E' un mio articolo che tratta del tema della co-progettazione dell'intervento educativo con persone autistiche e con le loro famiglie. Il problema che si pone è quello del decisore unico (l'esperto) o in alternativa il modello della co-costruzione.
1. Il progetto educativo con le persone
autistiche e con le loro famiglie
Progettazione partecipata o decisore unico?
Sommario
Il lavoro educativo con le persone autistiche richiede forme di progettazione
dialogica, in cui tutti gli attori presenti sulla scena dell’intervento, soggetti
autistici compresi, partecipano insieme ai tecnici alla costruzione del progetto
educativo. È da superare, quindi, il modello del decisore unico (lo specialista), che
pianifica a priori le linee d’intervento e chiama gli altri al ruolo di passivi
esecutori.
Il progetto di vita
Normalmente, siamo portati a pensare al progetto educativo, inscrivendolo
in un arco di tempo definito, spesso quello dell’anno scolastico o, allargando
l’orizzonte, ad un progetto che attraversa un ciclo scolastico, ad esempio le scuole
medie. Nel caso di bambini in situazione di grave handicap, come i bambini
autistici, dove il carattere del deficit è permanente e non è possibile pensare ad
una “ guarigione ”, occorre proiettarsi più lontano e provare a mettere a fuoco un
progetto di vita, dove a fare da sfondo c’è la domanda: il futuro che immaginiamo
per questi bambini è in un contesto separato (istituzione di varia natura e
dimensione) e di carattere assistenziale o integrato nella nostra comune vita
sociale?
Montobbio al Convegno Internazionale “La qualità dell’Integrazione è la
qualità della scuola”, tenutosi nel novembre del 2003, riferendosi al progetto di
vita delle persone disabili ha detto: << La persona disabile rischia sempre di
diventare "cosa del mondo", almeno in parte, perdendo di conseguenza la
possibilità che per lei "il mondo accada" e risultando in qualche misura dominata
da un determinato progetto di mondo. Il bambino disabile è vissuto sovente come
oggetto da riparare piuttosto che come individuo dotato di una propria originalità
da far crescere con il fine di renderlo il più possibile equilibrato, felice e
dignitoso. >>
Il progetto di vita, quindi, porta al centro dell’attenzione la soggettività
dell’educando, i suoi spazi di libertà, il suo diritto ad un futuro non
completamente preordinato, anche se inevitabilmente condizionato dal proprio
ambiente. Si pone, in altri termini, il problema della partecipazione dell’educando
al proprio progetto di vita. Nel caso dei bambini autistici, così fortemente
penalizzati da deficit nelle abilità di comunicazione e interpersonali, il diritto alla
costruzione del proprio progetto di vita, così come quello alla partecipazione alla
vita sociale, sembrano essere questioni puramente etico-filosofiche. Talvolta,
però, sono i comportamenti-problema a dire qualcosa circa i bisogni dei bambini:
qualcosa da comprendere e a cui dare risposta. Come vedremo più avanti, la
2. lettura di questi comportamenti offre talvolta delle idee per costruire un progetto
in grado di accogliere, almeno in parte, la “ voce ” dei bambini.
Se per le persone autistiche è improprio parlare di guarigione e, quindi, di
ritorno alla normalità, inevitabilmente si pone il problema dell’accompagnamento
di queste persone e delle loro famiglie nelle diverse fasi della vita. Canevaro ci
spiega che:
Il deficit è un dato irreversibile, ed è quindi possibile che nel percorso
esistenziale insorgano handicap non previsti, o per lo meno diversi da quelli
che erano conosciuti, per esempio, nell’età scolastica. Una rete istituzionale
deve avere una funzione permanente: non possiamo immaginarne la fine e
quindi non possiamo pensare che il successo dell’integrazione consista nella
scomparsa delle istituzioni. Piuttosto in una trasformazione, in un
adeguamento continuo, ma non nella loro scomparsa. A volte, il timore delle
famiglie nasce dalla possibilità d’interpretare l’integrazione come qualcosa
che potrebbe causare la perdita di quell’accompagnamento istituzionale che
invece deve rimanere. ( Canevaro, 1999, p. 71)
I servizi socio-sanitari competenti per territorio devono rappresentare il punto
di riferimento indispensabile per quella che possiamo chiamare continuità
d’intervento verticale, lungo l’arco della vita. È una funzione che dovrebbe
articolarsi, in un primo tempo, nel sostegno alla costruzione del progetto di vita e,
in un secondo tempo, nella cura del progetto stesso. La continuità verticale è un
aspetto fortemente critico, come osserva Hanau: << […]dopo l’integrazione
scolastica nessuno viene inserito in posti di lavoro normali, a differenza di quanto
accade nei Paesi dove viene applicata una strategia globale di integrazione tipo
TEACCH e dove il 90% viene inserito in posti di lavoro normali. >> (2003,
p.119) Il Programma TEACCH può costituire un modello interessante anche per
la realtà italiana. Proviamo a vederne i tratti principali.
Il Programma T.E.A.C.C.H.
Il programma TEACCH, acronimo di Treatment and Education of Autistic
and Communication Handicapped Children è un programma innanzi tutto
politico. Con il termine "Programma TEACCH" s’intende, infatti, indicare
l'organizzazione dei servizi per persone autistiche realizzato nella Carolina del
Nord (USA), che prevede una loro presa in carico globale, cioè in ogni momento
della giornata, in ogni periodo dell'anno e della vita e per tutto l'arco
dell'esistenza. L'organizzazione dei servizi, infatti, si compone di: centri di
diagnosi, centri di aiuto a domicilio, numerose classi speciali presso le scuole e
posti di lavoro per adulti. Tutti i servizi sono collegati fra di loro per garantire la
globalità e la continuità dell’intervento: in questo modo si è creata una continuità
di intervento sia "orizzontale", cioè in tutti gli ambienti di vita, che "verticale",
cioè per tutto l'arco dell'esistenza.
Ideato e progettato da Eric Schopler negli anni '60, venne sperimentato
nella Carolina del Nord per un periodo di 5 anni con l'aiuto dell'Ufficio
all'Educazione e dell'Istituto Nazionale della Sanità: dati i risultati estremamente
positivi raggiunti, dagli anni '70 il programma TEACCH è ufficialmente adottato
e finanziato dallo Stato:
Questo programma, nato nell’ambito dell’università, sorge in risposta ai
fraintendimenti circa la natura dell’autismo che derivavano da chi seguiva le
3. dottrine freudiane. Si pensava che i bambini autistici si fossero chiusi in se
stessi a causa di un’inconscia ostilità e rifiuto da parte dei loro genitori, che
a loro volta venivano ritenuti ossessivi dal punto di vista intellettuale ed
emotivamente freddi. Il trattamento <<ideale>> consisteva nel togliere i
bambini a questi genitori ricoverandoli in un ospedale psichiatrico o in una
scuola speciale ed escludendoli dalla frequenza della scuola pubblica.
Durante i primi anni del T.E.A.C.C.H., la nostra esperienza clinica e di
ricerca ci aiutò a confutare queste credenze errate, dimostrando che
l’autismo era prodotto da diverse cause biologiche e non derivava da un
ritiro sociale causato dagli atteggiamenti negativi dei genitori. I genitori non
erano la causa del disturbo, piuttosto potevano essere una parte essenziale
della riabilitazione, erano collaboratori necessari ed efficaci degli operatori
nel definire e nel portare avanti il processo individuale di trattamento.
Imparammo ben presto che i bambini potevano essere aiutati al meglio con i
loro genitori, nelle scuole pubbliche e nelle loro comunità. (Schopler,
1998, p. 29)
Il programma TEACCH nasce, quindi, dal superamento della concezione
psicogenetica del disturbo autistico, che colpevolizza pesantemente i genitori. Al
contrario, i genitori sono considerati la fonte più attendibile di informazioni sul
proprio bambino e vengono coinvolti nel programma di trattamento con il ruolo di
partner dei professionisti. Infatti, se non si crede più ad una responsabilità della
famiglia nella genesi del disturbo, una collaborazione attiva nell’intervento da
parte dei familiari ne sarà la logica conseguenza, per consentire la
generalizzazione delle competenze acquisite e per garantire una coerenza di
approccio in ogni attività di vita della persona autistica. Il coinvolgimento dei
familiari in qualità di partners incide, secondo Schopler, per il 50% sulle
possibilità di successo del programma. Inoltre l'estrema variabilità delle
manifestazioni e dei livelli di sviluppo nell'ambito della sindrome autistica, come
viene definita dal DSM IV e dall'ICD 10, rendono indispensabile la testimonianza
dei genitori per una corretta valutazione delle capacità del soggetto, delle sue
potenzialità e del suo livello di sviluppo.
Come adattare il Programma T.E.A.C.C.H. in Italia
Le accuse spesso rivolte al programma T.E.A.C.C.H. di isolare il bambino dal
suo ambiente, per poter meglio svolgere le attività didattiche, trascurando quindi
gli aspetti legati all’integrazione sociale, possono derivare da un’interpretazione
rigida del programma stesso che, invece, deve essere ripensato caso per caso,
situazione per situazione, paese per paese. A questo proposito, nel sito internet
della Division T.E.A.C.C.H.1, il direttore del programma Gary Mesibov, in una
scheda di presentazione afferma:<<L'insegnamento strutturato non dice nulla
riguardo dove la persona con autismo dovrebbe essere educata; questa e' una
decisione che si basa sulle abilita' e sulle necessita' di ciascun individuo. Qualcuno
può lavorare efficacemente e beneficiare del programma educativo normale,
mentre altri avranno bisogno di frequentare classi speciali per l'intera giornata o
parte di essa, dove l'ambiente fisico, il piano di studi ed il personale può essere
organizzato ed adattato per rispondere alle necessita' individuali.>>
1 L’indirizzo internet è: http://www.teacch.com/
4. In altri termini, è importante sottolineare la flessibilità del programma, la
sua capacità di adattarsi, mediante un processo di programmazione-progettazione,
alla specifica realtà ambientale e al singolo educando. Proprio per evitare un
rispetto feticistico del programma, è necessario, anche in Italia, procedere ad un
ripensamento-adattamento del Programma T.E.A.C.C.H., in modo da renderlo
compatibile sia con la cultura dell’integrazione sia con le strutture educative e
sanitarie effettivamente operanti nel territorio.
Ripercorrendo in estrema sintesi l’affermarsi della filosofia
dell’integrazione in Italia, si può dire che, dopo il proliferare di scuole speciali e
classi differenziali nel decennio 1960-70, si è assistito, a partire dalla metà degli
anni ’70, al progressivo superamento dell’esclusione dei bambini handicappati dai
normali contesti di vita, fino ad arrivare alla legge quadro 104 del 1992. L’uscita
dai luoghi “speciali” ha, però, alimentato un equivoco: la fine dei luoghi speciali
equivale alla fine dei bisogni speciali:
[…] le attenzioni “speciali” , le attenzioni mirate, devono per forza essere
segreganti? Forse ci siamo fatti l’idea che le cure “ speciali ” devono
avvenire in luoghi separati, e abbiamo pensato (o pensiamo), sbagliando,
che eliminare la separazione significhi eliminare le attenzioni “ speciali ” e
le figure professionali capaci di rispondere a bisogni “ speciali ”.
…Personalmente ritengo che si tratti di un grave errore. In realtà, la
prospettiva dell’integrazione da un lato può chiarire come le risposte “
speciali ” a bisogni “ speciali ” non coincidano con la segregazione,
dall’altro può valorizzare le professioni speciali. (Canevaro, 1999, pp.4-5)
Con uno slogan si potrebbe dire “ risposte speciali a bisogni speciali, in
luoghi normali ”, una sintesi che può indicare una direzione di senso verso cui
muoversi, nell’adattare il Programma T.E.A.C.C.H. alla realtà italiana. E proprio
considerando la necessità di risposte speciali a bisogni speciali, come quelli dei
bambini autistici, credo sia indispensabile prevedere:
− centri di valutazione e diagnosi, distribuiti capillarmente nel territorio
nazionale, in grado di somministrare test come il PEP-R e organizzati per
monitorare gli sviluppi degli interventi con follow up annuali;
− costituzione di equipe multidisciplinari (educatori, pedagogisti, psicologi,
psicomotricisti, logopedisti) in grado di operare come interfaccia di
connessione tra le diverse realtà presenti nell’ambiente di vita dei bambini
(realtà scolastica, familiare, clinica…), così da garantire la continuità
orizzontale dell’intervento;
− servizi socio-sanitari, competenti per territorio, in grado di garantire la
continuità verticale dell’intervento, magari superando la divisione fra
neuropsichiatria infantile e psichiatria degli adulti.
Il perché dell’intervento educativo
Che l’intervento educativo sia il trattamento d’elezione per l’autismo
(<<treatment is education>>) è uno dei principi su cui si basa il Programma
TE.A.C.C.H. T. Peeters,uno dei primi ad introdurre il programma in Europa,
dopo avere passato in rassegna i criteri diagnostici del DSM IV ed aver
sottolineato l’inclusione dell’autismo tra i disturbi generalizzati dello sviluppo,
spiega perché l’intervento educativo sia il trattamento d’elezione:
È importante che l’autismo non sia più classificato insieme alle malattie
mentali o alle psicosi, come in passato […] Il termine “malattie mentali”
5. implica che il primo trattamento deve essere psichiatrico e che solo quando
questo si rivela insufficiente l’attenzione deve rivolgersi a un’educazione
specifica. Nei “disturbi generalizzati dello sviluppo”, invece, per il
trattamento diventa prioritario l’intervento educativo […] Un’altra
importante differenza tra un disturbo generalizzato dello sviluppo e una
malattia mentale concerne gli obiettivi finali: se il soggetto malato di mente
inizialmente era “normale”, si proverà a riportarlo alla normalità, ma nel
caso dell’autismo si deve accettare il fatto che il disturbo dello sviluppo è
una condizione permanente, per cui lo scopo del trattamento sarà di
sviluppare tutte le possibilità del soggetto, ma sempre entro questi
parametri. In altre parole, si cercherà di preparare l’autistico alla vita adulta,
in modo che si senta più integrato possibile nella società, mentre è ancora in
una situazione protetta. (Peeters, 1998, pp. 22-23).
Il cambiamento di prospettiva nell’inquadramento diagnostico e sul versante
eziologico riveste una particolare importanza, perché incide profondamente sulla
tipologia d’intervento, sulle sue finalità e sul rapporto con i genitori. Se la
compromissione qualitativa nell’area della comunicazione e dell’interazione
sociale si qualifica come deficit permanente, che non è da imputare alla relazione
madre-bambino, ne risulta, infatti, che non ha senso parlare di guarigione e ancora
meno ne ha colpevolizzare i genitori. È, invece, indispensabile mettere a punto un
intervento educativo finalizzato allo sviluppo delle abilità dei bambini e a ridurre
l’handicap, che deriva dall’incontro tra deficit e ambiente; un intervento educativo
che sappia coinvolgere le persone autistiche e i loro familiari, non solo come
destinatari passivi di progetti pensati da altri. Il progetto educativo, infatti, deve
rispettare il diritto della persona autistica a determinare, almeno in parte, il proprio
futuro e quello dei familiari di immaginare un futuro per il proprio figlio o la
propria figlia. Andare in questa direzione significa mettere in discussione alcune
premesse epistemologiche, perlopiù implicite, del lavoro sociale ed educativo.
Le premesse epistemologiche: dall’oggettività alla
soggettività
Può sembrare un vezzo filosofico parlare di epistemologia all’interno di un
articolo che intende parlare del progetto educativo con i soggetti autistici e con le
loro famiglie. L’intervento educativo, però, non può che partire dalla raccolta
d’informazioni mediata da informatori (interviste con i familiari, colloqui con i
tecnici) oppure diretta, mediante osservazione. E proprio l’osservazione pone la
scelta di come osservare e, quindi, un problema di carattere epistemologico. Se
proviamo a pensare alla differenza tra l’atteggiamento di chi osserva in modo
distaccato, come se fosse dietro uno specchio unidirezionale, e l’atteggiamento di
chi osserva stando dentro la relazione, si capisce meglio quale distanza possa
dividere una epistemologia oggettivista, basata sulla separazione tra
soggetto/oggetto, ed una epistemologia non dualistica, basata sull’interazione
empatica. L’atteggiamento di chi osserva dal di fuori è dello stesso tipo di chi
osserva un oggetto della natura. Ma un bambino, anche se disabile, è assimilabile
ad un oggetto della natura? Davvero l’osservatore non interferisce sul
comportamento del bambino? Si può pensare, inoltre, che un bambino autistico
possa essere immesso in una situazione di valutazione, con tecnici poco o mal
6. conosciuti, e che questa situazione sia indifferente dal punto di vista delle sue
reazioni comportamentali?
Questi interrogativi sollecitano una riflessione sulle premesse
epistemologiche del lavoro educativo. Chiedersi se è possibile rendere oggetto di
conoscenza l’educando, porta con sé altre domande, che riguardano la possibilità
di manipolazione della persona e il suo essere destinatario passivo delle iniziative
altrui. I nuovi quesiti possono essere così formulati:
− il lavoro educativo è un lavoro sulla persona o con la persona?
− la persona dell’educando e le persone del suo ambiente sono i destinatari
passivi di un progetto elaborato dai tecnici o persone che costruiscono un
progetto insieme ai tecnici e agli educatori?
Concepire se stessi come osservatori esterni o interni alla situazione
osservata, vedendo l’altro come oggetto del proprio osservare o come soggettività
pienamente umana, condiziona profondamente l’atteggiamento verso la persona
con cui si è chiamati ad operare. Analogamente, concepire la relazione in modo
reciproco o, al contrario, in modo unilaterale, genera una differenza del tutto
simile a quella esistente tra interazione-comunicazione e trasmissione-
manipolazione.
La difficoltà consiste nel fatto che queste premesse sono, nella pratica
professionale, perlopiù implicite e date per scontate. Ad esempio: l’osservazione
riguarda l’utente del servizio erogato e non la relazione educatore-educando; si
lavora “su…”, preposizione rivelatrice di un atteggiamento che tende ad
oggettivare la persona dell’educando; infine, i tecnici fanno il progetto e poi la
famiglia è chiamata a “ condividere ” gli obiettivi e le metodologie proposte. In
una situazione di questo tipo è necessario mettere tra parentesi l’atteggiamento
che dà per scontato ciò che è culturalmente costruito.
Come accennato, un esempio dell’atteggiamento oggettivistico nel lavoro
educativo è l’uso frequente della preposizione “su”: lavorare su qualcuno. Questa
preposizione apparentemente innocente svela, ad una più attenta analisi, una
tendenza ad agire come se l’altro, l’educando, fosse una cosa del mondo: lavorare
“su” rimanda, infatti, alla manipolazione della materia inorganica: è, in altri
termini, un modellare a proprio piacimento una materia plasmabile. Lavorare su
implica, quindi, una concezione della relazione lineare e unidirezionale: si agisce
sull’utente, tramite un intervento unilateralmente pilotato e controllato dal tecnico.
È un approccio che contraddice quella che Bertolini (1988, 2a ed 1990) chiama la
direzione intenzionale originaria della relazione reciproca. La preposizione
rivelatrice di un diverso atteggiamento è con: lavorare con qualcuno. Viene
riconosciuta, in questo caso, la piena soggettività alla persona dell’educando e
quindi l’inevitabile reciprocità della relazione.
Quale osservazione?
Avvicinare un bambino autistico, farne la sua conoscenza per poi pian
piano immaginarsi con lui e la sua famiglia il suo futuro, il suo progetto di vita, è
un percorso complesso. All’inizio è solo un osservare per capire, un osservare,
però, che non gode della protezione di uno specchio unidirezionale. Si è dentro la
relazione: si osserva e si cerca di capire vivendo insieme la quotidianità. Siamo in
una situazione simile a quella dell’osservazione partecipante dell’antropologia,
che cerca di capire la cultura dell’altro entrando nel suo ambiente, partecipando ai
7. suoi riti o alle più ordinarie routine. O, forse, ancora meglio, è simile
all’osservazione critica di Piaget. Come Piaget, l’educatore offre degli stimoli
(materiali, attività) per comprendere l’altro in base alle sue risposte. È
un’osservazione che permette di fare delle valutazioni, individuare direzioni di
lavoro e ipotesi progettuali.
Proviamo a chiarire con un esempio. Riporto, a questo proposito, la
registrazione di una seduta di lavoro con Sandra, una bambina di 6 anni con una
diagnosi di autismo atipico, nella fase iniziale dell’intervento educativo.
Tab.1
DESCRIZIONE DELL’INTERAZIONE COMMENTO
Rivedo Sandra e la mamma dopo le vacanze di Pasqua. Si può provare a fare le due
Apprendo dalla mamma che Sandra ha avuto un’otite, che attività ( a tavolino, gioco)in due
ha causato il rientro anticipato di tutta la famiglia dal luogo spazi separati, così da definire
di vacanza. Spiego alla madre, come intendo procedere e, meglio la situazione: in
cioè, iniziare con delle attività a tavolino per poi passare al cameretta , dove c’è già il
gioco sul tappeto. Organizzo lo spazio del soggiorno, dove tavolino e le sedie , fare le
sono contenuti i giochi di Sandra e dove le volte precedenti attività a tavolino, mentre nel
abbiamo svolto attività di gioco, sistemando un tavolino soggiorno si possono
basso e due sedie basse prese dalla sua cameretta. organizzare i giochi sul tappeto.
La prima attività a tavolino che propongo a Sandra è il La guida fisica potrebbe
travaso di farina da un contenitore ad un altro, utilizzando diminuire: dalla guida fisica
un cucchiaio. Le stringo la mano per aiutarla ad afferrare il completa(mano sulla mano) si
cucchiaio e con questo tipo di guida fisica svolgiamo può gradualmente passare a
l’attività. Tenta diverse volte di muoversi, ma con gentile sostenerle la mano per il polso.
fermezza la riporto alla posizione seduta.
A seguire, anche a titolo di rinforzo, chiedo alla mamma un E’ importante su questo aspetto
budino o altro che sia di gradimento per Sandra e che dell’autonomia verificare come
debba essere mangiato con il cucchiaio. Evelin porta uno lavorano a scuola, per poi
yogurt e così proseguiamo il lavoro a tavolino con il estendere e generalizzare una
cucchiaio, aggiungendo questa volta il movimento del modalità di lavoro, anche a casa.
portare alla bocca. Mantengo come prima la presa sulla (se ho capito bene la madre
mano di Sandra, che mangia 3/4 cucchiaiate di yogurt. imbocca Sandra senza farla
partecipare alla presa del
cucchiaio e al movimento di
portare alla bocca)
Sandra prova regolarmente ad alzarsi e io le “ chiedo” Alla fine Sandra, con qualche
(accompagnandola fisicamente) di tornare a sedere, anche breve interruzione, starà a sedere
per valutare la sua tolleranza della frustrazione e il tempo per circa un’ora. Anche la madre
massimo per il lavoro a tavolino rimane sorpresa.
8. All’inizio dell’incontro ho chiesto alla madre dei bottoni e E’ importante, per potenziare
un barattolo con un coperchio per fare un’attività di l’integrazione oculo-manuale,
esercizio della presa a pinza e dell’integrazione oculo- trovare dei materiali interessanti
manuale. Praticando un foro sul barattolo, si può costruire per Sandra. Per lavorare
una specie di salvadanaio. La madre è molto disponibile e sull’attenzione congiunta, è
trova il materiale occorrente, incaricandosi lei stessa di necessario, in primo luogo,
praticare il foro sul coperchio. Sandra, anche se con attirare l’attenzione di Sandra,
qualche difficoltà, riesce ad afferrare i bottoni, ma,poi, mediante una sollecitazione
distoglie lo sguardo. Per farle infilare i bottoni devo quindi verbale del tipo: “Guardami
guidarle la mano. Sandra!”
La madre mi fa vedere diversi giochi di Sandra e io ne Vedi sopra
seleziono alcuni. Ne sperimento brevemente l’utilizzo
con Sandra. Anche in queste attività, come in quella dei
bottoni, si conferma la difficoltà di attenzione di Sara che
tende a distogliere lo sguardo dagli oggetti.
Dopo quasi un’ora di attività a tavolino, quando la bambina
inizia a manifestare segni d’insofferenza con un specie di L o scambio con l’automobile
pianto, passiamo ai giochi sul tappeto. Inizio con dei giochi giocattolo è più facile che con
di contatto, sperimentando anche il gioco del cucù. Il gioco altri oggetti come la palla. In
che funziona meglio è , comunque, il gioco con l’automobile questa prima fase è meglio
giocattolo, che faccio sparire dietro un fazzoletto e poi utilizzare i materiali a lei
ricomparire; poi la passo a Sandra , chiedendola indietro. preferiti.
Sandra si diverte molto.
Con sedute di lavoro come questa, è possibile, per gli educatori, avvicinare
la realtà della persona autistica, conoscere le sue abilità o difficoltà, le sue
motivazioni o i suoi comportamenti-problema e, più in generale, il suo modo di
rapportarsi con l’ambiente familiare o scolastico. Nello sperimentare la relazione,
prendono forma direzioni di lavoro, ipotesi progettuali. Quando, infine, si sono
raccolte le informazioni indispensabili per tracciare un profilo completo della
persona autistica, è possibile procedere passando alla fase più propriamente
progettuale.
Progettazione partecipata o decisore unico?
La progettazione con decisore unico è definibile pianificazione.
<<Progettare secondo l’approccio della pianificazione vuol dire prefigurare,
prevedere e pianificare intenzionalmente e a priori le azioni che le persone
dovranno eseguire per poter raggiungere gli obiettivi prestabiliti.>> (F. d’Angella,
A. Orsenigo 1997, p.54) Questo tipo di progettazione funziona secondo una logica
ingegneristica, in cui il tecnico che progetta pensa, disegna e poi lascia che siano
altri a tradurre in termini operativi il progetto. Si afferma, così, una rigida
separazione tra chi progetta e pensa, e chi è chiamato a mettere in pratica, ad
agire, esecutore di idee altrui. Dal punto di vista dell’esecutore, questo approccio,
9. fornendo precise indicazioni sul da farsi, riduce i margini d’incertezza e l’ansia
che ne potrebbe conseguire.
L’approccio alla progettazione che considera indispensabile la
partecipazione al progetto delle persone direttamente o indirettamente coinvolte,
si chiama progettazione dialogica o coprogettazione. Al modello del decisore
unico, la progettazione dialogica oppone l’idea e la prassi del progettare insieme
con gli attori sociali presenti sulla scena dell’intervento.
Partendo da un approccio alla progettazione con decisore unico e
muovendosi nella logica della pianificazione, il progetto predisposto dai tecnici
può essere “imposto” in forza di ragioni oggettive di ordine scientifico. Nel
migliore dei casi, il progetto è accettato favorevolmente perché si riconoscono
come proprie le ragioni “oggettive” prodotte dal tecnico. Una cornice di senso
condivisa e la consapevole accettazione, da parte del destinatario del progetto, di
una relazione asimmetrica, con il tecnico in posizione dominante in virtù dei suoi
saperi, permettono alla comunicazione di funzionare e al progetto di fondarsi su
solide basi. Muovendo, invece, da una prospettiva di progettazione dialogica, il
modello del decisore unico non è più praticabile e tutti gli attori presenti sulla
scena dell’intervento diventano protagonisti della costruzione del progetto
educativo. In questo caso il tecnico non parte da ipotesi precostituite, ma si mette
in una posizione d’ascolto e prova, passo dopo passo, a raccogliere nel confronto i
tasselli dell’informazione, per sistemarli, poi, in un disegno, da valutare insieme.
La famiglia come partner
L’idea della famiglia come partner è la premessa indispensabile per una
progettazione partecipata; gli operatori in questo caso ragionano in termini
sistemici:
Non possiamo trascurare la dimensione di partenariato nei rapporti con i
familiari […]Molte volte noi sottolineiamo i limiti, le carenze, le difficoltà
di carattere, le pretese assurde, che gli altri, i familiari, possono avere.
Questa sottolineatura è fatta a volte con eleganza, a volte con la
preoccupazione di rappresentare realisticamente una situazione, quindi con
una buona disponibilità a trovare forme di aiuto. Se però prende il
sopravvento nella nostra rappresentazione dell’altro, finisce per ancorare
l’altro ai limiti, anziché provocare un superamento attraverso un
riconoscimento di quella che può essere indicata come identità competente.
Noi dovremmo quindi valorizzare soprattutto gli aspetti che permettono di
sviluppare il partenariato in positivo, in cui la relazione d’aiuto è
cooperazione e non correzione o imposizione di qualche cosa. (Canevaro,,
2000, p. xy)
L’esortazione di Canevaro va nella direzione di una valorizzazione delle
risorse della famiglia, piuttosto che nel costante riconoscimento delle difficoltà o
limiti interni della famiglia stessa. L’educatore, in effetti, può costruire delle
teorie della famiglia, in modo più o meno consapevole, tali da rendere impossibile
una progettazione partecipata. Ragionare in termini sistemici, invece, significa
procedere in direzione di un nuovo modello:
Si tratta di un modello che possiamo definire “coevolutivo” e che orienta un
operatore ad interrogarsi sul significato che assume il proprio intervento con
un utente all’interno della relazione fra questi e la sua famiglia e ad
organizzare il suo intervento non semplicemente sulla base di ciò che ritiene
10. utile ed evolutivo per l’utente, ma sulla base di ciò che ritiene utile ed
evolutivo per l’utente come componente di un sistema familiare.[…] Per un
operatore che si colloca in questa prospettiva, la famiglia non sarà
inesistente o da sostituire, né sarà ininfluente o semplice risorsa da
utilizzare; essa verrà piuttosto considerata come una parte integrante del
sistema interattivo entro e attraverso il quale l’operatore assolve le sue
funzioni. (Fruggeri 1997, p.174)
A proposito di partnership tra educatore-famiglia-utente e di processi di
co-evoluzione mi sembra utile riportare un’esperienza educativa di segno positivo.
Progettare insieme: la famiglia di Franco come partner
Ho lavorato con Franco, un ragazzo autistico ad alto funzionamento, per
quattro anni, dal 1999 al 2003: il primo anno a scuola, mentre Franco frequentava
la quinta elementare; poi, invece, l’ intervento è diventato di tempo libero. In
genere, è proprio in quest’ultimo tipo d’interventi che il rapporto con le famiglie
si fa più stretto, inevitabile.
L’obiettivo prioritario per l’intervento di tempo libero, individuato nella
discussione con i tecnici dell’Az. U.S.L. e con la famiglia, era il raggiungimento
della completa autonomia nei percorsi abituali di Franco. Il lavoro di
avvicinamento all’obiettivo iniziò con un’attività concepita per dare risposta alla
richiesta della scuola di collaborare allo svolgimento di un programma
individualizzato di geografia, durante la prima media. Tenendo presente la
spiccata sensibilità di Franco a livello di percezione visiva, organizzai l’intervento
di tempo libero secondo una successione di attività logicamente concatenate:
1. esplorazione dell'ambiente circostante l'abitazione di Franco;
2. identificazione dei luoghi o edifici che avrebbero potuto rappresentare punti di
riferimento per Franco e costruzione di una documentazione fotografica
relativa a questi luoghi o edifici (es. la Chiesa, la piscina, la pizzeria...);
3. ricostruzione dei percorsi fatti su una cartina-stradario, disegnata da Franco;
4. individuazione sulla cartina dei luoghi o edifici fotografati e conseguente
collocazione di foto di piccolo formato (abbiamo utilizzato i provini) nei punti
individuati;
5. costruzione di una specie di diario fotografico, composto di brevi testi relativi
ai percorsi fatti e foto (formato cartolina).
Durante questa fase “preparatoria”, durata quasi un intero anno, il ragazzo
ebbe l’opportunità di dimostrare di sapersi orientare, di riconoscere i luoghi e di
saperli rappresentare. Non rimaneva altro da fare che invitare Franco a fare brevi
percorsi in completa autonomia, lungo gli itinerari ormai ben conosciuti. Al
momento d’iniziare, però, emersero forti ansie nei genitori, in particolare nel
padre, per i possibili “ brutti incontri ” che Franco avrebbe potuto fare nel
percorso. Si rese così necessaria una fase di ascolto, confronto, negoziazione e
progettazione, che permise di concordare un rituale telefonico di questo tipo:
− prima di ogni nostro incontro, avrei telefonato a casa di Franco, chiedendogli
dove preferiva incontrarmi; la madre, quindi, avrebbe avuto da me conferma
del luogo dell’appuntamento, in modo da poter spiegare, sulla cartina costruita
da Franco, la strada da percorrere;
− una volta arrivato sul luogo dell’appuntamento, avrei lanciato un “segnale”,
11. facendo fare uno squillo al telefono di casa di Franco, che solo in quel
momento sarebbe uscito per arrivare nel luogo dell’appuntamento ( con questa
precauzione si evitava il rischio che Franco rimanesse da solo ad aspettarmi);
− al momento dell’incontro, infine, avrei dato conferma al telefono.
Questo complicato rituale permise di superare le prime esitazioni dei genitori
e Franco ebbe, così, l’occasione di fare brevi percorsi in completa autonomia,
dimostrando di sapersela cavare abbastanza bene. Nella seconda metà dello stesso
anno scolastico, i genitori, andando al di là delle mie aspettative, decisero di far
fare da solo a Franco il tragitto da casa a scuola. Lo sviluppo nelle abilità di
autonomia di Franco, così, è andato di pari passo con il superamento delle paure e
delle ansie da parte dei genitori.
Il ruolo della persona autistica nel progetto educativo
Il ruolo che la persona autistica può svolgere nella costruzione del progetto
educativo è sicuramente in relazione alle sue competenze. In primo luogo, è la
padronanza del linguaggio verbale a costituire un requisito di grande importanza.
Nel caso di Franco, ad esempio, la scelta dei luoghi degli appuntamenti, così come
quella delle attività da svolgere era concordata con Franco stesso, durante la
comunicazione telefonica che precedeva i nostri incontri.
Quando, il linguaggio è assente e le competenze comunicative scarse, la
costruzione di un progetto che tenga conto dei bisogni effettivamente espressi dai
bambini sembra essere una strada impraticabile. I bambini con forti deficit nelle
abilità sociali e di comunicazione, però, parlano spesso con i loro comportamenti-
problema. Nel caso di Vincenzo, ragazzo con autismo severo e grave ritardo
cognitivo, una direzione importante del lavoro educativo a scuola ha preso forma
proprio a partire da un comportamento problematico: il lancio di oggetti.
Vincenzo ha esibito, fin dall’inizio del mio intervento, durato dal 1998 al
2003, un comportamento particolarmente problematico: il lancio di oggetti. Sotto
casa sua, i vicini raccoglievano quotidianamente mucchi di oggetti lanciati dal
terzo piano. La madre, per limitare i danni, fece sistemare delle grate a maglie
strette alle finestre. Questo rimedio, per quanto necessario, non aveva alcun
effetto sul comportamento, che continuava a manifestarsi sia a casa sia negli altri
ambienti.
Durante le attività di tempo libero, nelle belle giornate, capitava di andare
sulle rive di un fiume, dove si passava il tempo a giocare con la sabbia o a lanciare
le pietre nell’acqua: l’unica regola, nel gioco dei lanci, era l’alternanza dei turni.
Gradualmente prese forma una strategia educativa mirante, non tanto
all’interpretazione o al controllo del comportamento-problema, ma alla creazione
di un contesto dove il lancio non fosse un comportamento inappropriato. Dagli
scambi d’informazioni con la madre e da qualche osservazione casuale era
emerso, inoltre, un interesse di Vincenzo per la palla e per il campo da basket.
Iniziammo così, a scuola, a sperimentare dei tiri a canestro (avevamo a
disposizione un canestro giocattolo nell’aula di sostegno), poi dei percorsi che si
concludevano con il tiro a canestro.
Con il passaggio alle scuole medie, grazie ad una maggiore disponibilità
della palestra della scuola, è stato possibile organizzare, insieme all’insegnante di
sostegno, un percorso psicomotorio che prevedeva 4 attività.
12. 1. Attività di tiro a canestro
Materiali: 8 cerchie 8 palle da basket
Procedimento: 8 cerchi vengono disposti a semicerchio intorno al canestro e dentro ogni
cerchio c’è una palla; V. inizia a tirare dal primo cerchio e quando fa canestro si sposta
nel secondo, dove prende la seconda palla e tira… e così fino al termine;
2. Attività di palleggio con le palle da basket
Materiali: 2 carrelli da supermarket, palle da basket, coni da segnaletica stradale
Procedimento: si traccia con i coni un percorso, dove all’inizio c’è un carrello pieno di
palloni e al termine uno vuoto; V. deve prendere un pallone per volta, far rimbalzare la
palla per tutto il percorso e poi depositarla nel carrello vuoto, fino ad esaurire la scorta di
palloni del primo carrello;
3. Attività di passaggio con le palle da basket
Materiali: 2 carrelli da supermarket, palle da basket, 2 cerchi
Procedimento: si sistemano i due cerchi a distanza di 4-5 metri uno di fronte all’altro, in
uno sta V. e nell’altro l’educatore; l’educatore terrà al suo fianco il carrello pieno di
palloni e V. il carrello vuoto; l’educatore inizia a passare le palle da basket a V. fino a
svuotare il proprio carrello; poi s’invertono i ruoli.
4. Attività con le spalliere svedesi
Materiali: 8 cerchi, 8 palle da volley, spalliera svedese
Procedimento: sotto ogni spalliera viene sistemato un cerchio e dentro una palla; V. deve
prendere la palla, salire sulla spalliera e collocare la palla sulla sommità della spalliera,
così per le 8 palle; al termine deve prenderle e rimetterle dentro il cerchio
Nella seconda parte dell’anno, queste 4 attività sono state organizzate
secondo una precisa successione, in modo da formare un grande percorso a
stazioni, che si snodava intorno alla palestra (Fig.1).
Fig.1
3
4
2
1
13. Inoltre, abbiamo fornito a Vincenzo un supporto visivo per capire come
era organizzata la successione. In pratica, abbiamo sfruttato l’abilità nell’
accoppiamento di figure e il lavoro svolto con il calendario visivo, per costruire
una tabella con 4 diverse figure geometriche disposte in ordine verticale. Nel
punto d’inizio delle attività abbiamo, inoltre, collocato dei cartelli con le figure
corrispondenti a quelle della tabella di lavoro (fig.2). Il compito di Vincenzo
consisteva, quindi, nello staccare la prima figura geometrica dalla tabella di lavoro
(quella in alto) e andarla a collocare nel cartello con la figura corrispondente,
iniziando, poi, l’attività preparata in quello spazio; procedendo così fino al
termine delle quattro attività.
Fig.2
3
2
4
Segnali d’inizio (1 per stazione)
1
3
Tabella di lavoro
Mediante questa strutturazione dello spazio, abbiamo avuto modo di notare
come V. riuscisse più facilmente a comprendere la successione dei compiti e ad
orientarsi meglio, evitando così il calo di attenzione che si registrava normalmente
tra un’attività e l’altra. Infine, abbiamo proposto ad alcuni compagni di classe (1 o
2 per volta) di fare il percorso con V., come tutor o nel ruolo di compagno di
giochi. L’attività ha avuto successo: i compagni si sono sempre divertiti, al punto
da chiedere loro stessi di ripetere il percorso.
Mi sembra utile, a questo punto, fare una precisazione sui possibili
fraintendimenti che riguardano la traduzione pratica della filosofia
dell’integrazione. In un caso come quello di Vincenzo, per integrazione si
possono intendere principalmente due cose: 1)coesistenza parallela in uno stesso
spazio; 2) interazioni significative con i coetanei. Per coesistenza parallela
intendo la situazione tipica che si verifica durante la permanenza in classe:
Vincenzo è presente ma svolge le proprie attività didattiche a tavolino, senza
alcun collegamento con il lavoro dei compagni. Quando parlo invece di
interazione significativa mi riferisco alla possibilità di creare uno spazio
d’incontro con i coetanei, regolato da un sistema codificato di attese, per cui
ognuno dei partecipanti all’interazione è in grado di rispondere in modo
14. appropriato al comportamento dell’altro. Se il gioco, comunemente, si ritiene sia
un’attività spontanea, è perché non si considera che nel gioco, anche il più
semplice, si esercitano importantissime abilità sociali (ad esempio lo scambio di
turni) che, nel caso dei bambini autistici, però, non sono per niente scontate.
Partendo da questi presupposti, è bene chiarire che un’interazione
significativa e prolungata è possibile solo all’interno di attività che Vincenzo
conosce e sa svolgere bene. Ho aggiunto la specificazione “prolungata” perché si
può parlare anche d’interazioni significative episodiche, come ad esempio un
abbraccio o il “saluto con il 5”, che segnano un rituale d’incontro che non ha però
un seguito. Il percorso psicomotorio in palestra, invece, ha permesso di creare uno
spazio d’incontro per una forma d’interazione significativa e prolungata. È
opportuno sottolineare, quindi, che per sviluppare le abilità di gioco, nel caso di
bambini come Vincenzo, è necessario ricorrere a sedute di lavoro individuali.
Bisogna, cioè, preparare in un contesto “a parte” la possibilità dell’incontro con
i coetanei.
In conclusione, anche se non si può certo affermare che questo tipo di
attività sia stata determinante per l’estinzione del comportamento-problema
(potrebbero essere intervenuti anche altri fattori), di certo, il “lancio”, ha permesso
di individuare una direzione di lavoro e di costruire un’attività molto importante,
progettata anche con Vincenzo.
Difficoltà proprie della coprogettazione
Proviamo, ora, a riportare in elenco le difficoltà che si possono incontrare
nella coprogettazione:
− la famiglia ha elaborato delle rappresentazioni distorte di sé e dei propri
membri (ad esempio, non riesce a fare una valutazione equilibrata delle abilità
del proprio figlio);
− la famiglia cerca un “supertecnico” in grado di offrire una visione oggettiva
dei problemi e di indicare con sicurezza la terapia più adatta;
− gli educatori hanno rappresentazioni distorte della famiglia (ad esempio, la
famiglia come mezzo o addirittura come ostacolo);
− i tecnici dei servizi sociosanitari e l’educatore sostengono progetti
contrastanti e in contraddizione;
− gli educatori e i tecnici svolgono il loro mandato istituzionale pianificando
l’intervento: l’utente è considerato come destinatario passivo dell’intervento
(lavoro “su” e non lavoro “con” );
− il lavoro di progettazione partecipata è dispendioso dal punto di vista dei
tempi e dell’impegno rispetto al modello del decisore unico.
È possibile dire che questo insieme di elementi (rappresentazioni, pratiche di
lavoro e cultura professionale, modi e forme di organizzazione dei servizi)
costituiscano degli ostacoli che in relazione ai deficit dei bambini formano o
aggravano una situazione di handicap.
In una prospettiva di progettazione dialogica, il superamento di queste
difficoltà non va cercato tanto in facili soluzioni tecniche “belle e pronte” ma nel
mettere in discussione i propri presupposti, impliciti o espliciti che siano, nel
maturare una profonda capacità di ascolto e di osservazione, nel ricercare
sempre il confronto. In un certo senso, in partenza sono chiare solo le domande,
15. mentre le risposte vanno cercate volta per volta stando dentro le relazioni di aiuto.
E’ una prospettiva che può produrre ansia. Laddove il modello della
pianificazione a tavolino è, per certi versi, rassicurante, dal momento che si crede
di poter dominare razionalmente la realtà e la sua complessità, il modello della
progettazione dialogica richiede la capacità di stare nell’incertezza: se non esiste,
infatti, un sapere precostituito, le conoscenze si produrranno solo nell’interazione,
in altri termini, lungo il percorso.
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