista la sua logica di
individualizzazione, si prestava molto bene a
dare una risposta qualificata all’esigenza di
garantire a tutti un percorso “su misura”.
Lo stesso MasteryLearning era basato sul convincimento che gli
studenti potevano pervenire alla “padronanza”, in riferimento a
certi obiettivi, se si predisponeva accuratamente, in base alle
caratteristiche individuali del soggetto, le condizioni favorevoli
per l’apprendimento. Si trattava di concepire l’insegnamento in
modo individualizzato così da dare quantità, qualità e tempo
sufficienti per raggiungere la padronanza rispetto ad obiettivi ben
precisati e definiti. Il successo degli allievi, quindi, dipendeva
dalla capacità didattico-educativa degli insegnanti, chiamati a
suddividere il percorso in una serie di fasi centrate sulla
definizione di obiettivi specifici, in base ai quali organizzare
l’azione didattica e poi verificare i livelli raggiunti.
Il tutto determinando il “profilo” dell’alunno desiderabile e
ponendo la “normalità” come punto di riferimento esterno al
soggetto cui bisognava il più possibile aderire. Nel caso
dell’alunno disabile si trattava di definire gli standard minimi da
conseguire al fine di raggiungere il più possibile il profilo
idealizzato dall’istituzione, anche se il fatto di attribuire
essenzialmente all’organismo dell’alunno la causa delle sue
condizioni, secondo la prospettiva dell’ICIDH, equivaleva in molti
casi a delegare in modo significativo agli operatori sanitari le
scelte basilari in merito alla strutturazione del percorso formativo
dell’allievo stesso.
La Legge n. 104/1992 è stata considerata importante e, da
alcuni autori, una vera e propria “rivoluzione copernicana” in
quanto non era più incentrata sui servizi e gli operatori ma sulla
persona e le sue difficoltà. In effetti con essa, per la prima volta,
si prendeva in considerazione la persona in difficoltà lungo tutto
l’arco dell’esistenza - dalla nascita all’età adulta - con i molteplici
aspetti che la riguardavano (salute, integrazione sociale e
scolastica, formazione professionale, lavoro, casa, trasporti,
superamento delle barrire architettoniche e comunicative,
agevolazioni varie).
Oggi, però, questa legge-quadro può persino apparire datata per il forte
centralismo che la rende anacronistica rispetto ai processi di
decentramento nell’organizzazione e nella gestione
dell’amministrazione pubblica attuati in seguito ai processi di
autonomia dell’ultimo decennio del XX secolo. Soprattutto può essere
ritenuta superata per quanto riguarda l’invasività della sanitarizzazione
della disabilità che affonda le sue radici nella classificazione ICIDH, la
quale ormai è del tutto superata dalle novità introdotte dal modello ICF
L’influenza dell’ICIDH è ben ravvisabile nell’art. 3 della legge-quadro,
leggendo il quale si può cogliere che è persona handicappata colui che
presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o
progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di
integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio
sociale o di emarginazione (art. 3, comma 1).
La Legge n. 104/1992, dunque, offre una definizione che ha il
suo criterio nel concetto di minorazione fisica, psichica o
sensoriale, e proprio questa definizione oggi mostra tutti i suoi
limiti in quanto è troppo caratterizzata da una “concezione
medica” e quindi è troppo riduttiva Il modello medico ha portato a
dare enfasi alle procedure diagnostiche, all’eziopatogenesi ed a
fare riferimento ai bisogni educativi speciali della persona
disabile, con la conseguenza che la disabilità è stata spesso
affrontata come un problema principalmente individuale e quindi
con il pericolo di attuare un processo di marginalizzazione
anziché di integrazione.
Col tempo, nel linguaggio comune il concetto di handicap ha
cominciato ad indicare la condizione della persona
(handicappato) e non la condizione di svantaggio sociale. Il
modello ICIDH presentava, secondo uno schema lineare, la
disabilità e l’handicap come conseguenza di un danno biologico
in seguito ad una malattia, un disturbo, un evento traumatico.
L’handicap di conseguenza manifestava gli effetti derivanti dalla
presenza della disabilità ed in ultima analisi di una
menomazione, considerata la causa di tutto. Alla luce di questo
quadro, si trattava di minimizzare, di curare o addirittura di
cercare di eliminare la causa del problema.
Proprio la logica dei bisogni educativi speciali è stata per molto
tempo, e forse in molte situazioni lo è ancora, il quadro di
riferimento degli interventi educativi nelle scuole. Il risultato è
stato che le classi erano viste come un insieme di allievi
“normali” in cui era presente un allievo “speciale”, non a caso
certificato da una precisa diagnosi medica che attestava la
disabilità. Il tutto era rafforzato dalla presenza di un docente
“speciale” (di sostegno) per un alunno “speciale”, che in molti
casi operava in base al un Piano Educativo Individualizzato da
lui solo elaborato, in una cornice di distinzione, se non addirittura
di separazione, rispetto ai colleghi ed ai compagni. Gli interventi
erano finalizzati a dare all’alunno disabile opportunità uguali o
quanto meno il più possibile analoghe a quelle degli altri.
Alla “epistemologia del danno”, collegata all’ICIDH e
centrata su aspetti “quantitativi” - quanto un uomo è
menomato, quante cose è ancora o non è più in
grado di fare -, corrispondeva un paradigma
“assimilazionista” fondato sull’idea che il compito
della persona disabile era quello di diventare il più
possibile simile a una persona “normale”. Anche nel
contesto scolastico spesso si è fatto implicitamente
riferimento a questo paradigma basato
sull’adattamento dell’alunno disabile a
un’organizzazione scolastica fondamentalmente
strutturata in funzione degli alunni “normali”.
L’integrazione ha così corso il rischio di diventare un processo
centrato principalmente su strategie per portare l’alunno disabile
a essere quanto più possibile simile agli altri. Il successo
dell’appartenenza era misurato a partire dal grado di
normalizzazione raggiunto dell’alunno. La qualità di vita
scolastica del soggetto disabile veniva valutata in base alla sua
capacità di colmare il varco che lo separava dagli allievi
“normali”. Questo modello, però, non era privo di limiti, in quanto
non solo era improbabile che questo varco potesse essere
effettivamente colmato (con il carico di frustrazione
conseguente), ma era l’idea stessa che compito del disabile era
quello di diventare il più possibile simile a una persona normale
a creare il presupposto dell’esclusione.
Porre la “normalità”come modello di riferimento significava
negare le differenze in nome di un ideale di uniformità e
omogeneità Tutto questo era proprio il contrario del pieno
sviluppo della persona umana, così come voleva la nostra Carta
costituzionale. Ecco perché anche in Italia è stato espresso un
giudizio negativo contro il modello bio-medico e, sotto l’influsso
delle riflessioni e degli impulsi provenienti dal mondo
anglosassone collegati al modello sociale della disabilità, ha
trovato spazio la critica inclusiva all’integrazione scolastica
italiana. La stessa OMS ha disapprovato fortemente la “logica
bio-medica” ed ha avanzato in alternativa, come già
precedentemente detto, un nuovo paradigma (International
ClassificationofFunctioning, Disability and Health - ICF), che ha
condizionato dal 2001 anche il mondo scolastico.
Il nuovo approccio, meno riduttivo e più globale, è
stato approvato nel corso della 54a Assemblea
Mondiale della Sanità. Dal 22 maggio 2001, giorno
dell’approvazione, con l’ICF è stato superato il
modello bio-medico che era alla base della Legge-
quadro in favore del modello bio-psico-sociale. Da
quel giorno tutti sono stati chiamati a misurarsi con il
nuovo paradigma ed a confrontarsi con l’inedito
scenario. Dai primi anni del XXI secolo in Italia c’è
stata una discreta attenzione nei confronti dell’ICF,
che si è concretizzata in significativi convegni ed in
rilevanti pubblicazioni.
Nonostante i vari progetti condotti a livello nazionale
ed europeo circa l’applicazione dell’ICF, oggi c’è
ancora un forte bisogno di confronto operativo e di
formazione: i tempi non sono ancora maturi. Gli
stessi docenti non sono stati fino ad ora
massicciamente coinvolti e quindi non sono stati
pienamente responsabilizzati ad impiegare in modo
competente l’ICF, nonostante questa classificazione
sia un modello che può essere utilizzato nel
momento della Diagnosi Funzionale ed anche nelle
diverse fasi della costruzione del Piano Educativo
Individualizzato.
Sotto questo aspetto bisogna riconoscere che molti
passi devono essere ancora fatti nella prospettiva della
ricerca, dell’applicazione e della sperimentazione
dell’ICF in ambito scolastico. Proprio questi passi sono
stati chiaramente stimolati da alcuni recenti interventi del
Ministero dell’Istruzione, dell’Università, della Ricerca,
come le Linee guida per l’integrazione scolastica degli
alunni con disabilità (2009), il Progetto ICF. Dal modello
ICF dell’OMS alla progettazione dell’inclusione (2010) e
la Circolare Ministeriale n. 83 del 4 ottobre 2012 -
Integrazione scolastica degli alunni con disabilità –
Legge 440/97. Il cammino da far e è ancora molto lungo
e necessita di maggiori sforzi, di decisivi impegni e di
strategici investimenti a tutti i livelli.

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  • 1. b) L’influenza della “logica bio-medica”. L’International ClassificationofImpairments, Disabilities and Handicaps (ICIDH), elaborata dall’OMS nel 1980, ha fatto sentire profondamente i suoi effetti sulla Legge-quadro del 1992 (Legge- quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate). Ciò è ben visibile già a partire dal termine impiegato per riferirsi alla persona disabile: handicappata51.
  • 2. Per la verità la parola handicap/handicappato è ormai anacronistica e la stessa Organizzazione Mondiale della Sanità non la utilizza più in quanto è connessa ad una logica che punta l’attenzione sulla malattia e fa quindi riferimento all’ “epistemologia del danno”, tipica dell’ICIDH e non dell’ICF52. Nell’ICIDH da una menomazione (danno biologico) seguiva la disabilità (incapacità personale di svolgere le normali attività della vita quotidiana) e da queste derivava l’handicap inteso come condizione di svantaggio sociale (conseguenze sociali di menomazione/disabilità).
  • 3. Col tempo, nel linguaggio comune il concetto di handicap ha cominciato ad indicare la condizione della persona (handicappato) e non la condizione di svantaggio sociale. Il modello ICIDH presentava, secondo uno schema lineare, la disabilità e l’handicap come conseguenza di un danno biologico in seguito ad una malattia, un disturbo, un evento traumatico. L’handicap di conseguenza manifestava gli effetti derivanti dalla presenza della disabilità ed in ultima analisi di una menomazione, considerata la causa di tutto. Alla luce di questo quadro, si trattava di minimizzare, di curare o addirittura di cercare di eliminare la causa del problema.
  • 4. E quando ciò non era possibile le persone con menomazioni erano viste come non “normali”. Dato che una persona era malata/menomata era anche “anormale”, perché era distante dalla “norma” e faceva emergere uno “scarto”, una diversità appunto, rispetto ai soggetti “normali”. La persona disabile, quindi, faceva parte di una minoranza a cui bisognava cercare di dare opportunità uguali a quelle degli altri.
  • 5. Nelle scuole italiane tutto questo non poneva problemi particolari, dato che da un punto di vista didattico il paradigma curricolare, vista la sua logica di individualizzazione, si prestava molto bene a dare una risposta qualificata all’esigenza di garantire a tutti un percorso “su misura”.
  • 6. Lo stesso MasteryLearning era basato sul convincimento che gli studenti potevano pervenire alla “padronanza”, in riferimento a certi obiettivi, se si predisponeva accuratamente, in base alle caratteristiche individuali del soggetto, le condizioni favorevoli per l’apprendimento. Si trattava di concepire l’insegnamento in modo individualizzato così da dare quantità, qualità e tempo sufficienti per raggiungere la padronanza rispetto ad obiettivi ben precisati e definiti. Il successo degli allievi, quindi, dipendeva dalla capacità didattico-educativa degli insegnanti, chiamati a suddividere il percorso in una serie di fasi centrate sulla definizione di obiettivi specifici, in base ai quali organizzare l’azione didattica e poi verificare i livelli raggiunti.
  • 7. Il tutto determinando il “profilo” dell’alunno desiderabile e ponendo la “normalità” come punto di riferimento esterno al soggetto cui bisognava il più possibile aderire. Nel caso dell’alunno disabile si trattava di definire gli standard minimi da conseguire al fine di raggiungere il più possibile il profilo idealizzato dall’istituzione, anche se il fatto di attribuire essenzialmente all’organismo dell’alunno la causa delle sue condizioni, secondo la prospettiva dell’ICIDH, equivaleva in molti casi a delegare in modo significativo agli operatori sanitari le scelte basilari in merito alla strutturazione del percorso formativo dell’allievo stesso.
  • 8. La Legge n. 104/1992 è stata considerata importante e, da alcuni autori, una vera e propria “rivoluzione copernicana” in quanto non era più incentrata sui servizi e gli operatori ma sulla persona e le sue difficoltà. In effetti con essa, per la prima volta, si prendeva in considerazione la persona in difficoltà lungo tutto l’arco dell’esistenza - dalla nascita all’età adulta - con i molteplici aspetti che la riguardavano (salute, integrazione sociale e scolastica, formazione professionale, lavoro, casa, trasporti, superamento delle barrire architettoniche e comunicative, agevolazioni varie).
  • 9. Oggi, però, questa legge-quadro può persino apparire datata per il forte centralismo che la rende anacronistica rispetto ai processi di decentramento nell’organizzazione e nella gestione dell’amministrazione pubblica attuati in seguito ai processi di autonomia dell’ultimo decennio del XX secolo. Soprattutto può essere ritenuta superata per quanto riguarda l’invasività della sanitarizzazione della disabilità che affonda le sue radici nella classificazione ICIDH, la quale ormai è del tutto superata dalle novità introdotte dal modello ICF L’influenza dell’ICIDH è ben ravvisabile nell’art. 3 della legge-quadro, leggendo il quale si può cogliere che è persona handicappata colui che presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione (art. 3, comma 1).
  • 10. La Legge n. 104/1992, dunque, offre una definizione che ha il suo criterio nel concetto di minorazione fisica, psichica o sensoriale, e proprio questa definizione oggi mostra tutti i suoi limiti in quanto è troppo caratterizzata da una “concezione medica” e quindi è troppo riduttiva Il modello medico ha portato a dare enfasi alle procedure diagnostiche, all’eziopatogenesi ed a fare riferimento ai bisogni educativi speciali della persona disabile, con la conseguenza che la disabilità è stata spesso affrontata come un problema principalmente individuale e quindi con il pericolo di attuare un processo di marginalizzazione anziché di integrazione.
  • 11. Col tempo, nel linguaggio comune il concetto di handicap ha cominciato ad indicare la condizione della persona (handicappato) e non la condizione di svantaggio sociale. Il modello ICIDH presentava, secondo uno schema lineare, la disabilità e l’handicap come conseguenza di un danno biologico in seguito ad una malattia, un disturbo, un evento traumatico. L’handicap di conseguenza manifestava gli effetti derivanti dalla presenza della disabilità ed in ultima analisi di una menomazione, considerata la causa di tutto. Alla luce di questo quadro, si trattava di minimizzare, di curare o addirittura di cercare di eliminare la causa del problema.
  • 12. Proprio la logica dei bisogni educativi speciali è stata per molto tempo, e forse in molte situazioni lo è ancora, il quadro di riferimento degli interventi educativi nelle scuole. Il risultato è stato che le classi erano viste come un insieme di allievi “normali” in cui era presente un allievo “speciale”, non a caso certificato da una precisa diagnosi medica che attestava la disabilità. Il tutto era rafforzato dalla presenza di un docente “speciale” (di sostegno) per un alunno “speciale”, che in molti casi operava in base al un Piano Educativo Individualizzato da lui solo elaborato, in una cornice di distinzione, se non addirittura di separazione, rispetto ai colleghi ed ai compagni. Gli interventi erano finalizzati a dare all’alunno disabile opportunità uguali o quanto meno il più possibile analoghe a quelle degli altri.
  • 13. Alla “epistemologia del danno”, collegata all’ICIDH e centrata su aspetti “quantitativi” - quanto un uomo è menomato, quante cose è ancora o non è più in grado di fare -, corrispondeva un paradigma “assimilazionista” fondato sull’idea che il compito della persona disabile era quello di diventare il più possibile simile a una persona “normale”. Anche nel contesto scolastico spesso si è fatto implicitamente riferimento a questo paradigma basato sull’adattamento dell’alunno disabile a un’organizzazione scolastica fondamentalmente strutturata in funzione degli alunni “normali”.
  • 14. L’integrazione ha così corso il rischio di diventare un processo centrato principalmente su strategie per portare l’alunno disabile a essere quanto più possibile simile agli altri. Il successo dell’appartenenza era misurato a partire dal grado di normalizzazione raggiunto dell’alunno. La qualità di vita scolastica del soggetto disabile veniva valutata in base alla sua capacità di colmare il varco che lo separava dagli allievi “normali”. Questo modello, però, non era privo di limiti, in quanto non solo era improbabile che questo varco potesse essere effettivamente colmato (con il carico di frustrazione conseguente), ma era l’idea stessa che compito del disabile era quello di diventare il più possibile simile a una persona normale a creare il presupposto dell’esclusione.
  • 15. Porre la “normalità”come modello di riferimento significava negare le differenze in nome di un ideale di uniformità e omogeneità Tutto questo era proprio il contrario del pieno sviluppo della persona umana, così come voleva la nostra Carta costituzionale. Ecco perché anche in Italia è stato espresso un giudizio negativo contro il modello bio-medico e, sotto l’influsso delle riflessioni e degli impulsi provenienti dal mondo anglosassone collegati al modello sociale della disabilità, ha trovato spazio la critica inclusiva all’integrazione scolastica italiana. La stessa OMS ha disapprovato fortemente la “logica bio-medica” ed ha avanzato in alternativa, come già precedentemente detto, un nuovo paradigma (International ClassificationofFunctioning, Disability and Health - ICF), che ha condizionato dal 2001 anche il mondo scolastico.
  • 16. Il nuovo approccio, meno riduttivo e più globale, è stato approvato nel corso della 54a Assemblea Mondiale della Sanità. Dal 22 maggio 2001, giorno dell’approvazione, con l’ICF è stato superato il modello bio-medico che era alla base della Legge- quadro in favore del modello bio-psico-sociale. Da quel giorno tutti sono stati chiamati a misurarsi con il nuovo paradigma ed a confrontarsi con l’inedito scenario. Dai primi anni del XXI secolo in Italia c’è stata una discreta attenzione nei confronti dell’ICF, che si è concretizzata in significativi convegni ed in rilevanti pubblicazioni.
  • 17. Nonostante i vari progetti condotti a livello nazionale ed europeo circa l’applicazione dell’ICF, oggi c’è ancora un forte bisogno di confronto operativo e di formazione: i tempi non sono ancora maturi. Gli stessi docenti non sono stati fino ad ora massicciamente coinvolti e quindi non sono stati pienamente responsabilizzati ad impiegare in modo competente l’ICF, nonostante questa classificazione sia un modello che può essere utilizzato nel momento della Diagnosi Funzionale ed anche nelle diverse fasi della costruzione del Piano Educativo Individualizzato.
  • 18. Sotto questo aspetto bisogna riconoscere che molti passi devono essere ancora fatti nella prospettiva della ricerca, dell’applicazione e della sperimentazione dell’ICF in ambito scolastico. Proprio questi passi sono stati chiaramente stimolati da alcuni recenti interventi del Ministero dell’Istruzione, dell’Università, della Ricerca, come le Linee guida per l’integrazione scolastica degli alunni con disabilità (2009), il Progetto ICF. Dal modello ICF dell’OMS alla progettazione dell’inclusione (2010) e la Circolare Ministeriale n. 83 del 4 ottobre 2012 - Integrazione scolastica degli alunni con disabilità – Legge 440/97. Il cammino da far e è ancora molto lungo e necessita di maggiori sforzi, di decisivi impegni e di strategici investimenti a tutti i livelli.