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rima di addentrarci nell’obbiettivo primario del presente saggio,
vale a dire la trattazione tecnico-stilistica del Gōjū-ryū, ritengo sia
indispensabile inquadrare il fenomeno karate nel suo complesso
analizzandone alcuni risvolti teorici. Tale studio, volto alla ricerca delle
radici storiche, delle derivazioni ideologiche e di altri aspetti che legano
il karate alla cultura estremo orientale, sia prima che dopo il suo innesto
nella tradizione marziale giapponese, potrà risultare utile per comprendere meglio i meccanismi concreti della pratica. L’excursus storico si
fermerà alla strutturazione dell’impianto stilistico, realizzata dal maestro Miyagi nella prima metà del novecento e non contemplerà le innumerevoli recenti diramazioni del Gōjū-ryū, e quindi le più o meno
fondate motivazioni che hanno determinato i processi di differenziazione. Ciò scaturisce dalla volontà di non entrare in dettagli e valutazioni
che potrebbero suscitare incomprensioni e polemiche. Si pone quindi
in un’ottica di rispetto nei confronti dei molti praticanti, italiani e stranieri, che con altrettanta coerenza e rigore tecnico hanno tracciato una
visione del Gōjū-ryū diversa da quella prospettata nel presente saggio.
Verrà invece fatto un breve accenno ad alcune esperienze tecniche dell’autore che debbono essere viste non tanto come l’acquisizione di una
conoscenza tecnica con valenza assoluta, quanto come il solido punto
di partenza di una ricerca che lo ha impegnato per quasi quarant’anni. Il
karate viene cioè inteso, come un patrimonio da scoprire e da valorizzare in tutti i suoi aspetti, scaturito da un processo evolutivo che parte dai
solidi presupposti culturali e tecnici tracciati dalla tradizione.
Il presente capitolo vuole quindi evidenziare la correlazione e la coerenza di fondo che sussiste tra le profonde tematiche che hanno permeato
nei secoli le discipline del corpo estremo orientali, e l’impianto tecnico-stilistico del Gōjū-ryū, diretta propaggine di questa antica tradizione. Per delineare le correnti di pensiero che hanno fornito al Gōjū-ryū
una ben precisa impronta teorica e strutturale faremo riferimento agli
influssi culturali antecedenti alla nipponizzazione del karate, ma inquadreremo l’iter della pratica secondo l’ottica del budō giapponese, del
quale il karate-dō è parte integrante. Focalizzeremo cioè, in questo e nei
seguenti capitoli, alcuni concetti che sono comuni a tutte le arti marziali
nella loro accezione di “Vie”. Pur non volendo entrare nella trattazione
del karate come fenomeno sportivo, e quindi compenetrato dalla cultura e dai costumi occidentali, faremo qualche breve accenno alla teoria dell’allenamento. Ciò per sottolineare la imprescindibile necessità
di servirsi, anche nella pratica tradizionale, delle moderne metodiche
di addestramento, e per invogliare quindi il praticante a consultare gli
innumerevoli e validi testi che riguardano in modo specifico tali argomenti.

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ol termine fisiocinematica del karate intendiamo indicare tutto quanto concerne, nella pratica di questa disciplina, l’esecuzione ottimale di ogni gesto tecnico.
Si tratta di utilizzare, nel modo più razionale possibile, il corpo umano, sfruttandone tutte le potenzialità, sulla base di un
oculato utilizzo delle funzioni del corpo e dei meccanismi fisiodinamici.
Prima di identificare le parti anatomiche adoperate per colpire e per difendere, quelle impropriamente definite “armi”,
dobbiamo rilevare che in realtà nel karate esiste una sola vera
arma: il corpo per intero. Si tratta di uno strumento tanto sofisticato e complesso, quanto difficile da adoperare; uno strumento che per funzionare in maniera ottimale deve essere addestrato a compiti specifici e utilizzato razionalmente in ogni
sua parte. Ogni persona sana possiede mani, braccia, gambe, a
volte particolarmente forti e sviluppate per natura o per l’eventuale attività manuale che svolge, ma non per questo è esperta
di karate. Allo stesso modo, ci sono dei ragazzi naturalmente
dotati di rilevanti possibilità fisiche, in termini di forza, agilità,
scioltezza articolare, che eccellono in altre attività motorie, ma
conoscono solo per sentito dire le arti marziali.
La pratica del karate non richiede il possesso di particolari attitudini e caratteristiche psicofisiche. Pur essendo potenzialmente alla portata di tutti, presuppone un’attuazione mirata,
metodica e razionale di ben precisi compiti motori, o gesti tecnici, finalizzati, al di là della loro orientazione allo sport, alla
difesa personale o ad altro, a forgiare tutto quanto l’apparato locomotore del corpo umano, e non solo alcune sue parti,
come un potenziale strumento di difesa/offesa. Per realizzare
questo obbiettivo si possono e si debbono mettere a profitto i
più attuali criteri di allenamento, che peraltro sono molto spesso in perfetta sintonia con i sistemi tradizionali, frutto, non dimentichiamolo, di un’esperienza consolidata da secoli e secoli di sperimentazione pratica.
Un bravo istruttore deve essere ovviamente in grado di vagliare con rigore scientifico la validità, rispetto ai fini che si
ripropone, di quanto proviene dalla tradizione e di conciliare quindi gli antichi insegnamenti con le moderne didattiche.
Non può prescindere dunque dall’effettuare uno studio approfondito dell’anatomia funzionale del corpo umano e, in particolare, dei tre sistemi anatomici interdipendenti (sistema nervoso, scheletrico e muscolare) che determinano e regolano le

79
bbiamo descritto, nel precedente capitolo, l’utilizzo di certe parti anatomiche del corpo umano come
strumenti di offesa o di difesa e la meccanica del loro
impiego, attraverso opportuni posizionamenti mirati ad ottimizzare le potenzialità offensive o difensive degli arti, sia a
livello statico che dinamico. Si è tracciato quindi un quadro
più o meno esauriente dei fondamenti tecnici su cui poggia la
pratica del karate. Dobbiamo adesso entrare nella concretezza dell’addestramento stilistico, per esaminare, sotto il profilo
tecnico-funzionale, alcuni schemi motori propri del Gōjū-ryū
e le loro molteplici potenzialità applicative.
Entriamo cioè nel grande ambito della finalizzazione, offensiva e difensiva, del gesto tecnico.
Con il termine kihon, traducibile in senso lato come “addestramento di base”, indichiamo quella vasta gamma di espressioni
gestuali, volte al perfezionamento tecnico-stilistico e basate su
preordinati parametri di esecuzione, o comunque sul rigoroso
rispetto di ben precisi schemi posturali. Si tratta di sequenze di
movimenti singoli o concatenati, praticabili individualmente o
in coppia, vincolati sul piano della realizzazione e negli aspetti
concernenti i parametri applicativi.
Indirizzati a fornire al praticante un quadro sistematico e razionale di una impostazione stilistica, i kihon, intesi sia come
addestramento di base che come strumento di progressione
tecnica, costituiscono solitamente il primo approccio alla pratica del karate.
Attraverso le svariate situazioni tattiche contemplate dai kihon,
si apprende l’utilizzo concreto della meccanica delle difese e
dei colpi, e quindi la reale possibilità di impiegare in modo
coordinato e funzionale il corpo umano.
La crescente difficoltà negli abbinamenti tra posizioni, spostamenti, azioni offensive e difensive, che si traduce in combinazioni tecniche sempre più articolate, segna le tappe del continuo, graduale e sempre più approfondito apprendimento degli
schemi motori propri della disciplina.
Dal momento che i kihon, come forme di addestramento individuale e come moduli tecnici applicabili, costituiscono l’approccio di base a tutta quanta la pratica del karate, è necessario
allenarli in modo ripetitivo e rigoroso.
L’obbiettivo è la piena automatizzazione del gesto tecnico che
deve essere assimilato in tutte le sue molteplici sfumature e
varianti.

259
A) Il linguaggio dei kata
a trattazione delle tematiche concernenti i significati
e la pratica dei kata, ricopre una capitale importanza
nello studio del karate-dō. Sequenze di movimenti codificati contenenti ben precisi moduli gestuali, i kata, definibili
come “forme” o “modelli” del karate, oltre a rappresentare un
inesauribile “vocabolario” di tecniche, costituiscono anche la
sublimazione e l’espressione artistica delle medesime. Nella
loro gestualità, complessa e semplice al tempo stesso, talvolta
bella a vedersi, altre volte inquietante, spesso indecifrabile nei
suoi significati criptici, sempre affascinante, si concentra l’essenza del karate. Il linguaggio motorio che viene espresso nei
kata, debitamente vissuto e interpretato, costituisce la base di
tutta l’impalcatura tecnica di uno stile, e ne determina l’identità e l’essenza strutturale. Secondo la visione tradizionale,
queste espressioni psicofisiche dai risvolti pluridimensionali
costituiscono l’”alfa” e l’ ”omega” del karate, che, secondo
un’espressione comune, ma veritiera, “comincia e finisce con
la pratica dei kata”. Ciò equivale a dire che il loro continuo e
graduale perfezionamento segue di pari passo l’acquisizione,
da parte del praticante, di una sempre maggiore maturità fisica, tecnica, psicologica, spirituale. Progredire in questa specialità non ha quindi un significato univoco, ma presuppone
il raggiungimento di una molteplicità di obbiettivi di portata
psicofisica, che fanno parte dell’accezione stessa di kata. Partendo da questa idea di base, possiamo inquadrare i kata sotto
diverse angolature e riscontrare in essi alcuni aspetti in apparenza contraddittori, ma in realtà essenziali per una pratica del
karate che investa l’essere umano nella sua totalità. Possiamo
in particolare focalizzare in ogni kata la presenza di tre aspetti
diversi, ma interconnessi e ugualmente importanti per acquisire una conoscenza pluridimensionale del karate-dō.
1) l’aspetto figurativo-gestuale, che inizia con la graduale
assimilazione di tutti gli schemi motori del kata e continua
fino a che il praticante non sia in grado di esprimere, con le
proprie sensazioni corporee e secondo le proprie potenzialità
psicofisiche, l’essenza di ogni movimento. In altre parole lo
hyōgengata, o kata-rappresentazione, presuppone, secondo
la visione tradizionale, un’esecuzione fortemente sentita e
interiorizzata. In questo modo il gesto tecnico, attraverso il

345
A) Il significato di kumite
l termine kumite (kumi, incontro - te, mano), esprime, in
un’accezione ormai comune a tutte le arti marziali giapponesi, l’idea di un confronto non preordinato nei tempi e nei
modi, in cui domina la situazionalità, la possibilità cioè di agire
in modo libero, senza prestabiliti parametri di attacco e difesa.
Nel karate lo scambio tecnico tra due praticanti che si fronteggiano in gara o nel dōjō viene solitamente definito, con un’espressione diventata ormai di uso comune, “combattimento libero”.
Tale interpretazione del termine kumite conferisce forse importanza ed enfasi ai brevi quanto concitati scambi di colpi tra due
karateka, ma in realtà è una dissonanza nel karate tradizionale e costituisce una vera e propria stonatura in quello sportivo.
E’ vero che in tutti gli sport viene adoperata, soprattutto durante
alcuni eventi agonistici commentati dagli speakers, una “terminologia bellica” del tipo “le due compagini schierate”, gli “opposti schieramenti”, “lotta all’ultimo sangue” ecc.
Tali espressioni hanno il potere di coinvolgere emotivamente sia i protagonisti che gli spettatori di una particolare competizione, che assume per un momento il profilo della battaglia vera. Questa dichiarata bellicosità, se non degenera in
violenza, come spesso accade in certi eventi sportivi, ha una
funzione liberatoria e catartica sia per i gareggianti che per il
pubblico. E’ una cosa alquanto singolare che nel karate, soprattutto in quello sportivo, il termine “combattimento” venga
adoperato in maniera continua e ricorrente; più che nel pugilato, dove solitamente la competizione viene definita “incontro”, una parola che peraltro traduce perfettamente “kumite”.
Ciò è sicuramente un’eco del passato marziale e non sportivo
del karate; una eco che il più delle volte diventa vuota retorica.
Una cosa poi è usare tale termine per evidenziare la tensione
agonistica o per creare uno stato emotivo, una cosa è adoperarlo comunemente per indicare una prestazione sportiva, peraltro
spogliata di ogni derivazione marziale. Combatte, è bene ricordarlo, chi va in guerra e affronta il nemico mettendo a repentaglio la propria vita e quella altrui, o chi, in un modo o nell’altro,
compie azioni rischiose in un ambito militare o paramilitare,
o comunque connesso, direttamente o indirettamente, a finalità belliche. Chi si esibisce in un incontro di kick boxing incrociando i guantoni con un altro atleta, o chi sale sul tatami per il

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  • 1. rima di addentrarci nell’obbiettivo primario del presente saggio, vale a dire la trattazione tecnico-stilistica del Gōjū-ryū, ritengo sia indispensabile inquadrare il fenomeno karate nel suo complesso analizzandone alcuni risvolti teorici. Tale studio, volto alla ricerca delle radici storiche, delle derivazioni ideologiche e di altri aspetti che legano il karate alla cultura estremo orientale, sia prima che dopo il suo innesto nella tradizione marziale giapponese, potrà risultare utile per comprendere meglio i meccanismi concreti della pratica. L’excursus storico si fermerà alla strutturazione dell’impianto stilistico, realizzata dal maestro Miyagi nella prima metà del novecento e non contemplerà le innumerevoli recenti diramazioni del Gōjū-ryū, e quindi le più o meno fondate motivazioni che hanno determinato i processi di differenziazione. Ciò scaturisce dalla volontà di non entrare in dettagli e valutazioni che potrebbero suscitare incomprensioni e polemiche. Si pone quindi in un’ottica di rispetto nei confronti dei molti praticanti, italiani e stranieri, che con altrettanta coerenza e rigore tecnico hanno tracciato una visione del Gōjū-ryū diversa da quella prospettata nel presente saggio. Verrà invece fatto un breve accenno ad alcune esperienze tecniche dell’autore che debbono essere viste non tanto come l’acquisizione di una conoscenza tecnica con valenza assoluta, quanto come il solido punto di partenza di una ricerca che lo ha impegnato per quasi quarant’anni. Il karate viene cioè inteso, come un patrimonio da scoprire e da valorizzare in tutti i suoi aspetti, scaturito da un processo evolutivo che parte dai solidi presupposti culturali e tecnici tracciati dalla tradizione. Il presente capitolo vuole quindi evidenziare la correlazione e la coerenza di fondo che sussiste tra le profonde tematiche che hanno permeato nei secoli le discipline del corpo estremo orientali, e l’impianto tecnico-stilistico del Gōjū-ryū, diretta propaggine di questa antica tradizione. Per delineare le correnti di pensiero che hanno fornito al Gōjū-ryū una ben precisa impronta teorica e strutturale faremo riferimento agli influssi culturali antecedenti alla nipponizzazione del karate, ma inquadreremo l’iter della pratica secondo l’ottica del budō giapponese, del quale il karate-dō è parte integrante. Focalizzeremo cioè, in questo e nei seguenti capitoli, alcuni concetti che sono comuni a tutte le arti marziali nella loro accezione di “Vie”. Pur non volendo entrare nella trattazione del karate come fenomeno sportivo, e quindi compenetrato dalla cultura e dai costumi occidentali, faremo qualche breve accenno alla teoria dell’allenamento. Ciò per sottolineare la imprescindibile necessità di servirsi, anche nella pratica tradizionale, delle moderne metodiche di addestramento, e per invogliare quindi il praticante a consultare gli innumerevoli e validi testi che riguardano in modo specifico tali argomenti. 25
  • 2. ol termine fisiocinematica del karate intendiamo indicare tutto quanto concerne, nella pratica di questa disciplina, l’esecuzione ottimale di ogni gesto tecnico. Si tratta di utilizzare, nel modo più razionale possibile, il corpo umano, sfruttandone tutte le potenzialità, sulla base di un oculato utilizzo delle funzioni del corpo e dei meccanismi fisiodinamici. Prima di identificare le parti anatomiche adoperate per colpire e per difendere, quelle impropriamente definite “armi”, dobbiamo rilevare che in realtà nel karate esiste una sola vera arma: il corpo per intero. Si tratta di uno strumento tanto sofisticato e complesso, quanto difficile da adoperare; uno strumento che per funzionare in maniera ottimale deve essere addestrato a compiti specifici e utilizzato razionalmente in ogni sua parte. Ogni persona sana possiede mani, braccia, gambe, a volte particolarmente forti e sviluppate per natura o per l’eventuale attività manuale che svolge, ma non per questo è esperta di karate. Allo stesso modo, ci sono dei ragazzi naturalmente dotati di rilevanti possibilità fisiche, in termini di forza, agilità, scioltezza articolare, che eccellono in altre attività motorie, ma conoscono solo per sentito dire le arti marziali. La pratica del karate non richiede il possesso di particolari attitudini e caratteristiche psicofisiche. Pur essendo potenzialmente alla portata di tutti, presuppone un’attuazione mirata, metodica e razionale di ben precisi compiti motori, o gesti tecnici, finalizzati, al di là della loro orientazione allo sport, alla difesa personale o ad altro, a forgiare tutto quanto l’apparato locomotore del corpo umano, e non solo alcune sue parti, come un potenziale strumento di difesa/offesa. Per realizzare questo obbiettivo si possono e si debbono mettere a profitto i più attuali criteri di allenamento, che peraltro sono molto spesso in perfetta sintonia con i sistemi tradizionali, frutto, non dimentichiamolo, di un’esperienza consolidata da secoli e secoli di sperimentazione pratica. Un bravo istruttore deve essere ovviamente in grado di vagliare con rigore scientifico la validità, rispetto ai fini che si ripropone, di quanto proviene dalla tradizione e di conciliare quindi gli antichi insegnamenti con le moderne didattiche. Non può prescindere dunque dall’effettuare uno studio approfondito dell’anatomia funzionale del corpo umano e, in particolare, dei tre sistemi anatomici interdipendenti (sistema nervoso, scheletrico e muscolare) che determinano e regolano le 79
  • 3. bbiamo descritto, nel precedente capitolo, l’utilizzo di certe parti anatomiche del corpo umano come strumenti di offesa o di difesa e la meccanica del loro impiego, attraverso opportuni posizionamenti mirati ad ottimizzare le potenzialità offensive o difensive degli arti, sia a livello statico che dinamico. Si è tracciato quindi un quadro più o meno esauriente dei fondamenti tecnici su cui poggia la pratica del karate. Dobbiamo adesso entrare nella concretezza dell’addestramento stilistico, per esaminare, sotto il profilo tecnico-funzionale, alcuni schemi motori propri del Gōjū-ryū e le loro molteplici potenzialità applicative. Entriamo cioè nel grande ambito della finalizzazione, offensiva e difensiva, del gesto tecnico. Con il termine kihon, traducibile in senso lato come “addestramento di base”, indichiamo quella vasta gamma di espressioni gestuali, volte al perfezionamento tecnico-stilistico e basate su preordinati parametri di esecuzione, o comunque sul rigoroso rispetto di ben precisi schemi posturali. Si tratta di sequenze di movimenti singoli o concatenati, praticabili individualmente o in coppia, vincolati sul piano della realizzazione e negli aspetti concernenti i parametri applicativi. Indirizzati a fornire al praticante un quadro sistematico e razionale di una impostazione stilistica, i kihon, intesi sia come addestramento di base che come strumento di progressione tecnica, costituiscono solitamente il primo approccio alla pratica del karate. Attraverso le svariate situazioni tattiche contemplate dai kihon, si apprende l’utilizzo concreto della meccanica delle difese e dei colpi, e quindi la reale possibilità di impiegare in modo coordinato e funzionale il corpo umano. La crescente difficoltà negli abbinamenti tra posizioni, spostamenti, azioni offensive e difensive, che si traduce in combinazioni tecniche sempre più articolate, segna le tappe del continuo, graduale e sempre più approfondito apprendimento degli schemi motori propri della disciplina. Dal momento che i kihon, come forme di addestramento individuale e come moduli tecnici applicabili, costituiscono l’approccio di base a tutta quanta la pratica del karate, è necessario allenarli in modo ripetitivo e rigoroso. L’obbiettivo è la piena automatizzazione del gesto tecnico che deve essere assimilato in tutte le sue molteplici sfumature e varianti. 259
  • 4. A) Il linguaggio dei kata a trattazione delle tematiche concernenti i significati e la pratica dei kata, ricopre una capitale importanza nello studio del karate-dō. Sequenze di movimenti codificati contenenti ben precisi moduli gestuali, i kata, definibili come “forme” o “modelli” del karate, oltre a rappresentare un inesauribile “vocabolario” di tecniche, costituiscono anche la sublimazione e l’espressione artistica delle medesime. Nella loro gestualità, complessa e semplice al tempo stesso, talvolta bella a vedersi, altre volte inquietante, spesso indecifrabile nei suoi significati criptici, sempre affascinante, si concentra l’essenza del karate. Il linguaggio motorio che viene espresso nei kata, debitamente vissuto e interpretato, costituisce la base di tutta l’impalcatura tecnica di uno stile, e ne determina l’identità e l’essenza strutturale. Secondo la visione tradizionale, queste espressioni psicofisiche dai risvolti pluridimensionali costituiscono l’”alfa” e l’ ”omega” del karate, che, secondo un’espressione comune, ma veritiera, “comincia e finisce con la pratica dei kata”. Ciò equivale a dire che il loro continuo e graduale perfezionamento segue di pari passo l’acquisizione, da parte del praticante, di una sempre maggiore maturità fisica, tecnica, psicologica, spirituale. Progredire in questa specialità non ha quindi un significato univoco, ma presuppone il raggiungimento di una molteplicità di obbiettivi di portata psicofisica, che fanno parte dell’accezione stessa di kata. Partendo da questa idea di base, possiamo inquadrare i kata sotto diverse angolature e riscontrare in essi alcuni aspetti in apparenza contraddittori, ma in realtà essenziali per una pratica del karate che investa l’essere umano nella sua totalità. Possiamo in particolare focalizzare in ogni kata la presenza di tre aspetti diversi, ma interconnessi e ugualmente importanti per acquisire una conoscenza pluridimensionale del karate-dō. 1) l’aspetto figurativo-gestuale, che inizia con la graduale assimilazione di tutti gli schemi motori del kata e continua fino a che il praticante non sia in grado di esprimere, con le proprie sensazioni corporee e secondo le proprie potenzialità psicofisiche, l’essenza di ogni movimento. In altre parole lo hyōgengata, o kata-rappresentazione, presuppone, secondo la visione tradizionale, un’esecuzione fortemente sentita e interiorizzata. In questo modo il gesto tecnico, attraverso il 345
  • 5. A) Il significato di kumite l termine kumite (kumi, incontro - te, mano), esprime, in un’accezione ormai comune a tutte le arti marziali giapponesi, l’idea di un confronto non preordinato nei tempi e nei modi, in cui domina la situazionalità, la possibilità cioè di agire in modo libero, senza prestabiliti parametri di attacco e difesa. Nel karate lo scambio tecnico tra due praticanti che si fronteggiano in gara o nel dōjō viene solitamente definito, con un’espressione diventata ormai di uso comune, “combattimento libero”. Tale interpretazione del termine kumite conferisce forse importanza ed enfasi ai brevi quanto concitati scambi di colpi tra due karateka, ma in realtà è una dissonanza nel karate tradizionale e costituisce una vera e propria stonatura in quello sportivo. E’ vero che in tutti gli sport viene adoperata, soprattutto durante alcuni eventi agonistici commentati dagli speakers, una “terminologia bellica” del tipo “le due compagini schierate”, gli “opposti schieramenti”, “lotta all’ultimo sangue” ecc. Tali espressioni hanno il potere di coinvolgere emotivamente sia i protagonisti che gli spettatori di una particolare competizione, che assume per un momento il profilo della battaglia vera. Questa dichiarata bellicosità, se non degenera in violenza, come spesso accade in certi eventi sportivi, ha una funzione liberatoria e catartica sia per i gareggianti che per il pubblico. E’ una cosa alquanto singolare che nel karate, soprattutto in quello sportivo, il termine “combattimento” venga adoperato in maniera continua e ricorrente; più che nel pugilato, dove solitamente la competizione viene definita “incontro”, una parola che peraltro traduce perfettamente “kumite”. Ciò è sicuramente un’eco del passato marziale e non sportivo del karate; una eco che il più delle volte diventa vuota retorica. Una cosa poi è usare tale termine per evidenziare la tensione agonistica o per creare uno stato emotivo, una cosa è adoperarlo comunemente per indicare una prestazione sportiva, peraltro spogliata di ogni derivazione marziale. Combatte, è bene ricordarlo, chi va in guerra e affronta il nemico mettendo a repentaglio la propria vita e quella altrui, o chi, in un modo o nell’altro, compie azioni rischiose in un ambito militare o paramilitare, o comunque connesso, direttamente o indirettamente, a finalità belliche. Chi si esibisce in un incontro di kick boxing incrociando i guantoni con un altro atleta, o chi sale sul tatami per il 447